ANNI 1258 - 1261

FINE BRANCALEONE E EZZELINO - FLAGELLANTI - SIENA-FIRENZE

MORTE DI BRANCALEONE E GOVERNO DI CASTELLANO DEGLI ANDALÒ A ROMA - TIRANNIDE DI EZZELINO - CROCIATA CONTRO DI LUI - PADOVA CONQUISTATA DAI GUELFI - VITTORIA DI EZZELINO A TORRICELLA - IL PATTO DI CREMONA CONTRO EZZELINO - EZZELINO MARCIA SU MILANO - TRAGICA FINE DELLA FAMIGLIA DI EZZELINO - I FIAGELLANTI - ORIGINE DELLE DISCORDIE TRA LE FAMIGLIE FIORENTINE - I GHIBELLINI CACCIANO I GUELFI DA FIRENZE - RIVOLUZIONE DELLA BORGHESIA FIORENTINA E NUOVO ORDINAMENTO DEL GOVERNO DEMOCRATICO-GUELFO - GUERRE DI FIRENZE CONTRO LE CITTÀ GHIBELLINE DELLA TOSCANA - MANFREDI E I FUORUSCITI FIORENTINI DI PARTE GHIBELLINA -GUERRA TRA FIRENZE E SIENA - BATTAGLIA DI MONTAPERTI - FARINATA DEGLI UBERTI - DIETA DI EMPOLI - MORTE DI ALESSANDRO IV - PROSPERITÀ DEL REGNO DI SICILIA SOTTO MANFREDI
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BRANCALEONE: LA FINE
TIRANNIDE E FINE DI EZZELINO DA ROMANO

Con la fortuna di Manfredi, ovviamente era risorta anche quella dei Ghibellini. A Roma non era più BRANCALEONE. Spirato il triennio della sua carica, accusato dai nobili di volersi fare tiranno della città ma in realtà per il suo rigido governo democratico, era stato nel novembre del 1255 cacciato in prigione e forse vi avrebbe lasciata la vita se i Bolognesi, quantunque minacciati d'interdetto dal Pontefice, non avessero mantenuto in loro potere gli ostaggi romani che consegnarono soltanto quando, nel settembre del 1256, BRANCALEONE degli ANDALÒ fu rimesso in libertà.

A Brancaleone era successo nella carica il bresciano EMMANUELE De MADIO; ma non vi era rimasto a lungo perché, essendo lui una creatura dei nobili e del clero ed opprimendo con il suo governo partigiano il popolo, rimase vittima di una tumultuosa reazione popolare. Di nuovo vincente, il popolo richiamò Brancaleone, affidandogli, nel 1257 per altri tre anni la carica di senatore. Brancaleone tornò in Roma, vi restaurò il governo democratico, si alleò con Manfredi e per vendicarsi delle offese precedentemente sofferte mandò al supplizio alcuni nobili della famiglia degli ANNIBALESCHI, altri li inviò in esilio e costrinse pure il Papa a ritirarsi in Viterbo.
Centoquaranta torri di nobili furono rase al suolo e i loro beni confiscati. Scomunicato da ALESSANDRO IV, Brancaleone lo minacciò di distruggere Anagni, che sembra fosse anche il suo paese natale, e l'anatema fu così revocato. Brancaleone però non riuscì a godere a lungo dei suoi trionfi: colto da violenta febbre mentre assediava Corneto, si fece condurre a Roma e, pochi mesi dopo che aveva assunto la carica, cessò di vivere in Campidoglio.

Al letto di morte Brancaleone aveva consigliato i Romani di nominare senatore un suo zio, CASTELLANO degli Andalò, allora pretore a Fermo. Il suo consiglio fu ascoltato, Castellano fu eletto e fornì prova, come il nipote, di grande rettitudine; ma di Brancaleone gli mancava quell'energia senza la quale non era possibile dominare la turbolenta vita di Roma, e subito i nobili, corrotta con l'oro la plebe, la spinsero contro, deposero il senatore e si impadronirono del potere. Castellano fu messo in prigione e fu soltanto per il fermo contegno dei Bolognesi se ebbe salva la vita. Si ripeté quello che era accaduto con Brancaleone nel 1255. Alessandro IV, tornato a Roma, richiese gli ostaggi che si trovavano a Bologna, ma i Bolognesi si rifiutarono di restituirli né si piegarono quando il Pontefice lanciò l'interdetto sulla città, estendendolo pure sul celebre Studio senza una ragione solo perché era il vanto di Bologna.
Solo così il loro concittadino verso la metà del 1259 riuscì ad ottenere la libertà.

EZZELINO DA ROMANO - LA SUA FINE

Mentre il partito ghibellino trionfava a Roma e nell'Italia meridionale, nella settentrionale era sempre temuta e odiata dai Guelfi la violenta signoria di EZZELINO DA ROMANO, il quale, padrone di Verona, Vicenza, Padova, Feltre, Belluno e Bassano, alleato di BUOSO di DOVARA e del MARCHESE OBERTO PELAVICINO e in pace, ora, con il fratello ALBERICO che governava Treviso, era il terrore delle vicine contrade, non solo ma anche delle città che a lui obbedivano.

Non si era mai visto in Italia, dal tempo dei più crudeli imperatori romani, un signore più feroce di Ezzelino. Assetato di ricchezze e di sangue, privo di qualsiasi sentimento d'umanità, pareva che in ogni sua azione fosse ispirato dal genio del male. Qualcuno fa ascendere le sue vittime a cinquantacinque mila. Queste erano costituite da uomini e donne, da vecchi e fanciulli, da nobili e plebei, da mercanti e da sacerdoti, da eruditi e guerrieri. Tutti coloro che emergevano per censo o per dottrina, per pietà o per bellezza, erano dal tiranno mandati a morte e i loro beni confiscati. Le sue carceri, anguste e luride erano gremite di persone che, aspettando il martirio, sotto i patimenti trovavano la morte; nelle piazze spesso il popolo assisteva atterrito alle spietate esecuzioni ordinate dall'efferato signore; infierivano gli sgherri del principe sui condannati; rotolavano le teste fra rivi di sangue, bruciavano sui roghi i corpi squartati degli infelici.

Contro questo iniquo tiranno, fin dal primo anno del suo pontificato, scagliò i suoi fulmini ALESSANDRO IV. Verso la fine del 1255 lettere pontificie giungevano ai vescovi dell'alta Italia e ai comuni, che erano il preludio di una crociata contro il signore di Romano. In queste lettere il Papa scriveva:

"Un figlio della perdizione, un uomo di sangue, riprovato dalla fede, Ezzelino da Romano, il più inumano dei figliuoli degli uomini, approfittando dei disordini del secolo, ha inaugurato una tirannica potestà sugli infelici abitanti della vostra contrada. Facendo strazio dei nobili e della plebe, egli ha rotto tutti i vincoli dell'umana società e violate tutte le leggi della libertà evangelica .... Ma noi, pensosi della vostra salvezza e specialmente riguardo alle cose spettanti al Signore, abbiamo mandato presso di voi, in qualità di legato, il nostro figlio, 1'arcivescovo di Ravenna, affinché, rappresentando la nostra persona in codeste province, infiammi lo zelo dei fedeli, perseguiti Ezzelino e i suoi amici con le armi spirituali e temporali, dia il simbolo della croce ai fedeli che prenderanno le armi contro di lui, li animi promettendo loro in premio le medesime indulgenze promesse ai crociati di Terrasanta.
Risvegli questi uomini oppressi dal sonno della morte, assicuri che noi vegliamo per il loro bene, sradichi e disperda edifichi e pianti, disponga e comandi, con la prudenza che gli viene da Dio, come conviene alla fede ortodossa, all'onore della Chiesa, alla salute delle anime ed alla tranquillità della vostra patria".

Nel marzo del 1256 il suddetto "arcivescovo di Ravenna" FILIPPO FONTANA, recatosi a Venezia, vi bandì la crociata contro Ezzelino, trovando preziosi aiuti nei numerosi fuorusciti padovani, fra cui TISO NOVELLO di Camposampiero, e nel governo della repubblica veneziana che fornì al legato pontificio navi da guerra per poter risalire il Brenta ed assaltare Padova.
Alla crociata aderirono, naturalmente, il marchese AZZO D' ESTE, LUIGI di S. BONIFACIO, figlio del conte Riccardo e signore di Mantova, Bologna e 'Trento che si era ribellata ad Ezzelino.

I crociati iniziarono le ostilità nell'estate del 1256, mentre Ezzelino, con le milizie di Padova, Verona, Vicenza e Bassano, si trovava nel territorio mantovano. Ezzelino, avendo saputo che i nemici si erano mossi contro Padova, affidò la difesa esterna di questa città ad ANSEDISIO dei GUIDONI, che però non riuscì ad impedire agli avversari di passare il Brenta. Con il suo esercito scoraggiato, si rinchiuse a Padova.

Le milizie crociate, che si erano impadronite dei castelli di Concadalbero, di Bovolenta e di Cansilva, si trovavano a Pieve di Sacco, e da lì il 18 giugno 1256, si misero in movimento verso Padova, cantando l'inno "Vexilla regis prodeunt"; messe in fuga alcune schiere di Ansedisio al ponte del Bacchiglione, si impadronirono lo stesso giorno dei sobborghi di Padova e l'indomani, dopo un accanito combattimento, entrarono per la porta di Ponte Altinato, saccheggiando la città orribilmente per un'intera settimana.

E se i "crociati" non erano stati proprio dei "santi" anche EZZELINO a sua volta non lo fu di meno; sfogò la sua collera, prodotta dalla perdita della città, imprigionando uccidendo tutti i soldati padovani, in numero di undicimila - se si deve credere ai cronisti - che militavano sotto le sue bandiere, poi tentò di riprendere d'assalto la città, ma non gli riuscì.
La guerra languì per tutto il resto dell'anno e per il successivo, badando soltanto Ezzelino e Filippo Fontana a fare accrescere le discordie tra i Guelfi e i Ghibellini di Milano e di Brescia; ma nel 1258 le ostilità furono riprese.

Il marchese PELAVICINO e BUOSO di DOVARA con le milizie cremonesi si erano impadroniti dei castelli di Villongo e di Torricella, posti sulle rive dell'Oglio. Contro i due avversari marciò il legato pontificio con i guelfi bresciani, le milizie mantovane e gli altri crociati, ma, assalito alle spalle da Ezzelino, fu sconfitto presso Torricella e cadde prigioniero del feroce vincitore insieme con quattromila bresciani e numerosi soldati di Mantova, fra i quali vi era lo stesso podestà.
Dopo questa vittoria, Ezzelino con i suoi due alleati entrò a Brescia. Questo fu l'ultimo successo del tiranno. Oberto Pelavicino e Buoso di Dovara, sdegnati dal contegno del loro alleato, il quale, contro i patti, voleva tener per sé Brescia e nello stesso tempo tramava insidie contro di loro; ma pure questi tramavano e proposero ad AZZO D' ESTE di unirsi con lui a condizioni che non fossero costretti a rinunciare alla fedeltà verso la casa Sveva.

Il trattato fu concluso a Cremona l'11 giugno del 1259 tra Oberto, Buoso e la città di Cremona da una parte, il marchese d'Este, Luigi di S. Bonifacio e i comuni di Mantova, Ferrara e Padova dall'altra.
Nel primo capitolo tutti (stiamo parlando della coalizione guelfa) riconobbero i diritti di Manfredi sul regno di Sicilia e promisero di adoperarsi per riconciliare lo Svevo con la Santa Sede; con il secondo capitolo si impegnavano a lottare senza pietà contro i due fratelli da Romano. Nel trattato, infine, gli alleati dichiararono che né per ordine del re né per dispensa del Papa sarebbero venuti meno al giuramento che facevano di aiutarsi a vicenda.

Mentre i suoi antichi alleati lo abbandonavano e si univano con i nemici, Ezzelino tentava un gran colpo. Invitato dai nobili Ghibellini milanesi che gli avevano offerto la perpetua signoria della loro città se li avesse liberati dall'odiato giogo di MARTINO della TORRE, armò un fortissimo esercito e per nascondere il suo vero scopo, sul finire dell'agosto, marciò su Orzi Nuovi, castello bresciano in riva all'Oglio presidiato dai Cremonesi.

A difendere il castello accorsero il marchese PELAVICINO che con i suoi Cremonesi si accampò a Soncino; sull'opposta riva dell'Oglio, il MARCHESE D'ESTE che con le milizie di Ferrara e di Mantova si spinse fino a Marcaria, e i Milanesi, i quali marciarono in direzione di Soncino.
A quel punto, EZZELINO mise in opera un abilissimo piano allo scopo d'impadronirsi di Milano. Per dividere i nemici inviò a Brescia tutta la sua fanteria sperando che gli avversari passato l'Oglio l'avrebbero poi inseguita; mentre lui alla testa della sua numerosa cavalleria, si portò lungo la riva dell'Oglio fino a Palazzolo, dove qui attraversò il fiume; poi presi con sé i fuorusciti milanesi, avanzò verso l'Adda, e attraversò pure questo, senza incontrare resistenza.

Il piano del tiranno sarebbe pienamente riuscito se fosse rimasto segreto; ma
delle sue mosse ebbe notizia MARTINO della TORRE mentre marciava con le sue truppe verso Soncino, dove doveva riunirsi con i Cremonesi.
Vedendo in pericolo la sua città, Martino ritornò velocemente indietro per sbarrare il passo al nemico, di modo che Ezzelino, passato l'Adda, si trovò di fronte ai guelfi di Milano che credeva avere lasciati all'Oglio.

Tentò d'impadronirsi d'assalto di Monza, ma fu respinto. Questo insuccesso fece comprendere ad Ezzelino tutta la gravità della sua posizione: si trovava con due eserciti nemici alle spalle con due fiumi attraversati ma da riattraversare.
Tuttavia si mosse verso l'Adda, era nei pressi di Trezzo, che assalì con violenza ma fu respinto anche questa volta come a Monza; ripiegò verso Vimercate e si portò a Cassano per passare su quel ponte l'Adda.
La sua avanguardia riuscì ad occupare il ponte, ma sopraggiunte le milizie estensi, dopo uno scontro queste se ne impadronirono.
Arrivato Ezzelino con il grosso dei suoi, tentò di forzare il passo; ma il suo assalto, nonostante impetuoso, non ebbe un esito felice.

Ferito da un dardo a un piede e visto che non era possibile vincere la resistenza nemica, Ezzelino cercò un passaggio tra Cassano e Vaprio, per un guado poco noto. Era appena giunto con le suo schiere ancora disordinate sulla riva opposta, quando gli si fecero incontro, in ordine di battaglia, tre milizie: del Pelavicino, di Buoso e di Azzo d' Este. A tale vista la cavalleria bresciana, terrorizzata si mise in fuga; rimase però fermo solo Ezzelino a far fronte al nemico, impegnandosi in una furiosa battaglia.

Ma le forze in campo erano troppo impari; e vista la situazione critica altri soldati imitarono i Bresciani dandosi alla fuga. Intanto i Guelfi milanesi, passato il fiume prendevano alle spalle le ultime poche truppe rimaste di Ezzelino, che invano urlava ai suoi di fermarsi mentre lui stesso si batteva disperatamente.

Rimasto con pochi fedeli cercò di aprirsi la via di Bergamo, ma mentre lottava con furia, ferito in più parti e circondato dal nemico, ad un certo punto il suo cavallo colpito mortalmente si accasciò e lui crollato a terra, subito circondato fu fatto prigioniero.

"Ezzelino prigioniero - scrive il cronista Rolandino - stava in minaccioso silenzio, teneva fiso a terra lo sguardo feroce e reprimeva la collera che gli bolliva nel petto. Da ogni parte si affollavano intorno a lui il popolo ed i soldati per vedere quest'uomo poca prima così tanto potente, questo famoso principe, terribile e crudele più d'ogni altro signore del mondo; e la gioia, era universale".

Condotto, prima nelle tende di Buoso, poi nel forte di Soncino, il tiranno che era ferito in più parti rifiutò le cure dei medici e il cibo, straziò le proprie ferite e - dicono - non volle nessun conforto di preti e frati. Undici giorni dopo la sua sconfitta, avvenuta il 27 settembre del 1259, fu trovato morto nella sua prigione.

Si narra
che la madre di Ezzelino, aveva predetto al figlio che la sua fortuna sarebbe terminata in una località chiamata "Axan", di starne lontano; e per questo Ezzelino, girò sempre al largo da Bassano (Baxan) veneto.
Ma quando si trovò in difficoltà, durante la battaglia nel settembre 1259 e saputo che si trovava a Cassano, disse "Heu Caxan Axan Baxan! Hoc lethum michi, fatale dixit mater, hic finem fore!".


Appena fu conosciuta la morte del feroce signore, tutte le città che erano state da lui tiranneggiate, si affrettarono a scacciare i suoi servili funzionari, aprirono le prigioni e chiamarono le milizie guelfe.
Vicenza e Bassano chiesero podestà a Padova, mentre Verona diede questa carica a MASTINO della SCALA. Treviso scacciò ALBERICO da ROMANO, il quale si fortificò nel castello di San Zeno, chiudendosi dentro con la famiglia. Ma la lega guelfa, che aveva giurato lo sterminio dei Da Romano, inviò le truppe di Venezia, Treviso, Padova e Vicenza e quelle di AZZO D'ESTE ad assediare il castello.
Alberico si difese accanitamente; poi cadute per tradimento in potere dei nemici le opere esterne, si rifugiò in cima alla più alta torre, dove soffrì la fame per tre giorni, poi si arrese al marchese ricordandogli di aver dato la figlia in moglie a RINALDO D' ESTE.

Sperava Alberico di aver salva la vita e invece sopra di lui e su tutta la sua famiglia, furono vendicate le vittime di Ezzelino. Dinnanzi agli occhi gli uccisero prima la moglie, sei figli e due figlie; lui fu legato alla coda di focosi cavalli che lo trascinarono a corsa sfrenata per il paese finché rese l'ultimo respiro. Il suo cadavere fu fatto a pezzi ed ognuno di questi mandati come trofeo alle città che avevano patito il giogo dei Da Romano.

I FLAGELLANTI

"Alla feroce esaltazione che aveva prodotto lo sterminio della Casa Romano ci fu subito dopo - scrive il Bertolini - una reazione che produsse gli effetti più strani, mai visti. Nelle città che erano state desolate dalla tirannide di Ezzelino si levò improvviso un grido, la cui eco si ripercosse in tutta l'alta e la media Italia, diffondendo in ogni luogo un'estasi delirante. Era il grido di pace e di grazia. Mai la vendetta soddisfatta aveva prodotto un ravvedimento così tanto appassionato. Ma questo pentimento non fu il solo fattore dello strano fenomeno dei "FLAGELLANTI" (di cui parleremo ancora nel prossimo capitolo). Altri concorsero a produrla. E fra questi le impressioni destate dalle eresie, dall'inquisizione, dai roghi, dal fanatismo dei frati mendicanti, dalle furie delle fazioni fomentate dal rinnovarsi della lotta tra papato e impero, dalle calamità fisiche, quali la pestilenza e la fame.

"Le peregrinazioni dei flagellanti -scrive il Gregorovius- che parevano altrettanti demoni erranti, furono l'espressione popolare di una miseria universale, furono insieme protesta disperata e penitenza volontaria della società". Una espiazione fatta con il terrore inconscio.
E nel tempo stesso era il risveglio di una passione religiosa rude e superstiziosa: era una reminiscenza delle crociate. Lunghe processioni in ogni città si muovevano portandosi dietro gli abitanti e si flagellavano il corpo, parodiando la passione di Cristo. Gli uomini si spogliavano delle vesti fino alla cintola, avvolgevano la testa in un cappuccio, e armati di uno scudiscio, circondavano le chiese, cantando salmi che incutevano terrore e si picchiavano addosso con una furia da dementi. Anche Roma fu invasa dallo strano fanatismo. Un grosso gruppo di questi frenetici fanatici giunta da Perugia entrò in Roma nell'autunno del 1260 e trascinò la popolazione nel proprio delirio. Allora le carceri furono aperte, e in mezzo ai malfattori uscì proprio allora Castellano degli Andalò che fece ritorno alla sua Bologna".
In Italia a partire da questi anni, i flagellanti ebbero una loro istituzionalizzazione in confraternite. E servirono allo scopo per terrorizzare. Ci fu poi una forte ripresa -estesa in tutta Europa- durante la terribili peste del 1347-48, lieti di annunciare la fine del genere umano; poi nel 1349 fu vietata la flagellazione pubblica, che proseguì in gruppuscoli chiamati, pero poi, ereticali.

GUELFI E GHIBELLINI IN TOSCANA

Occorre ora tornare in Toscana - dei cui avvenimenti abbiamo fatto cenno nel precedente capitolo - e precisamente a Firenze. Fino al 1207 fu governata da consoli, che duravano in carica un anno, e da un senato di cento membri; poi ebbe anch'essa i suoi podestà forestieri. GUALFREDOTTO di Milano fu il primo podestà di Firenze.
Sebbene tra le famiglie fiorentine parte simpatizzassero pel Papato e parte per l'Impero, pur tuttavia nessuna discordia intestina era fino allora venuta a turbare la pace della città. A porre fine alla concordia venne però una particolare contesa di famiglie, la quale divise i fiorentini in due campi inaugurando un triste periodo di sanguinose lotte che doveva durare molti anni.
Una delle famiglie che simpatizzava per il Pontefice era quella dei BUONDELMONTI, signori un tempo di Montebuono nella val d'Arno superiore. Un membro di questa famiglia, BUONDELMONTE DE' BUONDELMONTI, aveva promesso di sposare una fanciulla degli AMIDEI, parente degli UBERTI, notoriamente sostenitori del partito imperiale, ma, invaghitosi di una DONATI, aveva lasciato la prima per unirsi in matrimonio con l'altra.
Questo fatto fu considerato degli Amidei come un affronto: riuniti gli UBERTI, i FIFANTI, i LAMBERTI e i GANGALANDI, loro congiunti, decisero di lavar l'onta con la morte. La vendetta fu consumata la mattina di Pasqua del 1215: Buondelmonte cadde ucciso mentre attraversava a cavallo il Ponte Vecchio.
Da questa uccisione ebbe origine la divisione della cittadinanza in GUELFI e GHIBELLINI.
GUELFI si dichiararono i Buondelmonti in favore dei quali si schierarono quarantadue delle principali famiglie di Firenze, GHIBELLINI gli Amidei e gli Uberti cui si associarono ventiquattro famiglie.

Per ben trentatré anni -scrive il Sismondi- le famiglie delle opposte fazioni si guerreggiarono dentro le mura della città; si azzuffavano tra loro o presso le torri che ogni potente famiglia aveva fabbricato o in quattro o cinque delle principali piazze, nelle quali i nobili di ogni quartiere avevano erette delle
fortificazioni mobili, dette "serragli", che si componevano di steccati o cavalli di Frisia con cui si chiudeva parte della strada e si proteggevano coloro che combattevano. Ognuna delle principali famiglie custodiva i serragli innalzati al di fuori del suo palazzo, e correva in fretta a chiuderli quando nasceva qualche tumulto; gli Uberti, ad esempio, i quali stavano di casa là dove sorge di presente il Palazzo Vecchio, signoreggiavano la strada che sbocca da un lato sulla piazza grande; i Tebaldini difendevano la porta di San Pietro, i Cattani la torre del Duomo.

Un alterco qualunque per un affare pubblico o privato, un motto offensivo incautamente pronunciato faceva sì che tutta la nobiltà corresse alle armi; ognuno si recava sul posto, e si combatteva nello stesso tempo in sei o sette parti della città. Ma sul far della notte la rissa cessava; le parti nemiche ritiravano tranquillamente i loro morti e il giorno seguente era consacrato ai funerali, ed i più valorosi dei Guelfi e dei Ghibellini si incontravano pacificamente, e alcune volte si adunavano perfino per dare il vanto e la gloria dello scontro del giorno precedente e per parlare di chi aveva dato prove di maggior coraggio.

Tutti si univano però contro lo straniero, e sacrificavano egualmente le loro private animosità alla gloria della patria; e durante la guerra di Siena, nella quale i Fiorentini ottennero molti vantaggi, nessuno avrebbe potuto sospettare che la loro stretta unione fosse in parte composta di ufficiali e soldati ghibellini".

Quando ancora Federico II si trovava all'assedio di Parma, nominò suo vicario in Toscana il suo bastardo FEDERICO, re d'Antiochia, e scrisse agli Uberti, capi dei ghibellini fiorentini, esortandoli a cacciare i Guelfi da Firenze. Gli Uberti mobilitarono le loro forze e dopo quattro giorni di combattimento accanito, sostenuti da Federico d'Antiochia, giunto alla testa di mille e seicento cavalieri tedeschi, ebbero il sopravvento sugli avversari, i quali, la notte della Candelora del 1248, uscirono da Firenze e si ritirarono e si rafforzarono in alcuni loro castelli della Val d'Arno.
I Ghibellini, rimasti padroni della città, demolirono le torri delle case dei Guelfi. Ne furono distrutte trentasei e fra queste quella dei TOSINGHI, alta centotrenta braccia, magnificamente ornata di colonne di marmo.
Nel marzo del 1249 i Ghibellini di Firenze mossero contro il castello di Capraia, ove si erano ritirati i capi delle principali famiglie guelfe. Federico II, che aveva preso stanza a Fucecchio, mandò le sue milizie a Capraia e fece stringere il castello con tanta ostinazione che gli assediati, dopo due mesi di strenua resistenza, rimasti privi di viveri dovettero arrendersi a discrezione. I principali Guelfi, caduti nelle mani dell'imperatore, furono mandati prigionieri nelle Puglie.
Il trionfo del ghibellinismo toscano era completo; ma non fu di lunga durata: il 20 ottobre del 1250, vivente ancora Federico II, ebbe luogo a Firenze una rivoluzione della borghesia, che diede il tracollo alla fazione ghibellina, di cui alcuni membri furono cacciati, e più tardi, morto l'imperatore, richiamò i fuoriusciti Guelfi.
Primo atto della rivoluzione fu la deposizione del podestà e in sua vece fu eletto UBERTO da LUCCA con il titolo di "CAPITANO DEL POPOLO", che doveva amministrare la giustizia insieme con un consiglio di dodici anziani, detto "SIGNORIA", scelti due per sestiere (rione) da rinnovarsi ogni due mesi.
Tutti i cittadini idonei alle armi furono divisi in venti compagnie, in novantasei la popolazione del contado; ad ogni sestiere fu dato un corpo di cavalieri formato di nobili o di ricchi popolani; ogni compagnia ebbe facoltà di eleggere i propri ufficiali; di tutta la milizia il comando lo assumeva il capitano del popolo.

Per impedire il risorgere della potenza dei nobili si ordinò che le loro torri non oltrepassassero cinquanta braccia d'altezza, e ne furono mozzate tante che il materiale ricavato fu sufficiente per cingere di mura l'Oltrarno.
Più tardi, nei primi del 1251, richiamati i Guelfi dall'esilio, i nobili delle due fazioni furono costretti a sottoscrivere un trattato di pace e al capitano del popolo fu aggiunto un nuovo podestà scelto fra i Guelfi di Milano.

Stabilito il "governo popolare", il comune fiorentino, alla testa della parte guelfa, iniziò nel 1251 una serie di lotte contro parecchie città ghibelline della Toscana, quali Pistoia, Pisa, Siena e Volterra; lotte che riuscite vittoriose per Firenze ne accrebbero la potenza. Pistoia fu sottomessa nel 1253, ricevette un presidio fiorentino e fu costretta a richiamare i Guelfi esiliati e a farli partecipi del governo cittadino; Pisa nel 1252 toccò una grave sconfitta presso Pontedera e nel 1254 chiese ed ottenne una pace svantaggiosa; nello stesso anno Volterra fu presa d'assalto e dovette scacciare la fazione ghibellina, e Siena fu obbligata a concludere un trattato di pace con Firenze, in cui, fra l'altro, si convenne che nessuna delle due città dovesse dare asilo ai ribelli dell'altra.
Verso la fine del 1258 il governo popolare-guelfo corse pericolo di essere rovesciato da una congiura tramata dai Ghibellini rimasti in città. Scoperta la congiura, i cospiratori furono citati dal podestà a giustificarsi davanti ai tribunali; avendo invece questi preso le armi e tentato di resistere nelle proprie case, furono assaliti dalle milizie del comune, che ebbero ragione dei ribelli. SCHIATUZZO degli UBERTI e molti suoi seguaci caddero uccisi nella mischia, un altro Uberti e un Infangati furono fatti prigionieri e decapitati; Farinata degli Uberti e gli altri Ghibellini dovettero lasciare Firenze e ripararono a Siena, dove furono bene accolti dalla fazione ghibellina allora nella città predominante.

Il comune fiorentino, vedendo in questo fatto una violazione del trattato stipulato con Siena, intimò a questa di espellere gli ospiti, ma Siena, forte di un'alleanza fatta con re Manfredi, si rifiutò, rispondendo che aveva concluso quel trattato con tutto il popolo di Firenze senza distinzione di partiti e non con un solo partito, quindi era nullo. Questa risposta tirò addosso ai Senesi una dichiarazione di guerra da parte dei Guelfi Fiorentini e allora i fuoriusciti Ghibellini mandarono a Manfredi un'ambasceria, di cui era capo FARINATA degli UBERTI, per chiedere aiuti.
Manfredi, non potendo o non volendo privarsi di numerose milizie, offrì ai fuorusciti una compagnia di cento cavalieri tedeschi, che gli ambasciatori non avrebbero accettato se Farinata, che aveva il suo piano, non li avesse consigliati a non rifiutare l'offerta. E' fama che il fiero ghibellino così dicesse ai suoi compagni: "Facciamo in modo di avere soltanto i suoi stendardi nel nostro esercito, noi li pianteremo in tal luogo e sarà costretto a mandarci ben presto più importanti e numerosi soccorsi".

Nel maggio del 1260 l'esercito guelfo fiorentino entrò nel territorio di Siena e, dopo essersi impadronito di molti castelli, andò ad accamparsi sotto le mura della città nemica, presso la porta di Camolia. Tra Fiorentini e Senesi erano frequenti le scaramucce, ma non si giungeva mai ad una vera e propria aperta battaglia campale.

Un giorno, il 17 maggio 1260, FARINATA degli UBERTI, dopo avere somministrato abbondante razioni di vino ai cento cavalieri tedeschi, li convinse a seguirlo e uscito con lui in testa fuori le mura caricò impetuosamente il nemico assediante. I tedeschi si spinsero così tanto in mezzo alle truppe fiorentine che non ebbero più modo di ritirarsi e perirono tutti combattendo, si salvò a stento FARINATA degli UBERTI.
La bandiera di Manfredi, nello scontro rimasta in potere dei Guelfi, fu trascinata nel fango, portata poi a Firenze, fu esposta agli oltraggi della plebe.
Era quello che voleva FARINATA degli UBERTI.
Manfredi, informato dell'accaduto, mandò a GIORDANO LANCIA, suo vicario in Toscana, ottocento cavalieri tedeschi. Ricevuti questi aiuti ed altri da Pisa e da tutti i Ghibellini toscani, i Senesi ripresero così tanto forza d'animo da passare dalla difensiva all'offensiva ed assalirono prima gli assedianti, poi Montepulciano e Montalcino, che erano sotto la protezione del comune di Firenze, nella speranza che i guelfi della città inviassero truppe in soccorso di quei territori amici in modo da creare così un vero grande scontro in un risolutivo combattimento.

Ma i Fiorentini essendo i due castelli troppo lontani e stimando pericoloso spingersi a così grande distanza dalla loro base, non si mossero. Allora FARINATA degli UBERTI, considerando che l'indugio era a tutto vantaggio del nemico, d'accordo con GHERARDO dei LAMBERTI, mandò a Firenze due frati minori i quali dissero che i fuorusciti erano disposti a pacificarsi con la loro città e che, essendo i Senesi malcontenti del governo, erano pronti a consegnare ai Fiorentini la porta senese di S. Vito.
Era necessario però che, con il pretesto di soccorrere Montalcino, l'esercito fiorentino si spingesse fino al fiume Arbia. Un tranello insomma, per far svuotare la città di milizie.

Gli anziani del comune di Firenze abboccarono all'amo e, radunato il consiglio del popolo, nonostante il conte GUIDO GUERRA, TEGGHIAIO ALDOBRANDI e CECE dei GHERARDINI, sperimentati uomini di guerra, sconsigliassero l'impresa, si decise la spedizione e con gli aiuti di Lucca, di Bologna, di Pistoia, Prato, San Miniato, San Gemignano, Volterra e Colle Val d' Elsa, si allestì un esercito di trentamila fanti e tremila cavalli, che poi rinforzato dalle milizie di Arezzo e di Orvieto, andò ad accamparsi presso il colle di Montaperti, sulle rive dell'Arbia, a cinque miglia da Siena, ad aspettarvi che, secondo i patti, fosse aperta la porta di S. Vito.
Questa porta, in realtà, si aprì la mattina del 4 settembre del 1260, ma non per essere data ai Fiorentini dai presunti traditori. Uscì infatti, schierato a battaglia, un esercito di tredicimila uomini, composto dalla cavalleria dei Tedeschi, dai fuorusciti e dai Senesi, da ottomila fanti di Siena e del contado, da tremila pedoni pisani e duemila fanti di Manfredi.

A quella vista quei pochi Ghibellini che per forza facevano parte dell'esercito fiorentino ed erano guidati dai DEGLI ABATI e dai DELLA PRESSA, abbandonate le bandiere del Comune, andarono ad unirsi al nemico. Nello stesso tempo quattrocento cavalieri tedeschi, che di nascosto avevano fatto il giro del colle, assalirono alle spalle le milizie di Firenze. Presa dal panico, la cavalleria fiorentina si diede alla fuga; resistette invece per un po' di tempo la fanteria, parte attorno al carroccio, parte entro la rocca di Montaperti, parte sul retro della collina; ma alla fine rotta, si diede anche questa alla fuga. Numerose furono le perdite dell'esercito sconfitto e fu l'Arbia, al dir di Dante, colorato in rosso dal sangue; dei Fiorentini circa duemila e cinquecento rimasero sul campo; i morti, complessivamente, ammontarono a diecimila e a molto di più i prigionieri.

Dopo questa disfatta i più ragguardevoli cittadini del partito guelfo, nobili e popolani, stimando di non potersi più sostenere a Firenze, il 13 settembre del 1260 abbandonarono la città e con le loro donne e i loro figli ripararono a Bologna e a Lucca. In questa ultima città li seguirono anche i più autorevoli guelfi di Prato, di Pistoia, di Volterra, di S. Gemignano e di altre terre della Toscana.
Diviso il bottino fatto sull'Arbia, i Senesi avanzarono nel territorio fiorentino sottomettendo alcuni castelli; i fuorusciti ghibellini, invece, sotto la guida del conte GUIDO NOVELLO seguiti dai cavalieri tedeschi del conte GIORDANO, il 27 settembre 1260, entrarono a Firenze e s'impadronirono del governo. Il conte Guido Novello fu nominato podestà, il Comune ritornò ghibellino com'era prima della morte di Federico II, e tutti i cittadini dovettero giurare fedeltà al re MANFREDI, che alla fine dello stesso mese fece convocare a Empoli una dieta delle città e dei signori della Toscana, di parte ghibellina allo scopo di discutere sul modo di rafforzare il ghibellinismo toscano e consolidare nella regione l'autorità regia.

Nella dieta di Empoli, aperta dal conte Giordano, i rappresentanti di Pisa e di Siena proposero che Firenze doveva essere distrutta, affermando che la città, essendo il suo popolo in maggioranza partigiano del guelfismo e sostenitore della causa della Chiesa, rappresentava un perenne pericolo per il partito ghibellino della Toscana.
Appoggiarono la proposta i rappresentanti delle città minori, le quali male sopportavano l'egemonia del comune fiorentino, e quei nobili che bramavano di ricuperare l'indipendenza perduta dai loro antenati. La distruzione di Firenze sarebbe stata decretata se a difendere la sua patria diletta non fosse insorto FARINATA degli UBERTI, il quale, pieno di sdegno, si oppose energicamente alla proposta dei suoi compagni e si dichiarò risolutamente pronto a impugnare le armi e a dare fino all'ultima goccia del suo sangue lottando anche da solo contro tutti coloro che avessero osato recare offesa alla sua città.

La risolutezza del fiero ed eroico ghibellino salvò Firenze da sicura rovina; non si parlò più di distruggere la città e si stabilì invece che a spese della lega si assoldassero milizie, in numero tale da potersi opporre a qualunque tentativo dei guelfi di impadronirsi di nuovo della città.
Di aver salvata la patria fu grato DANTE a FARINATA. Sebbene gli Uberti fossero stati sempre avversari degli Alighieri, il divino Poeta, non accecato dagli odi di parte, vide in Farinata uno dei più grandi eroi della sua terra e nel famoso episodio dell'Inferno non cercò di nascondere, anzi ostentò tutta l'ammirazione che nutriva per lui e ne volle immortalare la memoria con la terzina che ricorda la difesa di Firenze alla dieta di Empoli:

"Ma fu' io solo là, dove sofferto
Fu per ciascun di tórre via Fiorenza,
Colui che la difese a viso aperto".

La vittoria dei Ghibellini toscani irritò talmente ALESSANDRO IV che il 18 novembre di quello stesso anno 1260, lanciò la scomunica su tutti i sostenitori che il re Manfredi aveva in Toscana; ma l'anatema ebbe l'effetto opposto di quello che il Pontefice si riprometteva di ottenere, perché il 28 marzo del 1261 gli scomunicati, anziché cedere, si strinsero tra loro in alleanza contro i guelfi toscani.
La sconfitta di Montaperti, fu il colpo di grazia per ALESSANDRO IV: due mesi dopo, il 25 maggio, moriva, amareggiato per il fallimento della sua politica e rattristato dalla fortuna dello scomunicato Manfredi.

Mentre pareva che le sorte del Guelfismo non dovesse più rialzarsi, cresceva sempre di più il prestigio del monarca Svevo. Non poche inimicizie, è vero, contava MANFREDI fra i suoi baroni, né era cessata, nel suo regno, l'opposizione del clero; ma in compenso la maggioranza dei suoi sudditi lo amava, fedelissima gli era la colonia saracena che forniva (e lo abbiamo visto sopra) a lui il meglio delle milizie, e la sua potenza era tanto riconosciuta fuori d'Italia, da procurargli amicizie e parentele.
Molto vantaggiosi per lui furono i vincoli stretti con MICHELE DUCAS, despota della Tessaglia e dell'Epiro, e con GIACOMO D'ARAGONA: del primo Manfredi sposava, nel 1260, la figlia ELENA, che gli portava in dote Corfù, Butrinto, Subuto ed Aulona; mentre del secondo il figlio don Pedro, nel giugno del 1262, gli dava in sposa la figlia Costanza, nata dal primo matrimonio con Beatrice di Savoia.

PROSPERITÀ DEL REGNO DI SICILIA SOTTO MANFREDI

Forte all'interno, stimato e temuto al di fuori, Manfredi poteva credere di avere definitivamente consolidata la sua monarchia e di aver, dopo tante guerre e tanti disagi, assicurato al suo regno la pace e il benessere.
"I suoi luogotenenti - scrive il Lanzani - erano sparsi per tutte le province italiane. Importanti repubbliche prestavano nelle loro mani il giuramento di fedeltà al figlio dell'imperatore. Debellati gli esterni nemici, ridotta la Curia romana a vane minacce, restaurato l'ordine all'interno, Manfredi già rivolgeva l'animo alle arti della pace.
L'industria ed il commercio, una volta così prosperi nel regno normanno, ma che tanti anni di guerra civile avevano ridotto quasi a nulla, Manfredi cercò di far rifiorire grazie a numerose opere pubbliche e con proficui trattati con Venezia, con Genova, con l'Egitto. Un grandioso molo fu costruito a Salerno, sotto la direzione di Giovanni da Procida; al porto di Siponto, unico della Capitanata, ma da lungo tempo abbandonato per l'insalubrità di quel territorio, sostituì un nuovo porto, creando una nuova città alle falde del Gargano, la quale porta ancora oggi il nome del suo fondatore, vale a dire Manfredonia, nonostante gli angioini la ribattezzassero Siponto nuova.

Anche le università, di Napoli e di Salerno ritornarono all'antico splendore. Riviveva nel giovane monarca quella poliedrica attività che aveva reso il suo genitore celebre tra i Sovrani di tutta Europa.

Nella corte siciliana era tornata quella magnificenza, quella serena mondanità che aveva provocato contro Federico II tante calunnie dei Guelfi e tante maledizioni dei Papi. Cacce e tornei e splendide feste, destinate a celebrare o l'arrivo di qualche ospite illustre (come l'esule Baldovino), o il radunarsi dei Grandi del regno (quale fu la famosa caccia dell'Incoronata, data in occasione della corte plenaria di Foggia del 1259); o le familiari gioie del sovrano (quali furono le feste per il matrimonio con Elena d' Epiro); riconducevano la letizia e la vita fra le popolazioni da tanti anni rattristate dallo spettacolo di rivolte e di guerre continue.
Le cure del regno non erano impedimento ai diletti: né questi degeneravano in volgari godimenti. La nuova Corte Sveva era un ritrovo di poeti e cantori di ogni nazione; poeta egli stesso e il più gentile tra i cavalieri; come lo era la sua consorte che superava in grazia ed avvenenza le bellissime donne adunate intorno alla fortunata coppia.
Manfredi, sempre abbigliato con il colore della speranza, percorreva nella notte le vie delle sue città, con lieta comitiva di musicanti, che con lui sposavano al canto quei versi d'amore, ch'egli componeva (come già aveva fatto il padre) nel volgare siciliano.
I Guelfi così pieni di una immutabile ignoranza sempre in gara questa con la loro retriva superbia, chiamavano quella corte un focolare di corruzione; e fu detto come lì dentro una "dea ministra d'amore ed un dio delle vanità inducessero uomini e fanciulle a turpi libidini". Certamente quella Corte non era la Corte di S. Luigi, e nemmeno quella di Carlo d'Angiò, né un convento di flagellatori.
In quella Corte perfino la giovane poesia italiana, estranea ancora alle lotte ed alle fiere passioni politiche, continuava a addestrare nel linguaggio imparato nei castelli della Provenza e della Linguadoca, quel volgare che doveva di lì a poco sostituirsi al sermone della Chiesa e dei dotti nel più grande monumento della moderna letteratura.
Fu proprio Dante -(come abbiamo già ricordato, e ne parleremo ancora nelle pagine di letteratura del '300) quando scoprì gli autori siciliani, ammirato da tanta letteratura che dall'isola sulla penisola si riversava affermò ad un certo punto: "tutto quello che c'è in giro, scritto prima di noi, sembra tutto provenire dalla scuola siciliana".

Ma per Manfredi c'erano altre tribolazioni, c'era a rovinargli la festa un altro terribile papa, che ben sapendo che non bastavano le armi spirituali, cercò di far brandire le armi ad uno straniero, potente, ambizioso, per togliere allo Svevo il regno e se possibile anche la vita. E ci riuscì!

è quello che racconteremo nella prossima puntata:

il periodo dal 1261 al 1266 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
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