ANNI 1056 - 1073

LA TEOCRAZIA DI ILDEBRANDO (GREGORIO VII) -WORMS - MATILDE

POLITICA E MORTE DI PAPA VITTORE II - ILDEBRANDO - ELEZIONE DI STEFANO IX - BENEDETTO X ELETTO DALLA REAZIONE TUSCULANA E CRESCENTINA - NICCOLÒ II - LE LOTTE TRA NICCOLAITI E PATERINI - L'ARCIVESCOVO DI MILANO VASSALLO DEL PAPATO - IL CONCILIO DEL 1059 E LA RIFORMA ALLE ELEZIONI PAPALI - NICCOLÒ II E I NORMANNI - IL CONCILIO DI WORMS - MORTE DI NICCOLÒ - ALESSANDRO II ED ONORIO II - LA LOTTA TRA IL PONTEFICE E L'ANTIPAPA - II MATRIMONIO DI ENRICO IV - GLI ARCIVESCOVI ANNONE DI COLONIA E ADALBERTO DI BREMA - RICCARDO DI CAPUA CHIEDE IL PATRIZIATO - SPEDIZIONE DI GOFFREDO DI TOSCANA NELL'ITALIA MERIDIONALE - ANNONE DI COLONIA E OTTONE DI BAVIERA IN ITALIA - ENRICO IV CHIEDE IL DIVORZIO DA BERTA - IL CONCILIO PASQUALE DEL 1070 - MORTE DI GOFFREDO DI TOSCANA, DI PIER DAMIANI, DI ONORIO II ED ALESSANDRO II - LA CONTESSA MATILDE - ELEZIONE DI GREGORIO VII
-----------------------------------------------------------------

PAPA VITTORE II E STEFANO IX

PAPA VITTORE II, dopo la morte di ENRICO III, - abbiamo chiuso il precedente capitolo con questa constatazione- era non solo al suo capezzale in Germania, ma era anche l'unico sostenitore dell'impero in Italia ed aveva forse ispirati gli ultimi provvedimenti politici di Enrico III. Forse in buona fede credeva di giovare al piccolo erede ENRICO IV, continuando la politica di pacificazione inaugurata dal defunto imperatore.
Riconciliò tra loro GOFFREDO di LORENA e BALDOVINO di FIANDRA, e nonostante l'accordo era poi sorta una inimicizia; ed essendo morto RICHERIO creò abate di Montecassino il cardinale FEDERICO di LORENA, che - come si è detto - aveva indossato il saio al suo ritorno da Costantinopoli.

L'opera pacificatrice del Pontefice avrebbe indubbiamente dato ottimi frutti se Vittore II avesse avuto il tempo di continuarla; malauguratamente rimase interrotta per la sua morte avvenuta il 28 luglio del 1058.
La morte del Pontefice non solo toglieva all'impero il maggior sostenitore che aveva avuto nella penisola, ma rendeva pure facile al Papato l'affrancamento completo dal trono germanico, sul quale in quel momento sedeva un fanciullo di 6 anni (Enrico IV) guidato da una debole donna (Agnese).
Era, questa, sicuramente un'occasione che la Chiesa romana non poteva lasciarsi sfuggire né, infatti, se la lasciò sfuggire chi dell'indipendenza della Santa Sede era il partigiano più tenace e avveduto: il monaco ILDEBRANDO.

ILDEBRANDO - IL FUTURO GREGORIO VII

Di quest'uomo, che tanto ricordo di sé doveva lasciare a posteri e che doveva avere una parte così importante nella prossima lotta tra il Papato e l'Impero, più di una volta lo abbiamo accennato in altre pagine .
Ildebrando era nato nel villaggio di Raovaco, presso Soana (oggi Sovana, frazione di Sorano in provincia di Grosseto) nella Toscana meridionale, nel cuore della Maremma, da gente di modesta condizione; il padre forse era un artigiano falegname, un certo Bonizone e la moglie, un'imprecisata Berta. La data della sua nascita non è certa, oscilla tra due estremi, il 1014 e il 1028. E anche l'infanzia è avvolta nel vago e nella posteriore leggenda; come quella che fanciullo nella bottega del padre, sulla segatura in terra tracciasse delle frasi in latino che ne prediceva la gloria, o come quella che -si narra- le sue vesti diventavano luminose. Quello che c'è sicuramente di vero, è che il ragazzino era precoce come intelligenza e molto portato alle cose della religione.

Proprio per questi due motivi, destò l'attenzione di un suo zio materno, Lorenzo d'Amalfi. Lui era abate del monastero benedettino di Santa Maria in Aventino, e tra una visita e l'altra in Toscana, un bel giorno se lo portò via da Soana al suo monastero che era ancora giovinetto e lì Ildebrando fu educato alla vita monastica, allo studio del latino, grammatica, scienza, retorica e delle sacre scritture. Ildebrando cresce in quest'ambiente oltre che fisicamente intellettualmente con quegli ideali di riforma ecclesiastica che il monastero di CLUNY centro dove confluivano gli intellettuali e gli spiriti elevati, stava diffondendo. E a questo centro il monastero di Roma era collegato e visitatore frequente del chiostro romano era il dotto ODILONE, che aveva saputo infondere nei religiosi di questa comunità oltre che l'ascetica disciplina benedettina, anche la lotta che -a Cluny- stava nascendo contro quelle forze che tenevano schiava la Chiesa.
Come guida Ildebrando ha l'arciprete di San Giovanni a Porta Latina, GIOVANNI GRAZIANO, ed è lui a insegnargli ad essere un uomo semplice e di gran rettitudine. Scoperto quest'intelligente allievo che giudica "di soavissimo costume, di prudenza e ammirabile dottrina", Graziano mostra grande attaccamento al giovane fin dal primo incontro.

Ildebrando aveva venticinque anni, quando Graziano salito sul soglio come papa GREGORIO VI, fa cadere la sua scelta su di lui, lo porta via dal monastero e lo nomina suo cappellano. E se l'umile monaco già nel chiostro aveva mostrato la sua intelligenza, quando fu dentro il grande "Palazzo", confermò di quanto ingegno e di quale tenacia fosse dotato, iniziando lo studio sull'opera riformatrice della Chiesa, che proprio in quel periodo era invocata, a causa degli scandali sulla simonia e altre bassezza che trascinavano l'intero clero nel fango.
Ciò che stava concependo il giovane monaco, nonostante la giovanissima età, era una riforma innovativa, saggia, ma anche audace.

Deposto e mandato in Germania Gregorio VI, Ildebrando non si era voluto separare dal suo maestro, e lo aveva accompagnato nell'esilio; poi alla sua morte si era ritirato nel prestigioso monastero di Cluny, e anche qui ben presto acquistò fama per la sua dottrina, per la pietà, per la severità dei costumi e per la forte tempra del carattere. Fama che giunse anche a Roma, da indurre Leone IX a prenderlo come suo consigliere, crearlo cardinale suddiacono della Chiesa e affidargli delicatissimi incarichi fuori d' Italia.

