GUERRA GIUGURTINA - METELLO - CAIO MARIO - SILLA

LA NUMIDIA DOPO LA MORTE DI MASSINISSA - GIUGURTA - ASSASSINIO DI JEMPSALE - USURPAZIONI DI GIUGURTA - L'ORO DEL RE DI NUMIDIA - CALPURNIO BESTIA - GIUGURTA DAVANTI IL POPOLO ROMANO - ASSASSINIO DI MASSIVA - VERGOGNOSA CONDOTTA DI AULO POSTUMIO - LA ROGAZIONE MAMILIA - QUINTO CECILIO METELLO IN AFRICA - IMPRESE DI METELLO - CAIO MARIO - SUO PRIMO CONSOLATO -- CAIO MARIO E LA GUERRA GIUGURTINA - SILLA - TRIONFO DI MARIO E MORTE DI GIUGURTA
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LE CONDIZIONI DELLA NUMIDIA E L'ORO DI GIUGURTA

La critica situazione romana, da Caio Gracco dopo il suo assassinio, lasciata in mano all'oligarchia, non prometteva certo un periodo di pace, la guerra civile era inevitabile; quando sarebbe scoppiata non si sapeva, ma che ci sarebbe stata, tutti n'erano certi.
A ritardarla contribuì la "pericolosa minaccia" dei nemici esterni.
Una delle guerre che ritardarono lo scoppio della guerra civile, fu quella combattuta in Numidia, che prese il nome di guerra "giugurtina" che dal nome del suo re, GIUGURTA.

Il regno della Numidia si stendeva dalle Sirti alla Mauritania. Morto nel 149 MASSINISSA, il reame era stato diviso fra i suoi tre figli, MICIPSA, GULUSSA e MASTANABALO. Essendo questi ultimi due, morti senza figli legittimi, il regno era passato tutto sotto lo scettro del primo, che come il padre aveva mantenuto l'amicizia con Roma (che due anni si scatenò contro Cartagine con Scipione l'Emiliano 147-146 a.C.)

MICIPSA aveva due figli, Aderbale e Jempsale, d'animo debole il primo, fiero e tenace il secondo, ma essendo entrambi giovanissimi, negli ultimi anni della sua vita il padre adottò il nipote GIUGURTA, figlio illegittimo di Mastanabalo, uomo bellicoso ed energico, e insieme con i suoi figli lo istituì erede del regno, con l'obbligo che avrebbero regnato in comune e in pieno accordo.
Ma GIUGURTA, rispetto agli altri due, era ambiziosissimo e d'animo corrotto; all'assedio di Numanzia aveva combattuto a fianco di Scipione Emiliano; contava non poche amicizie a Roma e conosceva quanto grande fosse la corruzione dei dominatori del mondo.

Morto poi MICIPSA nel 118, la concordia fra i tre eredi durò pochissimo tempo. JEMPSALE, considerando il cugino come un intruso, reclamò che il regno doveva essere diviso solo in due e non in tre parti; Giugurta, fingendo di voler trattare con il cugino, lo invitò a casa sua e lo fece assassinare.
La stessa sorte sarebbe toccata ad ARDEBALE se questi non fosse fuggito in tempo nei possedimenti romani d'Africa, da dove poi si recò a Roma a chiedere aiuti contro l'usurpatore.
Fu anticipato però da GIUGURTA, il quale, sapendo quanto Roma era venale, vi aveva inviato alcuni suoi uomini di fiducia che con molti e ricchi doni avevano guadagnato alla causa del re usurpatore gli uomini più influenti della metropoli.
Il Senato per questo motivo, accolse freddamente ADERBALE ed anziché difendere i diritti calpestati del giovane figlio di MICIPSA, a parole lo illuse con vane promesse, poi inviò in Africa dieci commissari con l'ordine di dividere la Numidia fra ADERBALE e GIUGURTA.

Alla testa della commissione era il consolare L. OPIMIO, il vincitore di Fregelle, uomo avido e senza scrupoli, il quale accettò i doni offertigli dallo scaltro Giugurta e, diviso il regno, gli assegnò la parte migliore.
Non contento di questa divisione, Giugurta volle spogliare il cugino della parte che gli era toccata e, siccome questi mostrava di essere deciso a difendere con le armi il suo dominio, Giugurta convinto di poter osare impunemente, mosse contro Aderbale con un forte esercito e lo sconfisse.
ADERBALE riuscì a rifugiarsi a Cirta (odierna Costantina) e mentre allestiva i preparativi per resistere, inviava a Roma ambasciatori chiedendo urgenti soccorsi.
Ma anche questa volta, anziché un esercito che ponesse termine alle prepotenze dell'usurpatore numida, il Senatore inviò in Africa una deputazione capitanata dal senatore MARCO EMILIO SCAURO; ma questa non ottenne alcun risultato, non sappiamo se per la sua incapacità o perché anche lui "comprato" con l'oro di Giugurta; infatti, appena ripartiti dall'Africa i commissari, intensificò l'assedio di Cirta.

La guerra tra i due cugini danneggiava non poco gli interessi di molti commercianti italici e romani ormai stabiliti in quella città, i quali consigliarono Aderbale di cedere la piazzaforte al nemico e di rimettersi alla giustizia di Roma e tanto dissero e fecero, che l'ingenuo giovane, ricevuta dal cugino la promessa di aver salva la vita, aprì le porte al nemico.

GIUGURTA però non mantenne le promesse fatte; appena entrato a Cirta (112 a.C.) fece uccidere Aderbale e saccheggiare la città. Caddero nella strage compiuta dalle sue truppe oltre che i partigiani del figlio di Micipsa, anche i commercianti italici e romani che avevano consigliato la resa.
Il Senato non si sarebbe mosso a vendicarli se non si fosse a Roma levata alta la voce il tribuno CAJO MEMMIO, campione della democrazia, accusando i grandi che vendevano ad un re barbaro la dignità di Roma e invitando il popolo ad insorgere contro il governo corrotto della repubblica.
Preoccupato il Senato dalle parole del Tribuno e dal contegno minaccioso del popolo, si decise a dichiarare guerra a GIUGURTA.

Un esercito fu allestito per inviarlo in Africa. Lo comandava il console CALPURNIO BESTIA, prode capitano, ma uomo avido e corrotto, accompagnato dal senatore MARCO EMILIO SCAURO. L'esito della spedizione sarebbe stato favorevole a Roma se Calpurnio Bestia avesse avuto di mira l'interesse della patria e il trionfo della giustizia.
Parecchie città della Numidia erano stato occupate dall'esercito romano quando GIUGURTA, vistosi a mal partito, ritenne opportuno far tacere le armi e far parlare l'oro.

Una volta aveva sostenuto, con un maligno e sarcastico giudizio, che con l'oro si poteva comprare Roma, solo se ci fosse stato uno che l'avesse voluta; con l'oro lui aveva già corrotto senatori e commissari, e con l'oro cercò questa volta di allontanare dal suo regno i legionari. E vi riuscì. CALPURNIO BESTIA si lasciò facilmente "comperare", sospese le operazioni di guerra e, per mezzo di Scauro, concluse con Giugurta un trattato con il quale il re numida entrava in possesso delle province usurpate invece di essere punito delle colpe commesse (anno 111 a.C.).
Contro la vergognosa condotta del console e del Senato, che stava per ratificare il trattato, protestò indignato il tribuno MEMMIO, e persuase il popolo a votare un ordine del giorno con il quale si stabiliva di aprire un'inchiesta sulla strage di Cirta e di inviare in Africa il PRETORE LUCIO CASSIO LONGINO, stimato per la sua integrità, per poi condurre a Roma Giugurta affinché costui rispondesse di tutte le accuse che gli erano mosse e con lui rendessero conto Calpurnio Bestia e il consolare Scauro, responsabili di un trattato dove l'ombra del sospetto che era stato comperato dall'oro del re di Numidia era piuttosto una certezza.

Rassicurato da Longino che non gli sarebbe stato fatto alcun male, Giugurta ubbidì all'ingiunzione del popolo romano e giunse a Roma, ma, qui, ritenne opportuno procurarsi gli appoggi necessari, distribuendo a piene mani il suo oro tra i nobili e con del denaro si "comprò" un tribuno, CAJO BEBIO, rappresentante della fazione oligarchica.

Appena Giugurta comparve davanti l'assemblea, il popolo gridò di metterlo a morte; MEMMIO però impose silenzio alla folla affermando che "non era giusto punire un uomo prima di giudicarlo", poi si rivolse al re Numida, e dopo avergli rimproverato le infamie che aveva commesso, gli promise il perdono se rivelava i nomi di coloro che si erano lasciati corrompere dal suo oro. Per Memmio, questa era la questione principale.

A soccorso di Giugurta andò (il "comprato") C. BEBIO, che gli impose di tacere; e così il processo fu scandalosamente interrotto fra l'indignazione e le proteste del popolo.
Furono queste proteste che costrinsero il Senato, allo scopo di soffocare lo scandalo, a riesaminare il trattato concluso da CALPURNIO BESTIA e di accettare la proposta d'annullamento avanzata dal nuovo console SPURIO POSTUMIO ALBINO.
Ma anche lui non era uomo migliore degli altri. Avido di denari pure lui, sperava solo di trarre profitto da un mutamento nelle cose di Numidia e siccome conosceva un certo MASSIVA, figlio naturale di Gulussa, il quale allora si trovava a Roma e tramava per avere lui il regno se, come prevedeva- era sottratto a Giugurta, Postumio Albino, propose che proprio a Massiva fosse dato il regno della Numidia.
Giugurta seppe parare il colpo. L'imprudente Massiva, che si riteneva sicuro dal diabolico cugino, solo perché era dentro le mura ospitali di Roma, tratto in un tranello da BOMILCARE, segretario del re numida, fu assassinato.
Giugurta poi fuggì da Roma. Si narra che, uscendo dalla città, egli rivolgesse alla corrotta metropoli il seguente saluto: "Addio, Roma venale: tu perirai appena troverai un compratore".

Q. CECILIO METELLO IN AFRICA

Questa nuova atrocità, commessa dal crudele sovrano, nella stessa Roma non poteva rimanere impunita.
Il Senato dichiarò di nuovo la guerra a Giugurta e nel 110 inviò in Africa un forte esercito al comando del console POSTUMIO ALBINO, il patrocinatore di Massiva.
Un'impresa così difficile non poteva essere affidata a mani peggiori. Oltre che privo d'esperienza militare lui era bramoso di ricchezze. Infatti, condusse una guerra piuttosto insulsa e sospetta per l'esito; presso la fortezza di Sethul, invece di attaccarla, si arrese a Giugurta. Indubbiamente anche lui non rimase insensibile alle offerte del corruttore re numida.
Peggio di lui poi operò il fratello AULO POSTUMIO che gli successe nel comando quando dovette lasciar l'Africa per andare a presiedere a Roma i comizi consolari.

Ancora più avido del fratello, Aulo marciò pure lui sulla fortezza di Suthul, in cui sapeva che si ritrovavano i tesori del re, mettendola sotto assedio. Anche questa volta l'oro di Giugurta fece prodigi. Gli ufficiali di Postumio furono facilmente comprati dal monarca africano e l'esercito, attirato in un'insidia, fu di notte assalito dalle truppe di Giugurta e sbaragliato.

Alla sconfitta non mancò di aggiungersi la vergogna: rimasto con poche e malridotte schiere in balia del nemico, Aulo Postumio non esitò ad accettare le proposte di pace di Giugurta che gli impose di rinnovare il trattato di Calpurnio Bestia, di passare con i superstiti dell'esercito sotto il giogo e di impegnarsi ad abbandonare la Numidia (109 a.C.).
Quando giunse la notizia della sconfitta e dell'onta che aveva patito l'esercito, l'indignazione a Roma fu enorme; tutti avevano ben capito cos'era avvenuto in Africa. Il popolo si levò a tumulto e il tribuno C. MAMILIO LIMETANO chiese e pretese, di processare tutti coloro che avevano tradito il mandato loro affidato dalla repubblica ed avevano disonorato il nome romano.

Cercarono i grandi di opporsi alla rogazione del tribuno, temendo che il processo rivelasse altri nomi di persone compromesse, ma il popolo si fece più minaccioso, e molti nobili, temendo il peggio, si salvarono con la fuga. Compromesso più degli altri, il senatore EMILIO SCAURO finse di condividere l'indignazione del popolo e per salvare la propria posizione chiese d'essere lui il giudice dei colpevoli. Era il colmo!

A quel punto il Senato temendo il peggio, non si oppose più alla rogazione mamilia, e fu fatto il processo. Ne uscirono condannati all'esilio i consolari CALPURNIO BESTIA, C. CATONE, SPURO ALBINO, L. OPIMIO e il pontefice C. GALBA, poi siccome il popolo reclamava pure che la guerra in Numidia fosse condotta seriamente e con energia, il Senato annullò il vergognoso trattato di Postumio e affidò il comando dell'esercito al console QUINTO CECILIO METELLO, valente capitano e cittadino integerrimo, nobile di nascita ma di lunghe vedute e non ostile alla causa del popolo in cui egli vedeva esser riposti la forza e l'avvenire della repubblica.

Sceso in Africa nel 109 a.C., (coadiuvato da un valido ben presto Metello mostrò a Roma che non aveva scelto male il generale di quella guerra. Credeva Giugurta che il nuovo capo fosse uno dei tanti uomini corrotti che abbondavano nella metropoli d'Italia e ovviamente volle usare con lui la stessa tattica che gli era riuscita con gli altri.
Appena Metello giunse in Africa, il re numida si affrettò a mandargli ambasciatori con ricchi doni, proposte di pace e offerte d'amicizia; il console respinse sdegnosamente ogni cosa e cercò a sua volta, imitando l'astuto nemico, di corrompergli gli ufficiali.

Capitano molto esperto e nel medesimo tempo di grande prudenza, Metello avanzò nel territorio numidico con estrema circospezione per non cadere nelle insidie di cui per fama sapeva che Giugurta era maestro.
Il primo successo lo colse a Vacca, importante città, abitata da numerosi commercianti italici, e riuscì ad impadronirsene. Qui il console lasciò un notevole presidio, poi marciò risolutamente contro Giugurta e, giunto con lui a battaglia sulle rive del Muthul, lo sconfisse. Non furono queste le sole vittorie di Metello. Proseguendo nella sua marcia, costrinse alla resa altre città nemiche nonostante le astuzie, gli assalti improvvisi, la resistenza ostinata del nemico e la difficoltà dei luoghi.
Posto l'assedio a Zama, METELLO riuscì a corrompere BOMILCARE e a quel punto Giugurta fu costretto a chiedere la pace. Il console pose però durissime condizioni: pagamento di duecentomila libbre d'argento e consegna di tutti gli elefanti, dei disertori, di quasi tutti i cavalli e buona parte delle armi.
Giugurta accettò e la pace sarebbe stata conclusa se Metello non avesse preteso, dopo, la resa a discrezione del numida. Questi rifiutò, rispondendogli che lo scettro era assai meno grave delle catene, e la guerra ricominciò più aspra di prima.
Ma anche nella ripresa del conflitto la sorte premiò il valore delle legioni romane per l'accortezza e la perizia di Metello; la ricca città di Tala assalita con una forte determinatezza cadde in potere del console e Giugurta fu costretto a riparare nel territorio dei Getuli, dove chiese ed ottenne dal suocero BOCCO, re della Mauritania, l'appoggio del suo esercito per riuscire a riconquistare il regno che ormai stava perdendo.

METELLO si trovava accampato presso Cirta (108 a.C.) e qui marciavano gli eserciti dei due re africani quando inaspettata gli giunse da Roma la notizia che il popolo romano aveva conferito il comando dell'esercito e affidata la direzione della guerra d'Africa ad un altro capitano. Un suo subalterno che gli aveva concesso il permesso per recarsi a Roma per tentare di farsi nominare console.
Quella sostituzione suonava come un'offesa gravissima per Metello che tutt'altro trattamento meritava per avere fino allora condotta felicemente quasi al termine la guerra giugurtina. Pieno di sdegno e non volendo compromettere con una battaglia, di cui non poteva prevedere l'esito, l'opera sua, Metello avviò trattative con Bocco, poi, lasciato interamente il comando delle truppe al suo luogotenente P. RUTILIO RUFO, ritornò a Roma, dove il Senato, in riparazione del torto che era stato fatto al valoroso capitano, gli decretò il trionfo e gli conferì il titolo di Numidico.

CAIO MARIO

Il capitano destinato a sostituire Metello nel comando dell'esercito d'Africa era CAIO MARIO. Nato da oscura famiglia a Cereate, piccolo villaggio presso Arpino, aveva trascorso la prima giovinezza nella campagna, facendo l'agricoltore. Abituato alle più dure fatiche, di costumi semplici, sobrio e morigerato, Mario non pareva un uomo nato in tempi di tanta corruzione. Disprezzava il denaro e rimproverava il lusso e la vita disordinata e corrotta dei suoi contemporanei; ammiratore degli antichi Romani, stigmatizzava aspramente tutti coloro che seguivano le mode straniere, dicendo essere ridicolo un popolo che imitava gli usi ed apprendeva la lingua dei suoi schiavi. Era di carattere fiero e rude; non seguiva alcuna corrente politica per il suo spirito d'indipendenza, ma non nascondeva la simpatia per il popolo sano e forte ed era fieramente avverso alla nobiltà scioperata, oziosa, degenere, prepotente ed avida ed ai sacerdoti che considerava indegni ministri della religione dei padri.

Aveva partecipato all'assedio di Numanzia facendosi notare per l'amore alla disciplina, lo sprezzo dei pericoli e la grande bravura. Un aruspice uticense aveva detto di lui che sarebbe divenuto un uomo illustre e potente e Scipione Emiliano, che lo aveva avuto sotto di sé nell'esercito di Spagna, aveva altamente lodato i meriti del giovane soldato dicendo che soltanto Mario era degno di succedergli nel consolato.
Con l'aiuto di Quinto Cecilio Metello, CAJO MARIO era stato, nel 119, creato tribuno della plebe e trovandosi in tale carica si era acquistato improvvisamente il favore del popolo proponendo una legge che vietasse alle persone di sollecitare agli ingressi dell'assemblea i suffragi dagli elettori. Quelle La rogazione aveva suscitato l'ira dei nobili e il console Aurello Cotta lo aveva citato davanti ai senatori per dare spiegazioni intorno a quella proposta, che era come a voler mettere in dubbio il comportamento degli eletti. CAJO MARIO era comparso nella Curia più in veste d'accusatore che d'accusato e in quella circostanza il suo contegno fu così risoluto che la legge da lui proposta era stata approvata.

Se fosse stato meno rigido, la sua carriera politica sarebbe stata più rapida; Mario però non amava sacrificare alla popolarità le sue convinzioni ed ai successi che potevano ottenersi con la demagogia, preferiva le disapprovazioni pur di non venir meno ai suoi principi. Così una volta egli impedì che fosse fatta una distribuzione gratuita di grano al popolo, affermando coraggiosamente che non con l'elemosina andava combattuta la miseria ma col dare lavoro. Un uomo che non sollecitava favori, che non piegava mai la testa, che non si prestava ad alcun compromesso, che non veniva a patti con la propria coscienza, che per la sua imparzialità e rigidità si era messo in urto con le fazioni non poteva con facilità salire a quegli alti gradi di cui Scipione lo aveva proclamato degno.

Uscito dalla carica di tribuno, CAIO MARIO si era visto rifiutare l'edilità curule e solo dopo tre anni, nel 115, era riuscito a farsi eleggere pretore.
Mandato in Spagna dal Senato, aveva saputo con tale fermezza governare la Provincia Ulteriore che METELLO, chiamato al governo della guerra numidica, lo aveva voluto con sé con il grado di luogotenente. Mario aveva corrisposto alla fiducia che Metello aveva riposta in lui ed era stato il più prezioso collaboratore del console; infatti, con la sua sagacia e col suo valore era stato il principale artefice della vittoria del Muthul, dei successi di Zama e della conquista di non poche città del reame di Giugurta.
La consapevolezza della propria capacità e la fortuna da cui erano state coronate le sue imprese avevano fatto nascere in lui l'ambizione. Ammirava senza dubbio le qualità di Metello, ma era dell'avviso che se avesse avuto lui il comando dell'esercito con maggior celerità avrebbe condotta a termine la guerra.
Bramoso di diventare console, alla fine del 108 aveva chiesto a Metello una licenza per recarsi a Roma per presentarsi ai comizi delle elezioni consolari.
METELLO, superbo come tutti i nobili e un tantino geloso del suo subalterno, gli aveva rifiutato il congedo, attirandosi l'odio di Mario; questi però non si era dato per vinto e a furia d'insistere aveva ottenuto il desiderato permesso. Ma affinché Mario non avesse il tempo di procurarsi i voti lo aveva lasciato partire solo dodici giorni prima dei comizi.
Nonostante l'esiguità del tempo messo a sua disposizione e l'ostilità dei nobili, MARIO, molto noto a Roma per la fama delle sue imprese africane, ebbe i suffragi unanimi del popolo cui egli aveva promesso che se avesse avuto il governo della guerra l'avrebbe presto e vittoriosamente condotta a termine.
Nominato console per l'anno 107, contro la volontà del Senato che per quell'anno aveva già confermato Metello nel comando dell'esercito di Numidia, i comizi avevano conferito a Mario la direzione delle operazioni militari contro Giugurta.
Dopo la sua elezione Mario aveva rivolto al popolo un'orazione fiera e sdegnosa, piena d'aspri rimproveri contro la nobiltà smidollata ed oziosa che gli rinfacciava l'oscurità della nascita e la modesta fortuna ed alla quale egli rimproverava la viltà e l'infamia. "Imbelli, mangiati dall'orgoglio e rosi dalla superbia, i nobili si credono superiori agli altri e vantano a sazietà i loro inutili titoli e le glorie degli avi. Ma essi, nella vanità della loro stoltezza non vedono che la nobiltà risiede solamente nella virtù e non sanno che si deve stimare migliore quell'uomo che, con le sue opere lodevoli, si fa autore della propria fama, piuttosto che colui il quale insozza nell'ozio e nei vizi la gloria degli antenati. Seguano pure i nobili il malvagio genio che li guida; trascorrano la gioventù e la vecchiaia nelle intemperanze dei conviti. Altro essi non possono fare perché in tale stato sono ridotti che solo in questi bagordi essi possono appagare la loro volgare libidine. Non tolgano però il premio della virtù ai figli del popolo. Questi, tenendo in vil conto le mollezze e le effeminate eleganze, preferiscono le fatiche e la polvere delle battaglie e meglio di loro sanno governare e difendere la patria".

C'era tutto un programma politico nella breve e rude orazione di MARIO e il popolo, di cui lui aveva abbracciato il partito, aveva salutato in lui il suo campione.

FINE DELLA GUERRA GIUGURTINA

Prima di recarsi in Africa, CAJO MARIO raccolse una gran quantità di vettovaglie e riunì sotto le sue insegne numerose milizie. Per la prima volta chiamò sotto le armi oltre che i cittadini iscritti nelle classi, come sempre si era sempre fatto, i proletari, allo scopo di acquistarsi maggiormente il favore del popolo facendolo partecipe degli utili del bottino e alleviandone la miseria con la paga. Un grosso contingente di uomini e di cavalli lo fornirono i Latini e gli alleati italici.
Terminati i preparativi di guerra, alla fine della primavera del 107 a.C., Mario partì per l'Africa e, ricevuto dal luogotenente RUTILIO RUFO l'esercito di Metello, iniziò le Operazioni contro GIUGURTA e ROCCO.
Senza dubbio il suo predecessore (Metello) aveva fatto molto, ma non poco rimaneva da fare a Mario dopo che il sovrano di Numidia aveva ricevuto gli aiuti del re della Mauritania suo suocero. La guerra si presentava piena di difficoltà e Mario mise in opera tutta la sua strategia, tutta la sua consumata perizia e il suo valore personale.
Sapeva di essere console, capo e soldato insieme; non aveva l'alterigia di un nobile e i suoi modi erano tali che l'esercito, il quale lo teneva in altissimo conto di generale, gli divenne affezionatissimo, seguendolo ciecamente nelle imprese più rischiose.
Era instancabile e spietatamente energico. Piombava improvvisamente contro il nemico, ne sventava le insidie, lo cacciava dalle più difficili posizioni, conquistava paesi e città, preceduto dalla fama di uomo invincibile, incendiava le messi, distruggeva villaggi, era il terrore del nemico al quale non concedeva un giorno di tregua.
Nessun ostacolo lo arrestava, nessuna sfavorevole circostanza lo scoraggiava. La fortezza di Capsa, reputata imprendibile per la posizione in cui si trovava, fu da lui risolutamente assalita, costretta alla resa, conquistata; sorpreso una sera dal nemico mentre marciava con il suo esercito fu circondato sopra un'altura e, quando Giugurta credeva di averlo messo in trappola, Mario si lanciò con i suoi uomini con tale impeto contro le truppe africane che fu lui a mettere in difficoltà gli altri, che poi trovarono scampo nella fuga.

Militava nelle file del suo esercito con il grado di questore un giovane di appena trent'anni che doveva diventare il suo più grande avversario: LUCIO CORNELIO SILLA.
Quest'uomo discendeva da un ramo dell'illustre casa Cornelia ridotto in tristi condizioni finanziarie. Silla, seguendo l'esempio dei suoi padri, aveva trascorso la giovinezza fra le cortigiane e i conviti; la famosa cortigiana NICOPOLI, innamoratissima di lui, alla sua morte lo aveva lasciato erede dei suoi beni. Silla amava il lusso, l'eleganza e le raffinatezze; si profumava ed inanellava le chiome; vestiva secondo la moda greca, si dilettava degli studi latini ed ellenici. Fornito di vivace ingegno, non aveva voluto metterlo a profitto per migliorare la sua condizione, né l'astuzia, nella quale era insuperabile, che però non aveva mai messo a servizio della sua ambizione.
A trent'anni soltanto, versando in critiche condizioni economiche, si era deciso a conquistarsi una posizione ed aiutato dal nome, dalle aderenze e dai parenti, nel 107, aveva ottenuta facilmente la carica di questore.
Non poteva un uomo che aveva un simile passato essere bene accolto ad un generale come Mario, ma Silla fin dal primo giorno che era stato assegnato all'esercito d'Africa si era mostrato così attivo, volenteroso ed intelligente, e aveva poi fornito tante prove di coraggio e di saldezza che era entrato nelle buone grazie del console.
Si trovava Mario con il suo esercito accampato nelle vicinanze di Cirta che era una delle pochissime città non ancora conquistate. Qui fu combattuta tra i Romani e i due re collegati la battaglia decisiva, e si dovette al valore manifestato dal questore Silla se non riuscì fatale alle armi di Roma.

Sorpreso dal nemico, l'esercito romano si trovava in una situazione difficile, quando a renderla più grave comparve Giugurta, il quale, brandendo una spada insanguinata, andava gridando che aveva con quella ucciso Mario.
Quella notizia fece crescere la baldanza degli Africani ma provocò lo sgomento nelle schiere consolari, le quali, assalite duramente, tentennarono, e già i Mauri stavano per avvolgere un'ala dell'esercito romano e l'avrebbero sbaragliata se LUCIO CORNELIO SILLA non fosse prontamente intervenuto. Con una forte schiera piombò sul fianco dei Mauri ed arrestò con tutto l'impeto, l'urto nemico. L'intervento di Silla diede tempo a MARIO di accorrere con il resto delle truppe e rinfrancare con la sua presenza l'animo dei Romani, i quali, visto vivo il loro generale, cominciarono a combattere con tanta rinnovata energia, sconfissero il nemico procurandogli delle gravissime perdite, oltre che averlo messo in fuga.

Cirta, abbandonata dagli Africani, cadde così in potere del console.
La disfatta degli due alleati fu così grande che BOCCO giunse nella determinazione di abbandonare al suo destino il genero e inviò ambasciatori a MARIO per chiedere subito la pace.
Il re Bocco però voleva come premio la Numidia; MARIO gli concesse solo una tregua e inviò messi a Roma con le proposte del re; ma dal Senato fu risposto che la repubblica non poteva dare pace ed amicizia se prima Bocco non dimostrava con qualche utile servigio di meritarsela.
BOCCO capì che gli si chiedeva la testa di Giugurta e fece sapere a Mario che desiderava incontrarsi con un ufficiale romano. La scelta cadde sul questore SILLA; e lui in compagnia di Voluce, figlio di Bocco, attraversò gli accampamenti nemici, si recò presso il re della Mauritania e portò a compimento la delicatissima missione che gli era stata affidata.

E la seppe così bene fare la sua missione che con la sua eloquenza, persuase il barbaro re a tradire il genero che, attirato in un tranello, GIUGURTA fu catturato e consegnato a SILLA in catene.
Così ebbe fine la guerra giugurtina, che era durata sei anni, ed era stata piena di eventi lieti e tristi, vergognosi e gloriosi; aveva visto l'esercito della più potente nazione del mondo passare sotto il giogo fra gl'insulti di quei barbari tante volte sconfitti; aveva visto generali ed ufficiali ed ambasciatori romani comprati ignobilmente dall'oro numidico; aveva svelato la corruzione della nobiltà romana e suscitato lo sdegno del popolo; aveva assistito alla lotta sorda tra Metello e Mario; aveva visto sorgere la fortuna di due uomini che tanta gloria e tanti dolori dovevano procurare alla loro patria; ma alla fine aveva visto tramontare la stella del più astuto e del più spregiudicato re barbaro e svolgersi la trama del più nero tradimento.
Di questo regno la parte migliore fu unita alla provincia romana, la parte occidentale fu, secondo i patti, ceduta a Bocco, la parte orientale assegnata a Gauda, cugino di Giugurta, il resto fu diviso tra Jempsale e Jarba, nipoti di Massinissa.

Alla fine del 105, MARIO fece ritorno a Roma e il primo del gennaio del 104 celebrò il suo trionfo cui partecipò SILLA. Per l'occasione fu coniata una medaglia commemorativa. Grandioso fu il trionfo. Carico di catene e in compagnia dei figli, Giugurta seguì il carro del vincitore, ben esposto agli insulti del popolo che sfogò il suo sdegno ricoprendo di insulti colui che aveva gettato il fango sul nome romano; poi il vinto re fu buttato dentro in una buia cella nel terribile carcere Tulliano.
Si narra che gli avidi custodi si impossessarono dei suoi vestiti, poi gli mozzarono le orecchie per impadronirsi degli orecchini pendenti tempestati di ricchissime gemme; e si narra pure che, entrando così seminudo nel carcere, Giugurta esclamasse "Per Ercole! Questo bagno è molto freddo".
Oltre al freddo di gennaio, lo lasciarono pure a digiuno; una settimana dopo, l'ex re della Numidia moriva di fame.

Lasciamo per il momento, il trionfo sulla Numidia dell'anno 104, e torniamo indietro di qualche anno, nella Gallia Transalpina, che era -quella allora conosciuta- un importante territorio per le legioni romane che volevano procurarsi una via terrestre verso la Spagna. E una delle più importanti era quell'aerea che inizia dalla costa del Mediterraneo, da Massilia (Marsiglia) fino all'alto Rodano. Una via tracciata e già collaudata da Annibale e dal fratello Asdrubale, quando dalla Spagna si erano recati in Italia, varcando poi le Alpi.
Erano territori con fierissime popolazioni celtiche (dette poi galliche) che cominciavano a non vedere di buon occhio la comparsa dei Romani nei loro territori.
Ma i Romani in questo territorio, ci andarono quando una delle popolazioni, i Massilioti, assaliti dai Salluvi, i primi chiesero aiuto proprio ai Romani.
Questo non poteva bastare ai Romani; ma nel territorio non c'erano solo Massilioti e Salluvi, c'erano altre popolazioni, come gli Allobrogi, gli Averni, i Teutoni e i Cimbri.

Quindi dopo l'Africa, la Grecia, l'Illiria, e la Spagna, Roma si concentra e inizia la conquista della Gallia Transalpina.

Ed è nella prossima puntata che parleremo di queste campagne militari,
ripartendo da alcuni anni indietro..

…il periodo dall'anno 123 al 101 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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