2a e 3a GUERRA MACEDONICA - I ROMANI SULL'OLIMPO E A DIO
INIZIA IL DOMINIO ROMANO MONDIALE

LA SECONDA GUERRA MACEDONICA -- FILIPPO SI PREPARA ALLA GUERRA - SOTTOMISSIONE DI FILIPPO E MORTE DI DEMETRIO - PERSEO - TERZA GUERRA MACEDONICA --- INSUCCESSI DEI ROMANI - INETTITUDINE DEI CONSOLI - LUCIO EMILIO PAOLO; SUE RIFORME MILITARI - BATTAGLIA DI PIDNA - RESA DI PERSEO - ASSETTO DELLA MACEDONIA E DELLA GRECIA -TRIONFO DI LUCIO EMILIO PAOLO - MORTE DI PERSEO
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LA SECONDA GUERRA MACEDONICA

Dopo la guerra vittoriosamente sostenuta contro Antioco, Roma aveva assegnato ad EUMENE di Pergamo, il beniamino dei suoi alleati, alcuni territori europei: il Chersoneso Tracico con Lisimachia. Operando in questo modo, Roma non intendeva solamente premiare l'amicizia e la fedeltà dell'Attalide.
Secondo scopo di Roma, era di dare a FILIPPO di Macedonia un potente vicino, per sorvegliarlo e per impedirgli di estendere il suo dominio a spese della Tracia, che era stata liberata dal giogo di Antioco.
FILIPPO veramente meritava da Roma un trattamento migliore. Lui onestamente aveva mantenuto fede all'alleanza, aveva fatto passare attraverso il regno e vettovagliato generosamente l'esercito di Scipione in marcia verso l'Ellesponto e aveva perfino fornito al console aiuti di milizie. Nella guerra contro gli Etoli si era infine schierato decisamente a fianco di Roma, la quale aveva creduto di ricompensarlo munificamente condonandogli l'indennità della guerra precedente, rimandando liberi il figlio Demetrio e gli altri ostaggi, assegnandogli la città di Demedriade e lasciandogli i territori della Tessaglia e dell'Atamania da lui occupati al tempo della guerra contro gli Etoli.

Ma il trattamento migliore fatto ad EUMENE re di Pergamo, aveva irritato Filippo, il quale non esitò a cercare compensi ai servigi da lui resi alla Repubblica impadronendoci delle coste libere della Tracia.
Questa sua azione suscitò le proteste di Eumene e nel 185 il Senato romano inviò nella Tessaglia tre commissari affinché risolvessero la vertenza tra i due sovrani, ma anche di chiedere conto a Filippo del suo operato. La sentenza dei commissari fu quella che Roma aveva voluto che fosse: Filippo doveva sgomberare i luoghi arbitrariamente ed ingiustamente occupati.

FILIPPO cedette, ma rispose con fiera superbia "non essere il sole tramontato per l'ultima volta", parole queste che mostravano il risentimento del Macedone e i propositi che già avevano cominciato a maturare nel suo animo.
Il re ritirò le sue truppe dalle città traciche, ma prima sfogò contro i suoi nemici la sua ira mettendo a morte coloro che avevano contrastato i suoi disegni. Poi si diede di nascosto a fare preparativi di guerra, a chiedere aiuti ad altri popoli ed aspettò che si presentasse l'occasione giusta per cominciare le ostilità.
Roma, che si era accorta delle intenzioni ostili del Macedone, non se ne preoccupò più di tanto, ma non lasciò passare sotto silenzio le crudeltà da lui commesse nelle città della Tracia e gliene chiese -e piuttosto aspramente- conto.
Filippo, invece di rivoltarsi contro la repubblica, o perché non era ancora pronto o perché comprese a quale rischio si metteva schierandosi contro i Romani, pentito o fingendo di esserlo, inviò a Roma il figlio DEMETRIO per ottenere il perdono del Senato.
Scelse come ambasciatore il figlio perché sapeva che Demetrio, durante il tempo che era rimasto a Roma come ostaggio, si era accattivato le simpatie di molti e, godendo dell'amicizia di potenti famiglie romane, poteva meglio di qualsiasi altro ambasciatore, giovare alla causa paterna.

Filippo non s'ingannò. Il Senato gli fece rispondere che per amore del figlio scusava le colpe del padre, e con queste parole non faceva un semplice complimento al giovane figlio del re. Il Senato in realtà aveva in grande stima DEMETRIO, che sapeva essere animato da sincera amicizia e da ammirazione per la Repubblica, ed aveva già stabilito di farlo salire al trono di Macedonia alla morte di FILIPPO.
Questi però aveva designato come suo successore l'altro suo figlio di nome PERSEO sebbene nato da un'unione illegittima, perché amante della guerra, nemico di Roma, ambizioso come lui e maggiore di età di Demetrio.
L'accoglienza fattagli a Roma e le dichiarazioni del Senato furono fatali a Demetrio. Filippo sospettò che il figlio lo tradiva e Perseo, che aveva motivo di temere del fratello credendolo pretendente al trono, si adoperò in tutte le maniere per mettere in cattiva luce Demetrio presso il genitore, anzi, per provare che il fratello tramava insidie a danno del padre, d'accordo con i Romani, mostrò a Filippo una falsa lettera di Flaminino scritta a Demetrio.

Grande fu lo sdegno del Macedone: Demetrio al suo ritorno fu arrestato, condotto in ceppi a Demedriade e qui fatto morire avvelenato (181).
Allora Filippo rinnovò febbrilmente i preparativi di guerra e invitò i Bastarni a scacciare i Dardani suoi nemici per farsene degli alleati contro Roma.
La guerra sarebbe inevitabilmente scoppiata se la morte non avesse colto il re quando tutto era già pronto; aveva cinquantanove anni (179).

Così, morto Demetrio, gli successe PERSEO, un giovane forte, di belle forme e d'aspetto nobile; ambizioso come il padre era però più tenace di lui nei propositi e meno dedito al vino e ai piaceri sensuali. Sapendo di non essere accetto a Roma ed accarezzando il sogno paterno della riscossa, per prendersi tempo e prepararsi alla difficile impresa, giocò d'astuzia e si mostrò devoto alla Repubblica.
Ma non trascurò di prepararsi alla guerra e completò e migliorò i preparativi iniziati dal padre. Aveva trovato i granai dello Stato provvisti di frumento per dieci anni e le casse dell'erario piene. Non gli fu quindi difficile assoldare migliaia di mercenari e reclutare nel suo Stato un esercito di quarantamila uomini.
Mentre raccoglieva ed addestrava uomini, pensava a stringere amicizie e parentele, cercando di attirare intorno a sé tutti coloro che avevano motivo di lagnarsi di Roma e di odiarla. Mandò ambasciatori al Senato cartaginese invitandolo ad associarsi a lui nella prossima lotta contro la Repubblica; stipulò un trattato segreto d'alleanza con il re Prusia di Bitinia, suo cugino; prese in moglie la sorella di Antioco IV re di Siria; si fece amica la repubblica di Rodi, nelle cui navi regalmente addobbate gli fu portata la sposa dall'Asia; stipulò trattati con gli Achei, con i Beoti, con gli Acarnani, gli Epiroti e i Tessali, e si guadagnò tanto favore presso le popolazioni della Grecia che, recatosi alle feste di Delfo, vi fu accolto trionfalmente (questo fatto gli creò un'ingenua illusione, quella di essere amato dai Greci).
Anche le città libere della Tracia e quelle soggette al re di Pergamo, furono teatro della sua propaganda antiromana che gli diede ottimi risultati. Infatti, quelle popolazioni, ubriacate dall'odio contro Roma ed Eumene, che Perseo aveva saputo istillare nel loro animo, abbatterono perfino le statue erette in onore del re di Pergamo e fusero le tavole di bronzo che ricordavano le sue imprese. Erano giunte a tal punto le cose che EUMENE, giustamente preoccupato (era l'anno 172 a.C.) si recò a Roma a informare il Senato della piega che prendevano gli avvenimenti provocati dal turbolento re della Macedonia.
Questi, avendo saputo che Eumene lo aveva accusato presso il governo della Repubblica, tentò di vendicarsi del rivale cercando di disfarsene. Dei sicari da lui mandati sorpresero Eumene mentre usciva dal tempio di Delfi, ma non riuscirono ad ucciderlo, solo a ferirlo.

Quest'ultimo fatto fece decidere il Senato romano ad intervenire. Furono mandati in Grecia sette commissari scortati da cinquemila soldati, di cui aveva il comando il pretore GNEO SICINIO. Perseo sperava che al primo sentore della guerra i suoi alleati d'Asia, d'Africa e Grecia si sarebbero mossi in suo aiuto secondo i patti. Ma Cartagine non volle saperne, Prusia e il cognato Antioco rimasero fermi nei loro regni e gli stessi Stati greci, all'arrivo dei commissari romani e delle truppe, non osarono schierarsi contro la repubblica, ai cui rappresentanti anzi fecero amichevoli se non entusiastiche accoglienze.
PERSEO sgomento, comprese di esser rimasto con le sole sue forze. Seguendo gli esempi del padre, inviò ambasciatori a Roma per chiedere la pace. Il Senato gli concesse soltanto una tregua e trattenne gli ambasciatori fino il giorno in cui ritenne giunto il momento di agire. E quando questo arrivò ordinò loro di uscire dal territorio della Repubblica entro trenta giorni e dichiarò guerra al Macedone.

TERZA GUERRA MACEDONICA: INSUCCESSI DEI ROMANI

Nell'estate del 171 a.C., il console PUBLIO LICINIO CRASSO con una flotta di quaranta navi e con un esercito di quarantamila uomini salpò da Brindisi. Lasciata la flotta al comando di CAJO LUCREZIO, passando per l'Atamania, raggiunse Gonfi e di là marciò in direzione del monte Ossa, in Tessaglia.
All'avvicinarsi dei Romani, PERSEO, con forze quasi eguali a quelle del nemico ma superiore per cavalleria, penetrò pure lui in Tessaglia e si accampò alle rive del Peneo, nelle vicinanze dell'Ossa.
Qui avvenne la prima battaglia e la sorte fu contraria ai Romani, la cui cavalleria, attaccata vigorosamente da quella del re, fu sgominata. Quattromila Romani perirono e le legioni sorprese mentre guadavano il fiume, sarebbero state sterminate se Perseo avesse attaccato a fondo con le sue falangi. Il Macedone invece fece sonare a raccolta subito dopo il primo successo e permise ai soldati della repubblica di ritirarsi alla sinistra del fiume, sperando forse di ottenere la pace.
Mandò, infatti, ambasciatori al console dichiarandosi disposto a rispettare i patti che Filippo suo padre aveva accettato, ma LICINIO rispose che non poteva accordargli la pace se prima non metteva sé stesso e il suo regno a disposizione di Roma.
PERSEO si vide costretto a continuare la guerra e la fortuna fu ancora dalla sua parte; ma non volle o non seppe sfruttare i nuovi successi ottenuti. Sperando sempre nella pace e sbigottito dalla grande impresa alla quale si era accinto, si ritirò con tutte le sue forze nella Macedonia e si mise sulla difensiva, abbandonando alla vendetta del nemico le città greche che avevano prese le sue parti. Fra queste Aliarto e Cheronea furono trattate ferocemente dal pretore CAJO LUCREZIO GALLO. La prima fu saccheggiata e rasa al suolo e gli abitanti venduti come schiavi, la seconda fu offerta ai soldati che infuriarono sulle persone e sui beni degli ex cittadini ridotti pure loro a schiavi.

Queste crudeli repressioni che commossero gli stessi Romani, i quali più tardi condannarono il feroce pretore ad una multa di un milione di assi, lasciarono indifferenti i Greci.

Nell'anno seguente (170) sorte migliore non ebbero le armi romane, guidate da un console inetto, AULO OSTILIO MANCINO, che si ostinò invano ad aprirsi il passo verso la Macedonia e rischiò di cadere nelle mani del nemico. Il quale frattanto riportava altri notevoli successi sui luogotenenti Appio Claudio e Ortensio, riusciva a trarre dalla sua parte gli Epiroti, sconfiggeva, aiutato dai Bastarni, i Dardani, e, penetrato dell'Illiria, occupava, Uscana, facendo prigioniera la guarnigione romana di seimila soldati.
Queste vittorie facevano sperare PERSEO in una pace prossima e vantaggiosa. Ma s' ingannava.
Nel nuovo anno (169) Roma fece nuovi sforzi e mandò in Oriente il console QUINTO MARCIO FILIPPO, mentre ordinava a GNEO SERVILIO CEPIONE con sei legioni e diecimila latini di invadere la Macedonia dal lato d'occidente.
Il nuovo console tentò di penetrare nel regno nemico dalla parte della Tessaglia; ma Perseo era corso prontamente ai ripari: aveva messo a guardia dei varchi sufficienti reparti di truppe, aveva fatto occupare il passo di Lapato all'Olimpo dal generale IPPIA con dodicimila soldati e lui con il rimanente dell'esercito aveva posto il campo nella Pieria a Dio per sostenere Ippia in caso di bisogno.
QUINTO MARCIO, girando intorno alla palude Ascuride, cercò di forzare il passo e dopo due giorni di accanito combattimento riuscì ad impadronirsi di una cima. Non sarebbe stato difficile al Macedone di sorprendere con il grosso delle sue truppe i Romani nei giochi difficili su cui s'erano cacciati e di sterminarli; ma PERSEO, perplesso come il solito, rimase inoperoso e fortificato a Dio, difesa da mura possenti imprendibili; e permise così a Marcio, che in quell'occasione aveva fornito prova d'imprudente temerarietà, di superare le montagne e scendere al piano.

Alla notizia che il nemico aveva forzato il passo e che la Macedonia era aperta all'invasore, Perseo, sbigottito, richiamò tutti i presidi posti a difesa dei passi e con l'esercito ripiegò precipitosamente su Pidna, poco distante.

LUCIO EMILIO PAOLO

Nonostante gli ultimi successi riportati e sebbene la Macedonia era ora aperta agli eserciti della Repubblica, la situazione di PERSEO non era disperata; critica invece si faceva quella di Roma. ANTIOCO IV e PRUSIA, che fino a quel momento erano rimasti spettatori degli avvenimenti, davano segni palesi di volere scendere sul campo in aiuto dei Macedoni cui li stringeva un trattato d'alleanza. Antioco anzi faceva di più. Approfittando della guerra che teneva seriamente impegnata Roma, aveva voluto tradurre in realtà il sogno del padre conquistando l'Egitto, al quale aveva dichiarato guerra.
Alessandria si trovava sotto la minaccia del re di Siria, e FILOMETORE e EVERGETE, successi nel 175 al padre Tolomeo V, chiedevano soccorso alla Repubblica. Gli Stati della Grecia mostravano anch'essi di volere entrare in azione per uscire dalla tutela di Roma e il re d'lliria, al quale i Romani avevano intimato di rimaner neutrale nella guerra macedonica, per tutta risposta aveva fatto imprigionare gli ambasciatori.

Perfino gli amici fino allora rimasti fedeli tentennavano. EUMENE si era ritirato dalla lotta condotta dai Romani con tanta fiacchezza, e pure Rodi, stanca e danneggiata nei suoi commerci dalla guerra e, da qualche tempo, parteggiante per il Macedone mandava messi a Roma chiedendo che si ponesse fine alla guerra e minacciando di schierarsi contro se le sue richieste non erano accettate.
Era tempo di agire con la massima energia e risolutezza se Roma non voleva perdere tutto quello che in Oriente aveva acquistato e tirarsi addosso tanti nemici.
Per punire la petulanza di Rodi il Senato proclamò liberi i territori della Caria e della Licia che le aveva assegnati dopo la guerra asiatica e il popolo romano chiamò al consolato all'inizio del 168 a.C. un uomo di provato valore: LUCIO EMILIO PAOLO (suo collega era LICINIO CRASSO).
Lucio era figlio del console morto a Canne, era stato al consolato nel 182, aveva combattuto valorosissimamente contro i Liguri ed i Lusitani e godeva la stima del popolo per la sua probità. Da qualche tempo viveva appartato, dedito tutto all'educazione dei suoi figli. Non era più giovane, avvicinandosi ai sessant'anni, ma era sempre forte e l'età senile non aveva smorzato in lui l'entusiasmo guerriero e né era scemata l'energia.
All'inizio riluttante, LUCIO EMILIO PAOLO poi accettò il comando dell'esercito; il grosso lo tenne per sé, parte lo diede al pretore L. ANICIO GALLO affidandogli il compito di portare la guerra contro l'Illiria e penetrare dal nord nella Macedonia. All'altro pretore GNEO OTTAVIO fu dato il comando della flotta e l'incarico di recar molestia alle coste macedoni.

Nella primavera dello stesso 167, il console LUCIO con un numeroso esercito passò il mare e, giunto in Grecia, s'impegnò a mettere in piena efficienza le sue truppe. La disciplina era piuttosto rilassata; lui la rinsaldò secondo i vecchi metodi romani; diede autorità agli ufficiali e fece capire che a lui doveva essere prestata assoluta obbedienza. Stabilì poi che le sentinelle fossero prive di scudi così avrebbero vigilato meglio, che la parola d'ordine fosse nota soltanto ai centurioni affinché il nemico non potesse venire a conoscenza dei segreti militari, che le guardie ai posti avanzati bisognava cambiarle due volte al giorno in modo da mettere i nemici nelle condizioni di avere sempre di fronte a sé truppe fresche adatte a respingere ogni assalto.

In poco tempo le milizie romane ripresero l'aspetto che possedevano gli eserciti repubblicani dei più gloriosi tempi; l'ordine era in tutto e con l'ordine e la disciplina si era rialzato lo spirito dei legionari, facendo risorgere come per incanto il desiderio di battersi e la brama della gloria.
Quando LUCIO vide che poteva contare sui suoi soldati e lanciarli nelle più difficili imprese, il console iniziò le operazioni di guerra.
Era tempo. Il pretore ANICIO con il suo corpo aveva ottenuto dei successi rapidi e decisivi. Entrato nell'Illiria, era giunto senza incontrare resistenza fino a Scodra, capitale del regno, dove re GENZIO si era chiuso. Stretta d'assedio, la città per volontà della popolazione si era arresa e in trenta giorni i Romani si erano resi padroni di tutta l'Illiria minacciando così ora dal settentrione il regno di Macedonia.
I soldati di EMILIO PAOLO fremevano d'impazienza e desideravano ardentemente di emulare i compagni di Anicio.
Era quello che voleva il console; con truppe smaniose di combattere egli non dubitava della vittoria ed alla vittoria condusse l'esercito.

BATTAGLIA DI PIDNA (168 a.C.)

PERSEO si trovava accampato presso le rive del fiume Enipeo nelle vicinanze di Dio (la città sotto il Monte Olimpo di cui abbiamo già parlato e parleremo ancora - e chi scrive ha voluto ripercorrere il sentiero percorso da Emilio Paolo) in una posizione fortissima per la natura stessa del luogo.
Per potergli dare battaglia campale occorreva al Romano, prima sloggiarlo da quelle posizioni, e l'impresa non si presentava facile, anche perché il nemico, consapevole di avere occupato un posto così strategico, si manteneva sulla difensiva. E se doveva necessariamente arretrare, alle sue spalle c'era la possente Dio, con le sue mura ciclopiche, che ancora oggi sono lì, integre, per nulla scalfite dal tempo. Forse nemmeno una bomba atomica le muoverebbe dove sono (l'immagine nel prossimo capitolo)
Ma, Emilio Paolo non era uomo da lasciarsi vincere dalle difficoltà e poiché era impossibile e inconcepibile compiere un assalto, concepì un audace piano per obbligare i Macedoni ad abbandonare il luogo dove erano accampati, e lo mise in attuazione.

Avendo appreso da due mercanti PERREBI che i passi che conducevano al monte Olimpo non erano impraticabili e, pur difesi da Milone, Istico e Teogene con cinquemila Macedoni, potevano essere superati, allo scopo di prendere alle spalle l'esercito di Perseo, prima che si rifugiasse a Dio, ordinò al proprio figlio FABIO MASSIMO ed a SCIPIONE NASICA, genero dell'Africano, di tentare un ardito colpo occupando con ottomila uomini la cima del monte Olimpo.
Lui intanto, per distrarre da quella parte l'attenzione di Perseo, assalì il campo nemico dal fiume e lo tenne impegnato con furiosi combattimenti per due giorni consecutivi, ma senza mai entrare in una battaglia campale, perchè questa non era lo scopo principale, né conveniva iniziarla.

FABIO e SCIPIONE, guidati dai due mercanti, per la valle di Tempe iniziarono la difficile scalata dell'Olimpo ed avendo superate le difficoltà dei luoghi e respinti i difensori, riuscirono ad impadronirsi della cima del monte e della rocca di Pitio.
La mossa non sfuggì a Perseo, che per non essere colto alle spalle, fu costretto a sloggiare dalle posizioni sull'Enipeo e si concentrò con tutte le sue forze nella vicina Pidna, invece di trincerarsi a Dio; lui voleva la battaglia (ed era quello che voleva Emilio Paolo)
Forte di oltre quarantamila uomini era il suo esercito e questo aveva scelto le posizioni migliori e, riposatosi e schieratosi, aspettava di sostener l'urto del nemico.
Il console, che lo aveva seguito nella ritirata, e sebbene i suoi bramassero di assaltare subito i Macedoni, differì la battaglia per dar tempo alle sue truppe, stanche dalla marcia, di riposarsi e nel medesimo tempo di disporre e fortificare il campo. Appreso poi dal suo luogotenente SULPICIO GALLO che doveva avvenire un eclissi lunare avvertì i soldati affinché non si lasciassero sbigottire dal fenomeno interpretandolo come un infausto presagio.
I Romani erano oramai riposati e il campo convenientemente fortificato. EMILIO PAOLO non voleva ancora il segnale del combattimento, voleva prima rifornire bene il campo; ma all'immediato inizio della battaglia vi fu costretto da un improvviso incidente.
Tra i due campi scorreva un fiumicello, il Leuco, che forniva l'acqua alle milizie romane ed alle macedoni, le quali tenevano presso le rive dei reparti per proteggere coloro che erano incaricati di riempire gli otri.
Il giorno in cui si combatté la famosa battaglia, dalla parte dei Romani montavano la guardia due compagnie di fanti marrucini e peligni e due squadre di cavalieri sanniti al comando di MARCO SERGIO SILO, e presso il campo erano di guardia, capitanate dal luogotenente Cluvio, tre compagnie di fanti fermavi, vestini e cremonesi e due squadre di cavalieri piacentini ed effernini. Era una giornata di calma, quando all'improvviso, una giumenta, sfuggita alle guardie romane, si spinse fino alla riva opposta e fu catturata da due soldati traci. Riuscì però a tre soldati romani di strapparla dalle mani dei nemici di cui uno rimase ucciso. Alcune schiere di traci, che erano state spettatrici della mischia, inseguirono i Romani e, passato il fiume, attaccarono la guardia consolare.

Quando il console, al rumore, uscì dalla sua tenda un furioso combattimento si era già ingaggiato sulla riva e da una parte e dall'altra correva gente a rinforzare la battaglia.
Allora Emilio Paolo stimò opportuno sfruttare l'ardore dei suoi e, fatte uscire dal campo le truppe, iniziò a schierarle.
Il nemico aveva fatto la stessa cosa e già avanzava. Le prime schiere di Traci, erano di statura gigantesca, fieri nel volto e reggevano scudi d'argento lucentissimi. Impugnavano lance pesanti e indossavano vesti nere. Venivano poi gli ausiliari di varia nazionalità e differenti gli uni dagli altri per le armi e la foggia del vestire. Seguiva la falange macedone che costituiva il centro dello schieramento, composta di truppe prestanti, vestite di rosso e dalle armi dorate, alla cui destra stavano i falangiti aglaspidi dagli scudi di rame. Alle ali vi erano altre schiere di falangiti dall'armatura leggera.

Narra TITO LIVIO che Emilio Paolo rimase meravigliato alla vista della falange macedone che con le larisse protese formava un terribile steccato, e che il console si sforzava di nascondere il suo turbamento.
Il combattimento fu ingaggiato con furia intensa dalle avanguardie ed i primi a sostener l'urto del nemico furono i Peligni, i quali combatterono valorosamente; ma l'impeto dei Macedoni fu così grande che dovettero cedere davanti alle schiere serrate ed alla fitta selva delle lunghe lance nemiche, e ripiegare verso le pendici del monte Oloero.
Fu tanto il dolore del console nel vedere che i suoi, rotti, ripiegavano, che dall'ira si strappava le vesti; tuttavia non si perdette d'animo.
La forza maggiore della falange risiedeva nella compattezza. Sbaragliate le prime linee romane, i falangiti, incalzandole, cominciarono ad allargare la loro formazione, che non riuscì a mantenersi serrata anche per le differenze del terreno che calpestavano.
A questo punto, approfittò EMILIO PAOLO: immediatamente ordinò ai suoi di fare impeto nei punti in cui la falange mostrava qualche varco e penetrare fra le schiere macedoni come dei cunei, rompere in più punti la fronte dell'esercito di Perseo, poi gli altri dietro li avrebbero seguiti.

All'ordine fece seguire l'esempio: messosi alla testa di una legione; si lanciò dove gli parve che la falange fosse meno compatta e la tagliò in mezzo. Altre legioni imitarono l'esempio del console e dall'ala destra gli elefanti furono spinti contro i macedoni.
La battaglia si suddivise in numerosi combattimenti, nei quali il nemico ebbe la peggio perché i falangiti, assaliti di fianco e da tergo, non potevano agevolmente difendersi impacciati com'erano dalle lunghe pesanti e fastidiose larisse, formidabili soltanto negli attacchi frontali, né potevano fermare i Romani che iniziarono a travolgere gli sgomenti falangiti dall'armatura leggera.
Un'ora dopo i Romani erano padroni del campo. Un'immensa strage di nemici era stata fatta. Tito Livio fa ascendere il numero dei Macedoni uccisi a ventimila e a seimila quello dei prigionieri. II resto dell'esercito nemico si salvò con una precipitosa fuga.

RESA DI PERSEO ED ASSETTO DELLA MACEDONIA

Appena si delineò la rotta delle sue truppe, Perseo fuggì dal campo e si recò a Pidna, indi, non ritenendosi sicuro, nottetempo si rifugiò a Pella, seguito da cinquecento Cretesi. Erano i soli soldati che gli restavano; il suo formidabile esercito dopo la disfatta, disarmato si era sparso per le campagne e le vicine città e molti soldati ne avevano approfittato subito per tornare alle loro regioni.
PERSEO, nemmeno a Pella rimase a lungo. Trascinandosi dietro tutti i suoi tesori, si recò ad Anfipoli dove fu accolto con ostilità dalla popolazione; e non finì qui l'odissea di Perseo. Passato il fiume Strimone, si rifugiò in Samotracia; qui spedì ambasciatori al console chiedendo la pace. EMILIO PAOLO però non si degnò neppure di rispondergli e, avendo il figlio di Filippo insistito nella richiesta, gli fece sapere che prima si doveva arrendere senza condizioni a Roma.
Perseo tentennava perché temeva per la sua vita. Ricercato dal pretore Ottavio, malvisto dalle popolazioni che avevano paura delle rappresaglie romane, era costretto a vivere nascosto nei templi inviolabili e vi rimase fino a quando ritenne che la miglior cosa era di abbandonare la Samotracia e cercare un luogo più sicuro in Tracia presso il re Coti suo alleato.
Ma un mercante cretese, che doveva agevolargli la fuga e portarlo con un naviglio in Tracia, prima intascò i denari del re, poi fuggì, abbandonando al loro destino Perseo e suo figlio Filippo.
Negli stessi giorni un certo CIONE di Tessalonica consegnava ad Ottavio gli altri figli del re e questi, avendo perso ormai ogni speranza di salvezza, si consegnò nelle mani del console.
Undici anni era durato il suo regno e quasi quattro la guerra.

Nel settembre di quell'anno (167), a Roma l'altro console, LICINIO CRASSO, alla folla degli spettatori che gremivano il Circo leggeva le lettere di Emilio Paolo che annunziavano la vittoria di Pidna.
Terminata, la guerra con la resa di Perseo, il Senato inviò in Oriente dieci commissari affinché aiutassero il console vincitore nella non facile fatica di dare un assetto alla Macedonia.
Mentre i commissari erano in viaggio, Emilio Paolo, in compagnia del figlio SCIPIONE EMILIANO e di ATENEO fratello del re Eumene di Pergamo, visitò tutta la Grecia per ammirarne tutti i tesori d'arte ma anche per rendersi conto delle condizioni politiche dei vari Stati.

Si recò prima a Delfi dove fece sacrifici ad Apollo ed avendo notato nel vestibolo del tempio le colonne che dovevano reggere il monumento di Perseo, ordinò che vi fossero messe le sue statue; poi si recò a Labadia, in cui sacrificò a Giove e ad Ercina; poi a Calcide, ad Aulide, ad Atene, a Corinto, a Sicione, ad Argo, ad Epidauro, a Megalopoli e ad Olimpia.
Ad Anfipoli, rimase qualche tempo, furono dati magnifici spettacoli, chiamando i più illustri attori, gli atleti più famosi e i migliori cavalli. Assistettero alle feste i rappresentanti di tutte le città greche, ai quali furono dati splendidi conviti e mostrati i trofei della guerra; poi davanti alla folla il console appiccò il fuoco alle accatastate armi dei vinti.

Ad Anfipoli EMILIO PAOLO comunicò al popolo le decisioni da lui prese d'accordo con i dieci commissari per quel che riguardava l'assetto della Macedonia.
A questa furono lasciati la sua libertà, le sue leggi e i suoi magistrati. Del tributo che prima pagava al re, metà doveva esser versato a Roma. Inoltre, tutti gli amici del sovrano, i cortigiani e i principali cittadini dovevano essere esiliati in Italia. La Macedonia infine non doveva costituire più un regno, ma doveva essere divisa in quattro regioni con Anfipoli, Tessalonica, Pella e Pelagonia come capoluoghi e tra l'una e l'altra regione si vietò agli abitanti che si contraessero matrimoni e ci fossero rapporti commerciali. A tre delle regioni che confinavano con i barbari fu permesso di tenere per difesa un certo numero di milizie.
L'Illiria ebbe un ordinamento quasi uguale a quello della Macedonia. A re GENZIO fu tolto il regno e questo fu diviso in tre parti con divieto di matrimoni e commerci tra l'una e l'altra.
L'Epiro e le città greche che avevano parteggiato per Perseo furono trattati durissimamente. Le truppe romane incendiarono e saccheggiarono e diedero sfogo all'ira più feroce, e che il console non volle frenare.
Nell'Etolia cinquecentocinquanta senatori furono uccisi; dappertutto, in Grecia, si cercarono, si perseguitarono, si processarono sommariamente tutti coloro che avevano militato in favore dello spodestato re Macedone, né i processi furono condotti con senso di giustizia: bastò un sospetto per mandare in esilio o alla morte un numero enorme di cittadini, molti dei quali furono vittime di rancori e vendette private, che forse non c'entravano proprio nulla con la guerra.
CALLICRATE, generale degli Achei, compilò una lista di mille nomi, tutti di persone influenti, che furono inviate in Italia, poi distribuite nelle varie città dove rimasero per ben diciassette anni. Fra questi esiliati c'era lo storico, POLIBIO (220-125 a.C.) ammiratore dello stratega Filopemene di cui aveva portato le ceneri chiuse nell'urna in occasione dei funerali tributati al grande patriota.
Polibio ricevette ospitalità in casa di Emilio Paolo. Ebbe così l'opportunità nei suoi 17 anni di esilio a Roma di trasformarsi in amico e autentico ammiratore del popolo romano; infatti compose poi una pregevolissima opera, "Storie" in 40 libri (che anche in queste pagine, in molti periodi abbiamo citato come fonte. La narrazione delle vicende storiche di Polibio si distinguono per il rigore metodologico, la accurata analisi delle fonti, uniti al rifiuto di introdurre nella spiegazione dei fatti elementi sovrannaturali. Tuttavia, anche Polibio è di parte, e di molti fatti tace l'aspetto a lui (come greco) sgraditi).

Gli Epiroti furono quelli che subirono il trattamento peggiore per aver tradito l'alleanza romana. Essi prima dovettero consegnare tutto l'oro e l'argento di cui erano in possesso, poi furono lasciati alla mercé delle soldatesche. Settanta, tra paesi e città, furono saccheggiati e centocinquantamila Epiroti venduti come schiavi.
Al re EUMENE, sospettato di infedeltà, fu negato di recarsi a Roma pur essendo giunto fino a Brindisi. Scopo del suo viaggio era di scolparsi dalle accuse: invece gli fu imposto di ritornarsene nel suo regno e gli fu sottratta la Panfilia.
Anche Rodi fu punita per il suo contegno durante la guerra, né valse a impetrarle il perdono l'appassionata difesa che ne fece CATONE; il Senato stabilì che la Licia e la Caria dovevano essere sottratte alla repubblica marinara che pure tanti ottimi servigi aveva resi a Roma durante la guerra contro Antioco di Siria.
Gli effetti della vittoria di Pidna si fecero sentire anche su ANTIOCO IV. Lui era intervenuto nella lotta tra i due fratelli successori di Tolomeo occupando per proprio conto Cipro e Pelusio, porta di Egitto, e stava per marciare su Alessandria quando, a quattro miglia dalla città fu incontrato e fermato da POPILIO LENATE che in nome del Senato romano gl'impose di abbandonare l'Egitto. Il re di Siria rispose che avrebbe preso consiglio dagli amici ed avrebbe in seguito comunicato a Roma le sue decisioni, ma Popilio, uomo energico e risoluto, tracciato con un bastone un cerchio sul terreno intorno al re, gli disse: "Prima che tu esca da questo cerchio dammi la risposta che dovrò riferire al Senato". Antioco, impaurito: "Eseguirò gli ordini del Senato"; e se ne ritornò in Siria.
Era tanta l'autorità che Roma si era acquistata con la vittoria riportata su Perseo, che bastava la minaccia di un ambasciatore per far piegare la fronte ad uno dei sovrani più potenti.
Non a torto POLIBIO affermò essere stata la giornata di Pidna
l'inizio della dominazione mondiale dei Romani.

IL TRIONFO DI LUCIO EMILIO PAOLO

Nel 167 a.C., Emilio Paolo giunse entrando dal Tevere a Roma con una nave reale d'inusitata grandezza a sedici ordini di remi, adorna di tappeti, arazzi ed armi. E le sponde del fiume della capitale erano gremite di folla, che applaudiva freneticamente il vincitore.
Dietro proposta del Senato, i comizi tributi decretarono che al famoso generale fosse concesso un trionfo di tre giorni.
Scrive TITO LIVIO: "Questo trionfo per la grandezza del re vinto, la bellezza delle statue e la somma del denaro fu oltre ogni dire magnifico e superò tutti i precedenti trionfi. Il popolo, in candida toga, concorse sopra palchi fabbricati per ogni dove come un teatro. Si aprirono i templi e tutti fumavano d'incenso e i littori e i satelliti facevano dar luogo alla turba che in folla accorreva".

"Il primo giorno sfilarono duecentocinquanta carri carichi di statue e di quadri. Il secondo giorno si portò sopra molti carri ciò che vi era di più bello e magnifico fra le armi dei Macedoni, le quali per lo splendore del ferro e del rame, e per la singolare disposizione offrivano a chi guardava uno spettacolo magnifico. Si vedevano le celate e gli scudi, le corazze e gli schinieri, le targhe di Creta e le cetre di Tracia, le faretre e le briglie, le spade sguainate e quasi minaccianti, e le larisse che sporgevano dai lati, tutto in un insieme graziosamente confuso. E, lungo la via, queste armi così mischiate mandavano un fragore così terribile che, sebbene vinte, mettevano paura. Poi da tremila uomini erano portati settecentocinquanta vasi di monete d'argento; ogni vaso conteneva tre talenti ed era sorretto da quattro persone. Altri portavano coppe d'argento e fiale e calici disposti in bella foggia e mirabili per grandezza, peso e lavoro".
"Il terzo giorno lo spettacolo fu grandioso e il trionfo degno di tanta vittoria. Aprivano il corteo i trombettieri suonando come se andassero a battaglia. Seguivano centoventi pingui buoi dalle corna dorate, cinti di bende e coronati di ghirlande, guidati da giovani adorni di fasce squisitamente ricamate e da fanciulli reggenti tazze d'oro e d'argento. Veniva quindi una schiera di uomini che portavano settantasette vasi di monete d'oro del peso complessivo di duecentotrentun talenti. A questi tenevano dietro una sacra fiala del peso di dieci talenti, tutta d'oro, con gemme preziose e gli aurei vasi antigonidi, seleucidi e tericlei che solevano ornare le mense di Perseo.
Poi sfilava la schiera dei prigionieri: Biti, figlio del re Coti di Tracia, Genzio, re dell'Illiria, i figli di Perseo, due maschi ed una fanciulla, accompagnati dai loro pedagoghi che, piangendo, stendevano agli spettatori le mani per implorarne misericordia. Erano giovanissimi questi figliuoli del re vinto e il popolo alla loro vista fu commosso e non riuscì a trattenere le lacrime. Dietro i propri figliuoli veniva, in compagnia della regina, Perseo, vestito di nero, attonito e accasciato dalla sventura. Una turba di amici e familiari lo accompagnava piangendo.
Il povero re aveva scongiurato il console che gli si riparmiasse tanta ignominia, ma Emilio Paolo gli aveva risposto che solo il suicidio avrebbe potuto risparmiargli quell'onta.
Quattrocento corone d'oro offerte dalle città greche seguivano il corteo dei vinti. Ultimo veniva il trionfatore, sul carro della vittoria, maestoso per l'alta carica e venerabile per l'età, tutto risplendente di porpora e d'oro. Chiudeva il corteo trionfale una schiera di uomini illustri, tra cui i due figli del console Fabio e Scipione, la cavalleria, squadra dietro squadra, ed alcune compagnie di fanti.

Il giorno precedente al trionfo, a Paolo Emilio era morto uno dei quattro figli, un secondo morì il giorno dopo il trionfo. Alcuni giorni dopo, rendendo conto al popolo, delle cose da lui fatte in Grecia, il grande generale chiudeva la sua mirabile orazione paragonando la sua sorte a quella di Perseo, che, sebbene vinto e in catene, aveva ancora il conforto dei figli, quel conforto che a lui vincitore e trionfatore era invece stato sottratto dalla morte.

Non a lungo nemmeno Perseo riuscì a godere di quel conforto. Dopo il trionfo fu condotto ad Alba e chiuso nella prigione dei malfattori, da cui, per intercessione di Emilio Paolo, fu portato via e messo in un carcere meno tetro ed infame. Qui Perseo visse ancora circa due anni. Dicono alcuni che morì d'insonnia, altri di fame. Lo seguirono nel sepolcro la figlia ed uno dei figli. L'altro, per vivere, dovette adattarsi al mestiere del tornitore poi a quello di scrivano.
GENZIO re dell'Illiria, con il fratello Caravanzio, la moglie e i figli furono messi in prigione prima a Spoleto, poi ad Igiturvio; BITI invece, con un generoso atto del Senato, fu restituito senza riscatto a suo padre Coti re della Tracia.

Terminata la guerra in Macedonia e in Grecia, svoltisi i trionfi a Roma, tutto sembrava finito. Ma se in Italia e a Cartagine Annibale non esisteva più, e nemmeno Scipione che Cartagine l'aveva conquistata, il regno africano non era stato abbattuto, né come pensavano i Romani non era più in grado più risorgere.
Cartagine invece non era morta, o meglio dopo la disfatta, era risorta come potenza economica. La sconfitta era stata militare, ma era sempre il cuore del commercio di tutto il Mediterraneo. E Roma che ora ambiva a divenire il nuovo emporio mondiale, la rivale non era proprio gradita.

A facilitargli le cose, fu come il solito, la stessa Cartagine, sempre dilaniata al suo interno da due fazioni, la democratica e l'aristocratica; lotte che avevano già causato i precedenti disastri.
In questi anni, mentre Roma era impegnata ad oriente, queste lotte, gli odi, le ambizioni causarono altri contrasti. E Roma ne approfittò.

Nel prossimo capitolo, oltre a ricapitolare questi ultimi anni, abbiamo con il 152, l'inizio e gli avvenimenti della nuova guerra con Roma:
la Terza Guerra Punica…

…il periodo dall'anno 152 al 146 a.C. > > >

 

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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