anni 29 a.C. - 13 d.C.

POLITICA - LEGGI - PACE E GUERRE DI AUGUSTO
* ROMA - L'ITALIA - L'EUROPA

 (PARTE  2 )  * LEGGI DI AUGUSTO - RELIGIONI - COSTUMI - GUERRE AI PARTI E ROMA PROVA... CON GLI ARABI - GUERRE AI LIGURI - * DRUSO E TIBERIO - DRUSO IN GERMANIA - TIBERIO IN PANNONIA
RIVOLTE IN PANNONIA - LA DISFATTA DI VARO
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( PARTE 3 )  *  LA FAMIGLIA DI CESARE  AUGUSTO - RITRATTO DI OTTAVIANO - AGRIPPA
LE MOGLI DI AUGUSTO - TIBERIO E DRUSO - MORTE E TESTAMENTO DI AUGUSTO


( PARTE 4 ) *  LA LETTERATURA DELL'ETA' AUGUSTEA - I PROTETTORI DELLE ARTI - GLI ERUDITI -
GLI ORATORI - I DECLAMATORI - GLI STORICI - LA POESIA - OVIDIO - ORAZIO - VIRGILIO - PROPERZIO



Augusto dopo le riforme dello stato, dopo aver dato un assetto alle province, e dopo aver riorganizzato l'esercito e la flotta, su sua intenzione operare una restaurazione religiosa e dei costumi contro l'invadente ateismo e la corruzione che si diffondeva sotto l'influenza dei molli costumi orientali e spesso anche quelli barbari.

Pontefice massimo e prefetto dei costumi, Augusto si adoperò perché ritornassero in onore la religione dei padri e l'antica morigeratezza. Secondo Augusto il sentimento religioso era caduto troppo in basso. Nuove divinità e nuovi culti erano venuti dall'Oriente e questi si erano sovrapposti a quelli dell'antica Roma. Erano stati accolti spesso per brama di novità o perché davano occasione a cerimonie pittoresche ma spesso anche scandalose. Lo scetticismo si era fatto strada nella società colta, mentre presso il popolo nuove superstizioni si erano aggiunte a quelle vecchie. Augusto volle fare una radicale pulizia, cercando di restaurare l'antica religione dell'Urbe.
fece bruciare oltre duemila libri greci e latini, di foschi riti o cupe profezie e conservò soltanto, dopo averne fatta una personale scelta, i libri sibillini che pose in due cassette sotto la base della statua di Apollo sul Platino: fece riparare numerosi templi rovinati dall'incuria del tempo o dal fuoco e li adornò con ricchissimi doni. Spese in una sola volta cinquecentomila sesterzi e sedicimila libbre d'oro per abbellire il tempio di Giove Capitolino. Non pochi furono i templi che egli fece costruire; fra questi sono degni di nota i templi di Marte Ultore, di Quirino, della Fortuna, della Libertà, del Divo Giulio, di Vesta, di Giove Tonante sul Campidoglio, di Apollo. Dietro il suo esempio generosi ricchi cittadini fecero abbellire o fabbricare altri templi: Marcio Filippo quello di Ercole, Lucio Cornificio quello di Diana, Munazio Planco quello di Saturno; Vipsanio Agrippa il Pantheon, dedicato a Venere, a Marte, a Giove, a Iulio, ad Enea, a Romolo e a Giulio Cesare.

"Inoltre -secondo quanto scrive Svetonio- "accrebbe il numero, la dignità e i privilegi dei sacerdoti e specialmente delle Vergini Vestali. E poiché morta una Vestale, se ne doveva nominare un'altra, e molti cercavano di evitare che venisse scelta una loro figlia, egli giurò che se una  delle sue nipoti avesse avuto l'età prescritta l'avrebbe offerta in sostituzione della defunta Vestale. Ristabilì anche alcune cerimonie che erano andate in disuso, come l'augurio di salvezza, il flamine di Giove, le feste Luper cali, i ludi secolari e i ludi in onore dei Lari. Vietò che i giovanissimi corressero nei Lupercali, e che nei giuochi secolari i giovani dell'uno e l'altro sesso frequentassero spettacoli notturni a meno che non fossero accompagnati da qualche genitore o parente. Ordinò che i Lari posti nei quadrivi fossero ornati due volte l'anno, d'estate e d'inverno, di fiori" 
"Subito dopo gli dèi immortali onorò la memoria dei capitani che avevano reso grandissimo l'impero romano. Perciò restaurò i monumenti con le iscrizioni che restavano, e ad ognuno di essi dedicò una statua in abito trionfale in ciascun portico del suo Foro, dichiarando di aver fatto ciò perché i cittadini esigessero che lui stesso mentre viveva e i futuri capitani avessero a modello" (Svetonio).

Ottaviano fece molto per combattere la corruzione. Quanto egli si adoperasse per correggere i costumi ci mostrano chiaramente le leggi fatte contro i colpevoli di brogli elettorali, i provvedimenti presi contro i giocatori, contro i Senatori e i cavalieri che conducevano una vita poco morigerate, il tentativo fatto di rimettere in uso le antiche vesti, il freno messo alla licenza degli spettacoli, il divieto imposto alle donne di assistere agli spettacoli di atleti e di sedersi accanto agli uomini nei luli gladiatori.

Fra tutte le leggi rivolte al miglioramento dei costumi meritano speciale menzione quelle sui matrimoni. Preoccupato del decadimento della razza e della diminuzione della popolazione romana, causata dal concubinato, dalla frequenza dei divorzi, dal celibato e dai matrimoni sterili, Ottaviano propose nel 17 a.C. una legge molto rigorosa sul matrimonio, ma questa trovò fiera opposizione nei comizi e solo ventun'anni dopo, nel 3 d.C., ripresentata con molti emendamenti, poté essere approvata.
Si narra che chiedendo i cavalieri, durante un pubblico spettacolo, l'abolizione di questa legge, Augusto facesse chiamare i figli di Germanico e li mostrasse agli astanti come per significare che non doveva essere difficile imitare l'esempio di un uomo, il quale , sebbene in giovine età, era padre di tanti figli.

La legge sul matrimonio non dovette però dare grandi risultati se alcuni anni dopo, appunto nel 3 d.C., Ottaviano fece presentare dai consoli M. Papio Mutilo e Q. Poppeo Sabino la lex Papia-Poppea,  con la quale si regolavano il matrimonio, il divorzio, la dote, le successioni e i legati.

Questa legge era una condanna severa del celibato, della vedovanza e della sterilità. I celibi dai venti ai sessant'anni, le nubili dai venti ai cinquanta, le donne che dopo due anni di vedovanza non avevano ripreso marito, chi dopo un anno e mezzo dal divorzio non aveva contratto un nuovo matrimonio non potevano ereditare o ricevere legati dai parenti prossimi. Ai celibi erano dati cento giorni di tempo per sottrarsi col matrimonio alle pene comminate dalla legge. I coniugi senza prole potevano ereditare soltanto metà dei beni lasciati dai loro congiunti e non potevano intestarsi che un decimo delle loro sostanze. Chi invece aveva tre figli legittimi era esente da ogni imposta se abbiente, e se povero aveva diritto ad una razione doppia nelle distribuzioni di grano; i Latini che avevano un figlio di un anno venivano ammessi alla cittadinanza romana, la donna che era la madre di tre figli veniva dispensata dalla tutela purché la sua famiglia godesse della cittadinanza e lo stesso trattamento era fatto alle libertine con quattro figli. Infine i coniugi con prole avevano diritto di preferenza nelle cariche pubbliche.

Malgrado le pene e i premi di questa legge Ottaviano  non vinse la sua buona battaglia. Troppo era la corruzione della società romana perché vi si potesse dare riparo anche usando severissime disposizioni e la decadenza dei costumi doveva compiere fatalmente la sua parabola. Né valeva - come fece Ottaviano- a dare autorità alla legge ricordare i consigli degli antenati che anzi questi erano la prova più evidente di quanto il male fosse vecchio e dimostravano come nemmeno il tempo, che pur tante piaghe guarisce, fosse stato capace di guarire quella contro la quale tanto nobilmente si accaniva Augusto.

ROMA SOTTO IL GOVERNO DI AUGUSTO

Sotto l'impero di Ottaviano si intensificarono le costruzioni stradali, che hanno di mira l'espansione del commercio e la rapida e sicura dislocazione delle truppe.

Roma è in comunicazione con tutto il mondo per mezzo di una immensa rete stradale che fa capo ad un pilastro dorato (milliarium aureum) eretto nel 19 a.C. nel centro del foro.
Per queste vie le legioni si recano fino ai più lontani confini dell?impero, i messi portano utili ordini in tutte le province, gli impiegati dello Stato e i privati viaggiano rapidamente e sicuramente; per queste vie affluiscono nella capitale i prodotti di tutto il mondo, i provinciali, le missioni e i donativi dei sovrani forestieri. Ma Roma non è degna metropoli di tanto impero; essa non può ancora gareggiare con le città di Grecia e d'Asia. Essa, è, sì, vasto centro di circa due milioni di abitanti, ma manca di regolarità e di grandiosità, Giulio Cesare aveva pensato a rendere la capitale del mondo non inferiore alle altre città a lei soggette ed aveva preparato un vasto piano regolatore, ma di esso la morte non gli permise di attuare che una piccola parte. Ottaviano continua l'opera del padre e può vantarsi di lasciar di marmo quella città che ha trovato di mattoni.
In quest'opera veramente grandiosa gli è di sonno aiuto Visanio Agrippa che nelle costruzioni di utilità pubblica spende somme rilevanti del suo stesso patrimonio.
Il corso del Tevere viene ampliato e nettato nel tratto che traversa l'abitato, acquedotti superbi vengono costruiti, viene arricchita Roma dell'acqua Vergine e vengono immesse nell'acquedotto della Marcia le acque di altre sorgenti; quartieri luridi ed angusti vengono abbattuti e vengono aperte larghe vie ed ampie piazze; un grandioso foro adorno di marmi viene costruito, i templi vecchi sono riparati, altri e superbi sono fabbricati; si innalzano il portico e la basilica di Cajo e di Lucio, i portici di Livia e di Ottavia, il teatro di Marcello, l'anfiteatro di Statilio Tauro, palazzi, terme, biblioteche.
IN pochi anni Roma non si riconosce più. Somme ingenti sono state profuse, ma la città non è, come una volta, un informe aggruppamento di case, tra cui scomparivano i monumenti, non più solcata da un labirinto di vie anguste, storte e senza luce; ora essa nulla ha da invidiare ai più grandi e bei centri dell'Oriente e tutti coloro che vengono dalle più lontane parti del mondo ammirano la grandiosità della metropoli italiana e portano alle stelle, ritornando nei loro paesi, il nome di Augusto.

GUERRE IN ORIENTE E IN AFRICA

Quando - dopo la battaglia di Azio e d'Egitto- Ottaviano fece ritorno a Roma a celebrare il trionfo, fra le tante manifestazioni come restauratore della pace, aveva  sciolto l'esercito e chiuso il tempio di Giano (Giano era uno dei più antichi dèi romani. Venerato come il  creatore del mondo. Il suo tempio restava aperto solo in tempo di guerra. Ed era due secoli che era aperto quello di Roma).
Ma se le discordie civili e le guerre intestine erano cessate, le armi non si posarono mai, sia nelle province che agli estremi confini dell'impero.
In Oriente rimanevano sempre da vendicare le sconfitte patite, recuperare le insegne perdute e liberare i prigionieri romani; ma il pensiero di una guerra contro i Parti non sorrideva ad Ottaviano. Egli sperava invece di trarre profitto dagli interni rivolgimenti di quel regno e del vicino reame di Armenia e di ottenere ciò che desiderava, anziché con le armi, con una accorta politica.

L'Armenia era ricaduta sotto il potere di Artasse, il quale aveva cacciato dal trono della Media il re Artavasde alleato dei Romani, ma contro di lui era sorto un partito che voleva dare lo scettro armeno al fratello Tigrane che si trovava, come ostaggio, a Roma.

Nel reame politico, su cui regnava Fraate IV, questi era stato costretto a fuggire dal fratello Tiridate, ma dopo alcuni anni era riuscito a rioccupare il regno e a scacciare il fratello, il quale però aveva menato con sé il figlioletto di Fraate e lo aveva consegnato ai Romani.
Ottaviano aveva dato ad Artavasde di Media l'Armenia minore perché tenesse d'occhio Artsasse. e a Tiridate aveva accordato ospitalità in Siria affinché potesse mantenersi in contatto con i partigiani abbastanza numerosi che aveva tra i Parti.

Stavano così le cose quando Fraate mandò ambasciatori a Roma con l'incarico di iniziare le trattative per la restituzione del figlio. Augusto, lieto di poter evitare una guerra dall'esito incerto, rimandò libero l'ostaggio col patto che venissero restituiti i prigionieri e le insegne perdute da Crasso e da Antonio; ma Fraate, riavuto il figlio, non mantenne fede ai patti. Ottaviano allora si accorse che bisognava ricorrere alle armi. Da una parte ordinò al figliastro di Tiberio di marciare con un forte esercito sulla Grande Armenia, dall'altro egli stesso si portò in Asia insistendo presso Fraate che desse  esecuzione ai patti stabiliti.
Preoccupato del contegno dei partigiani di Tiridate, il re dei Parti cedette alle richieste di Ottaviano e consegnò le insegne e i prigionieri. A Tiberio non fu dato il tempo di fare uso delle armi, che prima ancora che giungesse in Armenia, Artasse fu ucciso dai suoi avversari e TIGRANE, proclamato re, fu poi incoronato dal generale romano.
Questi avvenimenti furono preceduti da due guerre, di cui la prima ebbe carattere offensivo, la seconda difensivo. Scopo della prima guerra fu la conquista dell'Arabia Felice (Jemen). 
"Augusto - scrive Trabone, suo contemporaneo- aveva deciso di o ingraziarsi queste popolazioni o di sottometterle. Si era ripromesso questo perché questi territori, a memoria d'uomo, sono stati sempre creduti in possesso di ingenti ricchezze (famosa nell'antichità la regina di Saba).
Questi Arabi scambiano difatti gli aromi e le pietre preziose contro l'oro e l'argento e nulla di quanto ricevono in cambio lasciano uscire dal loro paese. Ottaviano sperava di procurarsi cos' dei ricchi amici o di spogliare dei ricchi nemici ed era spinto all'impresa anche dalla fiducia che aveva nei Nabatei, suoi alleati, che gli avevano promesso di aiutarlo" (Strabone).

Augusto incaricò della spedizione nello Jemen, Elio Gallo, prefetto d'Egitto. Il piano di Gallo era di percorrere la via di terra, passando da El-Arish e Petra, ma Silleo, ministro di Obodas III re dei Nabatei, sconsigliò quell'itinerario e persuase il Romano a concentrare le truppe nel porto di Leuke-Kome (odierna Muilah) all'ingresso del golfo di Aqaba.
Elio Gallo fece costruire ad Arsinoe (Suez) ottanta navi - biremi e triremi- ma non essendo questi legni adatti alla navigazione costiera, dovette ritardare la partenza e far costruire centotrenta navi onerarie. Nell'estate  Elio Gallo con cinquecento Ebrei e novemila Romani, prelevati delle guarnigioni d'Egitto, prese il mare e sbarcò a Leuka-Kome. dove si trovava Silleo con un migliaio di Nabatei. In questa città però il corpo di spedizione dovette rimanere tutta l'estate, l'autunno e l'inverno a causa dello scorbuto e di un'altra epidemia che decimarono le truppe. Il viaggio nell'interno fu solo iniziato nella primavera successiva sotto la guida di Silleo, al quale forse il suo re aveva ordinato di far percorrere ai  Romani un itinerario lungo e difficile allo scopo - si suppone- di farli desistere dall'impresa.

L'esercito, oppresso dal caldo, dai disagi e dalla carenza di viveri, impiegò trenta giorni ad attraversare il territorio del re amico Aretas; cinquanta  ne occorsero per attraversare il paese degli Araverni (Gebel el-Arid). Giunti nel territorio dei Negrani, i Romani si impadronirono della capitale Negra (Medin en-Nugra); marciarono quindi per una settimana lungo le rive di un fiume e, venuti a battaglia con gli Arabi, li sbaragliarono uccidendone diecimila; poi marciarono su Atrulla (Medina) e l'ebbero senza combattimento. Lasciato qui un presidio, si diressero alla volta di Marsiaba (Mecca), capitale dei Rammaniti e, giuntivi, la cinsero d'assedio, sei mesi dopo che erano partiti da Leuke-Kome.

Ma la città, difesa dal re Ilasaro (Dhu el-Hazar), resistette valorosamente ed i Romani, privi di acqua, dopo sei giorni di vano assedio, dovettero precipitosamente prendere la via del ritorno. Non fidandosi più di Sileo, Elio Gallo per vie più brevi, giunse ad Atrulla; di qui, rilevatene la guarnigione, in nove giorni giunse fra i NEgrani, in undici ai Sette Pozzi, poi a Kaalla, a  Malotas e, infine, ad Egra (forse sul Mar Rosso) sessanta giorni dopo la partenza da Marsiaba (Mecca):

Da Egra, dopo undici giorni di navigazione, sbarcò a Misormons (Csseir) donde per via terra andò a Kopton (Koft) e di la raggiunse finalmente Alessandria, con le schiere molto assottigliate da malattie, dal clima e dai terribili disagi sofferti nell'infinito deserto arabico.

Silleo, più tardi, sposò Salomè, sorella di Erode; morto Obodoa e salito sul trono Aretas IV, non andando d'accordo col nuovo sovrano, andò a Roma ad accusarlo di usurpazione, ma, accusato a sua volta di aver tradito Elio Gallio, fu preso ed ucciso.
L'infelice spedizione di Gallo fu la causa di un'altra guerra. Approfittando dell'assenza delle truppe in Egitto, in cui erano rimaste solo tre coorti, Candace, regina di Nubia, invase con un forte esercito il territorio spingendosi fino alle città di Elefantina, File e Syene che furono occupate.

A dirigere la nuova guerra fu mandato il successore di Elio Gallo, il prefetto Cajo Petronio, il quale riacquistò le località perdute, costrinse a battaglia campale presso Pselchis gli Etiopi, li vinse li inseguì fino a Napata, loro capitale, che venne espugnata e saccheggiata. La regina Candace, sconfitta, mandò ambasciatori ad Augusto e stipulò con lui un trattato di pace. Qualche anno più tardi anche nella provincia d?africa dovettero usarsi le armi, che vennero rivolte contro i Getuli, i Marmaridi e i Garamanti, popolazioni barbare che rendevano malsicuri i confini meridionali. Contro di esse guerreggiarono i proconsoli Publio Sulpicio Quirino e Lucio Sempronio Atratino, ma i risultati migliori li ottenne Cornelio Balbo, il quale si spinse fino al Fezzan e all'oasi di Ghadames e meritò per le sue vittorie il trionfo che gli venne tributato a Roma nel 19 a.C.

DRUSO E TIBERIO

Nel 18 a.C. Ottaviano tornato a Roma dall'Oriente ( e dopo la disastrata guerra nell'Arabia) dichiarò in Senato che era chiuso per Roma il periodo delle guerre di conquista; ma le sue dichiarazioni non ebbero conferma dai fatti successivi, né potevano averla. I valichi alpini occidentali erano malsicuri: già nel 33 a.C. si era dovuto combattere contro i Salassi padroni delle Alpi Graie e delle comunicazioni con la Gallia Lugdunese e si era occupata la loro capitale nel 32 a.C., e si erano dovute rinnovare le operazioni guerresche, dirette da Varrone Murena; quelle fiere popolazioni erano state sottomesse, circa 30.000 Salassi catturati erano stati venduti come schiavi e a consolidare il possesso di questa regione, Augusto vi aveva inviato circa 3000 pretoriani e vi avevano fondato la colonia Pretoria Augusta (Aosta). 
Più tardi, un principe del luogo. Marco Giulio Cozio, sottomessosi spontaneamente, aveva ottenuta la cittadinanza romana  e la carica di governatore del paese e aveva iniziato la vita militare che da Torino, per il Monginevro, doveva condurre in Gallia. Ora erano i Liguri delle Alpi Marittime che si ribellavano.
Maggiori preoccupazioni davano le Alpi Centrali ed Orientali. Le prime erano tenute dai Reti, a nord dei quali dominavano i Vind-elici (capitale Vind-ebona, la futura Vienna) fino al Danubio e ad est i Norici, popolazioni queste molto irrequiete; le orientali erano sempre minacciate dai Pannoni.
Non meno sicuri erano i confini dell'impero nella regione danubiana, dove i Romani, sconfitti i Bastarni sul Cibrus e i geti, avevano occupato la Mesia. Nel 15 a.C. i Sarmati passavano il Danubio, i Bessi si ribellavano, gli Scordisci e i Denteleti invadevano la Macedonia, i Pannoni e i Norici penetravano nell'Istria, i Camuni e i Veneti si spingevano fino a Como e a Verona.
Nello stesso tempo i Sigambri, gli Usipeti e i Tenecteri, passato il Reno, sconfiggevano il legato romano Marco Lollio Paolino nella Belgica impadronendosi dell'aquila della V Legione.

Occorreva dunque ovunque riprendere le armi, sottomettere i popoli ribelli, conquistare le Alpi Centrali ed Orientali, respingere gli invasori fino alla linea del Danubio e rendere sicuri i confini del Reno. Al Reno provvide lo stesso Lollio che concesse la pace ai Sigambri e ne ricevette ostaggi; gli Odrisi, alleati di Roma, domarono i Bessi; Publio Sillio, governatore dell'Illirico, conquistò il Norico e sconfisse i Camuni e i Venosti (15 a.C.).

Per queste operazioni (anno 17-16 a.C.) contro i Vindelici e i Reti, furono mandati TIBERIO e DRUSO, figliastri di Ottaviano (di primo letto di Livia Drusilla moglie di Augusto); il primo partito dall'Elvetia, sconfisse i Reti sul lago Costanza, il secondo penetrò nel cuore dei paesi nemici dalla valle dell'Inn. Alla fine dell'estate di quell'anno la Rezia e la Vindelicia erano sottomesse e a rendere più saldo il possesso di quelle regioni furono fondate le colonie di Augusta Vindelicorum (Augusburg) e di Augusta Rauvicorum (August).
(Queste operazioni militari nelle regioni alpine e transalpine, condurranno alla creazione della provincia della Rezia e Vindelicia (estesa ad E e a O dall'Inn al lago Lemano, su territori oggi appartenenti ad Austria, Baviera e Svizzera) ed alla sottomissione della regione del Norico (odierna Austria e Baviera), che solo in seguito sarà ordinata a vera e propria provincia).

Poi nell'anno 15-14 a.C., con la sottomissione anche dei Liguri, Roma aveva il pieno possesso delle Alpi e l'Italia aveva assicurati i confini settentrionali.
A ricordo di queste imprese vittoriose, nel 13-12 a.C. furono a Segusio (od. Susa) e a Torbia (od. Monaco) sulla via Aurelia, Augusto fece erigere nel primo un arco trionfale, e nel secondo il trofeo della Turbie, un edificio monumentale le cui epigrafi dicevano che sotto Augusto tutti i popoli alpini, in numero di quarantasei, erano passati alle dipendenza di Roma.
Terminata la sottomissione furono costituite le province delle Alpi Marittime e delle Alpi Graie.

Ma nemmeno dopo queste vittorie si chiuse il periodo delle guerre. Augusto vagheggiava il disegno di spingersi fino al corso dell'Elba, sottomettendo le turbolente popolazioni germaniche che rappresentavano un continuo pericolo per la sicurezza della Gallia, e di portare il confine dell'Impero dalla Sava al corso superiore del Danubio.
Le prove date dai suoi figliastri, che si erano rivelati valentissimi generali, gli davano sicuro successo dell'attuazione dei suoi disegni; nuove ribellioni dei Pannoni, e degli Illirici, avvenute nel 13-12 a.C. e nuovi movimenti offensivi da parte dei Sigambri gli fornirono il pretesto di fare altre spedizioni militari (di conquiste).
Ottaviano diede a DRUSO il comando della guerra oltre il Reno e incaricò Vipsanio Agrippa di ridurre all'obbedienza i Pannoni. Ma questi non poté regalare ad Augusto un'altra vittoria, che nel marzo dell'11 a.C., quando ancora non erano terminati i preparativi della guerra, morì. Alla notizia della morte del più illustre generale romano, la rivolta dei Pannoni assunse proporzioni maggiori. A sostituire Agrippa fu scelto Tiberio, il quale dovette guerreggiare fino al 9 a.C. contro quelle fiere popolazioni che, favorite dalla natura dei luoghi ed aiutate dai Daci, si difesero tenacemente e fecero costar cara la conquista del proprio territorio ai Romani, che per poter meglio tenere a freno i popoli sottomessi costruirono tra la Sava e la Drava una linea di campi trincerati, tra cui sono degni di menzione Petovio, Siscia e Sirmio (questa linea -per duemila anni- fino all'ultimo conflitto iugoslavo dividerà sempre due mondi).

Mentre Tiberio combatteva contro i Pannoni, tornarono a sollevarsi i Bessi che, ucciso il re degli Odrisi, minacciavano la Macedonia. COntro di loro venne mandato Lucio Pisone che nel 10 a.C. li vinse e li sottomise.
Nel 12 DRUSO aveva assunto il governo della Gallia e il comando della guerra contro i Germani. Prima di iniziare le ostilità volle rendere più forti le basi delle sue operazioni, e a questo scopo costruì sulla riva del Reno cinquanta castelli. Per assicurare le comunicazioni tra queste fortezze, rendere più agevole la costruzione di ponti ed utilizzare le vie fluviali per il trasporto di vettovaglie e di truppe, Druso fece costruire una flotta sul Reno e, siccome pericolosa era la navigazione delle coste olandesi, fece scavare un canale, da lui detto Fossa Drusiana,  che metteva in comunicazione il mare col lago Flevo e questo con il Reno. Inoltre si procurò l'aiuto dei Batavi e dei frisi, che potevano essergli di grande aiuto nelle operazioni contro le tribù della Germania settentrionale.
Preveggente com'era, pensò anche ad assicurarsi le spalle da una sollevazione dei galli e per avere una prova della loro fedeltà li invitò ad erigere un altare ad Augusto. Sessanta cantoni risposero all'invito di Druso, e a Lugdunum nell'11 a.C. eressero un gigantesco tempio alla Dea Roma e a Cesare davanti il quale collocarono una statua di Augusto alta sessanta piedi.

Assicuratosi della devozione dei Galli, Druso nello stesso anno iniziò le operazioni. L'isola di Burchana, nel Mare del Nord, con l'aiuto dei Frisi e dei Batavi venne occupata. Approfittando di una contesa sorta tra i Catti e i Sigambri, Druso passò il Reno, vinse i Bructeri sull'Ems (Amisia), invase il territorio dei Sigambri e si spinse fino al paese dei Cauci, presso il Weser, procurandosi la loro alleanza. Ma la scarsezza di vettovaglie lo costrinse a ritornare alle sue basi.
Di fronte al pericolo, le popolazioni dei Sigambri , dei Cheruschi e degli Svevi si allearono per opporsi ad una nuova invasione romana; ma Druso nel 10 a.C. penetrò nel territorio dei Cheruschi, devastando e saccheggiando tutto al suo passaggio e giunse fino al corso del Weser. Di ritorno da questa spedizione, presso Arbalo i Romani furono accerchiati ed assaliti da numerosissime orde di Sigambri.

Il numero soverchiante dei nemici non poté avere però ragione del valore e della disciplina dei legionari di Druso, i quali seppero rompere il cerchio in cui erano stati stretti e infliggere una sanguinosissima sconfitta ai Sigambri.
Queste fortunate spedizioni non avrebbero dato nessun frutto se non si fosse data mano alla costruzione di fortezze e campi trincerati nelle regioni nemiche; perciò Druso costru' un fortissimo campo sul corso superiore della Lippe (Aliso -od. Haltern) e un altro sul Taunus nella regione dei Cauci
L'anno seguente, partendo da Magontiacum (Magonza), Druso puntò con un forte esercito verso il corso medio dell'Elaba. Fu una marcia difficilissima ostacolata continuamente dagli assalti dei Catti, dei Cheruschi e degli Svevi, ma gli obiettivi furono raggiunti e per la prima volta i legionari romani videro le acque del grande fiume. Nella via del ritorno però, tra Saale e il Reno, Druso cadde malamente da cavallo e si ruppe il femore. Sopraggiunte delle complicazioni, il 14 settembre  dell'anno 9 a.C. moriva, all'età di trenta anni.
La sua salma fu trasportata a Roma e dopo solenni funerali venne inumata nel mausoleo della Casa Giulia al campo Marzio. Ottaviano e Tiberio tennero l'elogio al defunto, il Senato conferì all'estinto il nome di Germanico, titolo che i discendenti in seguito ebbero la facoltà di portare, e sulla Via Appia fu eretto un arco a suo nome.

Rimasto senza capo, l'esercito di Druso si trincerò  in un campo fortificato. A sostituire Druso, Ottaviano mandò il fratello TIBERIO, che aveva condotta a termine la guerra in Pannonia. Prima che le armi, il nuovo comandante iniziò a usare la politica e l'astuzia in cui era maestro e indusse le tribù germaniche tra il Reno e l'Elba a trattative di pace.
Gli ambasciatori germanici furono mandati a Lugdunum dove si era recato Ottaviano, ma questi dichiarò che non avrebbe trattato se non fossero venuti da lui i capi dei Sigambri. Venuti questi, Augusto li trattenne in Gallia. I capi, affinché le loro posizioni non avessero le mani legate, si diedero la morte. Tiberio, approfittando dello sgomento dei Sigambri all'annunzio della prigionia e della morte dei loro capi, assalì vigorosamente i nemici e, sconfitti, li ridusse sotto il dominio romano. Quarantamila dei loro guerrieri furono tolti dal territorio e, trasferiti alla sinistra del Reno, vennero distribuiti tra gli Ubi, i Batavi e i Manappii.

Nell'anno 7. a.C. il disegno di Ottaviano era realtà: i Pannoni erano stati sottomessi e la frontiera del Reno era stata portata fino al Corso dell'Elba; non pare però che dei risultati ottenuti dalle ultime guerre fosse contento Augusto. Difatti Domizio Enobarbo, succeduto a Tiberio nel comando, passò l'Elba, innalzò un'ara al suo imperatore e concluse trattati di amicizia con alcune popolazioni.
Ma il primo periodo delle guerre germaniche era chiuso: il ritiro di Tiberio dalla vita politica (ne parleremo più avanti) e il bisogno di organizzare amministrativamente i paesi conquistati avevano fatto posare le armi.

MAROBODO - RIVOLTA NELLA PANNONIA E NELL'ILLIRICO

Memtre in Germania si conducevano trattative di pace e si cominciava a dare un assetto alle regioni conquistate, prima da Druso poi da Tiberio, alcune rivolte iniziavano in Oriente.
Era morto in Armenia Tigrane III e gi era succeduto il figlio Tigrane IV che aveva sposato la propria sorella, di nome Erato. Il nuovo re, allo scopo di liberarsi dalla tutela romana, si era segretamente alleato con il re dei Parti Fraate V, con l'aiuto del quale aveva sconfitto Artavasde che P. Quintilio Varo, legato di Siria, gli aveva messo contro. Era necessario pertanto l'intervento romano per riconquistare in Armenia le posizioni perdute e vendicare lo scacco di varo.

Ottaviano diede incarico a Tiberio di recarsi con un esercito in Armenia, ma questi per motivi che spiegheremo più avanti, non accettò la missione e si ritiro a vita privata a Rodi (6.a.C.).
Cinque anni dopo Augusto mandò in Oriente con la carica di proconsole un figlio adottato, Cajio Cesare, giovane di vent'anni, al cui seguito mise parecchi esperti ufficiali e il re Juba di Mauritania, stimato per la sua vasta cultura.

Comparso Cesare in Siria, Fraate V chiese ed ottenne del proconsole un convegno nel quale promise di disdire l'alleanza con Tigrane a patto che i suoi fratellastri (lui era un bastardo di Fraate IV) mandati come ostaggi a Roma dal padre nel 10 a.C., non fossero mandati liberi in Asia. Dal canto suo Tigrane si dichiarò disposto a seguire la politica paterna ma, venuto a morte poco dopo, sul trono d'Armenia venne innalzato Ariobarzane II, figlio di Artavasde re della Media Atropatene. Pareva che l'rdine fosse tornato in Armenia quando (nel 3 d.C.) quella parte della popolazione che propendeva per i Parti si sollevò. Allora Cajio Cesare si vide costretto a fare uso delle armi.
Invaso con le sue legioni il territorio armeno, assediò e espugnò la città di Astagira e sottomise i ribelli. Ma, durante l'assedio, da un nobile armeno a tradimento si prese una pugnalata. Scampò alla morte, ma dopo un peggioramento nella ferita, la morte lo colse a Limyra, nella Licia, il 21 febbraio del 4 d.C., mentre era in viaggio per rientrare a Roma.

In quello stesso anno Tiberio riconciliatosi con Augusto, fu inviato nuovamente in Germania al comando delle legioni. Qui durante la sua assenza il prestigio romano era andato declinando per opera dei Marcomanni, un popolo appartenente alla bellicosa stirpe degli Svevi. Questi minacciati nella loro indipendenza dopo le conquiste di Druso, avevano abbandonato il territorio posto tra il Neckar e il Reno e, guidati da un capo di nome MAROBODO, il quale era vissuto alcuni anni a Roma e vi aveva conosciuto gli ordinamenti militari, si erano stanziati nelle regioni superiori dell'Elba, nel fortissimo paese dei Boi, da cui l'attuale Boemia prese poi il nome. Addestrato il suo popolo all'arte della guerra (romana) Marobodo ne aveva fatto in poco tempo una nazione potente verso la quale aveva attirato i Semnoni e i Langobardi.
Preocccupato dalla crescente potenza dei Marcomanni, Augusto aveva incaricato L. Domizio Enobarbo di tenere d'occhio, dalla Rezia , Narobodo. Domizio aveva accordato la sua protezione agli Ermundui e con il loro aiuto nel 2 d.C. si era spinto verso il corso medio dell'Eba. La sua mossa però, anzichè scuotere la potenza dei Marcomanni, l'aveva rafforzata perchè i Semnoni e i Langobardi, minacciati dai Romani, si erano alleati a Morobodo, il quale era riuscito a mettere in armi un esercito di 70.000 fanti e 4.000 cavalli.

preso Tiberio il comando delle operazioni militari, questi passò il Weser, domò i Cheruschi che si erano ribellati e pose i suoi quartieri d'inverno ad liso sulla Lippe. Nel 5.d.C. Tiberio marciò contro i cauci che sottomise e disarmò più volte i Langobardi e raggiunge, sul corso dell'Elaba, la flotta che dal mare aveva risalito il fiume.
Queste azoni rappresentavano il preludio della campagna che Tiberio aveva in animo di iniziare per fiaccare la potenza di Marobodo.

Fu l'anno seguente che Tiberio decise di muovere contro i Marcomanni con un esercito di circa 140.000 uomini. Il territorio nemico doveva essere invaso da due parti: il legato Cajo Senzio Sarurnino doveva muovere da Magonza e, traversando la selva Ercinia, piombare alla sinistra del nemico; Tiberio, rinforzato dalle truppe che erano di guarnigione nella Pannonia e nell'Illirico, doveva marciare dal sud.
Già Saturnino si era inoltrato nel paese dei Catti e Tiberio aveva passato il Danubio a Carnuntum (una colonia vicino a Vienna) quando ai Romani giunse improvvisa la notizia che le popolazioni della Pannonia e della Dalmazia si erano ribellate.

La notizia era gravissima; i cittadini romani erano stati massacrati, gli scarsi presidii uccisi e circa duecentomila insorti erano in armi alle spalle di Tiberio il quale veniva a trovarsi nella situazione in cui aveva sperato di ridurre i Marcomanni.
Né solo lui era minacciato. La Macedonia era stata invasa e l'Italia si trovava indifesa con un nemico ferocissimo a non molta distanza dalle porte dell'impero.
Augusto in Senato disse che in dieci giorni i ribelli sarebbero potuti giungere in vista di Roma e per fronteggiare il pericolo ordinò leve, richiamò dall'Oriente cinque legioni e si recò a Rimini. Se gli insorti si fossero messi d'accordo con i Marcomanni la situazione dei Romani sarebbe diventata ancora più grave; invece Marobodo non seppe  trarre profitto dalla condizione in cui si trovavano i suoi nemici e, ricevute profferte di pace da Tiberio, le accettò, lasciando in questo modo il figliastro di Ottaviano libero di marciare contro i ribelli.

Le prime operazioni furono di scarsa importanza e mostrarono che se gli insorti erano numerosi, erano però privi di capitani abili e di una seria organizzazione. Difatti un corpo di esercito dovette ritirarsi sul monte Claudio all'appressarsi di Tiberio; la XX Legione, sebbene accerchiata da 20.000 nemici, seppe sbaragliarli e le cinque legioni venute in soccorso dall'Oriente, quantunque accerchiate anch'esse dal nemico e abbandonate dalla cavalleria ausiliaria, riuscirono ad infliggere una grave sconfitta agli assalitori.

L'anno seguente (8 d.C.) Tiberio iniziò l'offensiva. Sul fiume Bathinus fu combattuta una battaglia decisiva e la sorte favorì le legioni romane. L'esercito nemico, battuto, depose le armi, ma la sconfitta non pose fine alla rivolta e Tiberio prima e Marco Lepido, suo legato, poi, per tutto quell'anno e l'anno successivo dovettero guerreggiare contro un nemico che difendeva accanitamente la propria indipendenza. Ma alla fine la rivolta venne sanguinosamente domata; il paese fu messo a ferro e fuoco, parte della popolazione fu venduta, il confine dell'impero fu riportato sul Danubio e Roma già si apprestava a celebrare il trionfo, quando la notizia di un terribile disastro toccato dalle armi romane mutò la gioia in un lutto angosciante: tre legioni erano state massacrate dall'Elba al Reno dai Germani che erano insorti.

ARMINIO E LA DISFATTA DI VARO 

Era preconsole in Germania Publio Quintilio Varo, il quale doveva le cariche a cui era salito più ad una lontana parentela con Augusto che alla sua capacità. Venuto dalla Siria, dove non aveva dato buona prova di sé, aveva cominciato ad ordinare ed amministrare la Germania come se fosse una provincia da vecchia data soggetta a Roma. Senza alcun tatto, anzi duramente, aveva applicato tasse e si era dato a dispensar giustizia, suscitando un vivo risentimento in quelle popolazioni che non avevano prima mai conosciuto padroni.
Del malcontento dei Germani, aveva approfittato Arminio, figlio di un principe della regione, giovane audace ed astuto, che era stato a Roma e, per aver combattuto con Sergio Saturnino contro i Pannoni, si era procurato la cittadinanza romana e il titolo di cavaliere:

Egli godeva la fiducia di varo e, mentre fingeva di essere fedele ai dominatori, nascostamente si teneva in contatto con i capi delle tribù consigliandoli di non manifestare i loro propositi di rivolta e di preparare segretamente le armi.

Ingannato dalla calma apparente delle popolazioni, che egli credeva si fossero rassegnate al giogo romano, e cedendo ai consigli di Arminio, Quintilio Varo aveva sparso gran parte del suo esercito in piccole guarnigioni e col resto aveva messo i suoi quartieri d'estate nella regione dei Cheruschi, pericolosa più delle altre, anche  perché a quel popolo apparteneva il suo ambiguo consigliere.

Segeste, un principe germanico la cui figlia era stata rapita da Arminio, aveva informato il proconsole dei disegni del giovane cherusco, ma Varo non gli aveva prestato fede credendo che le sue parole erano solo mosse dall'odio.

Il disegno di Arminio aveva cominciato ad essere attuato all'avvicinarsi dell'inverno. Ai primi freddi e alle prime piogge erano qua e là scoppiate delle rivolte: più grave di tutte quelle dei Catti.

Quintilio Varo, non sospettando di essere tradito, aveva ordinato ai principi germanici che erano con lui di raccogliere le loro forze armate, poi con solo tre legioni si era mosso dai quartieri estivi verso il paese dei Catti per domare la ribellione.

Nuovi del paese erano i suoi soldati, germaniche le guide e perciò infedeli. Queste avevano messo l'esercito di Varo per vie aspre, in terreni paludosi e montani, lungo le quali le truppe erano costrette a marciare in disordine, e il disordine era accresciuto dai bagagli ingombranti e dalle continue piogge. Spossati dalle fatiche, bersagliati dalle tempeste, angustiati dalla difficoltà del cammino, i legionari non rappresentavano più un esercito capace di difendesi da un'orda di barbari durante il viaggio.

I primi nemici erano comparsi il 9 settembre del 9. d.C. Quintilio Varo si trovava allora nell'intricata foresta di Teutoburgo, tra le sorgenti dell'Amisia (Ems) e della Lippia (Lippe).
da quel giorno erano cominciata la strage. Avviluppati da turbe di numerose di barbari nell'intrigo del bosco, colti nella marcia disordinata e privi di un capo energico, i Romani avevano lottato disperatamente per tre giorni e per tre notti; ma di circa 30.000 uomini, quanti erano, solo pochissimi si erano salvati. La cavalleria comandata da Vala Numonio era stata fatta a pezzi. Quintilio Varo e parecchi ufficiali si erano data la morte per non cadere vivi nelle mani dei nemici, non pochi erano stati catturati, seviziati e trucidati.

Dopo il macello orrendo di Teutoburgo, le truppe distaccate nelle varie regioni erano cadute in mano dei Germani, i quali inorgogliti dalla vittoria, erano corsi a dare l'assalto al campo trincerato di Aliso; ma Lucio Celidio, che comandava la guarnigione, aveva tenuto testa al nemico, poi si era aperta valorosamente la via tra i barbari ed aveva potuto condurre in salvo le sue schiere fino al Reno.

La testa di Varo era stata spedita a Maroboduo da Arminio, che certo sperava di trarre dalla sua anche il capo dei Marcomanni, ma questi l'aveva mandata ad Ottaviano a Roma dove era stata sepolta.
le proporzioni del disastro romano sarebbero state maggiori se Lucio Asprenate, giunto in tempo con due legioni, non avesse salvato alcuni presidi e tenuto a freno le popolazioni alla sinistra del Reno.
Grande fu lo sgomento a Roma alla notizia del disastro di Teutoburgo, Augusto rimandò in segno di lutto i ludi e le feste e si fece crescere la barba e i capelli; temendo di essere tradito dalla sua guardia personale germanica, la confinò nelle isole del mar Tirreno e cacciò da Roma i Celti e i Germani che vi si trovavano; poi cercò di colmare i vuoti prodotti nell'esercito dalla disfatta di Varo e fece estrarre a sorte i tre decimi dei cittadini che non avessero oltrepassato il trentacinquesimo anno di età, di cui due decimi vennero costretti a prestar servizio sotto le armi, l'altro si ebbe l'espropriazione dei beni. Malgrado i suoi sforzi, Ottaviano non riuscì che a mettere insieme due legioni, che non sarebbero state certamente sifficienti a contenere l'impero di tutti i popoli del nord, compresi i Pannoni e i Marcomanni, se essi avessero voluto trarre profitto dalla situazione.

Ma i Germani non sfruttarono la vittoria; anzi, dopo di essersi unite contro il comune nemico, le tribù tornarono a divedersi e a farsi le solite guerre fra di loro.
Le intenzioni dei Germani però non erano note a Roma e, temendo che i barbari tentassero tutti assieme di passare il Reneo, e che le popolazioni stanziate sulla sinistra si ribellassero, si credette opportuno mardarvi un uomo che alla perizia nell'arte della guerra accoppiasse le doti di una consumata politica.

Quest'uomo non poteva essere che TIBERIO, Egli corse sul Reno, ma Augusto, prima che il figliastro partisse, gli tracciò il programma al quale doveva scrupolosamente attenersi. Nessuna avventura militare doveva essere tentata oltre il Reno, la cui linea doveva invece essere rafforzata.
Qualcuno ha scritto che Augusto con tali ordini dati a Tiberio rinunziava al dominio dei paesi che tanto sangue erano costati ai Romani; altri invece credono il contrario e al loro supposizione è corroborata dall'operato di Tiberio, che, dato l'assetto al paese di qua del Reno il quale venne diviso in due parti - Germania superiore e inferiore- passo con le truppe il fiume e costruì sulla riva destra importantissime fortificazioni.
Queste, non costituivano che teste di ponte, punti cioè di partenza per future operazioni guerresche, le quali più tardi dovevano essere affidate ad un giovane di grande animo e di grande talento, GERMANICO, figlio di Druso, che doveva riportare le aquile vittoriose, se non i confini dell'impero, nuovamente al corso dell'Elba.

Fonti: 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PLUTARCO - VITA DI BRUTO 
SVETONIO - VITE DEI CESARI 
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

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