"I mali della chiesa - scrive il Lanzani - la servitù del papato, la corruzione del clero, lo scompiglio della morale e della disciplina ecclesiastica, la prepotenza dei grandi, le sventure dei popoli, avevano profondamente esacerbato il cuore e lungamente occupato le solitarie meditazioni di Ildebrando; di modo che, quando le sorti della suprema autorità sacerdotale furono affidate al suo consiglio, già da molto tempo, era stato concepito il piano d'azione, già da molto tempo era stato stabilito il sistema dove la cristianità doveva essere ricondotta sulla diritta via.
Questo era uno dei più arditi progetti che si potevano allora immaginare. Strappare al potere politico quel diritto d'investitura per cui la proprietà sacerdotale non formava altro che un'appendice della proprietà barbarica; isolare il sacerdozio dal laicato, obbligandolo al celibato, ossia assoggettandolo ad una consuetudine monastica, trasformata in legge, assicurare pertanto, da una parte l'indipendenza, dall'altra la disciplina del clero; annullare per sempre l'infausto decreto di LEONE VIII, che aveva, fatto i Cesari tedeschi arbitri del trono pontificio; ristabilire in tutta la sua pienezza e con tutte le sue attitudini l'autorità pontificale; dominare quella feudalità che l'imperatore teneva testa e nello stesso tempo poneva la possente sua mano sul pastorale e sulla tiara; fare del sacerdozio la sola legittima aristocrazia dei nuovi popoli occidentali; fare del papato un'autorità veramente suprema in diritto e in fatto, un'autorità nella quale soltanto avessero a riconoscere il loro fondamento e la loro ragione di essere tutti gli altri poteri; ecco il disegno con il quale Ildebrando si presentava a restaurare la decaduta dignità dei pontefici. Era, questo il disegno di una riforma veramente generale, che doveva portare ad una nuova ricostituzione dei popoli, finora sviati dal loro vero fine, la fondazione del regno di Cristo in terra, che doveva inaugurare un "era novella", in cui la spada avrebbe servito la croce, lo scettro il pastorale, e tutte le istituzioni fondate dalla violenza, e dalla violenza mantenute si sarebbero rifuse e ricostituite nella nuova legge universale imposta dal vicario di Cristo a tutti i potenti, della terra.
Questo era il gigantesco sistema che al primo guerriero del secolo XIX fece dire: "Se io non fossi Napoleone, vorrei essere Gregorio VII".

"E Ildebrando il suo disegno lo iniziò, l'avviò, lo sostenne con l'entusiasmo di un novatore, con il coraggio di un eroe, con la fede di un martire, affrontando ogni sorta di difficoltà, sfidando pericoli di ogni natura, non un momento sgomento dal numero e dalla potenza dei nemici, dalle ribalderie dei grandi, dalle perfidie dei soggetti, non un momento sfiduciato dall'avversa fortuna o illanguidito dalla ingratitudine degli uomini; Hildebrando lo dispose, lo proseguì, ordinatamente, per cui la sua politica, cominciata con singolari riforme che agli ecclesiastici ordinamenti sembravano unicamente riferirsi, finì poi con una guerra a morte fra le due supreme autorità. Si può dire che Ildebrando fin dai suoi primi anni si educò e si preparò a questo fatto impegnandosi con tutte le sue facoltà.
Anima ardente ed entusiasta, indomita ed imperiosa, di un'energia di volere che solo il genio possiede, aveva cominciato a domare sé stesso con i rigori della vita claustrale; e si presentava sulla scena del mondo, insensibile ad ogni lusinga del senso, spoglio di ogni affetto, non da altro commosso se non dal grande disegno che la sua mente aveva concepito. Anche quella società di violenti e di oppressori aveva trovato finalmente l'uomo capace di resistere e di lottare contro di essa".
L'uomo giusto al momento giusto!

Un "momento" dove non c'era una sola Chiesa (riferendoci al clero) ma due, un'indegna, l'altra irreprensibile, una falsa e l'altra autentica, un'opportunista conservatrice l'altra onesta e progressista . Bisogna dunque parlare di una e anche dell'altra cercando di separarle. Purtroppo molti storici ci raccontano la scelleratezza di una mischiata all'altra ("benedettina"), e dato che quella abietta (trasformista) non fu mai spazzata via, ma in ogni epoca alternativamente si restaurò con alcuni personaggi che dietro le loro false virtù nascondevano ben altre ambizioni, il lettore superficiale di tutta un erba ha fatto un fascio. Spesso si sente dire "la Chiesa ha fatto questo di positivo ma ha fatto anche quest'altro di negativo", dimenticando che vi erano due Chiese, e non separando le responsabilità di una dall'altra si rischia di avere una distorsione dei fatti, che portano a dei ricorrenti pregiudizi.

Alla morte di Vittore II, che proprio Ildebrando aveva fatto innalzare al pontificato, Ildebrando, se voleva, sarebbe potuto salire subito al soglio pontificio. Invece preferì aspettare che i frutti della propria politica maturassero e prepararsi il terreno operando dietro le quinte.
Secondo lui era necessario un pontefice ostile all'impero e in buoni rapporti con GOFFREDO di Lorena, marchese di Toscana, che allora era il principe più potente d'Italia, ed avrebbe potuto non solo render salda l'autorità del Papa, ma anche essere di validissimo aiuto nella lotta che la Santa Sede doveva ingaggiare contro l'impero. Ildebrando trovò questo Pontefice nella persona del fratello di Goffredo, il cardinale FEDERICO, abate di Montecassino, nota vittima della persecuzione di Enrico III.
Dietro consiglio di Ildebrando, clero e popolo il 2 agosto del 1057 lo condussero nella chiesa di S. Pietro in "Vinculis", dove lo elessero Pontefice. II giorno dopo, nella basilica di S. Pietro, il cardinale Federico fu ordinato col nome di STEFANO IX.

L'elezione romana fatta senza il consenso della corte germanica e nella persona del cardinale lorenese non poteva non suscitare l'ira dell'imperatrice AGNESE, la vedova di Enrico III, la madre e la tutrice di Enrico IV. A calmarla andò, insieme con il vescovo Anselmo di Lucca, lo stesso Ildebrando, ed Agnese, impotente ad una qualsiasi dimostrazione di forza, accolte le giustificazioni, fu costretta ad approvare quella che - dissero i due alti prelati- era stata una libera scelta e una libera elezione romana.
STEFANO IX era vecchio e infermo, eppure si mostrò saggio ed energico; saggio nell'assecondare il monaco, energico nel sostenerlo.
Se da un lato, appena salito al trono pontificio, mostrò di volere accrescere là potenza della sua famiglia, cedendo al fratello Goffredo il ducato di Spoleto e la marca di Camerino che Enrico III aveva dato a Vittore II, dall'altro per accrescere lustro al Papato conferì ad Ildebrando la dignità di arcidiacono di Roma e chiamò intorno a sé uomini illustri per pietà e per dottrina come il benedettino PIER DAMIANI creato vescovo di Ostia, il milanese ANSELMO di BAGGIO, fatto vescovo di Lucca e DESIDERIO, nominato cardinale di Santa Cecilia e suo successore nell'abbazia di Montecassino.

