ANNI 1495 - 1498

FIRENZE E IL SAVONAROLA 

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA FIORENTINA DOPO LA CACCIATA DI PIERO DE' MEDICI - FRA GIROLAMO SAVONAROLA E LA NUOVA COSTITUZIONE - GUERRA TRA FIRENZE E PISA - RIVOLTA DI MONTEPULCIANO - I FRANCESI RESTITUISCONO LIVORNO AI FIORENTINI, VENDONO SARZANA AI GENOVESI E PIETRASANTA AI LUCCHESI - LUDOVICO IL MORO E I VENEZIANI SOCCORRONO PISA - MORTE DI PIER CAPPONI - L'IMPERATORE MASSIMILIANO SCENDE IN ITALIA E TENTATIVI DI SOTTRARRE IL PIEMONTE ALL' INFLUENZA FRANCESE - MASSIMILIANO ASSEDIA LIVORNO E RITORNO IN GERMANIA - GUERRA PONTEFICE-ORSINI - PACE DEL MARZO 1497 - IL SAVONAROLA PREDICA CONTRO LA CORRUZIONE DELLA CHIESA - LE FAZIONI IN FIRENZE - TENTATIVO DI PIERO DE' MEDICI DI ENTRARE IN FIRENZE - SCOMUNICA DEL SAVONAROLA - IL FRATE CONTINUA LA SUA PREDICAZIONE - I FRANCESCANI E IL SAVONAROLA - LA PROVA DEL FUOCO - ARRESTO E PROCESSO E MORTE DEL SAVONAROLA - GIUDIZIO DELL'OPERA SUA - RIPRESA DELLA GUERRA DI PISA -VENEZIA CONTRO FIRENZE - ARBITRATO DEL DUCA DI FERRARA - ASSEDIO DI PISA - DECAPITAZIONE DI PAOLO VITELLI

---------------------------------------------------------

FRA GIROLAMO SAVONAROLA 
E IL NUOVO ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA FIORENTINA

I 3 trattati politici del Savonarola
e le 9 famose prediche del Savonarola
vedi qui > >
(ritorna poi con il BACK)

"" ...CARLO VIII - scrive il Sismondi - si era trattenuto poco più d'un mese in Toscana dal giorno del suo ingresso a Sarzana a quello della sua partenza da Siena; ma in così breve spazio di tempo aveva interamente sovvertito tutti gli ordini della regione. Da oltre un secolo i Fiorentini  avevano acquistata una certa influenza sulle questioni politiche nel resto d' Italia o d' Europa.
Le varie città del loro territorio erano così pienamente soggiogate che più non si parlava delle loro antiche fazioni e che, se qualche sollevazione si era accesa da abusi di autorità o da ambizione, subito veniva soffocata. Soltanto Siena e Lucca erano quasi indipendenti, ma, non potendo tener testa ad uno stato così forte come quello di Firenze, cercavano di farsi dimenticare con il non prender parte alle varie questioni (interne ed esterne) della Firenze dei Medici e dell'Italia e, malgrado la segreta loro gelosia, sembravano essere sempre in pace coi Fiorentini.
 
A questo stallo stavano le cose della Toscana quando vi giunse l'esercito francese. Ed eccolo - lo abbiamo visto nel precedente capitolo-  nell'attraversare la Toscana, rendere a Pisa quella libertà che essa già da ottantasette anni aveva perduto: sovvertire quel governo stabilito a Firenze da circa sessant'anni; diffondere in tutto lo stato fiorentino germi di ribellione e propositi d'indipendenza cui tenne dietro pure la ribellione di Montepulciano; incoraggiare i Genovesi a ricuperare con le armi Sarzana e Pietrasanta che avevano perdute in una precedente guerra; ridare ai Lucchesi e ai Senesi l'ardire di provocare i Fiorentini e di allearsi ai nemici di questi e, infine, distruggere con questa universale opposizione di interessi e di passioni le forze di una delle più potenti contrade d'Italia, di una contrada che più di ogni altra era in grado di difendere l'indipendenza nazionale.». (Sismondi )

Liberatasi dai Medici e partito dalla Francia re CARLO VIII per scendere in Italia a conquistarsi il trono di Napoli, Firenze pensò di darsi una nuova costituzione; ma prontamente si manifestarono due tendenze, l'oligarchica, rappresentata da PIER CAPPONI e da GUIDO ANTONIO VESPUCCI, che voleva affidare il governo a pochi uomini, e la democratica, rappresentata da FRANCESCO VALORI e da PAOLO ANTONIO SODERINI, la quale voleva una larga partecipazione di cittadini al governo.

Il Soderini, che per essere stato ambasciatore presso la repubblica veneziana era un ammiratore di quel governo, propose di prendere a modello la costituzione di Venezia adattandola alle condizioni di Firenze. Secondo lui i vecchi Consigli del Popolo e del Comune dovevano essere aboliti e sostituiti da un Consiglio Maggiore, incaricato di eleggere i magistrati e di votare le leggi, al quale fossero ammessi tutti i cittadini e dal quale doveva essere formato un consiglio minore, incaricato di esaminare le proposte e di collaborare per il disbrigo degli affari più urgenti e delicati.
Trionfò la tendenza democratica perché ebbe un sostenitore autorevolissimo fra GIROLAMO SAVONAROLA.
 
Il frate, era nato a Ferrara il 31 settembre del 1452 da Niccolò e dalla mantovana Elena Bonaccorsi; spinto dal suo temperamento ascetico, da un amore non corrisposto e dal disgusto dei vizii ("... la gran miseria del mondo, le iniquitate degli uomini, li stupri, li adulteri, li latrocini, la superbia, la idolatria, le biasteme crudeli, ch'el seculo è venuto a tanto che più non si trova chi faccia bene... »), aveva vestito l'abito domenicano a Bologna dove era vissuto dal 1475 al 1481; salito alla fama di possente predicatore, era stato nel 1482 mandato nel convento di S. Marco a Firenze a praticarvi il quaresimale, poi, nello stesso anno, a Reggio Emilia, nel 1483 di nuovo a Firenze, nel 1484 ed 85 a San Gimignano, tra il 1486 e il 1489 a Brescia e in altre città della Lombardia; commuovendo le masse con la sua appassionante eloquenza.

«Il frate ferrarese - scrive il Galletti - come appare da cento luoghi dei suoi scritti e dei suoi sermoni, era un'anima mistica e visionaria e un'immaginazione ardente, che nella preghiera e nelle lunghe vigilie vegliate nel meditare intorno alla cause della decadenza chiesastica, della religione avvilita, della turpitudine trionfante, aveva rapimenti e sogni e fulgori di estasi improvvise che dominavano il suo pensiero coll'evidenza di una rivelazione. E il Savonarola, come Dante, come tanti altri spiriti cristiani del medioevo, si credette designato a Firenze ed era stato eletto priore di S. Marco iniziando un nuovo periodo della sua attività col propugnare la riforma della Chiesa e le libertà di Firenze. La folla dei fedeli aveva ascoltato commossa le ardenti prediche pronunziate dal frate nelle chiese di San Marco, di Santa Maria del Fiore di S. Lorenzo; lo aveva creduto ispirato da Dio; aveva prestato cieca fede alle sue profezie, era stata soggiogata dal fascino ch'esercitava la parola di lui; e il Savonarola era diventato l'uomo più autorevole di Firenze ».

Odiato e temuto da Piero de' Medici, era stato nel 1492 (dopo esser stato al capezzale di Lorenzo il Magnifico morente) mandato prima a Bologna, poi a Venezia, ma era poi ritornato a Firenze e qui, nel 1494, prima ancora che giungesse la notizia della calata di Carlo VIII, lui, con le bibliche parole annunciatrici dal diluvio - Ecce, ego adducam aquas super terram - aveva vaticinato al popolo fiorentino raccolto nel Duomo la venuta di un nuovo Ciro in Italia e i flagelli che si sarebbero abbattuti nella penisola.
A Carlo era andato ambasciatore quando il re era sceso in Toscana all'inizio della sua spedizione e a lui doveva ripresentasi pochi mesi dopo, al tempo della ritirata del napoletano. Ora che si trattava di dare un nuovo governo a Firenze non poteva il Savonarola non avere gran peso nella scelta della costituzione, e che l' ebbe lo provano le seguenti parole da lui pronunziate in una predica del l° aprile del 1495: 

"" ...Avendo tu, popolo fiorentino, a pigliare nuovo governo, ti convocai, escluse le donne, nella chiesa maggiore, presenti i Magnifici Signori e gli altri magistrati della città; e dopo molte cose dette del buon governo della cittade, secondo la dottrina delli filosofi e delli sacri teologi, ti dimostrai quale era il governo naturale del popolo fiorentino; e dipoi continuando la predicazione, ti proposi quattro cose che tu dovevi fare; la prima temere Dio; seconda, amare il bene comune della città e quello cercare più che il proprio; terza, far pace universale fra te e quelli che ti avevano governato per lo passato; quarta, ti esortai a fare un Consiglio Grande e generale al modo veneziano, acciocchè i benefici della città fossero riconosciuti da tutto il popolo, e non da alcuno particolare tuo privato cittadino, acciocchè per questo mezzo niuno si potesse far grande "" (Savonarola).



Il 23 dicembre del 1494 fu compiuto il nuovo ordinamento della repubblica fiorentina. Del vecchio ordinamento furono conservate alcune magistrature: il gonfaloniere e gli Otto priori che costituivano la Signoria, gli Otto che erano preposti alla, polizia urbana e funzionavano da tribunale criminale, e i Dieci della Guerra. Furono invece aboliti i Consigli dei Settanta, del Popolo e del Comune e in loro luogo venne istituito il Consiglio Maggiore, composto da cittadini beneficiati (quelli cioè che avevano compiuti i 29 anni, che pagavano imposte, che erano stati eletti o dichiarati eleggibili ad una delle tre cariche maggiori - dei Signori, dei Gonfalonieri di Compagnia e dei Buoni Uomini -). 
Se i beneficiati superavano il numero di millecinquecento, essi dovevano essere sterzati, cioè divisi in tre parti, ciascuna delle quali doveva alternarsi ogni sei mesi nella composizione del Consiglio Maggiore.
 
Questo - essendo nel- 1495 i beneficiati in numero di tremila e duecento - fu composto di poco più di mille membri. Ogni tre anni la lista dei beneficiati doveva essere accresciuta da sessanta cittadini e da ventiquattro giovani sopra i ventiquattro anni. Il Consiglio Maggiore doveva eleggere nel suo seno il Consiglio degli Ottanta, che almeno una volta la settimana doveva essere consultato nei più importanti affari di stato dalla Signoria. Da questa dovevano esser proposte le nuove leggi, le quali non potevano essere promulgate senza l'approvazione dei due consigli.

Scrive ancora il Galletti: ""  Dopo la costituzione politica il Savonarola prese a rinnovare la legislazione economica dello Stato. Fu fatta, a suo consiglio, la riforma delle imposte, che abolì i prestiti volontari, istituì il Catasto e pose la decima sulla proprietà fondiaria (legge del 5 febbraio 1495). Seguì l'amnistia generale per i fuorusciti politici; poi il riordinamento della giustizia civile del Tribunale di commercio. Volle riformare anche il diritto penale in fatto di reati comuni e di reati politici, ma le sue proposte furono accolte solo in parte; e i fatti provarono che fu male. A Firenze i delitti di Stato e in genere i crimini più gravi erano giudicati dagli Otto di guardia e di balia: il Savonarola voleva che contro la loro sentenza fosse possibile l'appello ad un Consiglio di ottanta o cento persone, scelte fra i cittadini del Consiglio Maggiore. Gli Otto di balia appartenevano per lo più a famiglie potenti, nelle quali la violenza e la sopraffazione erano istinto ereditario e la partigianeria un'abitudine e quasi un obbligo. I loro giudizi perciò erano spesso parziali ed iniqui: di qui la necessità di un tribunale di appello. L'appello contro il giudizio delle sei fave (così si chiamava il giudizio degli Otto perchè con sei fave, cioè con la maggioranza di sei voti contro due, potevano esiliare o dannare un reo cittadino) fu approvato; ma invece che ad un numero ristretto e scelto di giudici, come voleva il Savonarola, fu deferito al Consiglio grande. 
Gli avvenimenti mostrarono poi che parecchie centinaia di uomini chiamati a giudicare  certe colpe, in tempi torbidi e insidiosi per gli odi delle fazioni, costituiscono un pessimo tribunale. ""
(Galletti).
Di Savonarola parleremo ancora più avanti.

LA GUERRA DI PISA
PAPA ALESSANDRO VI E GLI ORSINI


Mentre a Firenze il Savonarola riordinava il governo repubblicano, aveva inizio la guerra tra i Fiorentini e i Pisani. Pisa, riacquistata la libertà, aveva istigato alla ribellione tutte le terre che una volta dipendevano da lei. Questo fatto provocò lo sdegno dei Fiorentini, i quali, se non volevano muovere contro Pisa per non irritare Carlo VIII ed anche perché speravano nella promessa restituzione della città, non potevano tollerare che altre terre si sottraessero alla loro obbedienza; per questo motivo assoldarono ERCOLE BENTIVOGLIO, FRANCESCO SECCO e RANUCCIO da MARCIANO con numerose compagnie di armati e li mandarono ai primi di gennaio del 1495 nel territorio pisano.
 Come commissario presso questo esercito fu inviato PIER CAPPONI, che in meno di un mese ridusse all'obbedienza tutto il territorio di Pisa tranne Vico Pisano, Cascina e Buti.
Minacciati dai Fiorentini, i Pisani si rivolsero per aiuti a Lucca, a Siena e a Genova e a spese di queste tre città misero su un mezzo migliaio di cavalli e ottocento fanti comandati da GIACOMO APPIANO e da GIOVANNI SAVELLI. Altro capitano entrato al loro servizio fu il bolognese LUCIO MALVEZZI, il quale riuscì a liberare Buti dall'assedio e più tardi sconfisse i Fiorentini che erano avanzati nella valle del Serchio.

A questi insuccessi dell'esercito di Firenze si aggiunse, il 26 marzo del 1495, la ribellione di Montepulciano che si pose sotto la protezione di Siena. Carlo VIII sollecitato a Napoli dagli ambasciatori fiorentini affinché obbligasse i Senesi a ritirar le truppe da Montepulciano, rispose - come riferisce il Guicciardini - : « che posso io fare per voi, se così maltrattate i vostri sudditi che tutti si ribellano? ». E ai Pisani, che gli chiedevano aiuti, inviò seicento soldati, che nell'aprile s'impadronirono di Ripafratta, mentre il Malvezzi occupava la Verrucola, sconfiggeva Francesco Secco a Buti e si impadroniva di San Romano, Montopoli e Pontedera.

Il passaggio di Carlo VIII dalla Toscana al principio dell'estate del 1495 fece languire la guerra, ma questa fu ripresa poco dopo con maggior vigore e, questa volta, con non lieve vantaggio dei Fiorentini. Malgrado questi successi, questi speravano più nelle promesse del re di Francia che nelle loro armi. Nel settembre di quell'anno essi riuscirono a farsi restituire da Carlo VIII Livorno; e questa fu la sola terra che riottennero di tutte quelle che Piero de' Medici aveva cedute, tanto che il 1° gennaio del 1496 il d' Entragnes, comandante francese lasciato da Carlo a Pisa, vendette Sarzana e Sarzanello ai Genovesi e il 30 marzo Pietrasanta e Motrone ai Lucchesi.

I successi dei Fiorentini terminarono quando le milizie di Venezia e di Ludovico il Moro giunsero in soccorso dei Pisani. Nei primi d'Aprile questi sconfissero Francesco Secco obbligandolo a toglier l'assedio dalla Verrucola e pochi giorni dopo lo ferirono mortalmente presso Vico; il 30 maggio Lucio Malvezzi prese e saccheggiò Ponsacco, facendo prigioniero Ludovico da Marciano, fratello di Ranuccio, che comandava l'esercito fiorentino; infine nella seconda metà di giugno il veneziano Morosini alla testa di ottocento mercenari greci irruppe nella Valdinievole e saccheggiò ed arse Buggiano e Steggiano.

Ma dalla Francia giungevano notizie dei febbrili preparativi che CARLO VIII faceva per discendere una seconda volta in Italia. Ludovico il Moro e i Veneziani allora invitarono MASSIMILIANO a venire nella penisola per ricevervi la corona regia e l' imperiale e per opporsi alla calata del re di Francia. L'annuncio della venuta dell' imperatore diede maggior vigore ai Pisani, i quali ricevuti altri notevoli rinforzi da Venezia, sottrassero ai Fiorentini numerosi castelli tra cui quello di Soiana. Sotto questo castello i Fiorentini ebbero a lamentare una dolorosa perdita, quella di Pier Capponi, che venne ucciso da una palla di falconetto.
Intanto Massimiliano era sceso in Italia. Conduceva con sé un minuscolo esercito di trecento cavalli e mille e cinquecento pedoni. Senza passare per Milano, si recò a Vigevano, dove allora si trovava Ludovico il Moro e dove vennero ad ossequiarlo gli ambasciatori della lega.

Il suo primo pensiero fu rivolto al Piemonte. Il ducato di Savoia, morto il 16 aprile del 1495 a soli sette anni di età Carlo II, era passato nelle mani del vecchio Filippo conte di Bressa; nel Monferrato, essendo, nel 1495 morta la marchesa Maria reggente a nome del figlio Guglielmo, questi era stato posto sotto la tutela di Costantino fratello della defunta marchesa; reggeva Saluzzo il marchese Ludovico. 
Tentò Massimiliano di far tornare i tre stati piemontesi alla parte imperiale, ma non riuscì a sottrarli alla influenza della Francia. Suo proposito era pure quello di strappare Asti al duca d' Orléans, però le poche forze di cui disponeva lo sconsigliarono da questa impresa.
Calò invece su Genova e di là si recò a Pisa, dove giunse nell'ottobre del 1495. Da Pisa l'imperatore andò a Livorno, che fu assediata dall'esercito e dalla flotta; ma fu un assedio breve ed infelice, dal momento che i Livornesi poterono ricevere aiuti da alcune navi francesi, la flotta alleata, sorpresa da una tempesta, fu in gran parte resa inutilizzabile e Massimiliano, stanco e scoraggiato, il 21 novembre prese la via di Pavia, e poco dopo, senza aver concluso nulla, per la via di Como fece ritorno in Germania.
LUDOVICO il MORO che sperava di acquisire Pisa con l'aiuto di Massimiliano, partito l' imperatore, ritirò le truppe che aveva in Toscana e i Fiorentini riuscirono durante l' inverno, a riprendersi la maggior parte dei castelli perduti.

Mentre languiva la guerra tra Pisa e Firenze, un'altra se ne accendeva nello stato pontificio tra il Papa e gli Orsini. Questi ultimi, privi del loro capo Virginio che si trovava prigioniero a Napoli, persero in poco tempo tutti i loro feudi, impetuosamente incalzati dalle milizie papaline al comando di GIOVANNI BORGIA duca di Gandia e di GUIDOBALDO da MONTEFELTRO duca di Urbino,  si asserragliarono a Bracciano, che fu strenuamente difesa da Bartolomeo d'Alviano e da Bartolomea Orsini, sorella di Virginio. 
Malgrado il valore e la costanza dei difensori, questi si trovavano ridotti a mal partito quando, a rialzar le loro sorti, giunsero Carlo Orsini e Vitellozzo Vitelli, i quali non solo liberarono Bracciano dall'assedio, ma nel gennaio del 1497 inflissero presso Soriano una grave sconfitta alle truppe pontificie, presero prigioniero il duca d'Urbino, ferirono il duca di Candia e riconquistarono quasi tutti i castelli degli Orsini.

Consigliato dai Veneziani, dall'infelice andamento della guerra e dalle considerevoli somme che essa gli costava, ALESSANDRO VI venne ad accordi con gli ORSINI, i quali, pagando settantamila fiorini, conservando le loro terre, restituendo senza taglia, i prigionieri ed ottenendo la liberazione di quelli che si trovavano in potere del Pontefice, si riconciliarono con lui. 
Qualche mese più tardi, nel marzo del 1497, dopo un infruttuoso tentativo fatto dal Trivulzio e dai Campofregoso contro Genova, una tregua veniva conclusa tra la Francia e i collegati ed essendo stati in essa compresi i Fiorentini si sospendevano le ostilità tra questi e i Pisani.


FRA GIROLAMO SAVONAROLA

I 3 trattati politici del Savonarola
e le 9 famose prediche del Savonarola
vedi qui > >
(ritorna poi qui con il BACK)


La tregua rappresentava un danno non lieve per Firenze, la quale veniva costretta a interrompere una guerra che oramai volgeva in suo favore. D'altro canto i rapporti della repubblica Fiorentina con gli altri stati italiani si facevano sempre più tesi, specialmente le relazioni col Pontefice, irritato dalla predicazione del Savonarola. Questi difatti, dopo aver procurato il trionfo alle proprie idee politiche nel riformare la costituzione repubblicana della città, si era messo a tuonare dal pulpito contro la corruzione della Chiesa e del Papato, muovendo a sdegno Alessandro VI, che, sobillato dai fuorusciti, dai fautori dei Medici e dagli Agostiniani, nemici del frate, prima aveva ordinato al Savonarola di trasferirsi a Lucca, poi gli aveva vietato la predicazione con scritto-breve del 16 ottobre del 1495.
L'audace frate aveva ubbidito, ma, autorizzato a riprendere la predicazione, aveva ricominciato nella Quaresima del 1496 le sue fiere invettive contro la curia romana, e l'anno seguente, ricorrendo l'ultimo giorno di carnevale (7 febbraio 1497), aveva organizzato una processione, la quale, giunta in piazza della Signoria, aveva bruciato libri e disegni osceni, maschere, carte da giuoco ed altri oggetti, volendo con ciò quasi inaugurare nella lieta e scettica capitale del Rinascimento il ritorno ad una vita di austerità e di virtù.

«Questo famoso bruciamento delle vanità --- scrive l'Orsi - si prestò facilmente al ridicolo, arma di partito sempre molto efficace dappertutto, ma in particolar modo a Firenze. D'altra parte la severità di costumi, che il frate voleva introdurre, sembrava a molti che finisse per trasformare la città in un convento; infine il contrasto con il Papa dispiaceva a parecchi degli uomini di governo. Per questa ragione di fronte alla grande maggioranza della popolazione, ancora devota al frate e che costituiva il partito detto dei Frateschi o Piagnoni, si vennero delineando parecchi gruppi di oppositori: la fazione oligarchica detta degli Arrabbiati, le compagnie dei giovani amanti del lieto vivere denominati perciò Compagnacci, e finalmente i Bigi, chiamati così perché non osavano manifestare le loro segrete aspirazioni alla restaurazione medicea ».

Alla fazione dei Bigi ch'erano detti anche Palleschi, apparteneva BERNARDO del NERO che nel marzo del 1497 fu eletto gonfaloniere. Rincuorato dal fatto che questa importantissima carica era tenuta da un uomo ligio alla sua casa e appoggiato dal Pontefice, e da quanti non vedevano di buon occhio la repubblica savonaroliana, PIERO de' MEDICI fu convinto che era giunto il momento di tentare un colpo di mano su Firenze e, radunata a Siena una schiera di armati, marciò su Firenze e si presentò il 28 aprile davanti a Porta Romana. Egli sperava di trovare incustodita la porta e di suscitare con la sua presenza un movimento in suo favore entro la città, ma nessuno si mosse e lui non osando assalire la porta che era fortemente difesa dalle milizie di Paolo Vitelli, si ritirò dopo quattro ore.

Il fallimento del tentativo di Pietro diede nuova forza al partito del Savonarola, ma non disarmò i suoi avversari. Una settimana dopo, il 4 maggio, giorno dell'Ascensione, una turba di Compagnacci si recò in San Marco mentre il Savonarola predicava si misero a insultarlo e a scagliarsi contro di lui. I numerosi seguaci del frate però si sollevarono in sua difesa e cacciarono dalla chiesa i nemici.
Era questo il preludio di una lotta senza quartiere contro il riformatore. Il 13 maggo il Pontefice pronunciava contro il Savonarola la scomunica, che veniva pubblicata nelle chiese fiorentine di S. Croce, Santo Spirito, Santa Maria Novella e Badia il 18 giugno, alcuni giorni dopo che a Roma cadeva assassinato il figlio del Papa, Giovanni di Gandia, il cui assassinio era dall'opinione pubblica attribuito al fratello Cesare Borgia.

La scomunica aumentò l'ardire dei nemici del Savonarola, anche perché la Signoria eletta per il bimestre del maggio-giugno di quell'anno era in gran parte composta di avversari del frate; ma nel bimestre successivo i membri della Signoria furono in prevalenza Piagnoni e la posizione del frate tornò a rafforzarsi. In quel tempo venne arrestato LAMBERTO dell'ANTELLA che complottava per preparare il ritorno dei Medici. Messo alla tortura, egli fece i nomi di alcuni suoi complici, Niccolò Ridolfi, Lorenzo Tornabuoni, Giovanni Cambi, Giannozzo Pucci e Bernardo del Nero. 
Fatto il processo, essi vennero condannati alla pena capitale il 17 agosto e la sentenza fu eseguita la notte del 27.
Queste esecuzioni parvero un trionfo del partito democratico e del Savonarola; invece inasprirono gli odi contro il frate, il quale, per difendersi dalle accuse di eresia e dalla scomunica, scrisse due Lettere a tutti i cristiani e diletti da Dio, in cui diceva che la scomunica, perché fondata su false accuse, era senza valore innanzi a Dio e al mondo, e compose inoltre un trattato sul Trionfo della Croce per dimostrare l'ortodossia della sua fede.

Ma il Savonarola non si limitò a scrivere. Ribellandosi apertamente alla scomunica, nel Natale del 1497 celebrò tre messe nella chiesa di S. Marco, comunicò i suoi monaci e numerosi fedeli e guidò intorno al tempio una solenne processione. Il giorno 11 febbraio del 1498 salì sul pulpito del Duomo e al popolo che gremiva la chiesa rivolse una predica, nella quale si scagliò contro gli abusi dell'autorità papale e sostenne che non si deve prestare obbedienza al Capo della Chiesa quando esso ordini cosa contraria al Vangelo e alla coscienza.

Nei giorni seguenti il frate continuò la predicazione, bollando con aspre parole contro i vizi del clero: "".... O fratelli e figliuoli miei, piangete sopra questi mali della Chiesa acciò il Signore chiami a penitenza i sacerdoti, perché si vede che un gran flagello è sopra di loro. La chierica è quella che mantiene ogni scelleratezza. Comincio pur da Roma; e' si fanno beffe di Cristo e dei Santi; son peggio che Turchi, peggio che Mori..."" e  continuava: "... Ogni cosa fanno per danaro, e le loro campane suonano ad avarizia, e non chiamano che pane, danari e candele. Vanno in coro a vespri ed offici, perché vi corre il guadagno; non vanno ai mattutini, perchè non v' è distribuzione. Vendono i benefizi, vendono i sacramenti, vendono le messe dei matrimoni, vendono ogni cosa. E poi hanno paura della scomunica !...."".

ALESSANDRO VI non riuscì a tollerare oltre il linguaggio del frate e il 26 febbraio del 1498, minacciando di lanciare l' interdetto su Firenze e di far confiscare i beni che i mercanti fiorentini avevano negli altri paesi, ordinò alla Signoria di mandargli a Roma il ribelle oppure di custodirlo rigorosamente perché non potesse seminare nuovi scandali. 

La minaccia del Pontefice produsse i suoi effetti: i canonici del Duomo proibirono al Savonarola di predicare nella loro chiesa; più tardi la Signoria, poiché il frate si era messo a predicare a S. Marco, sollecitata da Roma, gli ordinò di sospendere la predicazione. Il Savonarola tenne la sua ultima predica il 18 marzo, quindi decise di scrivere lettere all'imperatore e ai re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra e d' Ungheria per indurli a convocare un concilio.

Ma oramai era troppo tardi. I suoi nemici crescevano di numero e di audacia. Gli Arrabbiati, i Bigi, i Compagnacci parlavano male del frate e del governo democratico, molti ecclesiastici rifiutarono i sacramenti ai seguaci dello scomunicato e non pochi suoi simpatizzanti andavano intiepidendosi. Fra gli avversari del frate si distinguevano per accanimento i Francescani; i quali mossi dalle antiche gelosie del loro ordine verso i Domenicani, accusavano il Savonarola di eresia e lo chiamavano scismatico e falso profeta. Uno di questi, certo FRANCESCO di PUGLIA, che predicava nella chiesa di Santa Croce, dicendo che il Savonarola aveva affermato che a provare la verità delle sue predizioni sarebbe passato incolume per grazia divina attraverso il fuoco, si dichiarò pronto a sostenere con lui questa prova per dimostrare la falsità delle asserzioni dello scomunicato. "".... Io son certo di perirvi -diceva il Francescano- ma la carità cristiana mi insegna a dare la mia vita, se a tale prezzo posso liberare la Chiesa da un eresiarca che di già ha trascinato e trascinerà tante anime nell'eterna dannazione...""".

Riferita la proposta al Savonarola, questi, presagendo un inganno dei suoi nemici, non accettò la sfida, ma non volle o non seppe impedire che l'accettasse un suo fanatico seguace, fra DOMENICO BUONVICINI da Pescia. Francesco di Puglia che aveva lanciato la proposta, sicuro che la sfida non sarebbe stata accettata e la prova non avrebbe avuto luogo. colto da paura, protestò di non voler cimentarsi alla prova del fuoco se non con il Savonarola e allora al Buonvicini i francescani opposero un certo frate GIULIANO RONDINELLI.

La prova suscitò grandissimo interesse nella cittadinanza: i Piagnoni che avevano cieca fede nel Savonarola erano certi che il loro campione sarebbe riuscito vittorioso, gli avversari invece speravano che il Buonvicini sarebbe perito tra le fiamme e l' insuccesso avrebbe danneggiato irrimediabilmente la reputazione del Savonarola. La Signoria fissò per la prova il 7 aprile e stabili che il capo dell'ordine il cui campione fosse rimasto soccombente sarebbe stato mandato in esilio.
La prova doveva aver luogo in piazza della Signoria, dove era stato eretto un palco alto cinque piedi, largo dieci e lungo ottanta, sormontato da un'enorme catasta di legna attraversata da un sentiero largo due piedi, che i due frati dovevano percorrere in tutta la sua lunghezza. Il giorno stabilito, la piazza. era gremita di folla in attesa del terribile spettacolo; la Loggia dei Lanzi era riservata ai due ordini monastici. Primi a giungere furono i Francescani che presero posto nella parte loro assegnata della Loggia; vennero poi i Domenicani, in processione, reggendo croci e cantando salmi, preceduti da fra Girolamo e fra Domenico Buonvicini, che portavano l'uno il SS. Sacramento, l' altro un Crocifisso, e seguiti da una turba di fanatici Piagnoni recanti torce accese.

Quando tutto fu pronto e pareva che la prova dovesse cominciare, i Francescani sollevarono delle difficoltà. Essi, manifestando il timore che il Buonvicini avesse negli abiti qualche impostura, chiesero che indossasse altre vesti. Dopo lunghi contrasti il domenicano accettò di cambiare abiti. Allora il Savonarola consegnò al suo discepolo il Sacramento, ma i Francescani protestarono, dicendo che era azione empia esporre l'Ostia alle fiamme e che ove questa si bruciasse ne sarebbe stata menomata l'autorità della fede. Le discussioni fra i due ordini durarono lungamente; l'avvicinarsi della sera e un'improvvisa pioggia impedirono per quel giorno la prova.

Il popolo rimase profondamente deluso del mancato spettacolo, che febbrilmente era stato atteso tutto il giorno. I più credevano che tutte quelle dispute erano state fatte apposta per evitar la prova. Molti dei medesimi Piagnoni davano torto a fra Girolamo Savonarola dicendo che per confondere gli increduli con un miracolo avrebbe dovuto egli stesso offrirsi alla prova e troncar così le discussioni.

La Signoria, che parteggiava per gli avversari del frate, approfittando dell'irritazione popolare, dichiarò il Savonarola soccombente e gli ingiunse di partire per l'esilio. 
Ma l'8 aprile, prima che scadesse il termine assegnatogli per lasciare Firenze, i Compagnacci, gli Arrabbiati e i Bigi presero le armi e si recarono a dar l'assalto al convento di San Marco.
I frati e una trentina di laici fedelissimi alla causa savonaroliana, asserragliatisi nel chiostro tentarono di fare resistenza, ma il Savonarola non volle che per lui si spargesse sangue. Raccolti i monaci nella libreria, raccomandò loro di mantenersi fedeli alle sue dottrine e alla virtù. «Quel che ho detto l' ho avuto da Dio ed Egli mi è testimone in cielo che io non mento ».Così disse, poi si confessò e insieme con fra Domenico Buonvicini e con fra Silvestro Maruffi si consegnò alla Signoria e fu condotto in prigione fra gli urli e gli insulti della plebaglia.

Il mattino seguente la moltitudine inferocita si recò alla casa di Francesco Valori: che fu preso ed ucciso; anche la moglie mentre si affacciava alla finestra per implorare  grazia venne uccisa, e la casa saccheggiata e data alle fiamme. La stessa sorte subì l'abitazione di Andrea Cambini, amico del Valori, e i seguaci del Savonarola furono oltraggiati dal popolaccio e costretti a chiudersi nelle loro case.
La Signoria scrisse al Pontefice, annunziandogli l'arresto del Savonarola. Alessandro VI rispose assolvendo dalla scomunica tutti coloro che avevano ascoltate le prediche del frate e chiedendo che gli mandassero a Roma il prigioniero, ma, avendo la Signoria dichiarato di volerlo processare in Firenze, inviò due commissari: Gioacchino Turriano, generale dei Domenicani, e lo spagnolo Francesco Romolino, vescovo di Ilerda.

Quando i commissari giunsero a Firenze, la plebaglia assetata di sangue, li accolse gridando: «Muoia, muoia il frate!» e il Romolino, sorridendo, rispondeva: « Morrà ad ogni modo ! ». Il Savonarola, che era stato per ben due volte inquisito e torturato e in prigione aveva cercato conforto ai dolori commentando il Salmo IV, Miserere mei Deus e il XXX, In te, Domine, speravi, fu nuovamente interrogato e sottoposto alla tortura, ma, poiché non si riuscì a provar la sua colpevolezza e d'altro canto era necessario condannarlo, il processo fu falsificato.

Il 22 maggio fu pronunziata sentenza di morte contro il Savonarola, il Buonvicini e il Maruffi. Il giorno dopo una catasta di legna fu innalzata in Piazza della Signoria e il popolo fiorentino accorse per assistere ad uno spettacolo ben diverso da quello che avrebbe dovuto aver luogo un mese e mezzo prima. I tre frati prima vennero degradati dagli ordini sacri, poi vennero legati con il capestro al collo ad una croce, sul rogo. 

Quando il vescovo Paganotti disse loro che li separava dalla Chiesa, il Savonarola rispose: «dalla militante », volendo con queste parole  significare che stava per entrare nella Chiesa trionfante. E non disse altro. Poco dopo le fiamme crepitanti del rogo avvolgevano e consumavano le carni del Savonarola e dei suoi due discepoli le cui ceneri più tardi vennero gettate nell'Arno.

Così, all'età di circa quarantasei anni, moriva GIROLAMO SAVONAROLA, quell'umile frate, nobile d'animo e fortissimo di tempra, che in un secolo di dubbio e di indifferenza, cercò di ricondurre la Chiesa alla primitiva purezza; che non assalì il dogma, ma si scagliò contro la corruzione, che cercò di conciliare la patria con la religione persuaso che dalla riforma dei costumi la libertà della repubblica sarebbe uscita consolidata.
""... Vi  è - scrive il Galletti - nella vita e nell'opera del Savonarola una unità, una nobiltà, un'armonia tra il pensiero, la parola e l'azione, cui hanno dovuto inchinarsi anche i suoi più ostinati avversari. Fu vinto; ma la sua morte e le ruine stesse dell'opera sua erano piene di germi che dovevano rifiorire più tardi nella coscienza italiana; eppoi vi sono sconfitte che l'umanità deve ricordare con riverente gratitudine. A predicare la riforma morale e politica della Chiesa non fu egli solo ai suoi tempi. II secolo decimoquinto in Europa è pieno di religiosi che ammoniscono, minacciano e annunciano a Roma terribili castighi, se non corregge il clero corrotto, se non rinsavisce e non torna alla pura nudità del Vangelo, nascosta sotto lo splendore farisaico del manto cattolico.

Ma il Savonarola sorge singolare fra tutti per ampiezza di mente, in quanto intese che la religione non può essere disgiunta dalle altre attività della vita, che lo spirito umano è una complessa unità nella quale tutte le energie debbono cooperare e convergere ad un solo fine, per il modo che chi ne trascura o ne comprime qualcuna, indebolisce e snatura più o meno presto anche tutte le altre. Non gli bastava, pertanto, che la Chiesa si rafforzasse o si emendasse nelle sue istituzioni e nella gerarchia, ma, rivolgendo il suo pensiero anche alle altre forme della vita sociale, volle che la riforma religiosa, la riforma morale, la riforma politica rinnovassero e risollevassero insieme tutto l'uomo, proponendo un ideale di vita più alto, non solo alla sua fede religiosa, ma anche alla sua attività pratica.

La Chiesa, che non aveva dato ascolto alla parola di tanti suoi figli, dovette pure riformarsi quarant'anni più tardi, forzatavi dalla violenta rivoluzione luterana e dalla paura di danni maggiori; e la riforma le fu data come voleva e predicava il Savonarola, da un Concilio, ma tale riforma ebbe efficacia soltanto su gli ordinamenti della Chiesa; fu riforma della gerarchia e della disciplina: la libertà politica d' Italia era ormai perduta.

Le dominazione straniera e la tirannide indigena, dopo aver lottato con tutte le armi per fiaccare la potenza della Curia romana; si disponevano a farsene un'alleata a meglio comprimere e dominare la nazione scaduta. Il popolo italiano allora, tra la religione rafforzata dal Concilio di Trento, che gli proponeva un ideale di vita più cristiana, e la degradazione servile e brutale, cui lo costringeva il dominio di Spagna e dei nostri tirannelli spagnoleggianti, si sdraiò nella superstizione e nell'ipocrisia e vi logorò le sue forze migliori. Onde più tardi, ricuperata che ebbe, dopo lunghi dolori, la dignità e la coscienza civile, non perdonò alla Chiesa di esser divenuta politicamente complice dello straniero e le fece espiare in modo assai duro la vergogna del suo lungo abbrutimento »
.(Galletti )

RIPRESA DELLA GUERRA TRA FIRENZE E PISA


La morte del Savonarola non produsse alcun cambiamento nel governo di Firenze, il che dimostra quanto fosse benvista generalmente la costituzione del 1494; ma i Piagnoni dovettero abbandonare il potere che cadde quasi interamente nelle mani degli Arrabbiati. Intanto da circa otto mesi, scaduta la tregua, era ricominciata la guerra contro Pisa e proprio nello stesso mese in cui fra Girolamo Savonarola periva sul rogo, l'esercito fiorentino, capitanato da Ranuccio da Marciano e da Guglielmo de' Pazzi, presso San Regolo, dopo avere sconfitti i Pisani comandati da Giacomo Savorgnan, veniva a sua volta battuto da una schiera improvvisamente giunta da Pisa sotto gli ordini di Tommaso Zeno.
Dopo questa disfatta, il comando delle truppe fiorentine fu affidato a PAOLO VITELLI, noto per la sua perizia nell'arte della guerra, il quale, battuto presso Cascina il veneziano Marco Martinengo che comandava i Pisani, riuscì ad avanzare sulla destra dell'Arno e occupare i castelli di Buti, di Calcinaia, di Vico Pisano e la valle di Calci.

Questi successi, oltre che alla perizia del Vitelli, erano dovuti agli aiuti segretamente inviati da LUDOVICO  il MORO, il quale, preoccupato della politica veneziana in favore di Pisa, non solo aveva sovvenzionato Firenze di uomini e di denaro, ma aveva ottenuto che Giovanni Bentivoglio di Bologna, Caterina Sforza, madre del signore d'Imola e Forlì, e la repubblica lucchese impedissero il passaggio attraverso i loro territori alle milizie che Venezia mandava in soccorso dei Pisani. 
Inoltre Firenze si era assicurata la neutralità di Siena, stipulando un accordo con Pandolfo Petrucci che era il cittadino più influente di questa repubblica.
Venezia, non potendo soccorrere direttamente Pisa, cercò di portare la guerra contro Firenze per la val di Lamone, dipendente dai Faentini. Per questa valle Carlo Orsini e Bartolomeo d'Alviano condussero un corpo di milizie veneziane; il 22 settembre del 1498 si impadronirono di Marradi e il 15 ottobre con abile stratagemma occuparono Bibbiena. 
Ma qui si fermarono i loro successi, perché il Vitelli, richiamato dal territorio pisano, chiuse loro la ritirata ed impedì ad altre schiere veneziane, capitanate dal conte di Pitigliano, di soccorrerli.

Ma non si venne ad alcun fatto d'arme, anzi tra le due repubbliche si cercò di venire ad un componimento. Fu scelto come arbitro il duca Ercole di Ferrara, il quale si recò a Venezia dove ebbe parecchi colloqui con gli uomini di governo di questa repubblica e con gli ambasciatori fiorentini; il 6 aprile del 1499 pronunziò la sentenza. In virtù di questo, Venezia doveva ritirare le sue truppe dalla Toscana, Firenze doveva pagarle entro dodici anni centottantamila ducati e Pisa doveva ritornare sotto l'obbedienza dei Fiorentini, conservando però alcuni diritti.

La sentenza fu accettata, sebbene malvolentieri, dai Veneziani e dai Fiorentini, ma non ebbe completa esecuzione, perché i Pisani si rifiutarono di sottomettersi. Allora Firenze mandò contro di loro Paolo Vitelli, il quale, il 26 giugno del 1499, s'impadronì di Cascina e il 1° di agosto pose l'assedio a Pisa.
 Per dieci giorni le mura della città furono battute dall'artiglieria, poi fu dato l'assalto e venne espugnata una torre. Se quel giorno (10 agosto) il Vitelli avesse fatto entrare le sue milizie dalle brecce forse avrebbe potuto conquistare la città; ma non volle, e l'occasione propizia non si presentò più, perché i Pisani ebbero il tempo di riparare i danni subiti e l'aria malsana produsse tali febbri nell'esercito fiorentino da impedirgli di ritentare l'assalto non solo ma anche da costringere il capitano a levar l'assedio.

L' insuccesso dell' impresa sdegnò i Fiorentini che, sospettato il Vitelli di tradimento, lo fecero arrestare dai commissari Canigiani e Martelli. Il fratello Vitellozzo, avvertito, riuscì a scappare e a rifugiarsi in Pisa, Paolo venne tradotto a Firenze sottoposto alla tortura, che coraggiosamente sopportò, e, sebbene l'accusa non fosse stata provata, fu giustiziato il 1° di ottobre.

Se le guerre interne sconvolgevano il territorio delle varie regioni,
in particolare come abbiamo visto in Toscana,
altre guerre erano in vista nella penisola,
ma questa volta condotte soprattutto da stranieri
che scelsero l'Italia come campo di guerra

ci attende il periodo che va dal 1498 al 1504 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI