ANNI 1339 - 1343

GUERRE DI GENOVA PISA E FIRENZE - LOTTE TRA POPOLO E NOBILTA' 
LE COMPAGNIE DI VENTURA

GENOVA TRAVAGLIATA DALLE DISCORDIE INTESTINE. - SIMONE BOCCANEGRA E GIOVANNI DI MURTA DOGI DI GENOVA - I CORREGGESCHI A PARMA - MASTINO II VENDE LUCCA AI FIORENTINI - GUERRA TRA PISA E FIRENZE - FIRENZE SOTTO LA SIGNORIA DEL DUCA D'ATENE - TIRANNIDE DEL DUCA E CONGIURE CONTRO DI LUI - CACCIATA DEL DUCA D'ATENE DA FIRENZE - LOTTE IN FIRENZE TRA POPOLO E NOBILTÀ - LA GRANDE COMPAGNIA DI VENTURA DEL DUCA GUARNIERI DI URSLINGEN

LE FAZIONI A GENOVA   
SIMONE BOCCANEGRA E GIOVANNI DI MURTA

Un mese circa dopo la morte di Azzo Visconti un avvenimento importantissimo ebbe luogo a Genova: l'istituzione del dogato, il che ci mostra come oramai le signorie trionfino in quasi tutta l'Italia e dinanzi ad esse il governo repubblicano sia quasi ovunque scomparso. 
Solo Firenze, che pure abbiamo visto sotto la signoria, si regge a Comune, ma neppure Firenze tarderà ad avere un signore. Le famiglie guelfe si erano sostenute in Genova fino al 1331, ma quando, in questo anno, per aver fomentato ed aiutato ribellioni in Sardegna, la repubblica ligure era entrata in guerra con gli Aragonesi, per il bene della patria comune le discordie tra Guelfi e Ghibellini erano state composte, questi ultimi erano tornati in città e le pubbliche cariche erano state ugualmente divise tra le due fazioni. 
Conclusa però la pace con Pietro IV d'Aragona (successo ad Alfonso) (1336), erano rinate le lotte civili e i Guelfi, sopraffatti, si erano ritirati a Monaco. Rimaste padrone della città, le famiglie nobili ghibelline avevano cominciato a governare con arroganza suscitando vivissimo malcontento nel popolo. Nel 1337 esse avevano prorogata per tre anni la durata in carica dei due capitani, RAFFAELLO DORIA e GALEOTTO SPINOLA e a questi avevano conferito il diritto di nominare l'abate del popolo che il popolo stesso per il passato aveva la consuetudine a eleggere. Era il tempo in cui violentissima ardeva la guerra tra la Francia e l'Inghilterra, e quaranta galee genovesi erano al servizio di Filippo Valois. Ne aveva il comando Antonio Doria e poiché non pagava l' intero stpendio ai marinai, questi, aizzati da un PIETRO CAPURRO di Voltaggio, si ammutinarono e chiesero giustizia al re di Francia. 
Filippo, invece, diede loro torto e fece arrestare Pietro e i capi della rivolta. La sedizione venne domata, ma moltissimi marinai lasciarono la flotta e fecero ritorno in Liguria. In patria essi trovarono la parte popolare malcontenta delle prepotenze dei nobili. Gli irrequieti marinai soffiarono nel fuoco e l' incendio divampò. 
Primi a prender le armi furono gli abitanti di Voltaggio, irritati dalla prigionia del loro concittadino Pietro; li imitarono poco dopo quelli delle valli della Polcevera e del Bisagno; poi fu la volta dei Savonesi, i quali, sollevatisi, si impadronirono dei magistrati, dei nobili e di ODOARDO DORIA, che governava la città, ed eletti capitani due popolani, mossero verso Genova, dove il popolo era pronto alla rivoltarsi. La sedizione fu scongiurata dalla arrendevolezza dei nobili, i quali, richiesti di restituire al popolo il diritto di eleggersi l'abate, lo concessero. 

Era il 23 settembre del 1339. Si doveva procedere all'elezione dell'abate quando fra il popolo radunato si levò una voce proponendo il nome di SIMONE BOCCANEGRA, uomo prode e savio, discendente da nobile ed antica famiglia. La proposta incontrò l'approvazione generale e il nome fu ripetuto con vera soddisfazione da mille bocche; ma Simone non voleva accettare la carica, adducendo come scusa di non essere un Popolano
Allora il popolo gridò che lo voleva signore, ma poiché anche questa carica egli diceva di non potere accettare essendoci i Capitani, la folla lo acclamò Doge
I capitani non stimarono prudente opporsi alla volontà popolare e, abbandonato il potere, uscirono da Genova e si ritirarono nelle loro terre. Simone Boccanegra venne eletto doge nella chiesa di Sant'Andrea. Sebbene in quella carica fosse stato innalzato a vita, egli non vi rimase che cinque anni, durante i quali esercitò il potere con l'assistenza di un consiglio popolare. 
Savio ed energico fu il suo governo: gli eccessi della plebe, ubriacata dalla vittoria, furono virilmente repressi; con molta generosità fu liberato dalle mani del popolo il nobile REBELLA GRIMALDI; venne tutelato il territorio della repubblica dalle incursioni del marchese del CARRETTO, e furono ridotte all'obbedienza le terre della Riviera eccettuate quelle di Ventimiglia e Monaco saldamente tenute dalle famiglie dei nobili delle fazioni guelfe e ghibelline. 

Nè solo contro i fuorusciti ebbero a lottare le armi genovesi durante il governo di Simone Boccanegra, ma anche — e con vittoria — contro i Turchi sul Mar Nero, contro i Tartari presso Caffa e contro i Mori di Spagna. Malgrado però questi successi, il governo del doge fu ostacolato molto dalle non poche famiglie di nobili che erano rimaste a Genova ed agivano d'accordo con quelle di fuori, tanto che nel 1344 il Boccanegra fu costretto ad ammettere nel Consiglio e nelle altre cariche i nobili e a permettere che il suo potere fosse limitato. 
Vedendo scemata la sua autorità e comprendendo che non gli era, per ciò, possibile eliminare le lotte di parte, Simone il 23 dicembre del 1344 rinunziò alla carica. Gli successe GIOVANNI di MURTA. Pochi giorni dopo la sua elezione, il popolo di Savona cacciò i nobili, e i Genovesi, a quella notizia, levatisi a tumulto, crearono di nuovo il consiglio del doge che risultò composto tutto di popolani.

 La guerra contro i nobili sulla Riviera continuò per buona parte dell'anno 1345; finalmente alcuni di essi furono riammessi in città; i Grimaldi però e parecchi altri nobili non vollero saperne di scendere ad accordi, e da Monaco, dove avean fatto il loro centro, continuarono a lottare contro la repubblica.
 Il governo desiderando armare subito una forte flotta e non avendo i denari occorrenti invitò, come aveva già fatto altre volte, i cittadini più ricchi a sostenere tale spesa obbligandosi, naturalmente, a rimborsarli più tardi. Fu così che si riuscì con i denari di 29 cittadini (3 nobili e 26 popolani) ad allestire in meno di un mese ben 29 galee, di cui ciascuna aveva almeno 200 uomini. Il che ci porge un' idea delle grandi ricchezze accumulate dalle principali famiglie (Orsi)


GUERRA TRA PISA E FIRENZE 
LA SIGNORIA DEL DUCA D'ATENE


Firenze, che siera dovuta rassegnare alla svantaggiosa pace di Venezia, teneva sempre gli occhi su Lucca, posta sotto la sovranità di Mastino II della Scala, i cui domimi comunicavano con questa città toscana per mezzo del territorio parmense. Consapevole della grande importanza che, per questo fatto, aveva Parma, lo Scaligero per meglio assicurarsene l'obbedienza l'aveva concessa in feudo ai suoi zii materni, figli di GILBERTO da CORREGGIO. Egli era sicuro della fedeltà dei Correggeschi, ma non sapeva quanto essi fossero ambiziosi e che per la brama di rendersi indipendenti erano disposti a dimenticare i legami di sangue e venir meno al sentimento di gratitudine. 

Più ambizioso di tutti era il terzogenito di Gilberto, Azzo, il quale, aiutato dai Visconti, dai Gonzaga e da Roberto d'Angiò, il 17 maggio del 1341, entrato in Parma, vi si fece proclamare signore. Perduta questa città e disperando di ricuperarla, impegnato com'era in una guerra contro i signori di Milano e di Mantova, Mastino pensò di cedere Lucca, rimasta tagliata dal resto dei suoi domini; e contemporaneamente la offrì ai Fiorentini ed ai Pisani. Firenze, decisa a non lasciarsi sfuggire l'occasione di fare un acquisto che tanto le stava a cuore, e nominò venti commissari cui diede l'incarico di pattuire con lo Scaligero e di raccogliere la somma necessaria. 

L'acquisto di Lucca fu trattato per mezzo del marchese d' Este, si stabilì il prezzo di ducentocinquantamila fiorini d'oro e si convenne che le due parti avrebbero mandato a Ferrara cinquanta ostaggi che vi sarebbero rimasti fino all'esecuzione del trattato. I Pisani, che avevano rotto le trattative con lo Scaligero non potendo sborsare una somma tanto considerevole, appena seppero che Firenze aveva acquistato la città, decisero di occuparla con le armi e, poiché ciò avrebbe provocato una guerra coi Fiorentini e con Mastino della Scala, cercarono e trovarono numerosi alleati. Si unirono a loro i conti Guidi, gli Ubaldini, Francesco Ordelaffi,  tutti i Ghibellini della Romagna e della Toscana,  i Genovesi, i Gonzaga, i da Carrara, i Correggeschi e Luchino Visconti, signore di Milano che inviò duemila cavalli al comando del nipote Giovanni. 
Ma prima ancora che giungessero i soccorsi degli alleati, i Pisani avevano armato un buon esercito di milizie, le quali nel mese di luglio avevano invaso il territorio lucchese, occupati il Ceruglio e Montechiaro. I Fiorentini che non potevano prevedere la mossa dei Pisani non si erano preparati ad una guerra; dal canto suo la guarnigione scaligera che presidiava Lucca non poteva per l'esiguità delle sue forze opporsi alle milizie di Pisa, le quali, senza incontrare ostacoli, si avvicinarono alla città e la cinsero d'assedio. 

Solo verso la metà d'agosto Firenze riuscì a radunare un esercito e mandarlo alla volta di Lucca. Esso era formato di diecimila fanti, di duemila cavalieri mercenari e di millecinquecento cavalli forniti da Mastino. Lo comandava MATTEO PONTECARALI di Brescia. 
Forzate le linee degli assedianti, i Fiorentini — ai quali nel frattempo la somma pattuita per l'acquisto era stata dallo Scaligero ridotta a centottantamila fiorini — riuscirono il 21 settembre del 1341 a introdurre nella città trecento cavalieri e cinquecento fanti, che a nome del loro comune presero formalmente possesso di Lucca congedando il presidio di Mastino, ed undici giorni dopo (2 ottobre) Matteo Pontecarali diede battaglia ai Pisani. 
Il combattimento che sulle prime volse favorevole alle milizie di Firenze, che erano riuscite a battere due schiere nemiche e a far prigioniero Giovanni Visconti, finì invece con la loro completa sconfitta. Essendo nella battaglia caduto prigioniero anche Matteo, il comando dell' esercito fiorentino, il quale dopo la rotta si era precipitosamente ritirato, venne affidato a Malatesta da Rimini. Questi il 27 marzo del 1342 andò ad accamparsi a Gragnano, poi a San Pietro in Campo e sebbene le sue milizie fossero di gran lunga più numerose delle pisane non volle o non seppe liberare Lucca dall'assedio e sul finire di maggio si ritirò. 

Scoraggiato e privo di vettovaglie, il presidio fiorentino, di Lucca capitolò e il 16 luglio del 1442 aprì le porte ai Pisani. Fin da quando Lucca era assediata era sorto in Firenze un grande malcontento contro la ricca borghesia che teneva nelle mani le redini del governo, oltre che essere scontento della condotta della guerra. 
I cittadini si lagnavano, e non a torto, di Malatesta che non riusciva pur avendo più forze ad aver ragione dei Pisani e portavano alle sfelle il nome dì un forestiero che, sotto Lucca, in alcune scaramucce aveva dato prove di grande valore e di  rara abilità. 
Era questi quel GUALTIERI di BRIENNE, duca di  Atene, che nel 1326 era stato a Firenze luogotenente del duca di Calabria. Appartenente a famiglia di  origine francese era stato dalla madre condotto ancor fanciullo in Italia ed era cresciuto nel reame di Napoli. Era ben visto dal re di Francia e da Roberto d'Angiò e questi anzi gli aveva concesso feudi e data in sposa una propria nipote.
 Ambizioso, astuto, corrotto, aveva saputo procurarsi molte aderenze nel suo soggiorno a Firenze e, qui tornato nel 1342 si era messo al servizio del Comune. Alcune brillanti sue imprese all'assedio di Lucca avevano accresciuto talmente il numero dei suoi stimatori che nel giugno era stato eletto capitano e conservatore del popolo e tutti erano certi, che presa lui la direzione della guerra questa sarebbe stata in breve tempo coronata dal successo. 

Giovanni di Brienne doveva entrare in carica il 1° di agosto. Ma la capitolazione di Lucca avvenuta il 6 luglio gli impedì di provare con i fatti la fondatezza delle speranze in lui riposte dai cittadini.

Tuttavia entrato in carica, il duca di Atene fece sentire il peso del suo braccio alla grassa borghesia: mandò a morte Giovanni dei Medici che aveva il comando della fortezza di Lucca al tempo dell'assedio; fece processare e condannare a gravissime multe sotto l'accusa di peculato Rosso dei Ricci e Nando degli Oricellai; infine accuso di baratteria e fece decapitare Guglielmo Altoviti capitano in Arezzo. Con queste condanne Gualtieri di Brienne tracciava la via della sua politica. Era chiaro che  egli volesse amicarsi la nobiltà e la plebe ed esautorare la ricca borghesia. Perciò dalle prime ebbe plausi e profferte di amicizia e ad esse promise che avrebbe abolito gli ordinamenti di giustizia se lo avessero aiutato a fargli conseguire la signoria.
 Intensissima  ed efficacissima fu la propaganda in favore del duca fatta dai suoi aderenti. 
 «Andava questi - scrive il Sismondi - dicendo che il governo del Comune aveva estremo bisogno di riforme, che l'esito dell'ultima guerra aveva sufficientemente mostrato quanto fosse grande la corruzione dei rettori della repubblica, che occorreva un braccio fermo e vigoroso per togliere gli abusi e conciliare gli animi; che il duca di Atene aveva mostrato di essere l'uomo che ci voleva poiché le circostanze richiedevano quella fermezza di carattere e quel senso di giustizia di cui egli aveva dato prova. Tali discorsi ripetuti nelle adunanze delle corporazioni delle arti e nelle taverne dove i soldati de duca si mescolavano al popolo per corromperlo, diedero animo ad alcuni dei grandi di proporre ai priori che si offrissero al duca la signoria di Firenze" (Sismondi)

 Se non l'assoluta signoria, i priori si lasciarono persuadere di prorogare per un anno il potere di Gualtieri di Brienne e l' 8 di settembre venne convocato il popolo a Parlamento, al quale il duca partecipò con la sua guardia di centoventi cavalieri e trecento fanti e i nobili intervennero armati. All'adunanza, uno dei priori, FRANCESCO RUSTICHELLI fece a nome della signoria la proposta della proroga: ma la plebe già guadagnata alla causa del Brienne, gridò che lo voleva signore a vita, lo portò a braccia nel Palazzo, costrinse i Priori a bruciare il libro contenente gli ordinamenti di giustizia, lacero il gonfalone del Comune e, tolte le insegne repubblicane, sostituì ad esse gli stemmi del duca d'Atene.

Dopo questo "colpo di Stato" a Firenze, Gualtieri si fece dare la signoria di Arezzo di Pistola di Colle, di San Gemignano e di Volterra, quindi per consolidare meglio il suo Potere chiamò sotto le sue bandiere tutti i Francesi e Borgognoni che allora militavano in Italia, riunendo così sotto il suo comando circa ottocento cavalieri, e infine fece venire molti suoi parenti ed amici a cui egli conferì posti e importanti cariche. Speravano i Fiorentini che avrebbe lavata l'onta subita dalle loro armi sotto Lucca; ma il duca non era disposto a muover guerra ai Pisani non avendo denari per farla e non volendo lasciar Firenze, in cui i ricchi borghesi, durante la sua assenza, avrebbero potuto levargli il potere.
Fece invece proposte di pace a Pisa e il 14 ottobre concluse un trattato, con la quale Pisa si obbligava a pagare a Firenze, ratealmente, la somma di cento cinquantamila fiorini, in compenso di quelli dati a Mastino della Scala, e teneva sotto di sé la città di Lucca per un periodo di quindici anni, poi la città sarebbe tornata libera. I prigionieri dovevano esser liberati senza riscatto; i guelfi fuorusciti di Lucca dovevano essere richiamati al pari degli esuli Fiorentini; per cinque anni era concessa a Firenze assoluta franchigia nei porti di Pisa. 

Questo trattato spiacque molto ai fiorentini sia nobili che popolani e cominciò da allora a manifestarsi anche nelle file degli stessi partigiani del Duca un vivo malcontento, che di giorno in giorno si faceva più grande per il contegno di Gualtieri che era quello d'un esoso e arrogante tiranno. Egli difatti aveva privati i priori di ogni autorità e abolito l'ufficio dei gonfalonieri delle compagnie; in seguito annullò tutti gli ordinamenti delle arti e mestieri, fece fortificare il suo palazzo per poter meglio esercitare la tirannide, e fece occupare dai suoi soldati le case vicine, togliendole senza alcun compenso ai proprietari. Inaspriva le imposte e obbligava i cittadini più ricchi a prestiti forzosi. 
Né queste soltanto erano le cause del malcontento generale. I borghesi si lamentavano di essere stati prostrati; i nobili di non essere stati innalzati alle pubbliche cariche come era stato loro promesso; i ricchi dell'avidità del Duca intento solo a raccoglier denari; infine i migliori cittadini si lamentavano perfino della lascivia del signore e dei suoi amici che insidiavano l'onestà delle loro consorti. 

Oramai il giogo del tiranno pesava indistintamente su tutti i cittadini e ognuno studiava il modo di restituire la libertà alla patria. Molte congiure si ordirono in tutti gli ordini dei cittadini, delle quali tre per qualità e numero dei componenti, potentissime. La prima era capeggiata dallo stesso vescovo di Firenze, AGNOLO ACCIAIUOLI, e contava tra le sue file i principali nobili quali i Bardi, i Rossi, i Frescobaldi, gli Scali, e alcuni influenti popolani tra cui gli Alleviti, i Magalotti, gli Strozzi e i Mancini. I congiurati si erano messi in rapporto con i Senesi, con i Perugini e con i conti Guidi, e avevano guadagnato alla loro causa parecchie guardie del Duca, proponedosi di assalirlo nel suo stesso palazzo. 
La seconda era costituita dai Pazzi, da Caviciulli e da alcuni Donati ed Albizzi, i quali avevano deliberato di uccidere il tiranno il giorno di San Giovanni in casa degli Albizzi dove sarebbe andato per assister di là alla corsa dei cavalli. 
La terza da Antonio degli Adimari, dai Bordoni, dai Rucellai, dagli Aldobrandini e da molti altri ricchi popolani, i quali, sapendo che il Duca aveva una tresca, con una donna dei Bordoni, avevano stabilito di farlo assalire da cinquanta giovani armati quand'egli fosse andato a visitarla. 

Ma tante congiure non potevano naturalmente rimaner segrete; qualche notizia arrivò a Gualtieri, che indagò, interrogò, fece spiare, scoprì, sventò le trame e si premunì contro i nemici. Licenziò parecchie delle sue guardie, di cui sospettava, sostituendole con altri soldati più fedeli; aumentò il loro numero; fece chiudere i cancelli di ferro e custodire tutti i passaggi per i quali i congiurati avrebbero potuto penetrare nel suo palazzo; non si recò dagli Albizzi il giorno di San Giovanni; si fece scortare da cinquanta cavalieri e cento fanti quando andava in casa Bordoni, e intanto non cessava di star guardingo e di cercar di scoprire i nomi dei congiurati. L'imprudenza d'un uomo d'arme, che faceva parte della terza congiura, fece conoscere al Duca qualche nome; due cittadini, messi alla tortura, dissero il 18 luglio del 1343 che capo di essa era Antonio degli Adimari e questi, senza che si perdesse tempo, venne tratto in prigione. 
La notizia di questo arresto mise in grande trepidazione i congiurati. Il tramestio che ne seguì fece consapevole il Duca del gran numero dei suoi nemici e lo consigliò ad agire con prudenza. Invece di proceder subito contro di essi, cercò di raccogliere intorno a sé più armati che potè, richiamò i suoi dalle vicine terre e scrisse a Taddeo Pepoli, signore di Bologna, con cui si era alleato, di mandargli un corpo.
 Quando si credette abbastanza forte e seppe che trecento cavalli bolognesi erano in viaggio alla volta di Firenze, il duca d'Atene pensò di sbarazzarsi di un sol colpo dei principali congiurati e il 26 luglio invitò trecento dei più ragguardevoli cittadini a riunirsi il giorno dopo nel Palazzo sotto il pretesto di consigliarsi con loro circa il castigo da dare ai colpevoli, ma in verità per poterli agevolmente far trucidare. Infatti la sala prescelta per quest'adunanza aveva le finestre munite d' inferriate e le sue guardie avevano ricevuto ordine di chiuder le porte non appena gli invitati fossero entrati e quindi di massacrarli. Se si deve credere al Villani, gli armati che dovevano commettere il vile assassinio avevano ricevuto dal Duca la promessa che, fatto il colpo, sarebbe stato loro concesso di saccheggiare la città. 

 Tra gli invitati all'assemblea si trovavano i capi di tutte le congiure; essi credendo il tiranno più informato di quel che non fosse intorno alle trame e ai nomi, presentito l'inganno, cominciarono a consigliarsi tra loro sul da fare e fu così che tutte quelle congiure, ignote l'una all'altra, si scopersero e si riunirono in una sola. La notte passo in febbrili preparativi: i congiurati apparecchiarono le armi, raccolsero i loro amici e i loro servi e si tennero chiusi nelle loro case. Il giorno seguente, che era il 26, naturalmente nessuno degli invitati andò all'adunanza e la città assunse l'aspetto caratteristico dei giorni che precedono qualche tumulto.  Accortosi dal movimento misterioso di gente che avveniva nelle strade che qualche cosa dei suoi disegni era trapelato, per impedire o sedare un'eventuale rivolta Gualtien di Brienne ordinò che seicento cavalieri fossero scaglionati nei vari quartieri e fece occupare dal resto della cavalleria la piazza in cui sorgeva il Palazzo. 
Queste cautele però non valsero a scongiurare il tumulto, che scoppiò improvvisamente al Mercato Vecchio e a Porta San Pietro. Alcuni popolani gridarono alle armi, all'improvviso  le porte si aprirono, gli armati che stavano nelle case uscirono fuori e come se si fossero accordati prima, accorsero nei luoghi dove solevano radunarsi le milizie cittadine; le strade vennero asserragliate e dappertutto risuonò il grido di Viva il popolo ! Viva il Comune ! Viva la libertà ! 

 Nessuna forza riuscì a trattenere la furia popolare. I cavalieri del Duca che presidiavano i vari quartieri, assaliti vigorosamente, tentarono di ritirarsi verso il palazzo, ma di seicento solo la metà vi riuscì, il resto venne massacrato o fatto prigioniero e le armi catturate vennero subito usate dagli stessi rivoltosi. Questi allora da ogni parte puntarono verso la piazza, ne barricarono le vie di accesso, occuparono le case che la fiancheggiavano e dai tetti e dalle finestre cominciarono un nutrito ed ininterrotto lancio di pietre e tegole contro la cavalleria, la quale, impotente a difendersi, fu costretta a trovar riparo nel palazzo, lasciando la piazza e i cavalli in potere dei cittadini. 
Altri rivoltosi intanto occupavano il palazzo del podestà e aprivano le prigioni delle Stinche liberando i carcerati; nel quartiere d'Oltr'Arno i cittadini avevano occupato le porte, le mura e i ponti per potervi fare resistenza qualora  gli altri quartieri fossero caduti in mano alle milizie del Duca; ma, trionfando la rivoluzione, anche questi passarono il fiume e avanzarono verso la piazza dei priori urlando: Muoia il Duca ! Viva il Comune e la libertà !  Gualtieri di Brienne, assediato nel palazzo con quattrocento dei suoi Borgognoni, non vedendo altra via di scampo, cercò di placare il popolo rimandando libero Antonio degli Adimari. Vano tentativo ! E vane furono le speranze del Duca di poter  mantenere la signoria di Firenze; subito il Vescovo, riuniti a parlamento nella cattedrale i rappresentanti del popolo, formò un consiglio di quattordici cittadini, sette nobili e sette popolani, cui affidò il governo della città.

 La signoria del duca d'Atene era virtualmente finita e fu fortunato Gualtieri, che già cominciava a sentir la fame, di trovare la propria salvezza nella generosità del vescovo. Questi si fece intermediario tra il popolo e il tiranno, ma il popolo allora reclamò che gli venisse dato Guglielmo d'Assisi, uno dei più feroci ministri del signore, insieme col figliuolo, perverso quanto il padre sebbene in età di diciotto anni. Del padre e del figlio, il 1° agosto, fu fatto orribile scempio dalla plebaglia ubriacata dall'odio. Finalmente il 3 di agosto fu fatto per merito del vescovo l'accordo: il Duca rinunciò alla signoria e promise di ratificare la rinuncia appena fosse giunto sano e salvo fuori del territorio fiorentino; ma temendo la furia del popolo rimase altri tre giorni chiuso nel palazzo. 
La notte del 6 agosto uscì sotto la scorta dei quattordici del Consiglio e dei più ragguardevoli cittadini e fu condotto a Poppi. Qui ratificò la rinuncia, poi per Bologna e Ferrara, infine andò a Venezia, e per via di mare raggiunse la sua contea di Lecce. 
Morì tredici anni dopo in Francia, combattendo contro gli Inglesi a Poitiers.


FIRENZE DOPO LA PARTENZA DEL DUCA D'ATENE
 GUARNIERI DI URSLINGEN E LA SUA COMPAGNIA DI VENTURA


II comune di Firenze, prima della signoria del duca di Atene, era considerato come il più ricco d'Italia e il secondo d' Europa, superandolo solamente il re di Francia. Possedeva Arezzo, Pistoia, Volterra, Prato, Colle Val d' Elsa, San Gemignano, e oltre più di sessanta castelli; le sue entrate pubbliche raggiungevano la cifra di trecentomila fiorini annui; i suoi abitanti erano centocinquantamila, di cui venticinquemila alle armi; ottantamila gli uomini idonei alle armi; millecinquecento i nobili sottoposti agli ordinamenti di giustizia, diecimila gli studenti; vi erano centodieci chiese, cinque badie, due priorati con ottanta regolari, ventiquattro monasteri con cinquecento monache, trenta ospedali con mille letti; duecento fabbriche di panni di lana, in cui lavoravano trentamila operai, che producevano ogni anno ottantamila pezze di stoffa del valore di un milione e mezzo di fiorini; ventiquattro banchi di cambio e una zecca che annualmente coniava circa quattrocentomila fiorini. 

Quando i Fiorentini cacciarono il duca d'Atene nessun possedimento rimaneva più a loro. Gli Aretini si erano resi liberi, durante i giorni della rivolta; Pistola aveva cacciato il presidio di Firenze, lo stesso avevano fatto Colle e San Gemignano; Vol terra era tornata sotto la signoria dei Belfordi. I Fiorentini non potevano pensare a ricuperare i loro domini. Riacquistata l'indipendenza occorreva riordinare la repubblica e riformare le leggi e a quest'opera essi si dedicarono. La borghesia venne esclusa dal governo e le cariche pubbliche furono date per due terzi ai popolani e per un terzo ai nobili, che avevano partecipato alla distruzione della tirannide e che, aboliti gli ordinamenti di giustizia, vennero sottoposti alle leggi comuni. 

Però questo trattamento fatto ai nobili fu causa di nuove lotte. Essendo ricominciate le violenze della nobiltà, insorse il popolo tumultuando il 22 settembre del 1343 e depose i quattro membri ch'essa aveva nella signoria. Allora le vie tornarono a risuonare del fragore delle armi: Andrea Strozzi che tentava di trarre dalla sua parte la plebe fu costretto a salvarsi con la fuga; i palazzi dei nobili vennero assaliti l'uno dopo l'altro e presi, primo quello degli Adimari, poi quelli dei Donati e dei Cavalcanti, ultimi quelli dei Frescobaldi, dei Merli, dei Rossi e dei Bardi. Domata la nobiltà, fu creata una nuova balìa per riformare la costituzione, gli ordinamenti di giustizia vennero rimessi in vigore equamente temperati e cinquecentotrenta famiglie furono cancellate dal ruolo dei nobili e iscritte in quello dei popolani. 

In quel medesimo anno, prima ancora della cacciata del duca d'Atene, si allontanava dall' Italia una grande compagnia di ventura, le cui schiere, composte di Tedeschi, avevano militato al soldo di Pisa e di Firenze ed avevano partecipato alla guerra di Lucca. Licenziate dalle due repubbliche appena conclusa la pace, queste soldatesche si erano riunite sotto il comando del duca GUARNIERI di URSLINGEN, uomo feroce e senza scrupoli, il quale, se si deve credere ad alcuni cronisti contemporanei, portava sul petto una targa d'argento su cui erano incise le seguenti parole: Nemico di Dio, della pietà e della misericordia. 

La grande compagnia di Guarnieri dal territorio pisano passò in quello di Siena, lo mise orribilmente a sacco e se ne allontanò solo allorquando la città gli pagò la somma da lui richiesta di dodicimila fiorini. Di là Guarnieri infestò i territori di Montepulciano, Città di Castello e Perugia, saccheggiando le campagne ed ottenendo dalle città il pagamento di grosse somme, poi passò in Romagna, devastando per conto suo i contadi o facendo la guerra per conto di piccoli signori della regione contro altri principi loro nemici, sempre però molesto agli uni e agli altri. Quelli che furono più danneggiati dai saccheggi della Grande Compagnia furono i territori di Rimini e di Cesena. 

Ma quando Guarnieri fu giunto presso Faenza, gli si presentò davanti, per contrastargli il passo, alla testa di tremilacinquecento cavalli TADDEO  POPOLI, il quale il 28 agosto del 1337, scacciati i Gozzadini, si era fatto proclamare signore di Bologna. 
Non stimando prudente aprirsi la via con le armi, il duca Guarnieri accettò sessantamila lire che il Popoli gli offriva e, attraversato pacificamente il territorio bolognese, passò coi suoi in quello di Modena, donde si spinse verso il Po razziando le campagne di Reggio e di Parma. 

Ma erano questi gli ultimi suoi saccheggi. Quando si trovò di fronte a numerose milizie mandategli contro dai Gonzaga, dagli Estensi, dagli Scaligeri e dai Visconti, all'esito incerto di una battaglia Guarnieri preferì venire ad un accordo e, ricevuta una grossa somma, accettò di mandare alla spicciolata in Germania le sue soldatesche. Era il maggio del 1343. Vedremo più tardi il rapace condottiero ridiscendere in Italia e desolarne le campagne con altre rapine.


Dobbiamo ora occuparci dei VISCONTI
facciamo un passo indietro

e trattiamo il periodo che va dal 1340 al 1355, con le lotte di popolo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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