Stefano IX mostrò, inoltre, di essere un fervente fautore della riforma ecclesiastica e dimostrò di conoscere quali erano i mali che affliggevano la Chiesa e quali i rimedi da adottarsi.
"In una memoria conservataci contro la simonia ecclesiastica, e dettata per suo ordine dal cardinale Umberto, è indicata, come causa principale di quella piaga che affliggeva la chiesa, l'investitura ecclesiastica fatta da mani laiche; e si propone come unico rimedio, di sicura efficacia, una separazione più forte e distinta della potestà ecclesiastica da quella laica. In questa memoria si vedono per la prima volta esposti concetti e raffronti, dei quali Ildebrando farà un giorno il caposaldo della sua politica teocratica. Vi è detto fra l'altro che le due potestà, ecclesiastica e regia, rassomigliano all'anima e al corpo, i quali hanno bisogno l'uno dell'altra, ma di cui l'ecclesiastica è la determinante, perché essa crea le idee che il potere secolare deve mettere in atto. La teocrazia papale ha dunque fissato già il proprio domma (Bertolini)".

Per meglio capire cos'era questa "separazione forte", dobbiamo tornare al "Privilegio ottoniano" del 926, quando l'imperatore aveva riconosciuto l'autorità del pontefice ma si era riservato il diritto di approvarne l'elezione. Da quel momento "l'ingerenza" del potere imperiale nelle questioni ecclesiastiche era aumentata a dismisura, anche e soprattutto attraverso la nomina dei vescovi-conti; "vescovi-conti" delle città ai quali l'imperatore concedeva o confermava poteri giurisdizionali.
Le motivazioni spirituali non esistevano più; anzi questi poteri erano un mezzo solo utile per eliminare l'autonomia dei feudi. Nell'adottare gli imperatori tedeschi la strategia di nominare i vescovi-conti, alla morte degli stessi, le proprietà, tornavano sempre all'imperatore; mentre prima grazie all'ereditarietà, divenivano di fatto proprietà dei feudatari.
In sostanza la politica imperiale da Ottone I in poi, aveva mirato a rafforzare l'autorità del sovrano assoggettando i grandi feudatari tramite i vescovi, e tramite questi assoggettare all'imperatore la Chiesa stessa.

Ma non era soltanto la riforma che Stefano IX vagheggiava. Lui che era stato presente alla battaglia di Civitate ed era giustamente preoccupato dalla crescente potenza dei Normanni, credeva necessario cacciare dall'Italia quei fieri barbari ed aveva inviato ambascerie in Germania e a Costantinopoli invitando i due imperi a prender parte alla guerra che lui intendeva muovere ai Normanni. Ma il tempo di attuare il suo disegno gli mancò: prima ancora che gli ambasciatori raggiungessero le due corti, trovandosi a Firenze presso il fratello, il 29 marzo del 1058 cessò di vivere.

BENEDETTO X, NICCOLO' II E ALESSANDRO II
L'ANTIPAPA ONORIO II

Quando morì STEFANO IX, Ildebrando si trovava in Germania dov'era andato per chiedere la sanzione dell'imperatrice Agnese all'elezione del cardinale Federico. Prima di lasciare Roma per recarsi a Firenze, con un presentimento, Stefano aveva ordinato ai Romani - pena la scomunica- di non prendere - se lui moriva- alcuna decisione sull'elezione del nuovo Pontefice finché non tornava Ildebrando. Ma l'ordine del Pontefice non fu rispettato.
La fazione tuscolana, di cui era a capo GREGORIO, figlio di ALBERICO e fratello di Benedetto IX (il famoso papa dodicenne, che poco più che ventenne si era ritirato dopo aver venduto la tiara) e la fazione crescentina, capeggiata dai figli del conte CRESCENZIO di Monticelli, entrambe nemiche di una riforma (dove si accennava alle espulsioni per tutti quelli che erano nelle loro condizioni), fecero entrare di notte nella città una moltitudine di armati e, prima che i loro avversari si rendessero conto di quel che stava accadendo e avessero il tempo di prendere le armi, acclamarono Pontefice il vescovo GIOVANNI di VELLETRI, che prese il nome di Benedetto X.

I cardinali, tra cui Pier Damiani, invano scagliarono gli anatemi contro i violenti, poiché essendosi ai tusculani e ai crescentini unito il popolo, comprato dall'oro dei faziosi e alettato dal saccheggio del tesoro di S. Pietro, i due prelati dovettero porsi in salvo con la fuga.
Poco dopo questi fatti, Ildebrando tornava in Italia; e non poteva lasciare che il suo ideale della riforma da tanti anni tenacemente perseguito tramontasse miseramente per opera di alcuni faziosi e che il Papato rimanesse strumento delle più sfrenate cupidigie, e nelle mani delle potenti e ricche famiglie in cui era caduto. Di suo stesso avviso era GOFFREDO di Lorena, sostenitore ardente della riforma e nello stesso tempo intollerante che altri disponessero della cattedra pontificia; non fu quindi difficile ad entrambi mettersi d'accordo per abbattere Benedetto X ed i suoi sostenitori.
L'uomo da contrapporre a quel Papa eletto dalla violenza delle fazioni fu trovato nel borgognone GERARDO, vescovo di Firenze, debole e remissivo, la cui designazione fu approvata dall'imperatrice Agnese. Il 28 dicembre del 1058, a Siena, Gerardo fu eletto Pontefice col nome di NICCOLÒ II.

Il primo atto di questo Papa fu la convocazione di un concilio a Sutri; qui, presente GOFFREDO di Lorena, fu pronunciata la deposizione di Benedetto X che fu pure scomunicato. Benedetto tentò di resistere asserragliandosi in Laterano; ma non vi riuscì; il popolo, che prima lo aveva sostenuto, guadagnato ora alla causa di Niccolò dall'oro largamente sparso da Ildebrando, gli si ribellò contro, si vide costretto a fuggire da Roma e a cercare riparo nel castello di Passarano.
In questo modo, senza incontrare ostacoli, NICCOLÒ II riuscì ad entrare a Roma per poi essere consacrato in S. Pietro il 24 gennaio del 1059.
Nel nome scelto dal nuovo Pontefice c'era tutto un programma: mostrava, chiamandosi così - osserva il Bertolini - il proposito di seguire le orme del suo omonimo predecessore; e noi sappiamo che orme fossero (il primo a lottare per i diritti della chiesa - 858-867)
Abbiamo poi piena ragione di credere che Ildebrando non fosse per nulla estraneo alla scelta di quel nome. Infatti, da questo momento la figura di Ildebrando compare come lo ha effigiato la storia nel decretargli l'immortalità.
Un figura che sovrasta tutte le altre, come in quel famoso quadro di Pietro Aldi, quando ce lo rappresenta assiso sul trono e con l'umile Enrico IV scalzo, vestito con un logoro saio, genuflesso in segno di sottomissione (l'opera si trova nel duomo di Pitigliano).

Fino ad ora, Ildebrando si era servito della potestà regia e imperiale come uno strumento per conseguire il suo recondito fine, che era l'emancipazione della Chiesa e del papato. Condotta la cosa fino a questo punto, il concorso dell'impero non solo cessava di essere vantaggioso alla Chiesa, ma diventava anzi un ostacolo: da ciò il mutamento repentino della politica ildebrandina.
I tempi erano maturi per far questo. Il regno italo-germanico era avviato ad un totale sfasciamento. Di là dalle Alpi, l'antagonismo delle schiatte tedesche, si era ridestato dopo la compressione patita sotto Enrico III, e minacciava, con l'unità della nazione, l'esistenza stessa del regno; di qua invece, lo spirito d'indipendenza, mai estinto, ora divampava ovunque".
(L'abbiamo già viste le prime fiammelle di questo incendio, a Milano, a Pavia, e a Roma stessa. E questa avanguardia democratica, nell'oscuro monaco aveva trovato un grande protagonista: che per il momento si chiama ancora Ildebrando, ma che ben presto sarà Gregorio VII).

La politica di Ildebrando, che è l'ispiratore di Niccolò II, ora tende non solo a rendere il Papato indipendente dall'impero, ma a sostituire questo con la Santa Sede nelle investiture vescovili e a togliere all'imperatore il vassallaggio delle signorie ecclesiastiche, assegnandole solo ai Pontefici.
Ildebrando rompe gli argini. L'assolutismo e la sacralità del potere imperiale sono definitivamente in crisi.

Fra queste signori - come altrove si è detto - la più potente era quella milanese: Ildebrando cominciò con il rivolgere tutta la sua attività a ridurre suddito della Chiesa romana l'arcivescovo di Milano. Qui il clero era diviso in due campi: da una parte - i preti simoniaci sostenuti dalla nobiltà, dall'altra i riformatori che godevano le simpatie del "populus" milanese (vedi la puntata precedente, quella del "Carroccio" anno 1034-1045)
Era al tempo stesso lotta, come si vede, religiosa e politica, che s'inasprì quando, morto ARIBERTO D' INTIMIANO (che più che per la libertà di Milano, cercava di crearsi un proprio feudo), Enrico III impose come arcivescovo GUIDO di VELATE, della schiera dei simoniaci.

Questi ultimi li troviamo abbinati al nome di "NICOLAITI" (da una massima, da loro però interpretata "a rovescio", di Nicolò d'Antiochia, uno dei sette diaconi di Gerusalemme contrario al celibato dei preti); mentre i riformatori sono appellati con il termine dispregiativo di "PATARINI", che vuol dire plebaglia (che combattevano i "nicolaiti" e i "simoniaci", da "simonia", nome che deriva dal prete ciarlatano SIMON che cercò di comprare i miracoli di San Pietro).

Fra i "Patarini" godevano grande notorietà LANDOLFO COTTA e ARIALDO DI ALCIATE, discepoli di ANSELMO DA BAGGIO, vescovo di Lucca. Scomunicati dall'arcivescovo milanese per la loro propaganda in favore della riforma ecclesiastica (che eliminava donne e denari), Landolfo e Arialdo ricorsero al Papa, il quale, allo scopo di comporre, il dissidio, mandò a Milano ILDEBRANDO ed ANSELMO DA BAGGIO; e conoscendo i due il rapporto non poteva che essere a favore dei "patari".

Ma non soltanto erano incaricati di comporre la contesa tra Nicolaiti e Patarini: lo scopo della loro missione era anche quello di sottomettere alla Curia di Roma la chiesa ambrosiana, conservatosi fino allora da Roma autonoma e indipendente per non dire insofferente. Senza dubbio la loro missione sarebbe fallita se la cittadinanza non si fosse trovata divisa in due campi.
Questa circostanza favorì l'opera dei due prelati: infatti, quando Pier Damiani nel concilio convocato in Milano parlò al popolo del primato della Chiesa di Roma, nessuno protestò, neppure l'arcivescovo; e il silenzio parve e fu accettato come un palese consenso. Il Pontefice invitò l'arcivescovo GUIDO di VELATE ad intervenire insieme con i vescovi di Asti, Alba, Vercelli, Novara, Lodi e Brescia, suffraganei della Chiesa milanese, al grande concilio lateranense convocato per il 13 aprile del 1059.

GUIDO vi si recò e per mezzo dell'anello e del pastorale ricevette dalle mani di Niccolò II l'investitura dell'arcivescovado di Milano, il quale a partire da allora dal vassallaggio collegato all'impero, passava a quello subordinato al Papato.
Era questa una grande vittoria politica di Niccolò e di Ildebrando, ma, per ottenerla, essi avevano dovuto per il momento metter da parte la questione ecclesiastica e lasciare insoluta la contesa tra Nicolaiti e Patarini, che avrebbe forse preso proporzioni maggiori se l'arcivescovo, per deviare l'agitazione popolare non avesse fomentato l'odio tra Milano e Pavia; la prima ormai centro del movimento d'indipendenza, l'altra (nonostante i maltrattamenti) orgogliosa capitale del regno tedesco.

Quest'odio di campanile provinciale più che politico, come detto sopra era politicamente strumentalizzato e alimentato, provocherà la battaglia dell'Olona del 1061, tra Milanesi e Pavesi, che inizierà la lunga serie di lotte fratricide che insanguineranno l'Italia. Si creano fratture enormi anche con città poco distanti come Lodi e Milano.
Il concilio lateranense del 1059, al quale parteciparono 113 vescovi, tra cui nessun tedesco, ha un'importanza storica straordinaria. In esso non solo si comminarono pene gravissime contro i simoniaci e si colpì il matrimonio dei preti (pare che per questi provvedimenti così rigorosi i vescovi francesi si rifiutassero di sottoscrivere il decreto conciliare, il quale -infatti- porta soltanto 78 firme), ma si fissò una nuova norma alle elezioni papali.
"L'elezione papale deve essere fatta dal solo collegio dei cardinali e nessuno può ricevere il governo di una chiesa da un laico".

Questa norma stabiliva che, alla morte di un Pontefice, dovessero radunarsi i cardinali vescovi (cioè quelli di Ostia, Porto e Santa Rufina, Alba, Sabina, Tusculo e Preneste) inizialmente per consigliarsi circa la scelta del nuovo Papa, e che a loro dovessero poi unirsi i chierici, il resto del clero ed infine il popolo, tutti questi ultimi informati della scelta, approvavano o no l'elezione.
Si stabiliva inoltre che la scelta del Pontefice fosse fatta tra il clero romano se in mezzo ad esso ci fosse stato qualcuno dotato dei requisiti richiesti; in caso contrario il decreto permetteva che la scelta avvenisse fra il clero di un'altra chiesa.
Quanto al diritto imperiale il decreto faceva una riserva piuttosto ambigua, affermando che "l'onore e il rispetto dovuti al giovane re Enrico, futuro imperatore, sarebbero stati salvaguardati" (è sottinteso, dalla Chiesa, che implicitamente però paventa anche il contrario - infatti, quando deporrà Enrico IV, inviterà tutti i sudditi a non "rispettarlo" e a non più "onorarlo").

Il decreto, inoltre, contemplava il caso in cui, per forza maggiore, non fosse stato possibile eleggere in Roma legittimamente il Pontefice:
"Se l'empietà degli uomini tristi e perversi prevalesse e risultasse impossibile procedere a Roma ad un'elezione pura, sincera e senza simonia, ai cardinali vescovi si aggiungano i chierici religiosi e i laici cattolici, anche in piccolo numero, che abbiano il diritto, d'accordo con il re, di eleggere il Pontefice della sedia apostolica nel luogo che sembrerà a loro più propizio"

Il decreto terminava minacciando l'anatema e la scomunica contro coloro che, trasgredendone gli ordini, osassero soggiogare e turbare la Chiesa Romana.

Non vi era nessun dubbio che il decreto emanato dal concilio lateranense non era gradito in Germania; ma Niccolò II e Ildebrando fidavano nell'appoggio del marchese di Toscana e nella debolezza dell'attuale corte tedesca, dovuta alla minorità di Enrico IV.
Per render più salda la sua posizione politica e far sì che il decreto non rimanesse lettera morta Niccolò -mise da parte le antipatie- e cercò di ingraziarsi i Normanni. Nel luglio del 1059 convocò un concilio a Melfi, e qui assolse dalla scomunica i Normanni; concesse a ROBERTO il Guiscardo l'investitura della Puglia e della Calabria - esclusa Benevento - e quella della Sicilia qualora liberata dai Musulmani; confermò a RICCARDO di Aversa il principato di Capua e dall'uno e dall'altro non solo pretese giuramento d'omaggio e di fedeltà, ma anche la promessa che avrebbero assicurato al Pontefice la potestà spirituale e temporale e che si sarebbero adoperati affinché i Papi fossero unicamente eletti dai cardinali, dai chierici e dal popolo di Roma senza alcuna riserva dei diritti imperiali.

CONCILIO DI WORMS

Questo che Niccolò II aveva riportato nell'Italia meridionale era certamente un "successo politico di non lieve importanza" e Ildebrando, che ne era l'autore, dovette rallegrarsene. La gioia però fu amareggiata dalle notizie giunte dalla Germania, i cui vescovi, eccitati dall'arcivescovo ANNONE di Colonia, arcicancelliere d'Italia, riuniti in CONCILIO A WORMS il 23 dicembre del 1059 avevano deliberato di rifiutare obbedienza al Pontefice e addirittura di metterlo al bando della Chiesa.
Niccolò II cercò di comporre lo scisma inviando alla corte il cardinale STEFANO, amico e confidente di Ildebrando, ma l'imperatrice AGNESE non volle riceverlo. Dell'affronto subito dal suo messo il Pontefice non riuscì a vendicarsi come avrebbe voluto, perché, trovandosi a Firenze, dove aveva fissato la sua dimora, la morte lo colse il 27 luglio del 1061.

La scomparsa di Niccolò mise in serio pericolo la pace di Roma e l'indipendenza della Santa Sede. La nobiltà romana, che il nuovo decreto del concilio lateranense li escludeva dall'elezioni papali (com'era sempre avvenuto in passato) per rappresaglia inviò ad Enrico IV un'ambasceria, invitandolo come patrizio a designare il nuovo Pontefice; Ildebrando però, risoluto a difendere il decreto conciliare e a fare rispettare le norme in esso contenute, ricorse e fece venire a Roma Riccardo di Capua con una contingente di Normanni e, da questi protetto, convocò i cardinali vescovi e fece eleggere, e senza il consenso del re, il vescovo ANSELMO DI BAGGIO, che prese il nome di ALESSANDRO II (1° ottobre del 1061)

L'atto di Ildebrando apparve come un'audace sfida alla corte germanica e ai vescovi dell'alta Italia ligi a quella. La risposta non si fece aspettare: mentre i vescovi lombardi, riuniti sotto la presidenza del cancelliere imperiale GUILBERTO, dichiaravano che non avrebbero riconosciuto nessun Pontefice scelto fuori dalla loro Chiesa, l'imperatrice AGNESE convocava a Basilea un concilio per decidere sulla questione papale. Vi parteciparono numerosi vescovi della Germania e della Lombardia e, come rappresentanti della fazione imperiale romana, GERARDO di GALERIO e CENCIO.
Il Concilio dichiarò illegittima l'elezione di Alessandro II, ed Enrico IV (aveva 10 anni) in qualità di patrizio, designò al pontificato il veronese CADALOO, vescovo di Parma, il quale fu eletto con unanimità di voti e prese il nome di ONORIO II (28 ottobre del 1061).

Era lo scisma, e questo portava con sé la lotta, che non fu favorevole a Cadaloo. Lui, Onorio II, contrario alla riforma caldeggiata da Enrico, sebbene eletto con suffragio unanime non era ben visto in Germania e fu per questo motivo che la corte, quando lui scese a Roma per prender possesso del trono pontificio, non lo fece accompagnare da un esercito ma da una misera scorta. Abbandonato a se stesso appoggiato solo da quel piccolo gruppetto di soldati, riuscì a penetrare nella città Leonina; ma, subito ne fu scacciato dalle numerose milizie mercenarie assoldate da Ildebrando.
Erano a questo punto le cose quando comparve sotto le mura di Roma con un esercito GOFFREDO di Toscana, il quale, nella veste di vicario imperiale, era convinto di risolvere lui la contesa papale ordinando ai due Pontefici di allontanarsi dalla città, di ritirarsi nelle loro sedi episcopali e rimanervi fino a che il giovane re Enrico non avesse pronunciata la sentenza.
L'operato di GOFFREDO non poteva essere certamente gradito ad Ildebrando e non va molto lontano dal vero chi pensa che lui non sia poi stato tanto estraneo agli avvenimenti occorsi in quel tempo in Germania che privarono della reggenza l'imperatrice Agnese.

Contro la donna, fu ordita un'infame congiura, per privarla della reggenza con l'accusa di indegnità e nello stesso tempo privarla del figlio, futuro re. L'imperatrice fu accusata di avere avuto illeciti rapporti. La congiura era stata architettata dall'arcivescovo ANNONE di Colonia, che pur favorevole alla riforma ecclesiastica era quanto mai ambizioso come nessun altro e si prestò alla losca trama. Il complotto con l'ultimo atto finale, prese il via nel marzo del 1062: mentre Agnese si trovava con il figlio a diporto nel paesello di Kaiserswerth, sul Reno, Enrico IV fu rapito. La madre cercò un conforto al dolore ritirandosi nella solitudine di un chiostro. La tutela del piccolo re e il governo dello Stato passarono nelle mani dell'arcivescovo Annone.
Con questo al potere Ildebrando era sicuro che la causa di Alessandro II ne sarebbe uscita vittoriosa. L'arcivescovo di Colonia, infatti, convocato un concilio ad Augusta il 28 ottobre del 1062, non curandosi di Onorio II fece deliberare che si mandasse in Italia un legato regio per esaminare se l'elezione di Alessandro fosse avvenuta regolarmente, senza violenza e simonia. Constatato questo, il messo doveva accompagnare a Roma il Pontefice perché vi esercitasse il suo ministero fino alla convocazione di un concilio generale da tenersi in Italia. Accompagnato da Goffredo di Toscana, Alessandro II riuscì a rientrare in Roma, e destituito alla carica di cancelliere imperiale Guilberto, fu innalzato Gregorio, vescovo di Vercelli.

Nella Pasqua del 1063 ci fu a Roma il concilio generale nel quale, presenti più di cento vescovi, furono confermati i precedenti decreti contro la simonia e il matrimonio dei preti e fu lanciato l'anatema contro Cadaloo (Onorio II).
Il concilio romano, che doveva risolvere la questione papale, diede esca invece a nuove lotte. Cadaloo, radunati i suoi sostenitori in un concilio a Parma, fece a sua volta pronunciare l'anatema contro il suo rivale, poi, alla testa di una schiera di armati, mosse su Roma ed entrato improvvisamente nella città Leonina si rese padrone di Castel Sant'Angelo; poi sostenuto da Cencio, tentò di espugnare pure il palazzo del Laterano senza però riuscirvi.

La lotta a Roma tra i due papi durò circa un anno. Alla fine, per le insistenti preghiere di Pier Damiani, l'arcivescovo Annone stabilì di risolvere la questione dello scisma in un nuovo concilio generale da tenersi a Mantova per la Pentecoste del 1064.
Pareva che si dovesse giungere ad una generale pacificazione. Facevano sperare questo esito, il ritorno in Germania, presso il figlio, dell'imperatrice Agnese e la visita al re di Goffredo e Beatrice di Toscana, spinti dal desiderio di riconfermargli la loro fedeltà.
Ma altri e più gravi germi di discordia erano sorti in Germania, dove Annone, perso il favore del gruppo di tutori del piccolo imperatore, aveva dovuto cedere i poteri civili all'arcivescovo ADALBERTO di BREMA (lui il nuovo tutore), conservando Annone soltanto quelli ecclesiastici.
Il Concilio di Mantova aggiunse nuovi contrasti allo scisma. Alessandro II, essendosi giustificato personalmente dalle accuse mossegli, ebbe la riconferma della tiara: Cadaloo, rifiutatosi d'intervenire sotto pretesto che gli fosse stata negata la presidenza alla quale, secondo lui, aveva diritto, ebbe riconfermato la destituzione e la scomunica. Il turbolento Onorio tentò d'interrompere i lavori del Concilio, e riuscì ad organizzare un'insurrezione del popolo mantovano, che fu subito soffocata dal pronto intervento di Goffredo di Toscana con un buon gruppo di milizie, e il concilio poté continuare e condurre a termine i suoi lavori.
Dal concilio di Mantova lo scisma papale non uscì per nulla composto. Data l'ostinazione dell'antipapa a voler mantenere la tiara, si rendeva necessario l'invio in Italia di un esercito germanico in sostegno di Alessandro II. Annone caldeggiò la spedizione, ma questa trovò un fortissimo ostacolo in Adalberto, il quale anzi si schierò apertamente a favore di Cadaloo, accrescendo con il suo contegno l'arroganza di costui e rinfocolando le discordie a Milano, dove ARIALDO, arrabbiato patarino, troverà la morte fra mille tormenti e l'arcivescovo GUIDO, già scomunicato dal Papa, caduto prigioniero di Erlembardo, fratello di Landolfo Cotta e gonfaloniere della Chiesa Romana, sarà più tardi sostituito da ATTO nella sedia arcivescovile.

POLITICA DI ALESSANDRO II
INNALZAMENTO DI ILDEBRANDO AL PAPATO

L'uscita di Enrico IV dalla minorità nella primavera del 1064 (compiva 14 anni) non fece mutare la situazione in cui si trovavano l'Italia e la Germania. Il giovane re, sebbene maggiorenne, continuò ad essere signoreggiato dall'astutissimo arcivescovo ADALBERTO di BREMA, il quale, partita nel 1065 l'imperatrice Agnese per compiere un pellegrinaggio a Roma, rimaneva arbitro assoluto dell'animo e della mente del piccolo sovrano. Mal tollerati però erano gli abusi dello smanioso Adalberto dai principi germanici, i quali, capitanati dal rancore di Annone di Colonia e dall'arcivescovo Sigifredo di Magonza, nella dieta di Tribur del gennaio del 1066, ottennero con l'imposizione dal re che Adalberto fosse allontanato dalla corte.

" Ora - scrive il Bertolini - cominciò una nuova forma di tutela per il giovane re. Come nell'antico senato di Roma, al tempo dell'interregno, la somma potestà era per turno esercitata dai padri, così ora se la avvicendarono i vescovi e i principi, come se Enrico durasse sempre nell'età minore. Così da tutte le parti si cospirava a promuovere nel giovane monarca lo sviluppo delle basse inclinazioni del suo animo. Se sotto la tutela compiacente di Adalberto si formò il libertino, sotto la faziosa egemonia dei successori del cancelliere si formò l'ipocrita; e il libertinaggio e l'ipocrisia saranno artefici della perdizione dell'infelice re".
Il destino, che qui prese il sembiante di ragione politica, associò a quest'infelicità una creatura innocente. Enrico III, per assicurare al figlio la signoria d'Italia, gli aveva prima di morire, già destinato in moglie la figlia della marchesa di Torino. BERTA si chiamava questa figlia, ADELAIDE la madre, che era poi la moglie di Oddone, figlio di Umberto conte Biancamano; lei a portare al marito i grandi possedimenti come la grande Marca d'Italia con capitale Torino. La donna era rimasta vedova nel 1057, ed era lei la reggente dei due figli Pietro I e Amedeo II, e conservò lei per trent'anni e con energia le sorti del suo stato.

Questo matrimonio -nel progetto di Enrico III- oltre che procurare al regno germanico una porta aperta per l'Italia, assicurava al re una potente alleata, atta a tenere in rispetto l'ambiziosa marchesa di Toscana Beatrice, e l'infido marito di lei Goffredo.
Il matrimonio designato da Enrico III fu celebrato nel luglio del 1066. Berta ebbe a Vurzburgo, il 29 giugno, la corona e il 13 luglio andò sposa al sedicenne Enrico IV. Il luogo stesso scelto per celebrare il matrimonio non era certo di buon auspicio. Era la città di Tribur, luogo sacro alle defezioni e alle congiure contro i monarchi.
Enrico fu sollecito ad accreditare l'augurio sinistro. Accettò Berta non come moglie destinatagli dal padre, ma solo come la regina impostagli dai principi. E la misera donna, che aveva sperato di trovare nel talamo nuziale la felicità, non trovò invece che angosce e disinganni.

La caduta di Adalberto aveva fatto perdere a Cadaloo l'appoggio che prima aveva in Germania ed aveva invece rafforzato la posizione di Alessandro II e affermato di là dalle Alpi il principio di Ildebrando, che cioè al Pontefice spettasse il diritto di disporre della corona regia ed imperiale.
Fa fede la lettera che nella primavera del 1066 Sigifredo di Magonza scriveva al Papa, in cui era detto: "Poiché la corona del nostro regno e quella dell'impero romano si trovano, per mezzo di San Pietro, nelle vostre mani, Vi raccomandiamo di ricordarvi del figliuol vostro e signor mio, il re Enrico; e come sino ad ora lo avete assistito con il consiglio e con l'opera, così vogliate assisterlo con apostolica costanza fino alla sua coronazione imperiale".

Mentre però il Papato vedeva crescere la sua autorità nella lontana Germania, l'ambizione di un principe la stava minacciando da vicino. Era costui RICCARDO di CAPUA, il quale, dopo avere aiutato papa Alessandro contro Cadaloo, aveva esteso con le armi i suoi domini fino alle porte di Roma ed ora, in premio dei servigi resi alla Santa Sede, pretendeva di essere nominato patrizio.
Concedere tale dignità al principe normanno significava aprirgli la via dell'impero. In verità ad Alessandro II importava poco che la corona imperiale passasse dai Tedeschi ai Normanni; ma il Pontefice temeva - e non a torto - che un imperatore vicino ed ambizioso abbattesse prima o poi, il potere temporale della Santa Sede.
Fu questo timore che spinse il Pontefice a mandare ambasciatori in Germania per invitare Enrico a scendere in Italia a ricevervi la corona imperiale.
ENRICO VI, che più di ancora di Alessandro II temeva le pretese di Riccardo di Capua, accettò l'invito e iniziò a fare i preparativi per una spedizione. Quando tutto fu pronto, Enrico IV si mise in marcia; ed era già giunto con il suo esercito ad Augusta quando seppe che GOFFREDO di Toscana aveva intrapreso per proprio conto, e contro la sua volontà, la guerra contro i Normanni.
La condotta di Goffredo non può essere spiegata che dal desiderio che aveva di non perdere la sua posizione di arbitro delle cose italiane. Goffredo giunse a Roma alla guida di un numeroso esercito e dalla capitale, con a fianco anche il Pontefice, marciò su Aquino dove i Normanni si erano ritirati e da qualche tempo anche rafforzati. Goffredo credeva di avere facilmente ragione del nemico e invece la resistenza del principe di Capua fu così energica da indurlo ad entrare in trattative con Riccardo, il quale, rinunziando alle terre occupate nella campagna romana si dichiarò nuovamente vassallo del Pontefice.

La spedizione di Goffredo di Toscana ebbe una grande importanza per l'avvenire del Papato; infatti, liberò la Santa Sede da un vicino molesto e pericoloso qual'era Riccardo di Capua, fu nello stesso tempo la causa della rinuncia di Enrico IV a scendere nella penisola, questa rinuncia abbassò il prestigio della corona Germanica in Italia, ed infine spinse Ildebrando a procedere con maggiore audacia nella sua politica teocratica.

Chi si accorse del danno che l'inattività di Enrico produceva alla corona tedesca fu l'arcivescovo ANNONE di Colonia, il quale, avendo invano tentato di persuadere il sovrano a scendere in Italia per rialzarvi il prestigio della sua autorità, decise di andarvi lui stesso in qualità di ambasciatore. Nella primavera del 1068, in compagnia del duca di Baviera e del vescovo di Trento, passò le Alpi e, riuscito ad ottenere in Lombardia un abboccamento con l'antipapa Cadaloo, si avviò alla volta di Roma.
Qui però lo aspettava una dolorosa sorpresa: Papa Alessandro si rifiutò di ricevere gli ambasciatori del re, se prima non avessero fatta penitenza per avere avuto rapporti con Cadaloo, su cui pesava la scomunica; i messi cercarono di scusarsi dichiarando che avevano conferito con l'antipapa Onorio II solo per persuaderlo a rinunciare alle sue pretese al papato; ma Alessandro II non accettò quelle scuse e soltanto per mezzo delle preghiere della marchesa Beatrice di Toscana l'arcivescovo Annone riuscì a farsi ricevere dal Pontefice.

Né questa fu la sola umiliazione subita dalla corona germanica: una seconda più grave, e questa volta personalmente al sovrano, la inflisse Ildebrando quando Enrico, dopo aver tenuto per quattro anni Berta nella reggia senza consumare il matrimonio, chiese il divorzio adducendo il pretesto di un'incontrollabile avversione verso la moglie.
II Papa oppose un reciso rifiuto e chi ebbe l'incarico di comunicarlo al re fu il vecchio Pier Damiani, il quale, presentatosi ad Enrico e invitato a rinunciare a quel disegno perverso indegno di un principe e di un cristiano, lo avvertì che sarebbe stato rigorosamente punito dai sacri canoni e che il Pontefice non avrebbe mai concesso la corona imperiale a un traditore della fede cristiana. Enrico IV si sottomise e finalmente ammise al talamo l'infelice sposa che, nel 1071, lo rese padre di un figlio, che doveva essere l'erede del trono di Germania.
Durante il suo soggiorno di là dalle Alpi PIER DAMIANI poté constatare quanto grande fosse in Germania la corruzione nella società ecclesiastica e, ritornato in Roma, non mancò di renderne informato il Pontefice, il quale, deciso di far cessare la condotta scandalosa del clero, invitò a Roma per il concilio della Pasqua del 1070 SIGIFREDO di Magonza, ANNONE
di Colonia e il vescovo di Bamberga, perché si giustificassero dell'accusa di simonia.
I tre prelati si presentarono al concilio, dove l'accusa fu provata; ma nonostante questo, il Pontefice non prese alcun provvedimento contro quei dignitari simoniaci e li rimandò in Germania con la conferma dei loro uffici. E fu, questa, saggia politica che rivela il consiglio di Ildebrando, il quale con l'indulgenza guadagnava alla causa del Papato tre autorevoli personalità, da cui la Santa Sede sperava di ricevere ragguardevoli aiuti.
Cessavano intanto di vivere i principali collaboratori di Ildebrando. Nel dicembre del 1069 si spegneva Goffredo di Toscana, e lasciava un figlio dello stesso nome, GOFFREDO il "GOBBO", avuto dalla prima moglie, il quale, pochissimo tempo dopo la morte del padre e in ossequio alla volontà da quest'ultimo espressa, sposava la 23 enne MATILDE, figlia del primo letto di Beatrice di Lorena con Bonifacio di Canossa.
Era un matrimonio consigliato dall'interesse politico. Goffredo voleva che il ricco patrimonio di Toscana rimanesse ai suoi eredi; ma il matrimonio tra il figlio e la figliastra, non nato dall'amore, rimase sterile, perché il Gobbo visse lontano dalla moglie, in Lorena, dove poi un vicario del conte DIETRICO d'Olanda lo uccise a tradimento nel 1076, l'anno medesimo della morte di Beatrice di Toscana, avvenuta in Pisa.
Matilde invece rimase sempre in Italia, intenta alle opere di pietà e devota e accesa sostenitrice alla causa del Papato.
"Nessuno - sono parole del Bertolini - comprese forse meglio di quella donna possente, la grandezza del disegno di Ildebrando, come nessuno mise maggiore ardore di lei a promuoverne la realizzazione. Da ciò l'intimità sorta fra lei e il futuro papa Gregorio VII. Matilde è la Debora del papato: la statura alta e il color bruno della pelle rammentavano suo padre, del quale Matilde aveva pure ereditato l'animo forte e valoroso.
Due anni prima nel 1067, questa figlia di Bonifacio, appena ventenne, era stata vista muovere a capo di grosso corpo di milizia, con la spada impugnata, in difesa di Roma minacciata dal normanno Riccardo. Il popolo la chiamava la gran contessa; lei invece abitualmente si firmava "Matilde, per grazia di Dio se è qualcosa" ("Mathilda Dei gratia, si quid est").
Matilde era cresciuta, osserva lo storico Giesebrecht, in mezzo al progresso incalzante delle idee ecclesiastiche e all'esaltazione del papato; aveva familiarità con la teologia e le controversie religiose; credente nei miracoli, si rendeva felice con l'illusione di viverci in mezzo; innalzamento religioso, esercizi ascetici, formavano un bisogno del suo cuore. Ma non per questo, Matilde era una bigotta bacchettona. Era semplicemente penetrata della parte politica del disegno di Gregorio non meno che della religiosa, e le abbracciò entrambe con lo stesso ardore, risoluta di usare tutte le sue forze per creare l'onnipotenza del successore di Pietro".

Nel febbraio del 1072 moriva PIER DAMIANI, apostolo instancabile della riforma ecclesiastica, e nell'aprile del 1072, un anno dopo la morte dell'antipapa Cadaloo, finiva i suoi giorni anche il pontefice ALESSANDRO II.
Il popolo romano spontaneamente ed all'unanimità acclamò papa ILDEBRANDO, che da venti anni era stato il consigliere vigile e illuminato della Santa Sede e con grand'abilità aveva preparato il trionfo della teocrazia papale.
Accettando la tiara, ILDEBRANDO era animato dal fermo proposito di procedere nella via che fino allora aveva seguito, e il 29 giugno del 1073, giorno in cui fu incoronato solennemente, assumendo il nome significativo di GREGORIO VII, mostrava chiaramente con quale animo si preparava a reggere le sorti della Chiesa.
Anche se, salendo sul soglio, scegliendosi il motto fece il modesto dichiarandosi
"servo dei servi di Dio".

Ci piace menzionare subito quest'autoritaria lettera del "servo dei servi" -di fondamentale importanza storica- inviata ai vescovi più tardi, quando era "in piena guerra" con l'impero:

"Fate in modo che il mondo intero comprenda e sappia che se voi potete legare e sciogliere il cielo, voi potete sulla terra togliere e dare a ciascuno, secondo i meriti gli imperi, i reami, i principati, i ducati, le contee e tutte le possessioni degli uomini. Spesso voi avete tolto ai perversi e agli indegni i patriarcati, le primazie, gli arcivescovati, i vescovati, per darli ad uomini veramente religiosi. Se voi giudicate di cose spirituali, quale potenza non dovete avere sulle cose terrene? Sappiano oggi i re e i potenti della terra, come voi siete grandi e quale sia la vostra autorità. Che essi si guardino dal tenere in poco conto l'amministrazione e l'organizzazione della Chiesa".

Non c'era allora il telefono, ma la notizia in ventiquattr'ore, raggiunse ugualmente i lontanissimi paesi dell'impero. Gregorio era un genio dell'efficienza e della comunicazione, e in ogni chiesa, fino all'ultima contrada, con corrieri a staffette, fece arrivare questo testo forte, da leggersi dai pulpiti, dando risalto all'inquietudine. E questa ci fu e non si parlò d'altro. Fu sgomento per tutti, ma soprattutto la notizia raggiunse i 475 (quanti erano allora) Principi laici, da qualche tempo insofferenti all'arroganza dei religiosi, ma soprattutto per la spoliazione o la soppressione dei loro feudi, avallati dall'imperatore.
La lettera provocò animazione ed ebbe subito un riflesso immediato: quello di agire subito. Del resto era quello che GREGORIO si aspettava, queste le sue intenzioni; provocare una ribellione. I principi, colsero subito l'occasione dell'anatema papale. Per il Papa fu una conquista epocale, ma per il Sacro Romano Impero iniziò la disfatta!

Se parole di questo tenore fossero pronunciate oggi, quale giustificazione teologica del potere temporale, sarebbero sicuramente bollate come "reazionarie". In realtà, nel secolo di Gregorio VII, esse costituirono la base di un rinnovamento rivoluzionario in senso "democratico", quale raramente si é verificato in altre epoche storiche.
Nell'usare "democratico" molti - se sono legati ad un certo genere di storia medioevale, quella molto critica sulla Chiesa - potrebbero sorridere; ma queste raccomandazioni di fermezza rivolte da Gregorio ai vescovi, insieme con il gesto clamoroso delle scomuniche e deposizioni di re e imperatori, sottintendevano anche all'emancipazione dei sudditi cristiani alla soggezione indiscriminata al potere dei sovrani "ingiusti", "tiranni", "ignoranti di cose terrene e trascendentali" e all'emancipazione del clero "corrotto" e che Gregorio combatteva per distruggerlo dalle fondamenta. Ed era l'unico modo per risolvere il problema dell'anarchia.
Gregorio si tolse prima di tutto il pensiero con i Normanni trasformandoli in alleati e ponendoli baluardi nel sud; poi cominciò a dedicarsi al nord, impedendo all'Italia di trasformarsi in una colonia tutta tedesca.

Ma questi avvenimenti, con protagonista GREGORIO VII, e ENRICO IV,
li vedremo largamente in seguito.

 

FINE

Dobbiamo ora tornare ad una grande panoramica sui Normanni
ripartendo dal 1040, quando in quell'anno, gli arabi non solo a Traina e a Siracusa persero la battaglia, ma persero il prestigio che si erano acquistati in tutta la Sicilia.
Loro erano insomma in Sicilia al tramonto di un'epoca,
mentre, le albe di un'altra epoca, erano tutte dei nuovi arrivati: i Normanni

Ed è il periodo dal 1040 al 1091 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI