ANNI 1024 - 1034

CORRADO II - UMBERTO BIANCAMANO (origine dei Savoia)


< vedi qui l'intera genealogia di TUTTA CASA SAVOIA

RISVEGLIO ANTITEDESCO IN ITALIA ALLA MORTE DI ENRICO II - CORRADO II IL SALICO E L' AMBASCERIA DELL'ARCIVESCOVO DI MILANO - PRIMA SPEDIZIONE DI CORRADO IN ITALIA - TUMULTI DI RAVENNA E RESA DI PAVIA - CORRADO A ROMA: SUA INCORONAZIONE; CONCILIO LATERANENSE; IL GIURE ROMANO ELEVATO A LEGGE TERRITORIALE - VICENDE DELL' ITALIA MERIDIONALE - I NORMANNI AD AVERSA - RITORNO DI CORRADO II IN GERMANIA - UMBERTO BIANCAMANO E LA SPEDIZIONE IN BORGOGNA - ORIGINI DELLA CASA DI SAVOIA
-----------------------------------------------------------------------------------

IL RISVEGLIO ANTITEDESCO IN ITALIA

(vedi poi anche MILANO MEDIEVALE (DAL 1026 AL 1447)
DAI DALLA TORRE AI VISCONTI)

La morte di ENRICO II produsse un vivo risveglio nel partito antitedesco del regno italico. I grandi, che erano irriducibilmente avversi alla politica dei re germanici e con questi sempre bendisposti verso l'episcopato italiano, tentarono - come avevano fatto alla morte di Ottone III - di separare l'Italia dalla Germania, sul cui trono era salito CORRADO II (Il Salico) di Franconia. L'8 di settembre del 1024 a Kampa, presso Oppenheim, dai principi tedeschi era stato prescelto, e subito dopo unto e incoronato imperatore a Magonza.

Capeggiavano in Italia il movimento antitedesco gli UBERTENGHI, potentissimi per i molti beni che possedevano nelle odierne regioni della Lombardia, del Piemonte, della Liguria e dell'Emilia; gli ALERAMIDI di Acqui e di Savona; i MARCHESI di CANOSSA che dominavano su Modena, Reggio, Mantova, Brescia e Ferrara: e il marchese RAINERIO di Toscana.
Notevoli come forza, ma persuasi che da soli non avrebbero potuto lottare contro il re germanico e tenendo presente la sorte toccata ad Arduino d'Ivrea, proponendosi a vicenda a non prendersi la corona, pensarono piuttosto di offrirla a un principe straniero; ma vani riuscirono i loro sforzi di procurarsi un potente sovrano: il re di Francia ROBERTO, cui per primo si rivolsero, rifiutò la corona per sé e per il figlio Ugo; GUGLIELMO V, duca d'Aquitania e di Poitou, in un primo tempo l'accettò per il figlio dal nome omonimo, poi, considerate le grandi difficoltà che doveva incontrare per conseguire l'effettivo dominio del regno, declinò l'offerta.
Questi intrighi dei grandi del regno e i disordini che qua e là avvenivano (degni di nota quelli di Pavia, i cui cittadini alla notizia della morte di Enrico avevano demolito il palazzo reale, quello riedificato a proprie spese con l'ordine imposto da Enrico II in luogo di quello da loro distrutto nell'incendio del 1004) non potevano lasciare indifferenti la nobiltà ecclesiastica filotedesca e quanti in Italia avevano interesse che la corona del regno rimanesse ai sovrani germanici.

I grandi ecclesiastici pertanto, accordatisi tra loro, decisero di offrire il regno d'Italia a neo eletto CORRADO II e gli inviarono un'ambasciata per invitarlo a scendere nella penisola. Capo di questa legazione non poteva essere che l'arcivescovo di Milano ARIBERTO da INTIMIANO, successo nel 1018 ad ARNOLFO. Sia perché reggeva l'episcopato di una grande città che contava quasi trecentomila abitanti ed aveva sotto di sé le diocesi di Pavia, Lodi, Cremona, Brescia, Mantova, Vercelli, Novara, Tortona, Casale, Asti, Mondovì, Acqui, Torino, Vigevano, Ivrea, Alba, Savona, Genova, Ventimiglia e Albenga, sia perché era preside della dieta nazionale e, come successore di S. Ambrogio, per consuetudine aveva (quasi come un papa) il diritto di conferire la corona reale; sia, infine, per la sua cultura, per la sua tenacia e per quell'animo battagliero di cui aveva dato più di una volta prova, e che con più forza confermerà nei successivi venti anni.

L'arcivescovo ARIBERTO andò a trovare nel 1025, a Costanza, CORRADO II. Si erano uniti a questa ambasciata alcuni cittadini di Pavia, i quali, temendo e non a torto le rappresaglie del monarca tedesco per la distruzione del palazzo reale, andavano da lui per scongiurare il temuto castigo che sarebbe venuto alla loro città e per offrirgli obbedienza.
Indubbiamente non erano gli stessi che avevano appiccato il fuoco, ma dei trasformisti.

Narra VIPONE, cappellano del re, di cui scrisse la vita ("Vita Chunradi Salici"), che i Pavesi, sentite le minacce del re, gli dicessero: "E chi mai abbiamo noi offeso? Abbiamo servito fedelmente l'imperatore fino alla sua morte. Poi, essendo rimasti privi del sovrano, non ci si può accusare di aver distrutto il palazzo del nostro re".
Il ragionamento era sottile; ma non fu meno sottile la risposta di Corrado: "Lo so che non distruggeste il palazzo del vostro re, non avendone allora alcuno; ma non negate di aver distrutto il palazzo reale. Se il re è morto, il regno è rimasto; la perdita del nocchiero non porta seco la perdita della nave; voi non avete distrutto un edificio privato, ma un edificio pubblico; non la vostra proprietà, ma quella di altri. Coloro che invadono la casa altrui devono essere puniti dal re. E il re punirà voi che l'avete invasa".

I Pavesi, non sapendo cosa rispondere, si ritirarono umiliati; mentre con gli altri ambasciatori, Corrado si mostrò cortese e generoso, specie con l'arcivescovo Ariberto che fu colmato di doni ed ottenne privilegi, fra cui importantissimo quello d'investire dei suoi feudi diocesani il vescovo di Lodi.
Corrado accolse poi l'invito dell'arcivescovo milanese e promise di scendere in Italia; ma la spedizione non poté aver luogo subito, perché fu costretto a trattenersi qualche tempo in Germania per riportare all'obbedienza i duchi di Lorena, FEDERICO e GOZELO, che, istigati dal re ROBERTO di Francia e sostenuti da CORRADO il GIOVANE e dal figliastro ERNESTO di SVEVIA (figlio delle prime nozze della regina Gisella con Ernesto I di Svevia) gli si erano a lui ribellati.
Placata la rivolta, e radunato un forte esercito ad Augusta, sul finire dell'inverno del 1026, Corrado, per la via del Brennero, mosse verso l'Italia e, passando per Verona, giunse senza ostacoli fino a Milano il 23 marzo e qui dalle mani dell'arcivescovo ARIBERTO ricevette la corona.
A Pavia doveva avvenire la cerimonia dell'incoronazione; ma questa città non aveva smesso il suo atteggiamento ostile al sovrano e non solo si era rifiutata di riedificare la reggia, ma gli aveva chiuse anche le porte in faccia.
Celebrata la Pasqua a Vercelli, CORRADO marciò su Pavia, e nell'avvicinarsi ne devastò prima il territorio, poi lasciata una parte dell'esercito ad assediare da ogni lato la capitale ribelle fino alla sua capitolazione, con il resto si avviò a Ravenna, dove giunse verso la fine di giugno.
Ma il soggiorno ravennate poco mancò che non gli riuscisse fatale. Se l'arcivescovo di questa città era favorevole al re non lo erano però i cittadini, i quali al pari di quelli di altre città italiane, erano ormai stanchi del dominio tedesco. Approfittando dell'esigua scorta con la quale Corrado era entrato, i Ravennati chiusero improvvisamente le porte e, assaliti i tedeschi, ne fecero strage. L'imperatore si salvò rinchiudendosi in qualche cantina o soffitta di fortuna. Poi quello che era successo già a Roma e a Pavia molti anni prima avvenne a Ravenna: riuscite le milizie, che erano accampate fuori, a penetrare dentro le mura, la rivolta fu subito annientata con molto spargimento di sangue e il giorno dopo i cittadini, per sfuggire al castigo, umilmente, e purtroppo con tanta amarezza nel cuore, implorarono il perdono al carnefice straniero.

Merita qui di essere riferita una saggia considerazione dello storico GREGOROVIUS, in pieno Risorgimento (1857-1871):

"Nel nostro secolo nemmeno i tedeschi possono con gioia considerare lo spettacolo delle spedizioni con cui i loro antenati movevano su Roma: essi invece devono compiangere l'Italia, la quale, se di quelle imprese ebbe la colpa, ne soffrì anche il danno per più di trecento anni. Quando i re germanici scendevano dalle Alpi con i loro eserciti e con i loro brillanti corteggi, le città erano costrette a fornire nutrimenti ed alloggio a quelle moltitudini e a far le spese della corte imperiale: perfino la giurisdizione dei tribunali ordinari cessava non appena compariva il giudice supremo germanico. Nei vuoti scrigni dell'imperatore, estorti con la violenza o a titolo di donativi, entravano i tesori delle città, il sudore dei coloni angariati dai vassalli laici ed ecclesiastici e le sostanze incamerate di centinaia di ribelli. Le milizie imperiali, composte di rozzi soldati reclutati nei paesi settentrionali e perfino fra gli slavi, erano il terrore dei parsimoniosi Italiani, dotati dalla natura di maggior finezza e superiori a tutti gli altri popoli e in ogni tempo per civiltà di costumi. Non deve quindi destare meraviglia se, vedendo le orge di quei soldati che tenevano l'Italia come provincia schiava del loro re, gli Italiani si domandassero con rabbiosa amarezza perché mai la loro terra dovesse essere condannata a servitù perpetua sotto gli stranieri: né ci si deve stupire se con odio feroce si ribellavano ad ogni momento nelle città nelle quali l'esercito, che andava a Roma, passava. La brutale maestà di un imperatore del medioevo si degnava appena di volgere uno sguardo di compassione alle città che fumavano per gli incendi, ai miseri campi devastati, alle vie seminate di cadaveri, alle prigioni gremite di condannati. Credeva piuttosto che fosse necessità voluta dalle imprese di Roma vedere gli uomini più ragguardevoli di una città, prostrarsi davanti al suo trono, tremanti, scalzi, con una spada nuda appesa al collo, con il volto pallido illuminato dal riflesso delle fiamme di cui bruciava la loro città".
----------------------------
E Greogorovius, non era un Italiano, ma uno storico tedesco, che ha analizzato con grande vivezza le vicende della lotta fra Chiesa e Impero; e che visse in un periodo molto simile a questo; tra il 1821 e il 1891, ossia tutto il Risorgimento e la lotta italiana contro un altro opprimente straniero: l'Austriaco
-----------------------------

Da Ravenna, in luglio, Corrado si spinse fino a Pesaro: ma la stagione caldissima lo consigliò di sospendere le operazioni militari e di passar l'estate nel clima più mite della Lombardia, dove fece ritorno. Qui, il re rimase tutto il resto del 1026 e i primi mesi dell'anno seguente, impiegando il tempo a ridurre all'obbedienza i grandi che erano ostili alla sua sovranità, fra cui il marchese di Torino e il marchese Ugo d'Este. Anche Pavia si arrese, e Corrado l'avrebbe punita severamente se in favore della città non fosse intervenuto l'abate ODDONE di Cluny.
Dopo la resa di Pavia, CORRADO mosse verso la Toscana dove RAINERIO era in armi contro di lui, lo affrontò, lo sconfisse a Lucca e, privato del suo marchesato, lo offrì al marchese BONIFACIO, che, in premio per aver sostenuto con Ariberto la candidatura del monarca tedesco, ebbe così accresciuto enormemente i suoi domini. Con la sconfitta di Rainerio, la via di Roma ora sgombra e Corrado, senza incontrare ostacoli, giunse nella Città Eterna il 21 marzo 1027.

Il 26 dello stesso mese, giorno di Pasqua, alla presenza di due re, RODOLFO III di Borgogna, giunto apposta per assistere alla cerimonia, e CANUTO, sovrano di Danimarca e dell'Inghilterra, che si trovava pellegrino a Roma, e di molti vescovi d'Italia e di Germania, CORRADO II ricevette dalle mani del pontefice GIOVANNI XIX la corona imperiale.
La cerimonia però fu turbata da disordini provocati dalla gelosia degli arcivescovi di Milano e di Ravenna, ciascuno dei quali reclamava per sé l'onore di condurre all'altare il sovrano. La discordia tra i due arcivescovi si estese ai Milanesi e ai Ravennati che si trovavano a Roma che fu teatro di mischie violente; aumentò ulteriormente il disordine una sanguinosa lotta accesasi tra Romani e Tedeschi nella quale perì il vessillifero svevo BERENGARIO.

Corrado riuscì con le sue milizie a reprimere il tumulto e, non tenendo conto delle preghiere rivoltegli dai più ragguardevoli cittadini andati ad umiliarsi ai suoi piedi, volle dare un esempio della sua severità punendo i principale autori del tumulto.
Durante il suo soggiorno a Roma, Corrado tenne un concilio in Laterano nel quale la dibattuta questione della preminenza fra le chiese di Milano e Ravenna fu risolta in favore della prima e fu accolta la domanda del patriarca Poppone di Aquileia contro l'autonomia della Chiesa di Grado (i due Patriarcati erano stati istituiti al tempo dei Longobardi, nella disputa ariana, separando le due religioni e la loro influenza territoriale, religiosa, politica ed economica).
Quest'ultima deliberazione provocò una lunga lotta tra il patriarca e Venezia, nella quale il primo fu segretamente aiutato dall'imperatore; ma alla fine il patriarca di Aquileia dovette cedere e la Chiesa di Grado rimase autonoma, pur essendo questa volta entrambe cattoliche.

Un altro importantissimo atto compiuto da Corrado a Roma è costituito da un rescritto con il quale, affinché fosse posto un termine alle continue liti tra giudici romani e lombardi (longobardi), si stabiliva che tanto in Roma quanto nello stato romano tutte le controversie cui fino allora era stato applicato il diritto longobardo si dovessero giudicare secondo il codice di Giustiniano.
"Così - nota il Gregorovius - "cessò di esistere la costituzione imperiale, data da Lotario nell'827, e il giure romano si elevò a vera legge territoriale: fu una vittoria completa che la nazione romana riportò sopra gli elementi germanici che in essa si erano infiltrati con le leggi longobarde (un miscuglio di leggi saliche consuetudinarie (barbare) e quelle del diritto romano); specialmente in questi primi anni dell'anno 1000, questi elementi cominciavano a dissolversi in ogni luogo in Italia, mentre le forme romane dell'antichissimo municipio risorgevano sotto consoli annualmente eletti e bandivano le istituzioni franche e longobarde degli anni della loro incontrastata dominazione".

VICENDE DELL'ITALIA MERIDIONALE

Da Roma l'imperatore CORRADO passò nell'Italia meridionale, dove la sua presenza era reclamata dagli avvenimenti che erano successi dopo la morte di Enrico II. I Bizantini -lo abbiamo visto nei precedenti capitoli- avevano riacquistato in parte le antiche posizioni: l'imperatore Basilio II con il proposito di scacciare i Musulmani dalla Sicilia e riconquistare l'Italia aveva fatto grandi preparativi di guerra, forse per risalire lentamente l'Italia, ma la sua morte aveva troncato i suoi grandiosi disegni.
Il suo successore Costantino VIII si era limitato a mandare in Italia, nella primavera del 1027, un numeroso corpo di milizie mercenarie, comandato dallo stratega ORESTE, affinché rimettesse sotto la sovranità dell'impero d'Oriente i principati longobardi.
Anche in questi principati nel frattempo erano avvenuti dei mutamenti. PANDOLFO IV di
Capua, che, come altrove abbiamo detto, era stato spodestato e mandato prigioniero in Germania, per intercessione del cognato GUAIMARO di Salerno, aveva ottenuta la libertà e, tornato in Italia, con l'aiuto dei Bizantini, dei principi di Salerno e di Benevento e dei conti dei Marsi e dei mercenari normanni era andato ad assalire PANDOLFO di Teano, il quale dopo un anno di accanita resistenza, sopraffatto dal numero dei nemici, aveva abbandonato Capua al rivale, rifugiandosi a Napoli presso SERGIO IV.

A CORRADO II più che muovere guerra ai Bizantini premeva restaurare la sua sovranità sui principati longobardi. Con questo solo scopo si mosse verso l'Italia meridionale, e la sua spedizione fu coronata da pieno successo, perché, spontaneamente alcuni, ma altri costretti dalla forza, i principi tornarono all'obbedienza dell'impero germanico.
PANDOLFO IV, avendo giurato fedeltà a Corrado, fu da questi confermato principe di Capua. I Normanni ricevettero invece dall'imperatore - come pare - alcuni territori situati sui confini bizantini e solo per tenere a freno le armi dell'Oriente; ma i Normanni non si ritennero appagati di queste modeste concessioni né a fare solo i cani da guardia, e si adoperarono astutamente a trarre vantaggi dalle gelosie tra i vari staterelli meridionali prestando l'aiuto delle loro armi ora all'uno ora all'altro.

Il primo a servirsi dei Normanni - era appena partito l'imperatore- fu PANDOLFO IV, il quale, cogliendo il pretesto che SERGIO IV aveva dato ospitalità a Pandolfo di Teano, mosse guerra al duca di Napoli e, per mezzo dell'aiuto dei Normanni e del tradimento di alcuni cittadini, s'impadronì della città, scacciando il suo rivale e il duca, che ripararono a Roma (e qualcosa nella capitale architettarono, e forse con l'aiuto del Papa)
Era l'anno 1027. Ma PANDOLFO IV rimase solo per breve tempo signore di Capua.

Nel 1030 l'esule SERGIO IV, questa volta lui aiutato da RAINALDO DRENGOT, capo dei Normanni, al quale astutamente aveva promesso in sposa la propria sorella, vedova del conte di Gaeta, riuscì con il suo appoggio a rientrare a Napoli, scacciando lui questa volta Pandolfo.
Premio dell'aiuto ricevuto fu il matrimonio tra la sorella di Sergio e Rainaldo Rengot, il quale oltre a ricevere il titolo di conte, fu investito del possesso di alcune terre tra Napoli e Capua, portate in dote dalla sorella di Sergio.

Qui il condottiero normanno edificò un castello, lo cinse di fossati e di terrapieni, gli attribuì il nome di Aversa. Questa fortezza e il territorio attorno dipendente, costituirono il primo luogo di raduno di altri Normanni giunti dal Nord, di non pochi Brettoni e di numerosi esuli dei paesi vicini. Fu insomma il punto da dove i prodi ed avventurosi uomini scesi dal nord, partirono e iniziarono le future conquiste nelle terre del Sud Italia.


CORRADO II, messi sotto la sua sovranità i principati longobardi, aveva lasciato l'Italia meridionale, fatto ritorno a Roma e dopo un brevissimo soggiorno, attraverso la Toscana e l'Italia settentrionale, ripassò le Alpi, premendogli di giunger presto in Germania, dove, approfittando della sua assenza, CORRADO il GIOVANE ed ERNESTO di SVEVIA avevano prese le armi per mettersi contro di lui. La pronta ricomparsa dell'imperatore pose fine alla ribellione: Corrado il giovane, sottomessosi, fu privato dei suoi beni, Ernesto fu spogliato del ducato e messo in prigione; ma l'anno dopo (1028), perdonato, seguì l'imperatore in una spedizione contro i Polacchi che minacciavano il confine orientale della Sassonia.
Invece di esser grato al patrigno del perdono ricevuto, ERNESTO ricominciò a tramare contro di lui e, diffidato invano nella dieta di Ingelheim del 1030 di rompere ogni rapporto con un irriducibile ribelle -il conte WERMER di Kiburg- fu un'altra volta spogliato del ducato e dei beni e colpito dall'anatema della Chiesa.
Messo al bando ed avido di vendetta, Ernesto si recò in Svevia, sperando di sollevare il paese; ma non trovò che pochi seguaci e con questi si rifugiò nelle gole della Selva Nera, dove il 17 agosto del 1030 perdette la vita combattendo accanitamente contro i soldati dell'imperatore mandati contro di lui.
Mentre il figliastro ribelle era ucciso, Corrado II riprendeva una spedizione contro STEFANO d'Ungheria, che si risolse però in un insuccesso. Miglior fortuna l'anno seguente ebbero le armi imperiali in Polonia, il cui re MIECESLAO, spodestato dal fratello, aveva chiesto l'aiuto di Corrado: Miecislao fu rimesso sul trono e nel febbraio del 1032 a Merseburgo prestò giuramento di fedeltà all'imperatore.

Sei mesi dopo cessava di vivere RODOLFO III di Borgogna di Arles. Alcuni anni prima, in seguito forse a colloqui avvenuti a Roma, Rodolfo, in un convegno a Basilea, aveva ceduto a Corrado il suo regno di Borgogna, ricevendolo di nuovo in consegna ma con la promessa di trasmetterlo, dopo la sua morte, all'imperatore o al figlio Enrico.
Appena morto Rodolfo (6 settembre del 1032), un nobile borgognone puntualmente portò a Corrado le insegne regali. Non tutti i borgognoni però erano disposti ad accettare la sovranità dell'imperatore tedesco. L'accettarono, sì, gli abitanti di razza teutonica dell'alta Borgogna, le cui città principali erano Berna e Zurigo; la rifiutarono invece quelli di stirpe latina che abitavano la bassa Borgogna e avevano i loro centri nelle città di Lione, Vienne, Arles, Marsiglia, Ginevra e Besancon. Questi ultimi anzi scelsero come successore di Rodolfo un nipote del morto re, il conte ODDONE di CHAMPAGNE (di cui risentiremo parlare più avanti - inconsapevole fece la fortuna di una -fino allora sconosciuta- dinastia: quella dei Savoia).

UMBERTO BIANCAMANO

< < VEDI QUI L'INTERA GENEALOGIA DEI SAVOIA

A sostenere i suoi diritti nella bassa Borgogna (e con chissà quali future mire) CORRADO II inviò un forte esercito, reclutato quasi tutto in Italia, composto cioè dalle milizie lombarde condotte dall'arcivescovo ARIBERTO e da quelle di Toscana guidate dal marchese BONIFACIO. Il comando, supremo dell'esercito fu affidato stranamente ad un Signore proprio della stessa Borgogna, di una casa, di cui sentiremo parlare per quasi mille anni: era UMBERTO I, (detto poi Biancamano), conestabile del regno di Borgogna. Fu lui a ricevere il comando delle milizia italiane, appena queste varcarono il Passo del San Bernardo. Era ancora sconosciuto, ma probabilmente essere conestabile del re morto, Rodolfo III, questo era una garanzia se l'uomo lo si attirava nella fazione filotedesca promettendogli magari proprio un pezzo di Borgogna.

"Questo UMBERTO, - scrive il Gabotto - fondatore storico di casa Savoia, dicevano le cronache degli anni successivi che era un sassone, che era figlio di Beroldo, duca di Sassonia, discendente di quel Vitechindo che difese la patria contro Carlomagno, e un fantomatico nipote di Ottone imperatore. Tutto questa "storia" era una favola che la casa di Savoia coltivò lungo tempo per il lustro di quelle origini e per ottenere con esse un elettorato del Sacro Romano Impero Germanico, quantunque il vicariato imperiale della casa di Savoia abbia forse fondamento più antico e più valido.

La "favola" nacque sotto Amedeo VIII (XV sec.) che sforzandosi di recuperare antenati di lustro, il sabaudo diede l'incarico a un certo Jean d'Orreville (Cabaret) di stendere una storia della dinastia in tono con gli interessi politici (tedesca) del neo-duca nonché papa (poi antipapa). Questa origine Sassone verrà avallata anche da Emanuele Filiberto, da Carlo Emanuele I e dai loro successori.

Ma all'inizio del 19° secolo, Carlo Alberto (che non aveva nulla di tedesco, salvo la moglie) rilancia (allora conveniva) la teoria italica, tuttavia più attendibile e meno legata alla leggenda, riagganciando l'antenato Umberto I Biancamano a Berengario II.
I nuovi ricercatori cercarono di riconnettere il Biancamano ai reali di Provenza (Bosonidi), o di Borgogna (Rodolfini), e finalmente d'Italia (Anscarici), sia muovendo da criteri puramente scientifici, sia per ragioni politiche di un particolare momento (il 1848, con l'insoffernza austriaca).
Da queste ultime ricerche, soprattutto, fu determinata la derivazione (accolta generalmente sino a pochi anni addietro e difesa da molti anche oggi) da Berengario e Adalberto per mezzo di Ottone Guglielmo, figlio di Adalberto stesso e… padre -affermasi- del Biancamano.
Ormai è tuttavia assodato che gli Umbertini erano già sul principio del secolo XI una potente famiglia del regno di Borgogna, imparentata per via di donne con la casa regia Rodolfina, e divisa in due rami: uno era Signore nel Belley, l'altro Signore nella Morienna (o Moriana), il quale ultimo (forse) raccolse e mise insieme poi l'eredità del primo.
È probabile che tra gli antenati di Umberto I si annoverino un Amedeo che viveva nel 977-980, forse suo padre; e un altro Umberto era vivente nel 943-980, padre probabilmente di questo Amedeo poi padre di questo Umberto di Savoia-Belley; poi esiste un altro Amedeo, ricordato in una carta del 926. Tutti costoro avevano dei possessi che poi furono dei primi conti di Savoia sicuri.
Meno certo, anche se probabile, è che questo Amedeo del 926 fosse figlio di Berardo o Gesardo, sire di Beaujeu, della casa dei conti di Lione e Forez".
Quasi certo del supposto primo antenato, sappiamo solo la morte avvenuta nel 1047 o 1048; anche se alcuni affermano più tardi, addirittura nel 1054.

E proprio a lui torniamo, a questo UMBERTO BIANCAMANO.
Sembra che già nel 1004, a nominarlo Signore della Moriana (una regione della Savoia occidentale, quindi non teutonica), essendo un ricco proprietario sia stato proprio Rodolfo III: Umberto assiduo frequentatore della corte era poi diventato consigliere, uomo di fiducia del re e di sua moglie ERMEGARDA, e per i buoni servigi resi fu appunto come detto creato Signore in quel territorio dove era già "signore" di fatto con le sue proprietà. E sembra, come abbiamo detto sopra, anche imparentato con la regia corte rodolfina borgognona.

L'infelice donna si ritrovò il 6 settembre del 1032, alla morte del marito davanti alle conseguenze di quella promessa fatta a Corrado, cioè senza un regno; ma non si preoccupò molto, aveva al suo fianco questo capace consigliere, quindi sperava di cavarsela assieme a quella metà di borgognoni latini che del tedesco, come abbiamo accennato sopra, non ne volevano sapere.
Purtroppo per la donna, Umberto seppe sfruttare bene l'occasione, prima si schierò con i borgognoni latini, poi fece il salto di qualità e appoggiò Corrado, rivelando forse le debolezze di questo piccolo regno e forse anche il piano di difesa dei borgognoni antitedeschi.
Diversamente, perché mai Corrado avrebbe affidato il comando non a un tedesco, ma al consigliere del re di Borgogna morto?

Per cui lo troviamo alla testa dell'esercito di Corrado II; sappiamo che lo prese in consegna al Passo del San Bernardo, e sappiamo che con questo entrò in Borgogna e presso Ginevra sconfisse le milizie di Oddone di Champagne, il quale rinunciò alla corona e fece atto di sottomissione a Corrado.
Con quella vittoria, il primo di agosto del 1034, nel duomo di Ginevra, Corrado II ricevette l'omaggio dei Grandi del regno e cinse la corona di Borgogna.
La spedizione guidata da Umberto ebbe conseguenze importantissime. Con la spedizione lui afferma la potenza della casa "Umbertina" (non ancora chiamata dei Savoia) perché il riconoscente imperatore, in premio del servizio ricevuto, donò ad Umberto Biancamano la contea di Moriana. Regione che si snoda lungo la valle dell'Arc, da Montmelian, sopra Chambery, sino al Moncenisio; si estende tra le rive del Bourget (dove fu creato nell'abbazia di Hautecombe il mausoleo di famiglia dei Savoia, prima di Superga) e il lago Lemano, il Cenisio e il corso del Rodano.
Questa era la Moriana e non è escluso che fu dato anche parte dello stesso comitato della Savoia. Nome questo che venne in seguito usato con regolarità iniziando da TOMMASO I (1189-1233), vicario di Federico II (nonché nonno di ben 4 regine), mentre in tutto questo periodo, tra le due date, gli avi dei "Savoia" usarono normalmente solo il titolo di conte di Moriana. Convenzionalmente infatti, i primi componenti della casata detta dei "conti di Moriana" furono definiti solo "Umbertini", appunto con il nome del capostipite.
Capostipite che applicò subito nella sua famiglia il diritto di successione alla primogenitura solo maschile; diritto che caratterizzarono tutte le successioni fino alla sua estinzione come regnanti. Come reggenti furono fatte molte vedove dei vari duca di Savoia morti, ma mai duchesse regnanti e tantomeno regine.

Umberto Biancamano visse ancora circa tre lustri dopo la vittoria di Ginevra. Morì tra il 1047-48
Dei suoi quattro figli:
AMEDEO I morì pochi dopo il padre, nel '51 ca. Conte della Moriana nel 1047-48, detto il "Coda" per il gran numero di nobili che lo accompagnarono a Verona presso l'imperatore Enrico III. Sposò Adila (o Adalegida, o Adelaide) che gli diede due figli: Umberto morto infante nel '51, e Aimone vescovo di Belley, morto, forse nel '60;
AIMONE, prese gli ordini ecclesiastici, ottenne il vescovado di Sion nel Vallese, morì nel '54 o nel '55;
BURCARDO anche lui entrato nell'ordine ecclesiastico, fu vescovo di Lione e morì nel '68;
ODDONE, forse era nato nel 1010, Diventato lui dopo la morte di Amedeo, conte di Moriana, sposando, più tardi, Adelaide, figlia di Oderico Manfredi, quindi contessa di Torino (con annesse Susa, Pinerolo, Auriate) gli portò in dote questi feudi, estendendo i domini sabaudi dalle Alpi fino al mar ligure (a Ventimiglia).

Oddone, morto nel '57, da Adelaide aveva avuto quattro figli:
PIETRO I, primo erede della Contea, sposò Agnese di Poitiers e morì nel 1078;
AMEDEO II, che fu prima associato al fratello, poi da solo, sposò Giovanna di Ginevra, che gli diede due figlie e il futuro UMBERTO II;
BERTA che andò poi in sposa all'imperatore Enrico IV; morta nel 1087;
ADELAIDE, che sposò Rodolfo di Svevia; morta nel 1080.

Queste le prime generazioni degli Umbertidi.
( vedi il link già sopra segnalato - Casa Savoia )

Altra conseguenza non meno importante della vittoriosa spedizione di Umberto Biancamano fu, che con l'estensione imperiale crebbero a dismisura le prepotenze dei "capitanei" e dei "valvassores majores" (appartenenti all'alta nobiltà cittadina) e aumentò pure l'ambizione e l'ingordigia dell'arcivescovo filo-tedesco ARIBERTO; situazioni che faranno divampare a Milano un aspro conflitto, finito, dopo varie vicende nel corso di oltre dieci anni, con la trasformazione della città feudale in Comune.

Ed è il prossimo capitolo:
prima in Lombardia poi altre città della penisola sono avvenimenti che danno origine a quelle
forme fondamentali delle prime costituzione comunali.


Sono le pagine sull'arcivescovo ARIBERTO - gli "ammottinati" di LA MOTTA -
IL CARROCCIO e infine MILANO COMUNE
è il periodo dall'anno 1034 al 1045 > > >

 

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o in TEMATICA)

e vedi MILANO MEDIEVALE (riepilogo dal 1026 al 1447)
dai DALLA TORRE ai VISCONTI)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI