ANNI 1241 - 1250

INNOCENZO IV - CONCILIO DI LIONE - FEDERICO: MORTE

ELEZIONE E MORTE DI CELESTINO IV - LA SANTA SEDE VACANTE - LOTTE FRA GUELFI E GHIBELLINI NELL' ITALIA SUPERIORE - GUERRE DI GENOVA - ELEZIONE DI INNOCENZO IV - TRATTATIVE TRA L' IMPERATORE E IL PONTEFICE - ASSEDIO DI VITERBO - NUOVE TRATTATIVE - FUGA D' INNOCENZO IV - CONCILIO DI LIONE: TERZA SCOMUNICA E DEPOSIZIONE DI FEDERICO II - GUERRA CIVILE IN GERMANIA - CONGIURE CONTRO FEDERICO NELL' ITALIA MERIDIONALE - ASSEDIO DI PARMA - MORTE DI PIER DELLE VIGNE - BATTAGLIA DI FOSSALTA E PRIGIONIA DI RE ENZO - MORTE DI FEDERICO II
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CELESTINO IV - VACANZA DELLA SANTA SEDE
INNOCENZO IV -

La morte di Gregorio IX - la fortuna per Federico andava e veniva- pareva che dovesse far finalmente cessare la guerra tra il Papato e l'Impero. Federico, forse per far credere che non contro la Chiesa aveva lottato, ma contro il Papa, posò le armi e andò ad accamparsi a Tivoli e per provare con i fatti di essere animato da intenzioni pacifiche mandò liberi a Roma, perché partecipassero al conclave, i due cardinali fatti prigionieri alla battaglia dell'isola del Giglio, facendosi però promettere - e la promessa fu mantenuta - che, dopo l'elezione, sarebbero tornati in prigione.
Da dieci soli cardinali era costituito il conclave, che avvenne nel Settizonio. Sembrava che lo scarso numero dei porporati dovesse render più sollecita l'elezione del nuovo Pontefice e invece non fu facile per mettersi d'accordo, perché alcuni sostenevano la scelta di un Papa moderato, altri, insistendo sull'opportunità di un Pontefice che continuasse la politica intransigente di Gregorio, proponevano che si eleggesse il cardinale ROMANO, vescovo di Porto, ostile a Federico II.
Dopo due mesi di discussioni, non potendo più tollerare la clausura del Settizonio, diventata insopportabile per il caldo e le malattie, i due partiti si accordarono, stabilendo di eleggere un Papa di transizione. La scelta cadde sul cardinale GOFFREDO da CASTIGLIONE, che prese il nome di CELESTINO IV ma che infermo com'era, lasciò il soglio, dopo pochissimi giorni della sua elezione: morì il 10 novembre del 1241, prima ancora di essere consacrato.

Rimasta nuovamente vacante la sedia apostolica, i cardinali, forse per timore di un secondo, più lungo conclave, forse per mostrare che la vicinanza dell'imperatore toglieva loro la libertà di decidere sulla scelta, abbandonarono Roma e si ritirarono una parte ad Anagni, e una parte nei loro castelli.
Per circa due anni la Santa Sede rimase senza Pontefice, e Roma restò in balia delle fazioni, delle quali la ghibellina dovette subire le persecuzioni feroci degli avversari che si rivolsero specialmente contro i Colonna.
Per ben due volte Federico II comparve davanti a Roma, devastando ville e poderi e sfogando la sua ira contro numerose proprietà dei suoi nemici; ma questo suo modo di fare, anziché intimorire i Romani a lui contrari, maggiormente li incitava, provocando altrettante rappresaglie.

Ma non solo a Roma. Questo è un periodo di feroci lotte intestine nel resto d'Italia: si riaccendono e ardono gli odi; nessuno più si cura degli interessi della propria città, ognuno pensa solo a far trionfare il proprio partito; Guelfi e Ghibellini si contendono la supremazia nelle città ed assistiamo a costanti e sanguinose lotte tra comune e comune.
Nella Marca Trevigiana, Ezzelino pareva che avesse inaugurato il regno del terrore. Si era con la sua audacia e con la sua ferocia reso così temuto che, nel gennaio del 1242, i guelfi PIETRO di MONTEBELLO ed UGUCCIONE PILEO di Vicenza gli si sottomisero e giurarono fedeltà all'imperatore. Nella primavera del 1243, recatosi a Padova, consegnò al carnefice, per sospetto di congiura, RANIERI BONELLI e fece morire, tra i supplizi ALMERICO de' TADI. Nè Ezzelino si accontentava di sbarazzarsi di tutti coloro che sospettava nemici: portava le armi fin oltre il Piave, saccheggiando le campagne degli avversari e tenendo sempre sul chi vive la repubblica di Venezia.

Nella Lombardia le milizie di Milano combattevano contro i Comaschi e i Cremonesi, quelle di Cremona contro i Bresciani. Genova, fedele alla causa guelfa, sosteneva le lotte che continuamente le muovevano i suoi numerosi nemici. Erano queste Alessandria, Tortona, Asti, Novara, Pavia, Cremona, Parma, Pisa, i signori della Lunigiana, i marchesi di Monferrato, di Ceva, del Carretto, del Bosco, i Malaspina, Savona, Albenga e parecchie altre città che si erano ribellate alla repubblica ligure, alle quali si aggiunse GUGLIELMO SPINOLA, costretto, dopo la perdita del suo castello di Ronco sulla Scrivia, a far causa comune con i ghibellini.
Queste lotte si protrassero con varie vicende fino al 1243, anno in cui finalmente Genova riuscì ad ottenere una pace dai marchesi di Monferrato, di Ceva, e del Carretto che ritornarono nelle file dei Guelfi.

Nella primavera di questo stesso anno, consigliati dal malcontento di tutta la cristianità per il soglio Papale vacante, i cardinali si riunirono in conclave ad Anagni e dopo brevi scambi di vedute, il 24 giugno 1243, elessero SINIBALDO dei FIESCHI che prese il nome di INNOCENZO IV (53 enne).

Apparteneva il nuovo Pontefice alla famiglia genovese dei conti di Lavagna, devota alla causa imperiale; ma i suoi sentimenti ghibellini si erano tramutati in guelfi dopo la rotta delle galee della sua città presso l'isola del Giglio. Il nome preso era, infatti, tutto un programma di non dubbio significato e, se si deve credere allo storico Galvano Flamma, all'annunzio dell'elezione Federico II esclamò: "Perdidi bonum amicum quia nullus papa potest esse ghibelinus".

Il mondo era convinto che, assunto al trono il nuovo Pontefice, dovesse avvenire la pacificazione tra il Papato e l'Impero; ma s'ingannava; assistiamo ad una abile schermaglia tra le due maggiori autorità per acquistar tempo e lasciar che la situazione cambiasse a proprio vantaggio.

Federico si mostra animato dalla migliore volontà di pace; al Pontefice scrive:
"Il nome d' Innocenzo vi fu dal Cielo destinato ad indicare che per Voi ciò che è nocivo scomparirà e sarà mantenuta l'innocenza"; in Germania, annunciando il fausto evento, fa sapere prossima la riconciliazione, e in tutte le chiese del regno ordina che sia cantato il Te Deum; inoltre invia ad Anagni una delegazione per confermare al Papa la sua devozione alla Chiesa. Della rappresentanza facevano parte il gran cancelliere PIER delle VIGNE, il celebre giureconsulto TADDEO di SESSA, il genovese ANSALDO de' MARI ammiraglio di Sicilia, e GERARDO di MALBERG, gran maestro dell'Ordine Teutonico. Essi avevano anche l'incarico di iniziare trattative di pace e di proporre il matrimonio di Tina nipote del Pontefice e Corrado, figlio ed erede dell'imperatore.

Il Papa non poteva rifiutarsi di iniziare i negoziati, ma le sue richieste mostrarono subito come era difficile che giungessero a dare buoni risultati. Innocenzo IV chiedeva che l'imperatore liberasse i prigionieri; restituisse subito tutti i beni che aveva portati via alla Chiesa; che concedesse amnistia e pace a tutti i fautori ed alleati della Santa Sede; che accettasse di sottomettere ad un concilio di grandi laici ed ecclesiastici la decisione delle vertenza che Federico aveva con la Chiesa.
Accettati questi patti, sarebbe stato assolto dalla scomunica. Ma, per Federico, accettarli voleva dire rinunciare al suo programma politico ed abbattere il prestigio della monarchia non solo di fronte al Papato ma anche di fronte ai Comuni; pertanto rifiutò e chiese a sua volta che il Pontefice richiamasse il legato che nella Lombardia predicava la guerra contro di lui. Quanto ai beni ecclesiastici occupati, proponeva di restituirli ma voleva che la Santa Sede glieli ritornasse sotto forma di feudi.
Sebbene i punti di vista delle due parti non erano proprio per nulla conciliabili le trattative continuarono; ma il Pontefice non si asteneva dal commettere azioni ostili all'imperatore: nell'ottobre del 1243 esortava i Lombardi a continuare la guerra; a Bertoldo di Aquileia che aveva spedito truppe contro Treviso inviava aspri rimproveri e, per mezzo del vescovo, riusciva a fare insorgere Viterbo contro Federico II.

"Per domare la città ribelle, che dal Pontefice aveva ricevuto grosse somme, e liberare il presidio imperiale ridotto a mal partito, l'imperatore con un buon gruppo di milizie mosse contro Viterbo, che fu assalita il 10 novembre. I Viterbesi però resistettero nel modo migliore e quando si decise a ritirare la guarnigione, questa, nonostante la libera uscita concessa dagli abitanti, fu proditoriamente assalita e in gran parte massacrata.
Ce n'era d'avanzo perché la guerra ricominciasse con maggiore violenza, eppure nemmeno allora il mondo disperò della pace, anzi sembrò molto vicina. Il 31 marzo del 1244, alla presenza del Pontefice, di Baldovino imperatore di Costantinopoli, del senatore di Roma e di numerosi prelati, i plenipotenziari imperiali Pier delle Vigne e Taddeo di Sessa sottoscrivevano un trattato con il quale Papa ed Imperatore perdonavano reciprocamente ai sostenitori della Chiesa e dell'Impero, e Federico si obbligava di rimettere in libertà i prigionieri, di annullare le confische, di restituire le terre sottratte alla Santa Sede, accettando la mediazione di Innocenzo nella contesa con i comuni lombardi.

"Le condizioni contemplate dal trattato non dovevano però aver mai esecuzione; né l'imperatore né il Pontefice avevano interesse di eseguirle e l'uno e l'altro non pensavano che a prendere tempo per mettere in atto i loro disegni. Scopo di Innocenzo IV era quello di ridare al Papato la supremazia sull'Impero, servendosi, per raggiungere questo fine, delle armi dei comuni italiani e del favore dei principi cristiani. Per continuare però efficacemente la lotta gli occorreva libertà d'azione e sicurezza assoluta, cose che non aveva a disposizione rimanendo in Roma, insidiato dalle soldatesche imperiali padrone di quasi tutta la campagna romana di quasi tutta la campagna.
Decise di recarsi in un luogo sicuro, poi riacquistata tutta la libertà personale, in grado di poter convocare un concilio generale e far valere in Europa la supremazia della Chiesa sull'Impero. Inviò un francescano, di nome BAIOLO, a Genova, chiedendo ai suoi concittadini che lo aiutassero a fuggire da Roma e gli concedessero asilo nella sua patria. Quando seppe che ventidue galee genovesi erano giunte a Civitavecchia, Innocenzo IV che si trovava a Sutri, dove si era recato con il pretesto di avvicinarsi a Federico, allora a Pisa per concludere della pace, la notte del 27 giugno del 1244, rivestito delle sue armi e accompagnato da pochi uomini fidati, cavalcò con grande velocità verso Civitavecchia dove giunse all'alba

"Innocenzo trovò sulle galee genovesi il podestà stesso e tre conti del Fiesco, poi i nipoti, venuti ad incontrarlo. Ogni galea aveva sessanta soldati e centoquattro marinai; e tutta la flotta era predisposta per una salda difesa nel caso che fosse assalita; ma il podestà riponeva la sua maggior fiducia nel profondo segreto conservatosi intorno a questa spedizione, di cui non si era data notizia ad altri che al "Consiglio di credenza". Si trattava infatti di attraversare quello stesso mare dove tre anni prima erano stati fatti prigionieri i prelati francesi, che, portati da un'altra flotta genovese, andavano al Concilio.

"Federico come già detto era a Pisa, e nel precedente anno i Pisani con ottanta galee e cinquantacinque di quelle dell'imperatore erano andati ad oltraggiare Genova.
Innocenzo non si trattenne a Civitavecchia più di ventiquattr'ore, per dar tempo ad alcuni cardinali di raggiungerlo, e quindi con il favore di un vento favorevole passò senza incontrare nessun ostacolo tra l'isola del Giglio e la Meloria, tanto funeste al suo partito, éd arrivò in cinque giorni a Portovenere, e di là, dopo cinque altri giorni, entrò trionfante a Genova in mezzo alle acclamazioni dei suoi concittadini; le galee erano adorne di drappi d'oro e tutta la città fu partecipe della gioia di Innocenzo, vedendolo fuori di pericolo (Sismondi)".

Quando l'imperatore venne a sapere della fuga di Innocenzo, gli mandò a Genova il conte di Tolosa con nuove proposte; ma queste non furono accolte. Il Pontefice, allora infermo, ospite del convento di S. Andrea, già pensava di recarsi in Lione, città che, per la sua posizione e per la libertà di cui godeva, si prestava benissimo ad esser sede del concilio.

CONCILIO DI LIONE

Innocenzo, dopo alcuni mesi di dimora in Genova, si rimise in viaggio e, attraversati i territori dei marchesi del Carretto e di Monferrato, di Asti e del conte dà Savoia, attraverso il passo del Moncenisio, giunse il 2 dicembre del 1244 a Lione e nel gennaio dell'anno successivo, con un'enciclica indirizzata ai re, ai principi, ai prelati e ai capi di tutti gli ordini religiosi, indisse un concilio da tenersi per la festa di San Giovanni.

Il concilio fu aperto il 28 giugno del 1245 nel monastero di San Giusto e vi parteciparono centocinquanta vescovi, in gran parte della Francia, della Spagna e dell'Inghilterra. Pochi erano quelli dell'Italia e della Germania. Erano presenti al concilio alcuni legati imperiali tra cui figuravano Pier delle Vigne e Taddeo di Sessa.
Nel discorso inaugurale Innocenzo IV dichiarò che da cinque dolori egli era in special modo afflitto: dalla decadenza morale dell'alto clero, dell'invadenza dell'Islamismo, dello scisma greco, dall'invasione mongola e dall'ostilità alla chiesa di Federico II.
Rivoltosi all'assemblea, dopo aver paragonati i suoi dolori alle ferite di Gesù Cristo, pronunciò le parole di Geremia: "O voi che passate, volgetevi dunque e guardate se vi sia sofferenza eguale al dolore da cui sono stato colpito", quindi si soffermò a parlare delle colpe dell'imperatore e delle persecuzioni con le quali lui affliggeva la Chiesa.

In difesa del monarca si levò il famoso TADDEO di SESSA, il quale ribatté una dopo l'altra tutte le accuse mosse al suo sovrano nel cui nome rinnovò le proposte di pace: promise l'immediata restituzione dei beni ecclesiastici e il risarcimento dei danni patiti dalla Chiesa e, in cambio dell'assoluzione, dichiarò che l'imperatore era pronto a marciare con tutte le sue forze contro i Mongoli, a liberare la Terrasanta e a difendere l'impero latino di Bisanzio.
E quando il Pontefice domandò quali garanzie poteva dare di tante promesse, Taddeo fece i nomi dei re di Francia e d'Inghilterra; ma Innocenzo IV rispose che non voleva come garanti gli amici della Chiesa perché correva il rischio di farseli diventare nemici se l'imperatore, com'era abituato, avesse mancato alle promesse.

La seconda seduta del concilio si tenne il 5 luglio 1245. Il Pontefice con maggiore accanimento rinnovò le accuse contro il monarca, rimproverandogli specialmente la fondazione della città saracena di Lucera, i commerci che lui aveva con i paesi arabi, i rapporti che teneva con i dotti musulmani, ed infine, se la prendeva pure con quelle donne saracene che erano addette al servizio della corte.
Anche questa volta Taddeo di Sessa fece un'appassionata difesa dell'imperatore; non solo confutò ad una ad una, le accuse, ma ne rivolse alcune contro lo stesso Pontefice, citando le promesse papali non mantenute ed affermando che il commercio con i musulmani era meno censurabile della tolleranza accordata a Roma ad usurai ed ebrei.

Ma l'abile difesa del giurista imperiale era destinata a rimanere sterile di risultati in un concilio in gran parte decisamente ostile a Federico. Taddeo di Sessa, che non ignorava i sentimenti degli intervenuti, cercò di ritardare le decisioni conciliari chiedendo che fosse accordato all'imperatore un termine sufficiente per poter dare ai suoi rappresentanti nuove istruzioni o presentarsi egli stesso all'assemblea.
I legati dei re di Francia e d'Inghilterra appoggiarono caldamente la richiesta del giureconculto e fu accordata a Federico una dilazione di dodici giorni, fissandosi per il 17 luglio 1245 la terza sessione.

L'imperatore si trovava allora a Torino e qui ricevette notizia di quanto si era detto e stabilito a Lione. Comprendendo che la sua presenza non avrebbe per nulla cambiato gli umori dell'assemblea, mandò a Lione GUALTIERO D'OCRA, il vescovo di Frisinga e il gran maestro dell'Ordine Teutonico, ma non giunsero a tempo per partecipare alla terza seduta.
Questa avvenne nel giorno stabilito. Taddeo, appoggiato dagli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra, chiese ancora tre giorni di proroga; ma non furono concessi; allora il giureconsulto imperiale dichiarò incompetente a decidere quel concilio, in cui molti vescovi erano assenti e non avevano mandato i loro procuratori; quel concilio al quale la maggior parte dei sovrani cristiani non avevano inviato i loro ambasciatori; quel concilio in cui i più degli intervenuti erano mossi da partigianeria.
Né a questa dichiarazione si limitò Taddeo: egli osò appellarsi ad un concilio che fosse veramente generale ed imparziale e ad un futuro Pontefice animato da sentimenti più equi.
Fra i prelati solo il patriarca di Aquileia ardì levare la sua voce, affermando che due non una soltanto erano le colonne che sostenevano il mondo; ma il Pontefice, indignato, lo minaccio di togliergli l'anello.

TERZA SCOMUNICA E DEPOSIZIONE DI FEDERICO II

Dopo fu letta la sentenza già preparata prima, nella quale si rinnovavano contro Federico le accuse d'infedeltà alla Santa Sede, di cui -precisavano- come Re della Sicilia lui era solo un vassallo; violazione dei trattati altre volte stipulati con la Curia; di sacrilegio; di tirannide e di eresia.
La sentenza si chiudeva con queste parole:

"Noi dunque, che, sebbene indegni, rappresentiamo in terra Nostro Signore Gesù Cristo; noi, ai quali nella persona di S. Pietro furono rivolte queste parole: "tutto ciò che avrete legato in terra sarà legato in Cielo"; noi, insieme con i cardinali nostri fratelli e con il sacro Concilio, abbiamo deliberato intorno a questo principe che si è reso indegno dell'impero, dei suoi regni e di ogni onore e dignità. Per i suoi delitti e per le sue iniquità Dio lo respinge e più non tollera che sia re o imperatore. Noi facciamo soltanto conoscere e denunciamo che, a motivo dei suoi peccati, è respinto da Dio, è privato dal Signore di qualsiasi onore e dignità, e frattanto anche noi di ciò lo priviamo con la nostra sentenza.
Tutti quelli che sono legati a lui da giuramento di fedeltà sono da noi in perpetuo sciolti e resi liberi da tale giuramento; e noi vietiamo loro espressamente ed assolutamente con la nostra apostolica autorità di prestargli obbedienza come imperatore o re o per qualunque altro titolo da lui preteso. Coloro che l'aiuteranno o favoriranno come imperatore o re, incorreranno ipso facto nella scomunica. Quelli cui nell'impero spetta l'elezione dell'imperatore eleggano pure liberamente il successore di questo; riguardo al regno di Sicilia, sarà nostra cura provvedervi e nel modo più conveniente con il consiglio dei cardinali nostri fratelli".

Quando il Pontefice ebbe pronunziata la sentenza di scomunica e deposizione e i cardinali, ripetutala, ebbero rivolti a terra i ceri che tenevano in mano accesi, Taddeo di Sessa, percuotendosi il petto, gridò:
"Questo è il giorno della collera, delle calamità e della sciagura ! Or gioiranno gli eretici, non avranno più freno i Carismìi e d'ogni parte irromperanno le orde mongoliche !". Ed uscì dal concilio.
"Ho fatto il mio dovere. Dio provveda al resto secondo la Sua volontà", rispose Innocenzo IV intonando Te Deum mentre le campane di Lione suonavano a distesa.
"Il concilio era finito. Esso - scrive il Grogorovius - diede il colpo fatale all'antico impero germanico; ma la Chiesa n'ebbe in pari tempo bruciata la mano dal suo proprio fulgore. I due princìpi, che erano stati fin qui i motori della civiltà, dell'autocrazia imperiale e della teocrazia papale, cedono il posto ad altri princìpi più consoni all'indipendenza ed alla libertà delle nazioni.
Il papato continuerà ancora a comandare alle anime, però alla condizione che esso abbandoni le antiche velleità d'imperare anche sui re e sulle nazioni".

GUERRA CIVILE IN GERMANIA - - MORTE DI FEDERICO II

Lo storico Matteo Paris narra che Federico II, quando ebbe notizia della sentenza di Lione, esclamò: "Questo Pontefice mi ha dunque tolta la corona ! Dove sono i miei gioielli? Mi si rechino subito !". E fatto aprire lo scrigno che conteneva le sue corone, ne prese una e se la pose in capo, dicendo minacciosamente: "No; la mia corona non è ancora perduta; né gli attacchi del Papa né i decreti del concilio hanno potuto levarmela. Ed io non la perderò senza Spargimento di sangue".
E sangue fu sparso; ma l'imperatore non ne ricavò vantaggio.

Le conseguenze della sentenza di Lione furono disastrose per Federico, sia in Germania sia in Italia. In Germania i suoi non pochi avversari, quelli stessi che parecchi anni prima avevano incitato il figlio Enrico alla ribellione, indignati contro il sovrano per aver lasciato il regno esposto alle minacce dei Mongoli, sotto la guida di SIGFRIDO di EPPENSTEIN, arcivescovo di Magonza, proclamarono re, nel maggio del 1245, il langravio di Turingia ENRICO RASPE. Morto questi il 12 febbraio del 1247, gli fu dato come successore il conte GUGLIELMO d' OLANDA, contro il quale il re Corrado (il figlio di Federico) lottò accanitamente per difendere la sua corona e ridare pace alla Germania dilaniata dalla guerra civile.

ASSEDIO DI PARMA

In Italia la cose andarono peggio: una spedizione di Federico contro i Milanesi ebbe esito infelice; da Reggio, insorta per opera di una fazione capeggiata da un nipote del Papa appartenente alla famiglia dei FOGLIANI, fu cacciato re ENZO; Parma, fino allora fedele all'imperatore, gli si ribellò per istigazione di un BERNARDO dei ROSSI, cognato del Pontefice. Erano queste le prime battute della ripresa della lotta. Federico II si trovava a Pavia quando seppe dei moti di Parma. Premendogli di mantenere la sua sovranità sulla città ribelle, vi piombò improvvisamente con le sue milizie, ne cacciò Bernardo dei Rossi e vi creò podestà il pugliese TEBALDO FRANCESCHI.
"Non contento - scrive il Sismondi - di suscitare nemici a Federico nelle città, lombarde, animandole a difendere contro di lui la propria libertà, il Papa tentava di ribellargli i suoi sudditi delle due Sicilie, ai quali spediva due cardinali con lettere indirizzate al clero, alla nobiltà ed al popolo delle città e delle campagne.
"Si meravigliano molti - diceva a loro il Papa nelle lettere- che, oppressi come siete da vergognosa servitù ed aggravati nella persona e nei beni, abbiate trascurato di procacciarvi in qualunque modo, come hanno fatto le altre nazioni, le dolcezze della libertà. Ma la Santa Sede vi ha scusati, vedendo il terrore che sembra ormai essersi impadronito il vostro cuore sotto il giogo di un nuovo Nerone e, per voi sentendo pietà e paterno affetto, pensa agli aiuti che possano recare sollievo alle vostre pene o forse anche procurarvi il bene di un assoluto affrancamento .... Cercate dal canto vostro come potreste rompere le catene della schiavitù, e far fiorire nel vostro Comune la libertà e la pace. Si sparga una volta tra le nazioni la voce che il vostro regno, così famoso per la sua nobiltà e per l'abbondanza dei suoi prodotti, ha potuto, con l'aiuto della Divina Provvidenza, unire a tanti vantaggi anche quelli di una stabile libertà".

"Un certo che di nobile e liberale -aggiunge ancora il Sismondi- ispirano i concetti di questa lettera, ma ci fa rimanere dubbiosi intorno alla giustizia della causa del Pontefice e dei Guelfi e allo scopo che si proponevano. Ma quand'anche la libertà, e non una sregolata indipendenza, fosse stato effettivamente il desiderio dei Pugliesi e dei Siciliani ribellati, furono certo indegni di una così nobile causa per i modi utilizzati per acquistarla, restringendosi a vili cospirazioni, nelle quali presero parte perfino i primi amici e confidenti di Federico.
I due figliuoli del gran giustiziere DI MORRA, tutti i SANSEVERINI e i tre fratelli della FASANELLA e molti altri avevano nel 1244 cospirato con i Frati Minori per uccidere a tradimento il proprio principe.
Federico aveva, dietro i primi sospetti di questa congiura, fatto imprigionare molti frati nell'istante medesimo in cui il Papa fuggiva da Roma. Ciononostante la sentenza del Sinodo e l'esortazione dei cardinali legati, riaccesero la solita congiura, che avrebbe facilmente avuto attuazione se uno dei complici, GIOVANNI di PRESENZANO, angosciato dai rimorsi, non rivelava il segreto a Federico. Quando seppero imprigionati alcuni dei loro compagni, i Di Morra, ed i Fasanella si salvarono nello stato del Papa, altri s'impadronirono delle rocche di Capaccio e della Scala, dove furono stretti e presi dopo lungo assedio. Un solo fanciullo della casa Sanseverino fu salvato da un domestico della famiglia. Quasi tutti i congiurati, condannati a pena capitale, rivelarono prima di morire che il Papa era partecipe della loro congiura.
Innocenzo non solo non smentì la parte avuta nella congiura, che si ricollegava a precisi disegni politici d'invasione del Regno, e nell'aprile stesso scrisse a tutti che presto sarebbero stati liberati dal loro Nerone e che quest'opera di redenzione sarebbe stata fatta dai nobili del Regno.

L'imperatore, dando notizia di quest'ignobile macchinazione a tutti i re e principi d'Europa con una lettera circolare, che forse fu l'ultima scritta da PIER delle VIGNE, la chiude con queste gravi parole:
"Chiamiamo a testimonio il Giudice Supremo che non senza vergogna abbiamo ciò palesato, perché non avremmo creduto mai di dover vedere o sentire attestato simile delitto; non avremmo pensato mai che i nostri amici, i nostri Pontefici, ci volessero vittima di così cruda morte. Lungi da noi per sempre tanta abominazione ! Lo sa Iddio che, dopo l'iniqua procedura dal Papa intentata contro di noi nel concilio di Lione, non abbiamo mai voluto acconsentire alla sua morte o a quella di alcuno dei suoi fratelli, quantunque caldamente richiesti da persone zelanti del nostro servigio; limitandoci a confutare le ingiurie e a difenderci dagli altrui attentati con la giustizia e non con le vendette".

Questi ultimi avvenimenti, la mediazione inutilmente chiesta a LUIGI IX di Francia e i vani tentativi fatti di farsi assolvere dalla scomunica fecero comprendere a Federico II che l'unico mezzo per risolvere la contesa col Pontefice era rappresentato dalle armi. Oramai, data l'ostinazione di Innocenzo IV che voleva ad ogni costo abbattere la casa Sveva, era in gioco la stessa esistenza della dinastia degli Hohenstaufen.
Federico - scrivono - tentò un gran colpo: marciare su Lione e costringere il Pontefice alla pace. Di là sarebbe andato in Germania dove aveva convocato una dieta per il 24 giugno del 1247.
Aveva fatto spargere la voce (lui o lo credevano gli altri) che si recasse a Lione per umiliarsi davanti al Papa e purgarsi delle gravi accuse di miscredenza e di eresia che gli erano state mosse. Con un esercito raccolto nell'Italia meridionale Federico si mosse dalla Puglia, e attraverso la Toscana e la Lombardia, si recò nel Piemonte. Ma quando fu a Torino una gravissima notizia gli giunse che, gli fece cambiare i piani: Parma si era nuovamente ribellata.
Artefici della rivolta erano state tre famiglie, quelle dei ROSSI, dei LUPI e dei CORREGGESCHI, congiunte del Pontefice, le quali per avere abbracciato il partito guelfo avevano abbandonato la città rifugiandosi con altri fuorusciti a Piacenza, lasciando a Parma alcuni magniloquenti frati predicatori per incitare il popolo alla sedizione.

Il 16 giugno del 1247 tutti i fuorusciti parmensi, comandati da GHERARDO da Correggio, erano avanzati fino al Taro presso il quale era andato loro incontro con un corpo di nobili e popolani il podestà imperiale ENRICO TESTA. Ma abbandonato da non pochi dei suoi uomini che segretamente erano d'accordo con i Guelfi, il podestà era stato sconfitto, lasciando la vita sul campo cosicché i Guelfi si erano impadroniti di Parma ed avevano nominato podestà lo stesso Gherardo da Correggio.
ENZO, figlio di Federico e re di Sardegna, assediava in quei giorni Quinzano, nei dintorni di Brescia. Avuta la notizia della ribellione di Parma, bruciò le macchine da guerra, tolse l'assedio, e si affrettò verso il Taro sperando di sottomettere i ribelli. Qui fu raggiunto dall'imperatore. Deciso di riconquistare ad ogni costo Parma che in mano al nemico minacciava di tagliargli le comunicazioni con la Lunigiana e la Toscana, partito da Torino, vi era giunto con il suo esercito ingrossato a Cremona da un corpo di milizie di Ezzelino.
Ma per tentare un colpo di mano era troppo tardi: Parma aveva avuto il tempo di rafforzarsi e di provvedersi di vettovaglie; il legato pontificio GREGORIO di MONTELUNGO vi si era chiuso con mille e seicento soldati di Milano e Piacenza e rinforzi aveva inviato da Mantova il conte di San Bonifacio, il quale con un altro gruppo di Mantovani invadeva il territorio di Cremona per costringere i Cremonesi che militavano con Federico a lasciar le insegne imperiali per correre in difesa della loro città; mentre il marchese d'Este correva in aiuto di Parma con un corpo di Ferraresi.

Federico pose il suo campo ad occidente della città e intanto il suo esercito s'ingrossava ogni giorno di più con dei nuovi rinforzi.
"Erano giunti - citiamo ancora il Sismondi - dalla Puglia molti Saraceni a piedi ed a cavallo; Ezzelino da Romano vi era arrivato con le milizie di Padova, di Verona, di Vicenza; i Ghibellini accorrevano da tutte le città d'Italia sotto le bandiere di Federico; pareva che la guerra dovesse riaccendersi con maggior forza dopo essere stata per lungo tempo sopita; ma sia che le forze ghibelline non fossero tali da poter impedire ai nemici di battere la campagna, o che a Federico mancassero le macchine per l'assedio, fatto è che né diede l'assalto alle mura, né venne a battaglia con Bianchino di Camino ed Alberico da Romano, i quali con dei gruppi guelfi si erano trincerati nella parte settentrionale di Parma sull'altra riva del Po.

"Tutte le fazioni in questa campagna militare si ridussero ad alcune scaramucce con i Saraceni i quali cercavano d'impedire che fosse vettovagliata la città, oltre a impadronirsi uno dopo l'altro dei castelli del territorio parmigiano, tranne Colorno. Sistematicamente li distrussero, in modo che squadre di soldati guelfi, quando tentavano delle sortite, nel percorrere le campagne, non trovavano nulla da portare in città, onde i cittadini cominciavano a soffrire la fame ed i viveri si vendevano a carissimo prezzo".

Adirato per la resistenza che opponevano i Parmigiani, Federico II tentò d'intimorirli e piegarli con atti di ferocia simili a quelli commessi dall'avo Barbarossa sotto le mura di Crema. Aveva con sé quasi mille ostaggi di Parma: nella speranza di far cedere gli assediati, organizzò lo "spettacolo": fece decapitare nel prato di Flazano, davanti le mura, quattro di questi ostaggi dichiarando che ogni giorno n'avrebbe fatti uccidere altrettanti fino a che la città non si fosse arresa. Però né gli assediati per questa minacce si sbigottirono né Federico riuscì a continuare gli "spettacoli", perché i Parmigiani furono tenuti all'oscuro delle minacce imperiali da severe disposizioni impartite dai capi e d'altro canto i Pavesi ghibellini che militavano nelle file di Federico lo invitarono a smettere quelle esecuzioni, dicendogli "Noi siamo venuti per combattere contro i Parmigiani con le armi non per fare i carnefici.

Avvicinandosi l'inverno e non accennando a finire la resistenza, l'imperatore che non voleva allontanarsi dalla città assediata e nel medesimo tempo voleva dare al suo esercito quartieri invernali più comodi e sicuri, fece costruire ad occidente di Parma un campo trincerato lungo un miglio, lo munì di bastioni di terra e di palizzate, lo circondò di larghi fossati in cui immise l'acqua di un canale detto naviglio e lo dotò di ponti levatoi. Con il materiale dei villaggi distrutti, fece edificare case, un mercato, chiese, cinque larghe strade e un palazzo; vi mise la sua corte, e affermò di volervi trasferire la popolazione di Parma dopo aver conquistato la città e subito distrutta. La nuova città ebbe il nome augurale di "Vittoria".
Ma il nome non portò fortuna al campo trincerato, la cui guarnigione, durante l'inverno, si era alquanto assottigliata per essersi molti capi ghibellini ritirati con le milizie nelle loro città. Correva il febbraio del 1248. I Parmigiani, ridotti alle strette, tentarono un colpo disperato. Il 18 di quel mese, approfittando dell'assenza di Federico che era andato nelle vicinanze a cacciare con il falcone, gli abitanti della città assediata, usciti in massa, come una furia assalirono improvvisamente Vittoria e dopo una breve mischia ma accanita se ne resero padroni.
Perirono nella disperata lotta molti illustri personaggi, come il marchese LANCIA e TADDEO di SESSA che cadde da eroe con le armi in pugno. Del corpo del famoso giureconsulto i Parmigiani fecero uno scempio, perché credevano che Taddeo avesse consigliato al suo sovrano gli atti di crudeltà commessi contro gli ostaggi.

Le cronache fanno ascendere a circa duemila i morti dell'esercito imperiale e a circa tremila i prigionieri. Immenso fu il bottino che cadde nelle mani dei vincitori: armi e macchine da guerra in abbondanza, il carroccio cremonese, la cassa imperiale contenente molto denaro, gioielli, vasi preziosi, le corone e il suggello dell'imperatore. Vittoria fu poi data alle fiamme.
Ai bagliori dell'incendio accorse Federico; ma era troppo tardi; i resti del suo esercito era in fuga e da questo fu quasi travolto lui stesso fin dentro le mura di Cremona.
La vittoria dei Parmigiani vendicò la giornata di Cortenuova ed abbatté per sempre la potenza di Federico nell'Italia settentrionale, offrendo animo ai Guelfi, che ripresero la lotta con maggiore accanimento nella primavera del 1248.

Nonostante le numerose forze raccolte e qualche successo ottenuto da Enzo, non fu più possibile all'Imperatore avere il sopravvento sui suoi nemici. La lunga permanenza dell'imperatore a Cremona e poi a Vercelli, - scrive il Lanzani - senza che la Lega lombarda fosse disturbata, mostra come Federico non poteva fare più assegnamento sulle forze disperse della sua fazione. Infatti, Pavia e Cremona a mala pena tenevano a freno Milano, Piacenza e Brescia, la quale ricuperava la terra di Pontevico.
Nel Piemonte l'imperatore aveva sempre come alleato il conte di Savoia, e Vercelli, staccatosi dalla Lega, dava asilo alla corte dello Svevo; ma perseverava nella ribellione il potente marchese di Monferrato, e la fedeltà del Carretto e del Pelavicino non controbilanciava l'ostinata inimicizia dei Genovesi e la defezione del Malaspina. Ezzelino teneva alta la bandiera ghibellina e con sempre più efferata tirannide raffermava la propria signoria dall'Adige al Brenta: ed era così temuto il suo nome che, allorquando il Pontefice si decise a scagliare direttamente contro di lui la scomunica, nella quale era già incorso con il suo Signore, non vi fu neppure un ecclesiastico che ardisse pubblicarla nei luoghi da lui dominati.
Ma quale fiducia poteva ispirare all'imperatore quel violento che, in quell'anno stesso, mentre continuava spietatamente la guerra contro i nemici dell'impero nella marca Trevigiana, scacciava il governatore ed il presidio imperiale dalla terra di Monselice?

Dopo la cacciata dei Guelfi da Firenze, era ghibellina la maggioranza della città toscane; ma anche la Toscana era sempre un terreno disputato; nei loro castelli del contado i fuorusciti fiorentini avevano ripreso forza e ardimento; a Montevarchi fu da loro assalita e distrutta una compagnia di ottocento cavalieri tedeschi comandata dal conto Giordano.
Assoluta fu, dopo i fatti di Parma, la prevalenza dei Guelfi nella Romagna. A capitanarli si era recato a Bologna il cardinale OTTAVIANO degli UBALDINI, il quale in breve tempo recuperò alla lega romagnola i suoi antichi baluardi, Faenza e Ravenna, e vi fece poi entrare per forza o per amore Imola, Forlì, Forlimpopoli, Cervia, Cesena.
Reggio e Modena appena bastavano alla propria difesa: Modena aveva perduto le terre di Nonantola, San Cesario e Panzano; da un momento all'altro poteva toccare la stessa sorte a Ferrara. Nel resto dell'Italia centrale le popolazioni erano dai fatti ampiamente incoraggiate alla riscossa, alla crociata contro i predoni d'Alemagna o di Lucera; e ad onta delle recenti repressioni, Federico non poteva aspettarsi pace e sicurezza nemmeno dal suo regno ereditario, la Sicilia, da lui prediletta come la pupilla dei suoi occhi.

"In breve le avversità di Federico divennero tali da abbattere o corrompere le più valorose nature: vassalli sleali, cortigiani traditori, popoli ribelli o pronti a rivolta, disastrose sconfitte non riparate da parziali successi di facinorosi partigiani, erario esausto, sfiducia nei fedeli, baldanza provocante ed impunita nella curia papale, nelle città italiane, nelle corti dei principi laici ed ecclesiastici di Germania, pubblici disastri. Federico vedeva andare a pezzi lo scettro afferrato con così forte mano. Inoltre altre sventure lo ferivano nei più vari affetti di consorte, di padre, di amico".

Oppresso dagli avvenimenti, Federico non fu più l'uomo di una volta: diventò sospettoso, temette che ovunque si congiurasse contro di lui, non ebbe più fiducia negli amici e nei consiglieri, prestò facilmente orecchio alle insinuazioni degli invidiosi che con le calunnie cercavano di disfarsi dei più potenti personaggi della corte per succedere loro nelle cariche.

MORTE DI PIER DELLE VIGNE

Forse vittima di vili calunnie fu pure PIER delle VIGNE, colui che - come canta l'Alighieri - "tenne ambo le chiavi Del cuor di Federico e che le volse, serrando e disserrando sì soavi".
Secondo quel che narra lo storico Matteo Paris, essendo l'Imperatore infermo, Pier delle Vigne andò da lui con un medico che aveva corrotto e gli offrì una bevanda avvelenata; ma Federico, sospettoso, porse al medico il calice e gli ordinò di bere parte del liquido. Sbigottito, il medico finse d'inciampare e lasciò cadere la coppa a terra. Sicuro che la bevanda fosse avvelenata, l'Imperatore fece raccogliere quanto si riuscì del liquido e la fece bere ad un condannato alla pena capitale, che morì sull'istante. Avute così le prove del delitto, il sovrano mandò al patibolo il medico e fece chiudere in una torre Pier delle Vigne, il quale si diede la morte sfracellandosi il capo contro le pareti della prigione.
Sulla colpevolezza del gran cancelliere imperiale non si hanno prove sicure. Vittima della calunnia fu comunemente creduto nella seconda metà del secolo XIII e come tale lo rappresenta Dante che, nella selva dei suicidi, gli fa dire:
"L'animo mio per disdegnoso gusto,/ Credendo col morir fuggìr disdegno,/ Ingiusto fece me contro me giusto".

LA BATTAGLIA DI FOSSALTA

Sventura più dolorosa che non fosse la perdita di uno dei suoi migliori consiglieri colpì Federico II nel 1249. Nella primavera di quell'anno un esercito bolognese, capitanato dal pretore FILIPPO UGONI e dal cardinale OTTAVIANO degli UBALDINI, e composto di tremila cavalli e duemila fanti forniti dal marchese d'Este, delle milizie cittadine di Porta Stieri, Porta San Procolo e Porta Ravegnana, di ottocento uomini d'armi e mille cavalli di Bologna, usciva in campo contro i Modenesi avanzando fino al Panaro.
A fronteggiare i Bolognesi, che già avevano passato il fiume ed occupato il ponte di Sant'Ambrogio, corse re ENZO con un esercito di quindicimila uomini formato con milizie meridionali, tedesche, reggiane, cremonesi e con i fuorusciti ghibellini di Parma, Piacenza ed altre città guelfe.
I due eserciti nemici si trovarono di fronte presso il torrente Fossalta, a tre miglia da Modena, e rimasero per alcuni giorni a guardarsi, senza osare di venire a battaglia; ma ricevuti duemila uomini di rinforzo, appartenenti alle milizie del quartiere di San Pietro, i Bolognesi attaccarono gli imperiali.

Era il 26 maggio del 1249. ENZO aveva diviso il suo esercito in tre corpi, due di linea ed uno di riserva, quest'ultimo formato di sole truppe modenesi; il pretore bolognese aveva diviso invece le sue milizie in quattro corpi con lo scopo di usare prudentemente le proprie forze conducendole successivamente alla battaglia e sostenere con truppe fresche quelle che dal nemico fossero state costrette a ripiegare; nel primo corpo aveva messo i fanti e parte dei cavalli estensi, nel secondo il resto della cavalleria del marchese d'Este e i duemila bolognesi di San Pietro, nel terzo le milizie delle altre tre porte ed ottocento cavalli bolognesi, nel quarto mille fanti, ottocento soldati a cavallo e novecento arcieri a piedi.

La battaglia, cominciata all'alba, durò accanita per tutti il giorno: invano i Bolognesi tentarono un aggiramento, invano uccisero il cavallo montato da Enzo; gli imperiali resistettero magnificamente fino a sera; ma alle prime tenebre questi cominciarono a ripiegare, poi, attaccati più furiosamente, si ruppero e, volte le spalle, si diedero alla fuga.
La notte, anziché favorire l'esercito in rotta, n'aggravò la situazione. Inseguiti dal nemico, gl'imperiali si smarrirono nella campagna intersecata da numerosi canali e un rilevante numero di soldati cadde nelle mani degli inseguitori. Tra i prigionieri vi furono molti gentiluomini modenesi, BUOSO di DOVARA, potente cittadino di Cremona, e lo stesso re Enzo.

"Lieto di una così grande vittoria, FILIPPO UGONI si mise in cammino per Bologna. "Giunto al castello d'Anzola - scrive il Sismondi - incontrò le milizie bolognesi, che informate dell'accaduto, gli andavano incontro per onorarne il trionfo con le trombe. Da questa terra fino alla città tutta la strada era affollata di gente curiosa di vedere tra i prigionieri il principe Enzo, in catene il figlio di un così potente imperatore e perché re egli stesso. Oltre questi motivi, la sua fresca età di venticinque anni, i biondi lunghi capelli dorati che gli scendevano fin sopra i fianchi, la gigantesca statura che emergeva su tutti gli altri prigionieri, la nobiltà e la maschia bellezza del viso su cui si vedevano vivamente espressi il suo valore e la sua sventura, lo facevano oggetto della universale ammirazione".

Il dolore di Federico fu grande nell'apprendere la disfatta e la prigionia del figlio prediletto. Offrì grosse somme per il riscatto, pregò, minacciò; scrisse fra l'altro ai magistrati bolognesi:
"Badate che alterne sono le vicende della fortuna e che, nonostante le molte tempeste da cui fu colto il nostro regno, noi abbiamo potuto con l'aiuto dì Dio, vincer la maggior parte dei nostri ribelli. Non è sopita, come vi sembra, la potenza del Romano Impero. Interrogate i vostri padri e vi diranno come l'avo nostro di felice memoria, l'invittissimo Federico Barbarossa, abbia vinto e scacciato dai loro tetti i Milanesi che pure erano più forti di voi. Vi sia di monito tale esempio: le vostre orecchie non ascoltino i perfidi consigli dei Lombardi, desiderosi di accomunarvi alla sorte per trascinarvi in un abisso dal quale nessuno potrà trarvi fuori. Se non volete perdere la nostra
grazia, rimettete in libertà il nostro amato figlio e tutti gli altri nostri fedeli, Medonesi e Cremonesi, che avete fatti prigionieri. Se obbedirete a quest'ordine, noi esalteremo la vostra città sopra tutte le altre della Lombardia; in caso diverso ci vedrete muovere contro di voi con un poderoso esercito; né i traditori della Liguria vi potranno liberare dalle nostre mani e sarete la favola e l'obbrobrio di tutti i popoli".

Famosa è rimasta la risposta dei Bolognesi, concepita nei seguenti termini:
"Il dardo non colpisce sempre dove mira, né sempre il lupo raggiunge la sua preda. Le cupe minacce non ci spaventano: noi non siamo come il giunco della palude che si piega al vento, né, come la brina che si scioglie al sole. Il re Enzo ci appartiene per diritto di guerra e lo terremo come prigioniero. A rintuzzare le vostre minacce impugneremo la spala e resisteremo da leoni, né alla vostra Altezza gioverà il numero degli armati, perché dove, sono molti nasce facilmente la confusione e talvolta succede che un cinghiale viene superato da un piccolo cane".

I Bolognesi non restituirono mai lo sventurato figlio al padre. Il Senato decretò che fosse tenuto in perpetua prigionia; ma volle che questa non fosse dura; provvide nobilmente ai bisogni dell'illustre prigioniero, gli assegnò un magnifico appartamento nel palazzo del podestà e i nobili bolognesi andarono a visitarlo ogni giorno per distrarlo con la loro presenza e temperarne la sventura. Sperando nella libertà ed assistendo alla rovina della sua casa, nella dorata prigione di Bologna l'infelice re visse gli ultimi ventitré, anni della sua vita.

La sconfitta di Fossalta per Federico e per i Ghibellini d'Italia fu certamente un grave colpo, eppure egli non disarmò ed ebbe ancora la fortuna dalla sua parte e di vedere la sorte delle sue armi rialzata, dalle vittorie riportate da Cremona su Bologna e Ferrara e la soddisfazione di sapere che il re Luigi IX e la regina Bianca di Francia facevano pressioni vivissime sul Pontefice in suo favore.

LA MORTE DI FEDERICO

Troppo però aveva lottato e molto sofferto e la sua potente fibra si era purtroppo logorata quando la sua volontà mostrava ancora la durezza dell'acciaio.
Nel dicembre 1250, trovandosi in un castello della Capitanata chiamato Ferentino di Puglia, Federico II fu colto da una violentissima febbre che in pochi giorni -il 13 dicembre- lo condusse al sepolcro.

Aveva 56 anni e da 30 era imperatore. Al suo letto di morte c'erano il figlio bastardo MANFREDI, l'arcivescovo di Palermo che gli recò i conforti della religione, il genero Riccardo di Montenegro e - se è vero - un giovane medico che in seguito doveva far parlare molto di sé: GIOVANNI da PROCIDA.

Per testamento Federico II lasciava tutti i possessi ereditari della famiglia al figlio CORRADO; all'altro figlio legittimo ENRICO il regno di Arelate o quello di Gerusalemme, ad arbitrio di Corrado, a Manfredi alcune contee, il principato di Taranto e la luogotenenza di Sicilia durante l'assenza del fratello maggiore. Se Corrado moriva senza figli il regno siciliano doveva passare ad Enrico e, se neppure questi lasciava prole, a Manfredi. Al nipote Federico erano assegnati i ducati di Austria e di Stiria, rimasti vacanti per l'estinzione della casa di Babenberg. Inoltre l'imperatore disponeva che fossero resi alla Chiesa tutti i suoi diritti e domini se il Pontefice avesse fatto altrettanto con l'impero, che i tributi del regno di Sicilia fossero ridotti quali erano sotto Guglielmo II, che alla chiese fosse risarciti i danni, agli ecclesiastici e ai Templari restituiti i beni, che fossero rimessi in libertà i prigionieri, esclusi quelli convinti di tradimento e, infine, che sarebbero stati offerte centomila once per il riacquisto del S. Sepolcro.
Federico Il fu sepolto nel duomo di Palermo, accanto al padre e alla madre, in un magnifico sarcofago di porfido sorretto da quattro leoni, nel quale furono messi la spada, il pomo imperiale e la corona.
In quella tomba, con l'ultimo grande imperatore germanico, caduto durante la lotta contro la teocrazia papale e l'affermarsi delle libertà nazionali dei Comuni italiani, fu sepolta per sempre la potenza imperiale in Italia.

Scriverà Gabriele Pepe, nel suo interessantissimo (confronto) "Carlo Magno e Federico II":
"Lotta medievale di Impero e Papato: per l'esito di questa lotta, l'Impero vinto dal Papa, fu per sempre allontanato dalla nostra storia; il Papato, incapace dell'unità guelfa d'Italia, staccò dal Regno dalla restante vita politica italiana, e così la futura storia unitaria d'Italia si preparò, per lunghi secoli, nella divisione territoriale delle due Italie.
Nello sforzo di realizzare il disegno dell'unità e di tagliare il nodo della storia medievale, quello dei rapporti con Feudo e Chiesa, Federico attirava nello Stato nuove forze sociali, distraendole dal servizio di gruppi nobiliari ed ecclesiastici, creava nel Regno, con la piccola nobiltà, lo Stato moderno, burocratico, e, in Germania, con gli ordini cavalleresco-religiosi, lo Stato principesco, militare.
Sulla politica di Federico, ammantata di ideologie anticlericali e imperialistiche, agiva la realtà storica di una nuova configurazione sociale europea, che trovò il principio della sua sistemazione nello Stato nuovo che Federico riuscì a codificare nel Regno già nel 1231 e che tento di codificare in Germania nel 1235.
Non seguì Federico predeterminate concezioni politiche, ma la sua politica e le sue ideologie, determinate dalle varie forze sociali del Regno e dai Papi, creano un complesso di posizioni spirituali, che avrebbero segnato per l'Italia e per l'Europa l'inizio della storia moderna.

"Federico lasciò un'eredità di ideologie che, insieme con altri movimenti del secolo, offrì materia alla formazione dello spirito scettico del Rinascimento e alla formazione dello Stato e della coscienza moderna. Vincitrice nel secolo XIII, la Chiesa sarebbe stata vinta nei secoli seguenti dalla corrosione che dei suoi istituti avrebbero fatta gli ideali laici, nati anche alla corte di Federico II".

"Carlo Magno in un'illusione di rinnovamento dell'antico stato romano, si scontra con quella struttura atomistica basata sul feudo contro la quale la sua opera unitaria, per quanto grande, per quanto coerentemente perseguita, finisce per uscirne sconfitta. Non solo alla morte del suo protagonista, ma con lui l'Europa medievale -con l'edificio che lui ha creato- riceve una sistemazione che pesa nella storia medievale e, per quello che nel presente permane di feudistico, di cattolico, di medievale, pesa anche sulla storia contemporanea. Ad esempio, vedremo come alla politica etico-religiosa di Carlo Magno risale l'attribuzione di funzioni statuali (tipica l'insegnamento) alla Chiesa, per strapparle alla quale ci sono voluti secoli di guerre e rivoluzioni; né è detto che comunque sia stata tolta alla Chiesa ogni funzione che spetta allo Stato".

Con Federico, con il feudalesimo carolingio trionfante, che sarà potere di nobiltà e clero, anche lui si scontrerà ma la difesa della sua politica unitaria -che è all'opposto di quella carolingia- lo costringerà a una modernità d'azione e di idee (forse non comprendendone egli stesso tutta l'originalità) che lo faranno precursore dei Signori del Rinascimento. Come il Principe di Machiavelli, "Federico fu un martire della lotta politica, se per il successo che non vide, dovette rinunciare alla vita morale".

Morto Federico, l'uomo che il prossimo anno autorizzerà l'inquisizione ad usare la tortura, Innocenzo IV, scriveva "Esultino i cieli ! Si rallegri la terra, è morto il persecutore!"

Passiamo dunque a questo periodo,
al trionfo del Papa attribuito all'ineffabile misericordia di Dio
.
è il periodo dal 1250 al 1258 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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