ANNI 1523 - 1600

L'ITALIA SPAGNOLA -  L'INQUISIZIONE
LA SICILIA - LA SARDEGNA - LA LOMBARDIA

(PER LINTERA " STORIA DELL'INQUISIZIONE "
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DIVISIONE POLITICA DEL'' ITALIA DOPO LA. PACE DI CATEAU-CAMBRISIS - L'ITALIA SPAGNUOLA, LA SICILIA: I TRE ORDINI, IL PARLAMENTO, LA GIUSTIZIA; FLORIDEZZA DELLE CITTÀ; AMMINISTRAZIONE DI PALERMO; L'INQUISIZIONE - GOVERNO DELLA SARDEGNA - IL REGNO DI NAPOLI: I SISTEMI SPAGNOLI DI GOVERNO; MAGISTRATURE, ESERCITO, PESI PUBBLICI - LA LOMBARDIA: SUO GOVERNO; IL SENATO - I GOVERNATORI SPAGNOLI - MALGOVERNO, BRIGANTAGGIO E CALAMITÀ -- LA CONGIURA DEI FRATELLI IMPERATORE - FUCILLO MICONE E IL MOTO DEL 1533 - INSURREZIONE NAPOLETANA DEL 1585: ORRIBILE FINE DI GIOVANNI VINCENZO STARACE - L'ULTIMA CONGIURA DEL SECOLO XVI CONTRO GLI SPAGNOLI IN ITALIA: FRATE TOMMASO CAMPANELLA

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L' ITALIA DOPO LA PACE DI CATEAU-CAMBRESIS
L'ITALIA SPAGNOLA - GOVERNO DELLA SICILIA E DELLA SARDEGNA

Dopo la pace di Cateau-Cambrésis del 1559 l' Italia era divisa nei seguenti stati:

I. - Italia spagnola, che comprendeva 
a) la Sicilia, b) la Sardegna, c) lo Stato dei Presidii, d) il regno di Napoli, e) e il ducato di Milano, il quale si estendeva dall'Adda, alla Sesia ed era formato dall'antico ducato milanese, dal principato di Pavia e dai contadi di Cremona, Alessandria, Tortona, Como, Novara, Vigevano, Lodi e Bobbio, Vercelli ed Asti.
II. - Stati di Emanuele Filiberto, formati dal territorio che si stende dalla Sesia alle Alpi, oltre la Savoia.
III. - Domini francesi di Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti.
IV. - Repubblica di Venezia che aveva tutto il territorio compreso tra l'Adda e l'Adriatico e possedeva inoltre l'Istria, la Dalmazia fino a Ragusa, Cipro e Candia.
V. - Repubblica di Genova, che dominava su quasi tutta l'odierna Liguria e sull'isola di Corsica.
VI. - Il ducato di Mantova e il marchesato di Monferrato sotto il dominio della Casa dei Gonzaga.
VII. - Parma e Piacenza sotto la signoria di Ottavio Farnese.
VIII. - Il ducato di Toscana sotto la Casa de' Medici.
IX. - Il ducato di Urbino sotto la signoria di Francesco Maria II della Rovere.
X. - La repubblica di Lucca.
XI. - Lo Stato Pontificio.

Se si consideri che la Spagna, oltre che possedere direttamente due grandi isole e un territorio così vasto della penisola, teneva asservite alla propria politica Genova e la Toscana e, a volta a volta, qualche altro stato, si comprenderà facilmente come tutta l'Italia sentisse direttamente o indirettamente il peso dell'autorità spagnola e ne subisse la nefasta influenza in quasi tutte le manifestazioni della sua vita.

Passiamo ora ad esaminare le condizioni di ciascuna delle regioni italiane soggetto alla Spagna. La Sicilia, dov'era stabilita una guarnigione spagnola di tremila e cinquecento fanti regolari, era governata da un vicerè che durava in carica tre anni ed era coadiuvato e nominalmente controllato dal Parlamento. Questo si divideva in tre ordini o bracci

a) l'ecclesiastico, formato da arcivescovi, vescovi e abati; 
b) il baronale o militare, costituito dai baroni, dai nobili e da soggetti della milizia; 
c) il popolare o demaniale, dai rappresentanti delle terre demaniali. 

