ANNI 1250 - 1261

CORRADO IV e MANFREDI - INNOCENZO IV e ALESSANDRO IV

INNOCENZO IV DOPO LA MORTE DI FEDERICO II - SUO RITORNO IN ITALIA - MANFREDI NEL REGNO DI SICILIA - DISCESA DI CORRADO IV IN ITALIA - RESTAURAZIONE DELLA SIGNORIA SVEVA DELL'ITALIA MERIDIONALE - CORRADO E IL PONTEFICE - INNOCENZO IV MERCANTEGGIA IL REGNO SICILIANO - CONTEGNO DI CORRADO VERSO MANFREDI - BRANCALEONE DEGLI ANDALÒ SENATORE ROMANO - MORTE DI CORRADO IV - BERTOLDO DI HOHENBURG - MANFREDI REGGENTE IN NOME DI CORRADINO E SUA POLITICA VERSO IL PAPA - MANFREDI E BORELLO D'ANGLONE - MANFREDI A LUCERA - MORTE DI INNOCENZO IV ED ELEZIONE DI ALESSANDRO IV - MANFREDI RE
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MORTE DI INNOCENZO IV - ELEZIONE DI ALESSANDRO IV
CORRADO IV E MANFREDI

Dopo aver sofferto da bambino e lottato come imperatore per trent'anni contro la teocrazia papale per affermare le libertà nazionali dei Comuni, nonostante la sua volontà mostrasse ancora la durezza dell'acciaio, il 13 dicembre 1250, FEDERICO II, a soli 56 anni un'improvvisa febbre lo condusse al sepolcro.

Il suo implacabile avversario INNOCENZO IV, quel giorno, così scriveva al clero e ai sudditi del Re di Sicilia:
"Esultino i cieli ! Si rallegri la terra, perché con la morte del vostro persecutore sembra, per l'ineffabile misericordia di Dio, che si siano mutati in dolci zeffiri e in fresche rugiade i fulmini e le procelle che sono stati lungamente sospesi sulle vostre teste. Tornate dunque subito nel grembo della Santa Chiesa, vostra madre, dove soltanto in questa potete trovare riposo, pace, libertà".

E più tardi, scrivendo alla città di Napoli, affermava:

"Col consenso dei cardinali nostri fratelli abbiamo preso sotto la protezione della Santa Sede le vostre persone, i vostri beni e tutta la città, stabilendo che essa rimanga in perpetuo sotto la sua immediata dipendenza ed impegnandoci che la Chiesa non concederà giammai la sovranità o qualsiasi diritto sopra la medesima a nessun imperatore, re, duca, principe o conte o ad altra persona".

Da questa lettera risulta chiaramente quanto gioisse il Pontefice per la scomparsa del suo terribile avversario e come lui non indugiasse a tradurre in realtà il suo proposito, che era quello di scacciare dal regno siciliano la monarchia Sveva e di restaurarvi la sovranità della Santa Sede.
E il momento per far questo era propizio, date le condizioni tristissime in cui versava CORRADO IV in Germania, mentre lottava invano contro l'antirè GUGLIELMO. Per essere più vicino al regno siciliano, sul quale erano rivolte le sue mire, Innocenzo IV stabili di lasciare la Francia e nella primavera del 1251 partì da Lione.

Nell'aprile giunse a Genova, dove fu accolto festosamente dai suoi concittadini e dai deputati delle città guelfe venuti ad incontrarlo e ad invitarlo affinché visitasse le terre lombarde.
Dopo breve soggiorno in Genova, cedendo alle preghiere e agli inviti, INNOCENZO IV passò in Lombardia. Il suo viaggio fu un vero trionfo:
"I Guelfi - scrive il Sismondi - si affollavano sulla strada e per assicurarlo dagli insulti dei Ghibellini avevano formato alcune scorte o guardie di onore, che erano dei veri e propri eserciti.
Ma le città ghibelline, come Pavia e Lodi, sul cui territorio doveva passare il Papa, scoraggiate dalla morte del loro capo, non volevano certamente provocare ancora di più la nota collera del Pontefice; che anzi, bramando di far dimenticare le antiche offese, si dicevano questi ghibellini disposti a riconciliarsi con la parte guelfa, e permettevano ai loro esuli di rientrare in patria.
Infatti la città di Lodi, fatta soffrire dalle armi milanesi, entrò pure questa nella Lega; Pavia fece con Milano un trattato di pace, ma che fu poi di breve durata".

Le accoglienze che Milano fece al Pontefice furono indescrivibili: tutta la città andò ad incontrarlo e oltre ducentomila persone fiancheggiavano la strada per un tratto di dieci miglia, dove passò Innocenzo sotto un baldacchino di seta, sorretto dai più autorevoli cittadini.
Due mesi dimorò a Milano il Pontefice, poi attraverso Brescia, Mantova e Ferrara scese a Bologna, accolto ovunque festosamente, e di là, per la Romagna, andò a Perugia e infine ad Anagni, dove dimorò alternativamente fino all'ottobre del 1253 prima di recarsi a Roma.

Alcuni mesi dopo la partenza di Innocenzo IV da Lione, nell'autunno del 1251, faceva la comparsa in Italia CORRADO IV. Fino allora, in ossequio alle disposizioni lasciate da Federico II, la luogotenenza del regno siciliano era stata tenuta da MANFREDI, giovane bello, leggiadro, prode, cavalleresco, conoscitore come il padre di varie lingue, versato in tutte le scienze del tempo, poeta, amico dei dotti e dotato di notevole acume politico.
Lui era figlio bastardo di Federico che alla sua morte gli aveva lasciato alcune contee, come il principato di Taranto e la luogotenenza di Sicilia durante l'assenza del fratello maggiore Corrado IV impegnato in Germania..

Manfredi a sua volta aveva mandato in Sicilia, in qualità di vicerè, il fratello minore ENRICO; lui era rimasto nella terraferma per mantenere le popolazioni del mezzogiorno nell'obbedienza di Corrado e ricondurvi quelle di Foggia, Andria, Barletta, Napoli e Capua, che, sobillate dai frati mendicanti, emissari del Pontefice, si erano ribellate. Foggia era stata la prima a sottomettersi; Barletta ed Avellino, che avevano tentato di resistere, erano state prese d'assalto, la prima da Manfredi, la seconda dal margravio BERTOLDO di HOHENBURG; la stessa sorte l'aveva subita Aversa e poi Nola.

Rimanevano soltanto con le armi in pugno Capua e Napoli, quando - come si è detto - nell'autunno del 1251 CORRADO IV, aspettandosi cose peggiori, passò le Alpi. Non potendo o non volendo affrontare le forze guelfe che lo avrebbero assalito nell'attraversare l'Italia, Corrado, visitate Verona, Vicenza e Padova, si recò a Pola; e qui, imbarcatosi con il suo esercito su una flotta di trentadue navi siciliane e pisane, all'inizio del 1252 fece vela per Siponto nella Capitanata.
Accolto come legittimo sovrano da tutta la Puglia, Corrado continuò la guerra felicemente condotta dal fratello e, insieme con lui, sottomise il conte d'Aquino che aveva fatto ribellare Nocera, Sessa, San Germano ed altre terre; costretta, in seguito, alla resa Capua, andò il 1° dicembre di quell'anno stesso contro Napoli, la quale, assediata dal lato di terra e dal mare, dopo dieci mesi di resistenza, tormentata dalla fame, nell'ottobre del 1253 si arrese a discrezione ed ebbe le mura smantellate.

Mentre duravano queste operazioni guerresche, consigliato da Manfredi, Corrado fece sapere al Pontefice che era pronto a dichiararsi devoto ed obbediente alla Santa Sede purché ricevesse la corona imperiale e gli fosse lasciata quella del regno di Sicilia; ma Innocenzo IV si mostrò insensibile alle dichiarazioni di Corrado, sostenendo che la famiglia Sveva, per decisione del concilio di Lione, era decaduta dai suoi diritti.
Malgrado queste risolute risposte, le trattative col Pontefice furono riprese nel 1253 e nel 1254 e condotto da illustri personaggi, quali il conte di MONFORTE, zio di Corrado, e il conte TOMMASO di SAVOIA; ma neppure costoro riuscirono a piegare il Pontefice, che accusava Corrado di avere, a dispetto all'interdetto, costretto gli ecclesiastici a celebrare in sua presenza i divini uffici, di aver fatto diffondere tra i suoi partigiani dell'Italia superiore dottrine eretiche, di aver fatto avvelenare il nipote Federico, di tenere in prigione il fratello Enrico, di essersi impadronito dei beni di molte chiese ed ordini religiosi e, infine, di aver commesso tante iniquità da meritare di esser privato della corona siciliana.

Né il Pontefice si limitava alle accuse; non potendo con la forza delle armi togliere il regno a Corrado, cercava un principe straniero che, ricevendo il regno in vassallaggio, lo strappasse al figlio di Federico II. E prima si rivolse a RICCARDO di Cornovaglia fratello di Enrico III d'Inghilterra e della terza moglie di Federico II; poi offrì la corona a EDMONDO, figlio del re inglese e, non essendo state accettate le sue offerte, iniziò trattative con la corte di Francia.
Noi non sappiamo se questi maneggi papali erano noti a Corrado. Se li conobbe non se ne preoccupò per la lontananza dei principi ai quali era offerta la sua corona, e si curò soltanto di rafforzare la sua posizione nell'Italia meridionale; ma l'accordo che pareva regnasse tra lui e il fratello, al quale egli doveva i suoi successi, era finito.

Corrado era geloso di Manfredi e male sopportava la popolarità che questi si era guadagnata fra le popolazioni. La sua gelosia crebbe a tal punto che, istigato dai signori tedeschi, indusse Manfredi a rinunziare alla contea di S. Angelo e alla città di Brindisi, feudi dipendenti dal principato di Taranto; a cacciare dal regno i MALETTA, i LANCIA, i D' ANGLANO, tutti imparentati con lo stesso Manfredi, e infine spogliò il fratello dei feudi di Gravina, di Tricarico e di Montescaglioso.

La gelosia che spingeva Corrado ad umiliare il fratellastro e, che aveva suscitato il malcontento dei sudditi contro il sovrano e maggiormente accresciute le simpatie per Manfredi, avrebbe potuto giovare moltissimo alla causa del Pontefice se questi fosse stato in grado di trarne giovamento.
Ma il Papa non si trovava in buone acque e la sua posizione in Roma era molto scossa. Si può anzi affermare che Roma, in quel tempo, con una pacifica rivoluzione, si era affrancata dal potere temporale dei Papi.
Stanca della lontananza del Pontefice (9 anni), della prepotenza dei nobili e dei frequenti tumulti provocati dalle fazioni, la borghesia romana aveva, nell'agosto del 1252, eletto per tre anni un senatore forestiero, scegliendo il bolognese BRANCALEONE degli ANDALÒ, conte di Casalecchio, uomo di sentimenti ghibellini ed amico di EZZELINO da ROMANO e di OBERTO PALLAVICINO.
Brancaleone aveva accettato l'ufficio a patto che parecchi ostaggi, appartenenti alle più cospicue famiglie romane, fossero mandati a Bologna, e, recatosi a Roma, vi aveva con ammirabile energia non solo rimesso l'ordine, ma aveva anche obbligato il Pontefice a fare ritorno in città.
Innocenzo IV, nell'ottobre del 1253, dopo nove anni di assenza, era rientrato a Roma.
Il popolo lo aveva accolto con molti onori, anche perché l'alterigia del Papa era piuttosto scemata, così attenuata che si mostrò disposto a riprender le trattative con Corrado. Ciò nondimeno neanche questa volta le trattative furono feconde, e allora Innocenzo IV riconfermò la scomunica del re e la estese ad Ezzelino da Romano che era uno dei più potenti alleati imperiali.

INNOCENZO IV stava per riprendere gli accordi con la corte d'Inghilterra quando gli giunse la notizia che il 21 maggio del 1254, mentre si trovava a Lavello presso Melfi, all'età di soli ventisei anni, CORRADO era morto, lasciando un figlio, il piccolo CORRADINO di due anni, che la regina Elisabetta, figlia del duca OTTONE di Baviera, aveva, dato alla luce il 25 marzo del 1252.

Corrado, morendo, lasciava, forse allo scopo di disarmare e placare la Santa Sede, tutore di Corradino il Pontefice, e - contro le disposizioni del padre Federico - come reggente il margravio BERTOLDO di HOHENBURG, inviso al popolo, mettendo così da parte il fratellastro.
A rigor di logica in base alle volontà di Federico II, doveva essere lui il reggente, essendo Manfredi stato indicato come il successivo erede.

"Fa onore a Manfredi - scrive il Prutz - l'avere sopportato con pazienza quella grave offesa, che lui certo non aveva meritato: l'avere calmato il malumore scoppiato nel partito nazionale, rientrando personalmente nell'oscurità, dove il diffidente fratello aveva creduto opportuno relegarlo.
Di buon grado lui appoggiò la politica pacifica del reggente e fece parte dell'ambasceria spedita, da quest'ultimo, ad Anagni, per indurre Innocenzo IV a confermare il testamento di Corrado IV ed a riconoscere i titoli al piccolo Corradino.

Tentativo vano: perché il Papato, quantunque si mostrasse disponibile ad inserire nel giuramento, da prestargli come sovrano feudale, una clausola, che a rigore poteva essere interpretata quale riconoscimento dei diritti di Corradino, esigeva, per altro, la consegna del regno di Sicilia e si preparava ad impadronirsene, con la forza e a schiacciare con le armi vittoriose della Chiesa, i difensori della causa degli Hohenstaufen.
Ora a questo nuovo ed imminente assalto, si sarebbe potuto resistere con successo soltanto sotto un duce, pienamente assecondato da tutte le simpatie della nazione, un duce la cui personalità accattivasse l'amore e la fiducia e che, quale rappresentante delle grandi tradizioni sveve, sapesse spingere all'abnegazione le classi alte e basse delle nazione.
Ma un Duce simile di certo non era BERTOLDO di HOHENBURG. Lui stesso se ne persuase, depose spontaneamente la reggenza, nel corso della quale egli non aveva fatto se non provocare delle disgrazie e pregò MANFREDI di occupare il suo posto.

Manfredi all'inizio non volle accettare, dichiarando di non poter assumersi alcuna responsabilità per l'esito della crisi, provocata all'interno ed all'esterno dalle misure del margravio. Cedette solo alle sollecitazioni insistenti dei grandi occupando il posto che, come indicava il testamento paterno, dopo la morte di Corrado IV gli sarebbe spettato di diritto. Ad ogni passo, però, Manfredi si vide insidiato dall'ipocrisia o dall'aperto tradimento: nelle Puglie tramava contro di lui Bertoldo di Hohenburg, trattenendo, sotto fittizi pretesti, le entrate dell'erario del morto Corrado, quantunque queste somme fossero estremamente necessarie per poter muovere contro le milizie pontificie che già avevano iniziato l'attacco.
Frattanto San Germano, importante fortezza del confine, cadde nelle mani del Papa; i baroni dei dintorni si precipitarono a fare la pace con il Papa; il margravio stesso sembrava disposto a militare a pro del Papa contro il fortunato rivale.
Vista l'impossibilità di difendere il continente, Manfredi mutò l'intera sua politica. Si disse, pronto a riconoscere le pretese e a consegnare il regno siculo-pugliese alla Chiesa, salvi sempre i diritti di Corradino, che il Papa non si stancava di reclamare.
L'ardita mossa, che del resto recava un momentaneo sollievo, riuscì perfettamente".

La pace fu conclusa, alla fine di settembre del 1254. INNOCENZO IV per guadagnarsi l'animo di Manfredi, gli confermò il possesso ereditario del principato di Taranto e delle contee annesse e lo creò vicario pontificio di qua dal Faro. Questo trattamento non poteva far sì che Manfredi stesse tranquillo sulle sorti del regno. A lui premeva che fossero salvaguardati i diritti del nipote Corradino e invece vedeva che il Pontefice non solo non si curava di rispettarli, ma si atteggiava a padrone del regno. Con l'animo profondamente addolorato accompagnò il Papa in un viaggio che questi, nell'ottobre di quello stesso anno, fece nelle province meridionali, con una pompa e con atteggiamenti da vero sovrano, visitando S. Germano, Montecassino, Teano, Capua e Napoli e fu certamente durante quel viaggio che Manfredi meditò di rompere nuovamente con la Santa Sede per non far perdere il regno paterno alla casa Sveva.

Un incidente inatteso gli diede l'occasione più presto di quanto lui non credesse. Tra i fuorusciti del regno, i Sanseverino, i Morra, i d'Aquino ed altri, che seguivano il Pontefice nel suo viaggio, c'era BORELLO D' ANGLONE che, sotto Federico, si era reso colpevole di alto tradimento e con la protezione di Innocenzo IV si era impadronito della contea di Alesina, fino allora dipendente da Manfredi. Per quest'usurpazione Manfredi protestò presso il Papa che si trovava a Teano. Non avendo ricevuto alcuna soddisfazione, si allontanò sdegnato dalla città con una forte scorta di militi. Si trovava sulla strada che porta a Capua, a poche miglia da Teano, quando s'imbatté nel Borello che era in agguato con una banda d'armati.
Iniziata la scaramuccia nello scontro, Borello fu leggermente ferito alla schiena da un soldato di Manfredi e, fuggito, se ne tornò a Teano, dove il popolo, credendo che avesse assassinato Manfredi, sollevatosi a tumulto, lo uccise.

Sebbene il nipote del Pontefice era presente a quel fatto, dell'assassinio di Borello fu accusato autore Manfredi, il quale da parte sua mandò ad Innocenzo dei messi per informarlo della verità dell'accaduto, tuttavia per quelle accuse temendo per la sua libertà, si recò a Capua; ed, infatti, qui venne subito a sapere che uno squadrone di cavalieri pontifici lo stava ricercando per arrestarlo. Non sicuro nemmeno a Capua si rifugiò ad Acerra, il cui conte era suo parente.

Ma neppure qui poteva considerarsi al sicuro. Consigliato dallo zio GALVANO LANCIA ad allontanarsi, Manfredi pensò di recarsi a Lucera e mettersi sotto la protezione di quei Saraceni che erano stati sempre fedeli alla casa sveva. Ma per giungere a Lucera doveva attraversare territori a lui ostili e quand'anche fosse riuscito ad attraversarli correva il pericolo, giunto fra i Musulmani, di essere catturato dal comandante della piazza, GIOVANNI MORO, perché oltre che essere una creatura di Bertoldo di Hohenburg, aveva, tradendo casa Sveva, anche lui abbracciata la causa del Pontefice.
Nonostante questo, Manfredi decise di partire e, fatta spargere la voce che si recava alla corte papale, nottetempo lasciò Acerra accompagnato da una scorta, troppo numerosa per viaggiare inosservato e troppo debole per sostenere un combattimento. Facevano parte del suo seguito i due fratelli MARINO e CORRADO CAPECE, gentiluomini napoletani, i quali, dovendo il principe attraversare le loro terre, si erano offerti di farlo giungere alla meta senza incidenti.
Per evitare il castello di Monforte, presidiato da gente di Bertoldo, Manfredi fu costretto a prendere sentieri difficili, portandosi sui fianchi di scoscese montagne. Per la via di Manliano giunse al castello di Atripalda, dove le mogli dei Capece lo ricevettero con molto onore, e di là, per Guardia dei Lombardi, Bisaccia e Bimio - i cui abitanti, sebbene a lui devoti, lo pregarono di non fermarsi a lungo, essendosi i vicini territori sottomessi al Pontefice - proseguì alla volta di Melfi.
Questa città gli chiuse le porte; Ascoli, sapendo che si avvicinava, si rivoltò trucidando il governatore che era amico del principe; Venosa lo accolse devotamente, ma gli fece sapere che non avrebbe potuto difenderlo dai probabili attacchi dei nemici e Manfredi dovette subito rimettersi in cammino in direzione di Lucera, dove qui, nel frattempo, Giovanni Moro era partito per raggiungere il Pontefice, lasciando il comando della piazza ad un tale MARCHISIO con l'ordine di tenere sempre chiuse le porte e di non lasciare entrare nessuno.

Per andar da Venosa a Lucera, Manfredi doveva passar tra Ascoli e Foggia, città non solo nemiche, ma con il percorso controllato da truppe pontificie giunte su quei luoghi apposta per arrestarlo. Arrivato a poche miglia da Lucera, Manfredi si divise prudentemente dalla sua scorta e in compagnia soltanto del gran cacciatore di suo padre, di due scudieri e di alcuni amici, la notte del 1° novembre, sotto una pioggia scrosciante, si mise in cammino attraverso le campagne deserte della Capitanata e sul far del giorno giunse presso una porta della città.
Sulla loggia sovrastante e sulle mura stavano di guardia numerosi Saraceni. A questi uno degli scudieri di Manfredi gridò: "Ecco il vostro signore e principe; egli viene a mettersi nelle vostre mani; si affida interamente a voi; apritegli le porte !" Riconosciuto il figlio di Federico, i Musulmani, pieni di entusiasmo, esclamarono "Entri! Entri ! Entri prima che il governatore sia informato del suo arrivo e noi ci facciamo garanti della sua persona !".
Però le chiavi delle porte erano in mano di MARCHISIO che sicuramente si sarebbe rifiutato di consegnarle o di aprire. Ma avvertito da un saraceno che lì vicino sboccava una stretta cloaca, e che da questa era possibile penetrare dentro Lucera, Manfredi scese da cavallo e a piedi, raggiunta lo sbocco si chinò per entrare nella cloaca; ma a quella vista i Musulmani gridarono: - "No, non permetteremo che il nostro principe entri in così vile modo nella sua città" e, scassinata la porta, portarono Manfredi in trionfo per le vie di Lucera verso il palazzo imperiale, tra un'affollata ala di popolo che inneggiavano al principe.

Anziché riposare sugli allori, Manfredi si diede da fare per mettere insieme delle truppe, in brevissimo tempo allestì un fortissimo esercito, poi diede addosso al margravio ODDO di ROHENBURG, fratello di Bertoldo, che con numerose milizie era già giunto a Foggia e, sbaragliato, lo costrinse a fuggire a Canosa. Foggia, dopo due ore di furioso combattimento, fu conquistata e che subito dopo, determinò dopo aver ricevuto la notizia della caduta di questa città, la fuga da Troia dove si trovava con le sue truppe, del cardinale GUGLIELMO di SANT' EUSTACHIO, nipote e legato del Pontefice.

ELEZIONE DI ALESSANDRO IV

Le notizie delle improvvise vittorie di Manfredi costituirono un gravissimo colpo per Innocenzo IV, che era già di salute malferma. Dopo undici anni di pontificato, il 7 dicembre del 1254, moriva a Napoli.
I cardinali, riuniti in conclave a Napoli, gli davano come successore il vescovo REGINALDO di Ostia, della famiglia dei conti di Segni, che prese il nome di ALESSANDRO IV. Il nuovo Pontefice, sebbene di carattere mite e amante più degli studi che della politica, dovette continuare la guerra iniziata da Innocenzo IV.
La fortuna però continuava ad essere favorevole a MANFREDI. Questi, non lasciandosi ingannare dalle proposte della Curia romana che fingeva di esser disposta a riconoscere i diritti di Corradino, dopo avere scacciato BERTOLDO di HOHENBURG e sottomesse le città ribelli, nell'estate del 1255 marciò su Napoli, costringendo il nuovo Pontefice a ritirarsi nella solita protettiva Anagni, e nella primavera del 1256, ridotta all'obbedienza tutta la terraferma, passò in Sicilia.
Dopo tanto avvilimento la fortuna della casa Sveva era risolutamente risorta nell'Italia meridionale e il merito era tutto di Manfredi, in cui rivivevano e si assommavano le migliori qualità della sua famiglia.
"L'intrepida sua costanza nella sventura, - scrive il Prutz - e la sua audacia, quando tutto pericolava erano tuttavia superati dalla sua moderazione, dalla sua clemenza nel momento della vittoria, dalla sua elevatezza e perspicacia diplomatica, dalla sua politica chiara e ben determinata, mediante la, quale lui si applicò ad assicurare, ad estendere tutto ciò che un ribaltamento quasi miracoloso della fortuna gli aveva permesso di conquistare, e ad indurre, con misure abili ed opportune, altre potenze, a riconoscere e favorire il nuovo stato di cose. E in tutti i suoi atti non procedeva di sua autorità, ma si presentava sempre come reggente in nome del nipote minorenne CORRADINO.

Senonché, quest'atteggiamento non poteva durare a lungo. Manfredi era la personificazione non solo delle grandi tradizioni della casa sveva, ma anche della coscienza nazionale dei siciliani e degli Italiani meridionali. Le sue prodezze, in un certo modo romanzesche, avevano felicemente salvato i Siciliani dal giogo del Papa, e quindi da un triste dominio straniero. A Manfredi si dovevano il risorgimento dell'ordine civile, lo slancio preso dal commercio, una prosperità economica che oltrepassava ogni speranza, e tutto sarebbe dovuto tornare non a suo vantaggio, ma di quel bambino tedesco che cresceva nel rozzo paese di là dalle Alpi?
Avrebbe Manfredi dovuto rassegnarsi, lui che in mezzo alle sventure, alle avversità si era rivelato come un vero re, doveva rientrare nell'oscurità, discendere da quel posto, da lui occupato con tanto fulgidezza, con tanta fortuna ?
L' unione con la Germania era stata sempre contraria ai desideri dei nobili e del popolo siciliano; sotto Corrado IV ancora se n'erano avvertite le animosità, né si era vista l'ora che terminassero; ora, i fortunati eventi dell'ultima guerra (quella contro i Mongoli), la prosperità che poi seguì, avevano con tanta vivacità dimostrato quanto fosse giustificata la tendenza del popolo a vita autonoma, all'indipendenza Nazionale.

"Proprio in questo periodo felice di Manfredi, giunse dalla Germania una voce che si andava affermando con certezza ed insistenza: che era morto in tenera età il bambino di cui Manfredi era rappresentante e tutore.
Parve allora rimosso, l'ultimo ostacolo, che separava Manfredi dal posto dovutogli in compenso di quanto aveva fatto; e tutti dovevano trovare naturale che ai poteri reali da lui esercitati di fatto, ai doveri sovrani da lui con tanta gloria compiuti, si aggiungessero finalmente e formalmente il titolo e la corona di re. Al desiderio unanime, manifestatogli a Palermo dai Grandi temporali e spirituali del regno, nobili e clero e entusiasticamente il popolo, Manfredi si arrese tanto più facilmente, anche perché il testamento dell'imperatore Federico II, che aveva prospettato chiaramente quest'evenienza, si era in realtà verificata; quella che (morto Corrado IV e morto il figlio) legittimamente subentrava lui alla corona del regno di Sicilia.
La consacrazione e la posa della corona sul capo avvenne il giorno 11 agosto 1258.

Si sa che subito dopo quest'incoronazione accettata da Manfredi, fu ritenuta dai suoi nemici un'usurpazione: che era falsa la notizia della morte di Corradino; che era forse vera, ma che a cagionare la morte del piccolo era stato lui o i suoi partigiani

Ad arte circolarono severe accuse contro Manfredi; che lui stesso avrebbe fatto mettere in circolazione quella voce falsa, oppure, spinto dalla speranza di vedere alla fine appagata la sua ambizione, avrebbe accolto, con strana credulità e senza assumere, come nel 1254 (quando era già corsa questa voce, allora subito smentita dallo stesso Manfredi) altre informazioni in Germania, quella notizia fatta circolare dai suoi partigiani per trascinarlo al passo che questi volevano.
Quelle accuse non sono mai state dimostrate come vere; d'altra parte però non si può neppure provare che Manfredi, senza sua colpa né del suo partito, si sia lasciato trascinare da quella notizia ed abbia agito in piena buona fede.
Ma, ammesso pure che il suo modo di procedere non fosse corretto e che poteva avere motivo di dubitare della morte di Corradino, si stenterebbe a fargli un rimprovero serio per come si comportò; cioè si arrese alle sollecitazioni sempre più insistenti dei suoi partigiani e non solo questi, perché ad insistere e a volerlo re, c'era il clero siciliano, i nobili e il popolo.

La difesa vittoriosa dell'indipendenza appena riconquistata dipendeva dalla conservazione, dallo sviluppo vigoroso del sentimento nazionale, destato nella popolazione così eterogenea e mescolata dell'antico regno normanno dal dominio germanico ultimamente rinnovato da re Corrado IV e dalla lotta vittoriosa sostenuta sotto la direzione di Manfredi, contro le pretese del Papa.

Occorreva perciò un re che avrebbe rappresentato nella sua persona la nazione e i suoi diritti; e tale re non poteva essere un bambino tedesco che viveva lontano. Dopo quanto era avvenuto, solo MANFREDI poteva occupare tale posizione. E se non l'accettava, se in questa grande crisi non obbediva all'appello del popolo, Manfredi comprometteva quanto aveva guadagnato nelle difficoltà di una lotta coraggiosa ed esemplare.
Quand'anche non si fosse sparsa quella voce falsa della morte di Corradino, Manfredi tra poco si sarebbe trovato di fronte al medesimo quesito e, spinto da necessità politica e nazionale, l'avrebbe dovuto risolvere in modo identico.
Chi militava contro la sua incoronazione, chi alimentava le malignità ormai Manfredi, e meglio degli altri, si era senza dubbio reso conto con chi aveva a che fare.
Per quanto lui si applicasse ad anteporre i precetti della morale alle esigenze della politica lo aveva dimostrato tutto il suo contegno a partire dalla morte di Corrado IV. Se da allora egli avesse ascoltato il desiderio dei Grandi e allungato subito la mano verso la corona, avrebbe evitato non poche difficoltà successive ed ottenuto nelle sue operazioni una maggior forza, un'unità che non avrebbero mai permesso ai suoi nemici di andare troppo avanti. Quasi per scusarlo si è voluto paragonare il contegno di Manfredi a quello del prozio Filippo di Svevia nel 1198, senza dubbio a torto, perché Filippo non aveva alcun titolo alla corona germanica, o almeno il suo diritto alla successione non era così chiaro ed evidente come quello conferito a Manfredi dalle precise disposizioni testamentarie del genitore Federico II.
Inoltre Filippo, permettendo ai principi di collocarlo sul trono appartenente al nipote, agiva bensì nell'interesse della dinastia Sveva, ma non personificava in sé i grandi interessi della nazione germanica, come Manfredi invece rappresentava quelli della Sicilia di fronte alla Curia e ai disegni con cui questa minacciava l'indipendenza del paese.

Quand'anche si volesse ritenere un'usurpazione il modo con cui Manfredi conquistò la corona, bisognerebbe sempre convenire che lui non vi era mosso da irrequieta ambizione, la quale altre volte avrebbe trovato l'occasione ed i mezzi di essere appagata, ma che il suo fu atto di coraggio morale, il solo atto che poteva risolvere i problemi politici di un'epoca profondamente agitata e salvare i diritti e le aspirazioni nazionali di un popolo, visitato da sventure crudeli e suscettibili di sviluppo.
Ben lo dimostrarono i suoi primi effetti. Una volta ancora, dopo tanti anni tempestosi, l'Italia meridionale godette di un momento di felicità perfetta. Sotto il governo gentile di Manfredi, il regno, di qua e di là dal faro, risorse a nuova prosperità, un sentimento di benessere invase la popolazione che respirava nella speranza che quest'era nuova potesse durare.
Nell'antica reggia normanna di Palermo si muoveva di nuovo una corte splendida e briosa la quale dava un aspetto, nello stesso tempo gentile e imponente, ad una politica tipicamente umana, determinata da motivi nobili e diretta ad alti fini, e soddisfaceva, col favorire le scienze, le arti e le lettere, alle crescenti aspirazioni intellettuali dell'epoca.
Di fronte a quella vita felice e brillante rimase privo d'ogni effetto il nuovo disturbatore anatema scagliato dal Pontefice. Il Papa tutto al più riuscì ad impressionare i fanatici del proprio partito, quando rincarando le accuse infondate lanciate da Innocenzo IV contro Federico II, volle rappresentare davanti al mondo anche il figlio del defunto imperatore come maomettano, infedele e nemico dei cristiani

Premeva al Pontefice di trovare il modo per poter stabilire solo lui il dominio di Manfredi, in realtà da lui riconosciuto ed ammesso e ciò nondimeno da lui dichiarato illegittimo, insopportabile e meritevole di essere distrutto ad ogni costo.
E se il Pontefice metteva sulla stessa linea il Sultano saraceno e il Re di Sicilia, nulla più impediva che si predicasse la crociata contro di lui e si chiamasse in armi la cristianità intera per schiacciarlo.
Il fatto poi che la nuova della morte di Corradino fu riconosciuta falsa non valse a modificare la posizione di Manfredi. Quando la madre del giovine principe e suo zio, LUIGI del PALATINATO, invitarono Manfredi a deporre la corona, lui in buona fede o no, si rifiutò, anteponendo la necessità di una monarchia nazionale in Sicilia; ma nello stesso tempo però Manfredi proponeva di inviare immediatamente al sud il giovine Corradino, affinché crescesse come "figlio del suo paese" e potesse un giorno succedergli sul trono.
Ad ogni modo tutto questo era una ghiotta occasione per gli avversari di Manfredi nel dare loro la possibilità di gettare la discordia nella famiglia degli Hohenstaufen, contrapponendo il nipote e i suoi diritti ereditari allo zio salito al trono e che sta ora diventando il rappresentante dell'indipendenza nazionale; in modo da sfruttare il dissidio creato in pro del loro fine. Del resto l'andamento delle cose d'Italia, sotto l'influenza crescente di Manfredi, suggeriva ai politicanti della Curia seri provvedimenti con trame simili o qualsiasi altra cosa.

Trame e altro !
Ed è quello che leggeremo nella prossima puntata


il periodo dall'anno 1258 al 1261

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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