Del primo era capo l'Arcivescovo di Palermo, del secondo il più antico dei nobili, del terzo il rappresentante della capitale dell' isola.

Il parlamento, come si vede, costituiva la rappresentanza delle tre classi in cui era divisa la popolazione della Sicilia, città, clero e feudatari. Potentissimi erano questi ultimi, ch'esercitavano nei loro domini poteri quasi sovrani; giudicavano in materia civile fino ad una data somma e in materia criminale fino alla pena del bando; avevano alle loro dipendenze i magistrati delle città comprese nei loro feudi; e godevano il privilegio di ricoprir le cariche di Connestabile, Gran Giustiziere, Siniscalco e Protonotario.

Ogni braccio era formato da quattro deputati che rimanevano in carica un triennio; l'intero parlamento si riuniva in assemblea ordinaria una sola volta durante il periodo della legislatura, quasi sempre a Palermo, qualche volta a Messina o a Catania, ma poteva riunirsi in seduta straordinaria tutte le volte che ce n'era bisogno. Il parlamento aveva il diritto di chiedere riforme per l'ordine pubblico, la giustizia, l'amministrazione, i tribunali e per i particolari bisogni delle città, ma con il tempo le sue funzioni si ridussero alla votazione dei donativi e alla visione degli ordini del re.

I capitoli del parlamento non potevano aver forza di legge senza l'approvazione regia; la deputazione del Regno, che era eletta dal parlamento, ne faceva eseguire le deliberazioni, era preposta al censimento, vigilava alla inviolabilità del diritto parlamentare e all'osservanza degli atti del parlamento, era insomma un magistrato importantissimo sotto la cui egida stavano i secolari privilegi dell' isola.

L'autorità del parlamento sarebbe stata grandissima se, come i baroni volevano, per l'approvazione delle leggi fosso stata richiesta l'unanimità dei voti; invece bastava la maggioranza e a conseguire questa il viceré non trovava eccessiva difficoltà. Egli infatti aveva dalla sua il podestà di Palermo che influiva sulla votazione degli altri rappresentanti delle città, vendeva la giustizia a quei membri che avevano una lite al tribunale e convocava l'assemblea d'inverno perché i prelati, amanti dei comodi, non potessero parteciparvi e vi inviassero invece dei delegati che non era difficile corrompere.

Questi fatti ci danno l'esatta misura di quel che era la giustizia in Sicilia, la quale stava nelle mani di giudici venali e asserviti al viceré. Gli organi che l'amministravano erano tre : il tribunale del Patrimonio, che trattava gli affari civili, quello della Gran Corte, che discuteva le causo in appello, e il Concistoro della Sacra Coscienza del re, tribunale supremo presieduto dal viceré e da tre giudici biennali.

Nonostante il governo oppressivo degli Spagnoli, i monopoli da essi esercitati, specie quello della vendita del grano, le tasse molto forti e tutti gli altri malanni causati dalla dominazione straniera, le principali città siciliane, Palermo, Messina e Catania, erano in grande floridezza ed avevano la possibilità di impiegare somme cospicue in opere di abbellimento e di utilità. Così Palermo spendeva settantamila scudi per la fontana di Piazza Pretoria, tre milioni e mezzo di scudi per il molo e sommo ingenti per le magnifiche vie Toledo e Maqueda, per la strada Colonna, per Porta Felice e per la costruzione della dogana, di ospedali e caserme; Messina impiegava più di due milioni di scudi per il suo teatro marittimo e Catania ingrandiva ed abbelliva con enormi spese il palazzo municipale.

Alla floridezza delle città siciliane, oltre i privilegi goduti dal tempo degli Aragonesi, contribuiva la saggia e illuminata amministrazione municipale. Valga per tutte il cenno che diamo intorno all'organizzazione dell'amministrazione di Palermo.

La città era divisa in cinque quartieri ed amministrata da un Pretore, dal Consiglio civico, dal Capitano giustiziere, dalla Corte pretoriana, composta di tre giudici e presieduta dal Pretore, che giudicava le cause criminali, e da sei Giurati che formavano il Senato. Questi magistrati duravano in carica un anno; il Pretore, il Capitano e i Giudici erano eletti dal sovrano dietro proposta del viceré; i Giurati direttamente da lui; questi ultimi, insieme col Pretore sovrintendevano all'annona, all'igiene, all'edilizia, alle acque e avevano cura dei privilegi cittadini, ed erano coadiuvati da un Sindaco, da un maestro nazionale, da un tesoriere, da un conservatore delle armi, da un maestro marammiere e da un maestro di cerimonie. Per l'ordine pubblico c'erano un Sergente maggiore, due capitani e quaranta soldati a cavallo. Inoltre varie deputazioni di cittadini aiutavano il Senato nell'amministrazione del comune. Fra queste, le più importanti erano: la Deputazione della sanità, quella del Molo, quella, delle gabelle sulle uve, vini, carni e farine, quella delle strade Cassaro e Maqueda, quella per l'estinzione dei debiti della città e la Deputazione delle Parrocchie.

Una delle più grandi piaghe che afflisse la Sicilia durante la dominazione di Spagna fu l' inquisizione spagnola. 

"" ...Non poche - scrive il Callegari - furono le lagnanze mosse dalla Sicilia per la tirannide con la quale agiva sull'isola quel feroce tribunale; tuttavia restavano lettera morta, e le disposizioni emanate dal grande Inquisitore davano luogo a conflitti con le autorità civili; celebre fra questi quello col vicerè nel 1590 a causa dell'arresto del conto di Mussomeli familiare del Santo Ufficio imputato di omicidio, per quel fatto gli Inquisitori scomunicarono prima gli autori dell'arresto, perché contrario al privilegio del foro, e quindi lanciarono l' interdetto sulla città di Palermo.
Si rese quindi necessario l'intervento dell'arcivescovo della città per fare revocare la censura ecclesiastica e comporre pacificamente la questione. Ad ovviare a tali inconvenienti i Viceré emanarono in varie epoche speciali prammatiche, dette concordie, con le quali gradatamente puntarono a diminuire l'importanza del Santo Ufficio e ad abbassarne un poco l'alterigia.
 
Ma questo non bastava per quietare gli animi profondamente esacerbati; ed anzi non poche volte la plebe insorse contro questo Tribunale, perché i Siciliani non potevano tollerare che si infierisse in tal modo, e che i loro reclami presso l' Imperatore restassero inesauditi. 

Più arrogante si fece l'Inquisizione quando al trono di Spagna fu assunto FILIPPO II, nell'utilizzarla a scopo politico permise confische, bandi, sentenze feroci per ogni semplice sospetto.

Non poche volte il S. Ufficio faceva processi di giudaismo, di eresia, rintracciava le fattucchiere e le streghe; ogni tanto tirava fuori dall'oscurità delle carceri un certo numero di prigionieri pallidi, curvi, emaciati dai tormenti e dal lungo digiuno, e in grandiosi catafalchi li poneva in rassegna nei suoi auto-da-fè, si leggevano al pubblico le loro accuse e le spietate condanne, che spesso gli accusati non erano in grado nemmeno a comprendere; poi qualche coppia di ostinati li si consacrava alla divina vendetta, e, preceduti dalla croce verde, coperti il capo del sambenito dipinto a diavoli e fiamme, si mandavano al rogo.

Il sospetto delle ignote denuncie e degli occulti giudizi si insinuava nei mutui rapporti di società e di famiglia; il fanatismo cattolico stendeva la destra alla politica di Spagna e si aiutavano insieme; questa prestava il secolare suo braccio, quello, nel frugar le coscienze, spiava i fatti e i segreti, che potevano in qualche modo riferirsi allo Stato (Callegari) ».

La Sardegna era governata anch'essa da un vicerè, che, per legge, doveva essere nativo della Spagna. Accanto a lui stavano un tribunale supremo detto Reale Udienza, istituito nel 1560, e un parlamento, composto di tre bracci o stamenti, che si convocava ogni dieci anni a Cagliari.
Reale chiama vasi lo stamento delle città perché soltanto le città regie e non quelle che dipendevano dal clero e dalla nobiltà avevano diritto di inviare deputati al parlamento; esso era presieduto dal rappresentante di Cagliari. Lo stamento baronale era formato da tutti i vassalli della Corona ed era presieduto dal più anziano dei duchi o marchesi che risiedevano a Cagliari; lo stamento ecclesiastico, infine era costituito da vescovi, abati, priori, guardiani di conventi e deputati dei Capitoli ed aveva a capo il vescovo di Cagliari. Le assemblee generali avevano luogo all' inizio e al termine della sessione sotto la presidenza di un commissario reale; gli stamenti potevano esser convocati e deliberare separatamente, formulare proposte, deliberare sulle imposizioni, accogliere le lagnanze del proprio ordine e provvedere al riguardo.

L' isola era divisa in trecentosettantasei feudi, quasi tutti dipendenti da soggetti spagnoli. Essa aveva una milizia nazionale, istituita nel 1535 da Carlo V, a difesa dagli assalti dei barbareschi; era afflitta, come la Sicilia, dai rigori dell' Inquisizione Spagnola e in tutto il territorio vigeva ancora la Carta di Eleonora d'Arborea. Se aveva i mali della Sicilia, la Sardegna non ne aveva la prosperità e la civiltà, il che non deve esser soltanto attribuito al passato dell' isola, ma anche al governo spagnolo, che non seppe e non volle mai sollevarla dalla miseria, la lasciò in regime feudale, non fece nulla per l'agricoltura e il commercio, trascurò la viabilità e, diminuendone la popolazione con l' istituzione del tribunale inquisitorio, contribuì che zone malsane o incoltivabili si estendessero.


IL REGNA DI NAPOLI e LA LOMBARDIA 
MALGOVERNO E BRIGANTAGGIO


In peggiori condizioni che la Sicilia e la Sardegna si trovava il Regno di Napoli; qui il governo spagnolo si era enormemente rafforzato speculando turpemente sull'ambizione vana della nobiltà, sull'odio tra nobili e popolo, tra città e città, tra famiglia e famiglia e sull'avidità del clero.
I viceré spagnoli, dispensando per grazia o vendendo blasoni, facevano un ottimo affare finanziario e politico perché si impinguavano le tasche, si assicuravano la devozione della nobiltà e nello stesso tempo la tenevano divisa creando rivalità tra i vecchi e i nuovi nobili. 
Altro sistema di governo degli Spagnoli era quello di spingere alla gelosia e all'odio i vari gruppi, o di ordire complotti perfino fra i componenti di una medesimo fazione, affinché si scannassero tra di loro, impedendo così di unirsi in una insurrezione generale; e questo era facile operando con qualsiasi mezzo, come la corruzione e la concussione.

 Inoltre i governanti spagnoli seppero abilmente aggiogare al carro del loro governo gli ecclesiastici, proteggendoli contro l'autorità pontificia con l'apporre o negare il veto alle sentenze contro di essi pronunciate dalla Curia di Roma e permettendo così al clero -con il loro appoggio- di sostenersi di fronte alla Santa Sede, la quale aveva ragione di lagnarsi per i mancati pagamenti e per il mercato che quelli facevano impunemente sopra i seminari, le congregazioni, le grandi abbazie, le chiese, i ricchi conventi, le proprietà fondiarie e altro.

Rafforzatisi potentemente con questi sistemi, gli Spagnoli riuscivano a governare il Napoletano a modo loro, lasciando ai sudditi tutte le cariche esteriori onorarie ma tenendo per sé le vere redini dei principali organi. Anche il regno di Napoli aveva un parlamento con tre bracci, ma, invece di esso, venivano di solito convocati soltanto i seggi formati dai nobili della capitale, ma ai quali non rimaneva altro che la funzione di approvare le richieste della Corona formulate dal viceré che durava in carica per un tempo illimitato ed aveva nelle sue mani tutti i poteri civili e militari.

Il vicerè era assistito da una consulta, detta Consiglio Collaterale, che decideva in ultima istanza su cause civili e criminali e stava al di sopra delle corti di giustizia. Questo erano tre: il Collegio di S. Chiara, dove si discutevano le cause di terza istanza, la Corte di Vicaria, dove erano portate le cause di seconda istanza, e la Camera fiscale, in cui si trattavano le questioni attinenti al patrimonio regio o ai donativi da farsi al re.

Imponenti erano lo forzo militari che il governo spagnolo teneva nel Napoletano: una guardia del corpo del viceré, composta di cinquanta gentiluomini spagnoli ed altrettanti napoletani; un esercito formato di quattrocentocinquanta cavalleggeri, cinquemila e seicento fanti spagnoli, sedici compagnie di uomini armati, di cui undici italiane e cinque spagnole; infine la guardia civica di ventiquattromila e trecento uomini, tutti italiani, che spesso erano impiegati per combattere non all'interno, ma all'esterno del regno, come fu a Praga, a Nordlingen, a Rocroy o altrove, sempre a servizio della Spagna.

Per mantenere un esercito così numeroso e per far fronte ai bisogni della corona si era creato un sistema tributario gravoso che comprendeva i donativi e le tasse e colpiva la persona, la proprietà e ogni genere di prodotti agricoli ed industriali. Le gabelle sui vari generi di consumo, le imposte e i dazi di entrata ed uscita per tutte le merci erano così gravi ed estesi che il CAMPANELLA soleva dire che "si doveva pagare perfino per portare la testa sul collo".

I donativi rappresentavano una tassa straordinaria che veniva imposta ai sudditi per la incoronazione o la venuta del re, per far fronte ad una guerra, per offrire il corredo ad un infante e perfino per donare le pantofole alla regina (ovviamente tempestate di pietre preziose).

La rapacità dei governanti era tale che si vendevano gabelle o se ne ipotecavano a inesorabili arrendatori le entrate; si vendevano beni demaniali, privilegi e feudi, si alteravano le monete, si concedeva alle città di riscattarsi dal giogo feudale con cospicue somme di denari; si sospendevano o si falcidiavano gli stipendi agli ufficiali statali; e per denaro si dava facoltà ai comuni e ai baroni di esercitar nelle loro terre la giustizia civile e criminale, moltiplicando così gli abusi, i ricatti, il terrore.


LA LOMBARDIA

Meno tristi di quelle di Napoli erano le condizioni della Lombardia spagnola. Capo era il governatore, come quello di Napoli a tempo illimitato e con pieni poteri civili e militari. Accanto a lui, magistratura suprema dello Stato era il Senato, istituito da Luigi XII e composto da un presidente, da quattordici giureconsulti e da sette segretari. A cominciare dal 1531, per volere di Carlo V, tre dei senatori furono spagnooli. Uno dei senatori doveva far parte dell' Ufficio Camerale Giudiziario Finanziario, che amministrava le rendite dello Stato e decideva tutte le liti contro il Fisco.

Altre magistrature importantissime erano il Consiglio Segreto, composto da diciannove membri, che aveva cura delle cose più delicate dello Stato, e la Congregazione di Stato che provvedeva agli affari del paese durante l'assenza dei più alti funzionari del governo.

Magistrature di secondaria importanza erano i Sessanta Decurioni di Milano, il Vicario e i Dodici di Provvisione, il Magistrato ordinario, il Tribunale della Sanità, il Capitano di Giustizia, il Cancelliere generale delle cause civili, il Podestà, il Vicario pretorio, i Consoli di giustizia, L'Ufficio delle strade, l' Ufficio dei fiscali regi, il Giudice delle vettovaglie, quello delle monete e quello sopra dazio e dogane, i Regi esecutori camerali, il Commissario della mezza armata, il Veador generale, l'Auditore generale dell'esercito, il Commissario generale degli eserciti, il Tesoriere generale, il Contadore dell'Artiglieria e la Congregazione militare sopra la milizia urbana.

Grandissimo prestigio godette nei primi tempi della dominazione spagnola il Senato, il quale poteva opporsi alle decisioni del governatore, ma con Filippo II, che gli proibì di fare uso del veto, perdette molta della sua importanza.
Come accentramento di tutte le amministrazioni dei domini italiani esisteva a Madrid un Supremo Consiglio d'Italia, nel quale, insieme coi governatori spagnoli, sedevano due ministri napoletani, uno milanese e uno siciliano; ma nessuna efficacia aveva questo consiglio, sia perché ignaro delle vere condizioni e dei reali bisogni delle province soggette, sia perché non esercitava alcuna autorità sui governatori mandati a reggere le province medesime.

Né, del resto, migliore  assegnamento poteva fare l'Italia spagnola sui governatori. Questi, il più delle volte, erano militari che non si intendevano di amministrazione; erano sempre stranieri e perciò ignoranti dei costumi delle regioni al cui governo erano stati preposti; venivano spesso aiutati affiancando qualche locale, ma non avevano il tempo di rendersi esatto conto della situazione e di provvedere ai bisogni delle province; per di più venivano più con lo scopo di arricchirsi che non con quello di ben governare e di giovare ai sudditi.

La rapacità dei governatori che si estendeva in misura proporzionata agli altri funzionari, la confusione delle leggi che quasi sempre non venivano osservate o erano sfrontatamente violate, le violenze dei soldati spagnoli che tutto credevano di potersi permettere e non pensavano minimamente ad ingraziarsi  i popoli soggetti, l'esosa gravità dei sistemi fiscali ferocissimi, l'inquisizione, gli odi sistematicamente fomentati, le industrie trascurate, l'agricoltura e il commercio quasi del tutto abbandonati, la venalità, l'ingiustizia, la prepotenza, ridussero in breve tempo l'Italia spagnola in condizioni deplorevoli.

La popolazione delle città diminuì terribilmente; le sorgenti di ricchezza pubblica o privata si inaridirono; la disoccupazione e la miseria accrebbero il numero dei malfattori. Scomparve la sicurezza pubblica, i banditi infestarono le campagne e crebbero a tal punto di numero e di impudenza da eleggersi un proprio re nella persona di MARCO BERARDI e da permettere a MARCO SCIARRA di assalire e saccheggiare città e villaggi e di battersi alla testa dei suoi briganti contro forti reggimenti di milizie mandate contro di lui.

Le autorità per sterminare i banditi erano impotenti, sebbene emanassero leggi severissime,  anche perché questi trovavano asilo inviolabile nei conventi o trovavano modo di sfuggire alle persecuzioni del governo mettendosi perfino come sbirri al servizio della stessa autorità o passando agli stipendi dei nobili, che se ne servivano per le loro prepotenze contro la plebe, contro altri nobili e perfino -facendo il doppio gioco- contro i medesimi ministri del governo. 

Come se questi mali non bastassero, altri malanni resero più misere le condizioni delle province spagnole d' Italia: una peste violentissima causò una strage in Milano nel 1575; una disastrosa eruzione dell' Etna si ebbe nel 1563; altre epidemie  a Palermo causarono numerosissime vittime, e terribili terremoti in quegli anni desolarono le Puglie, la Campania, la Basilicata, la Calabria e il Messinese.

Queste erano le condizioni dell' Italia spagnola. Nella Sardegna e nella Lombardia non si fece mai alcun tentativo per scuotere il giogo straniero. Congiure e sollevazioni ebbero invece luogo nell'Italia meridionale e nella Sicilia e queste avrebbero avuto risultato migliore se le varie classi della popolazione non fossero state divise dalle gelosie e dagli odi, che innescati dagli Spagnuoli si dimostrarono in queste occasioni un ottimo sistema di governo.

CONGIURE E INSURREZIONI CONTRO GLI SPAGNOLI NELLA SICILIA  E NEL NAPOLETANO
FRATE TOMMASO CAMPANELLA

Uno dei primi moti insurrezionali fu quello tentato nel 1523 dai fratelli IMPERATORE per strappare la Sicilia alla Spagna e darla, al valoroso MARCANTONI COLONNA. Ma la congiura, scoperta, fallì e i capi vennero mandati alla tortura.
Dieci anni dopo, essendo stata messa una nuova gabella sul pesce, sulla, carne salata e sui formaggi per fare denari per acquistare grano da mandare in Spagna, il popolo napoletano insorse, guidato da FUCILLO MICONE; ma la rivolta, come tutte quelle che mancano di una accurata preparazione e con scopi ben definiti, fu presto domata.

Più grave fu l'insurrezione scoppiata a Napoli nel 1547 provocata dal viceré don PEDRO di TOLEDO con l volere introdurre nel regno l' inquisizione spagnola - di essa abbiamo parlato altrove- oppure quella scoppiata a Napoli nel 1585. Era viceré di Napoli don PEDRO TELLES GIRON, duca d'Ossuna. Ricevuto da Filippo II ordine di mandare grano in Spagna se nel Napoletano ce ne fosse stato in abbondanza, il viceré per fare bella figura ne spedì una grande quantità. La conseguenza fu che di lì a poco a Napoli il grano cominciò a scarseggiare e il prezzo del pane salì improvvisamente. Il popolo scese allora in rivolta nelle strade e, riunitosi il 9 gennaio del 1585 a Santa Maria La Nova, accusò il proprio magistrato GIOVANNI VINCENZO STARACE di non aver saputo impedire l'aumento del prezzo.

Si narra che una persona del seguito dello Starace, alle grida della plebe, dicesse con tono arrogante: "Andate via!; o vi farò mangiare pane di terra". Queste parole accesero l'ira del popolo: aumentò il tumulto; lo Starace fu catturato, insultato, bastonato, denudato, crivellato di ferite; il suo corpo venne trascinato per le vie, poi la plebaglia inferocita gli tagliò la testa davanti al palazzo del governo, gridando contro gli Spagnoli; il resto del cadavere fu fatto a pezzi, alcuni dei quali furono mangiati, altri portati in giro su aste e picche per le strade mentre le botteghe si chiudevano precipitosamente, i carcerati tentavano di evadere e un gruppo di tumultuanti saccheggiava la casa dell'ucciso.

Altri responsabili come lo Starace subirono la medesima sorte del magistrato. Il viceré, che per prudenza aveva lasciato sfogare l'ira popolare, pubblicò un bando con la quale annunciò di. aver dato ordine ai fornai di vendere il pane al prezzo di prima; il popolo allora si calmò e più tardi il governo fece segretamente prendere e giustiziare i caporioni del tumulto.

Una grande congiura, importante per la sua estensione e per l'autore di essa, il Campanella, fu organizzata sul finire del secolo XVI.
Nacque GIOVANNI DOMENICO CAMPANELLA il 5 settembre del 1568 a Stilo di Calabria. Datosi alla carriera ecclesiastica, si vestì frate nel convento di S. Domenico a Placanica prendendo il nome di TOMMASO; fino al 1585 dimorò nel convento di S. Giorgio, poi a Nicastro e a Cosenza, poi  si recò a Padova.

Qui comincia la vita avventurosa del frate. Caduto in sospetto di aver partecipato a certe violenze commesse contro il Generale dell'Ordine, fu processato; colpito da altre accuse, dovette subire altri due processi; quindi fu trasferito (1594) a Roma e tenuto in carcere, uscito dal quale entrò nel convento di S. Sabina. Nel novembre del 1597 era a Napoli e nell'estate dell'anno seguente nella sua Calabria, a Stilo.
Alla vista della miseria in cui languiva il popolo, degli odi tra famiglie, dei soprusi degli stranieri, sorge in lui il desiderio di liberare la sua terra dal giogo spagnolo. Inizia allora le prime trame di quella congiura che tanti affanni dovette poi costargli. Suo scopo era di cacciare i dominatori, staccare la Calabria dal regno di Napoli e inaugurare un regime repubblicano.

Entusiasmato dal suo disegno, guadagna uomini alla sua causa, cercandoli in ogni classe della società, tra i nobili, tra gli ecclesiastici, ma specialmente tra il popolo e i banditi, fra i quali trova un fautore entusiasta in MAURIZIO de RINALDIS di GUARDAVALLE.

In breve la schiera dei suoi seguaci si fa numerosissima. Egli sa infiammare gli animi degli oppressi con la parola calda ed eloquente che fustiga la tirannide e predica l'avvento di un'era nuova di libertà, di giustizia e di felicita, sa cattivarsi l'affetto del popolo assistendo gratuitamente gli ammalati, sa far breccia sulla fantasia degli umili e degli ignoranti mettendo a servizio della sua causa avvenimenti straordinari come alluvioni e passaggio di comete e spera di potere fra non molto, alla testa degli insorti, piombare a Catanzaro, uccidere il governatore della provincia e proclamare per tutta la Calabria la libertà e la repubblica.

Ma mentre Campanella congiurava, due traditori, un FABIO di LAURO e l'ebreo GIAMBATTISTA BIBBIA lo denunciavano al governo, che il 24 agosto mandava da Napoli con un reparto di soldati il capitano Carlo Spinelli  per soffocare in sul nascere la rivolta.
Scoperta la congiura, il Campanella fuggì e trovò ricovero in un convento di Francescani presso Stignano; di là si recò alla Roccella, ma un contadino, dopo avergli dato ospitalità, lo tradì e lo fece cadere nelle mani degli Spagnoli. Anche altri affiliati furono presi e messi alla tortura rivelarono la trama, asserendo come vere cose  che forse il Campanella per guadagnarli alla sua causa aveva loro dato ad intendere, che cioè la congiura era favorita dal Pontefice, da i Veneziani, dai Turchi e da altri principi.

Il moto di Tommaso Campanella aveva carattere politico e religioso, il frate doveva essere sottoposto a due processi, a quello di eresia e a quello di ribellione. Egli era accusato di aver voluto fondare la repubblica servendosi delle profezie, di aver preparato una rivolta che doveva scoppiare nel mese di settembre e di essersi procurato l'aiuto dei fuorusciti e dei Turchi. Il Campanella riconobbe vera la prima accusa, ma respinse le altre.

Il 7 febbraio del 1600 fu sottoposto alla tortura; il 10 maggio di quel medesimo anno iniziò il processo di eresia che durò fino all' 8 gennaio dell'anno 1603 e terminò con la condanna del frate al perpetuo carcere da espiarsi dopo che fosse stata discussa la causa per ribellione.

Per speciali intercessioni il viceré lo liberava dalla fortezza di Castelnuovo obbligandolo a dimorare nel convento di S. Domenico; più tardi però il frate incappò nelle mani di URBANO VIII, dalle quali riuscì a liberarsi scrivendo un libro in cui erano esposti i rimedi contro l'influsso degli astri, che al dir degli astrologi annunziavano l' imminente morte del Pontefice.

Perseguitato dal vicerè di Napoli, che aveva tentato ogni mezzo per riavere il frate, e perduto il favore del Papa per l' invidia di due domenicani, il Campanella trovò asilo presso l'ambasciata francese, retta dal conte di NOAILLES, quindi riparò in Francia dove cessò di vivere nel 1639.

Questo del Campanella fu l'ultimo tentativo fatto nel secolo XVI per cacciare fuori da una regione dell'Italia l'odiato straniero. Era miseramente fallito, ma non per questo le popolazioni dell'Italia meridionale ed insulare si rassegneranno a restare sotto il giogo: altre congiure ed altre insurrezioni - di cui faremo parola in un altro capitolo - registrerà il secolo XVII, ben più gravi di quelle avvenute nel precedente -ed, alcune tali da far tremare gli oppressori e  far loro comprendere, senza purtroppo farli rinsavire, quanto fosse pericoloso tiranneggiare un popolo che, come il siciliano, non aveva dimenticato dopo circa tre secoli il suono delle campane dei Vespri.

Dopo il riassunto sulla Corsica e Genova, dopo questo sull'Italia Spagnola
ritorniamo ora ai fatti dello stesso periodo: Venezia contro i Turchi

ed è il periodo che va dall'anno 1540 al 1573 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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