B) CAPITOLI :

VII. - Il Legato - VIII. - Il Mendico - IX. - La Liberazione - X. - L'Orfana
XI. - Il Ricovero - XII. - La Supplica

VII

IL LEGATO


Il fenomeno della insaziabile tendenza pretina al solo godimento dei beni materiali è cosa a tutti nota, mentre pur tutti sanno egualmente che per il resto del mondo, cioè per chi non è prete, essi predicano e millantano i beni spirituali d'una vita avvenire colla gloria del paradiso!
Osservate bene e ben ponderate quella gloria dei preti: "Gloria del Paradiso! Maggior gloria di Dio!". Udite sacrilegio da impurissima bocca: Gloria a Dio! Come se l'Onnipossente, l'Eterno, l'Infinito potesse essere illustrato, glorificato da quella razza di vermi! Agli stolti l'ignoranza e la miseria, per la maggior gloria di Dio; ai preti la crapula, ricchezze e lussuria, sempre per la maggiore gloria di Dio!
Oggi non più ma in passato, i preti, a forza d'imposture e per l'ignoranza delle genti accumularono sterminate ricchezze. Esempio ne sia la Sicilia ove la metà dell'isola apparteneva ai preti e frati d'ogni specie.
E due erano le principali sorgenti delle ricchezze loro. La prima proveniva dalle donazioni dei grandi, i quali dopo aver trascinata un'esistenza di delitti credevano, cedendo al clero una parte dei loro furti, rendere legittimo il possesso dell'altra e sottrarsi al castigo di Dio.
La seconda sorgente di ricchezze i preti la derivavano al capezzale degl'infermi ove padroni dei loro ultimi istanti, colle paure dell'Inferno e del Purgatorio da loro suscitate, carpivano legati e bene spesso l'intere eredità dai morenti a pregiudizio dei figli che riduceano senza pietà alla miseria.
Correva il dicembre del 1849. La Repubblica Romana, sorta dai voti unanimi dei rappresentanti legittimi del popolo, era stata sepolta da alcuni mesi dalle bajonette straniere. I preti ripigliata l'antica possanza dovevano riempire le prebende un po' smunte da quegli eretici di repubblicani ed il conforto, la cura, il sollievo delle anime dovevano ancora provvedere al conforto, alla pienezza, alla libidine di quei corpi beati!
Erano di poco trascorse le nove e fittissima era calata la notte sulla piazza quasi deserta della Rotonda. Sapete voi cos'è la Rotonda? Quella chiesuola ove ogni mattina poche donnicciuole vanno a far corona ad un pretuncolo per la maggior gloria di Dio? Ebbene la Rotonda è il Pantheon dell'antica Roma! Un tempio che conta duemila e più anni, e direste eretto appena ieri tanto la sua conservazione è perfetta, tanto la sua architettura è sublime.
Ogni colonna del suo peristilio sarebbe pagata a peso d'oro dall'antiquario straniero ed il gigante della scoltura Michelangelo, cui questa Rotonda bastava a turbare i sonni, non fu tranquillo se non dopo di avere innalzato nello spazio quel tempio di tutti i dei e postolo come cupola sul colosso monumentale dell'universo (Il Tempio dì S. Pietro).
Ma il prete ne ha fatto la Rotonda, come del Foro Romano, ove s'adunavano i padroni del mondo per discuterne le sorti, ne fece un Campo Vaccino!
Erano dunque le nove d'una notte oscura di dicembre ed a traverso la piazza della Rotonda si vedeva scivolare qualche cosa di nero che t'avrebbe posti i brividi nelle ossa, fossi tu stato uno dei coraggiosi militi di Calatafimi.

Era ribrezzo o paura il sentimento svegliato dall'apparizione di quel fantasma? Non lo saprei spiegare ma credo fosse l'uno e l'altra ed erano giustificati entrambi, poiché sotto la nera sottana che ti scivolava davanti, batteva il cuore d'un demonio, anelante al compimento di tale delitto, che solo l'anima d'un prete può ideare ed eseguire.
Giunto al portone di casa Pompeo, situata in un lato della piazza, il prete dava mano al battente, lo lasciava cadere leggero, quindi tiravasi un po' indietro, ricercando collo sguardo la fitta tenebria, timoroso ch'alcuno non lo scorgesse mentre era intento a compiere la scena scellerata, ch'egli doveva aggiungere ai lugubri drammi della sua vita d'infamie.
Ma chi si curava del perpetratore d'un delitto ove dominavano il mercenario straniero ed il prete! Dove in una popolazione immensa, il poco di buono che c'era, stava imprigionato, proscritto, o ridotto alla miseria?

Il portone della nobile casa venne schiuso. Il portiere riconosciuto il reverendo padre Ignazio, con un strisciante inchino lo salutò, baciògli la mano e gli fece lume accompagnandolo fino ai primi gradini della scala più per cerimonia che per bisogno essendo già ben rischiarato dalla lampada l'ampio scalone d'una casa delle più opulente di Roma.
"Ov'è Flavia?" chiese il chiercuto al primo servo che gli capitò davanti, e Siccio, che tale era il nome del servo, proprio Romano davvero e poco simpatico all'uccello di cattivo augurio: "Al capezzale della morente" rispose, e voltò le spalle.
Ignazio con passo frettoloso, siccome ben pratico della casa, s'incamminò verso una stanza da letto che chiudeva una serie di salotti e di stanze ricchissime. Giunto alla porta faceva udire (sommesso però) certo grugnito che avea del bestiale, ma ben inteso e capito egualmente, poiché in un attimo, lo schifoso ceffo d'una vecchia suora comparve sull'uscio, schiuse, introdusse premurosamente il prete e scambiò con lui uno di quegli sguardi che avrebbero agghiacciato il sole, se fossero stati ricambiati al suo cospetto.
"È fatto?". "È fatto!" era la risposta della donna, ed entrambi s'incamminarono verso il giaciglio della morente.
Don Ignazio trasse di sotto alla gonnella una boccetta, ne vuotò il contenuto in un bicchiere ed aiutato dalla suora, sollevò il capo della moribonda che aprì macchinalmente la bocca e bevette fidente od inconscia tutta la pozione.
Un sogghigno di soddisfazione infernale volava dall'uno all'altro viso dei due scellerati. Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un angolo della stanza.
Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio; questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava coll'occhio alla firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando lo scritto, lo intascava con mano convulsa, senza aggiungere altro che un "Sta bene! Voi avrete la vostra ricompensa!".

Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di Emilio Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie di Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla sua volta soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole orbata dei genitori, cui rimaneva soltanto l'appoggio della vecchia ava.
Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo dell'antichissima stirpe dei Pompei, con affetto vìvissimo, e certo non avrebbe mancato di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che
volete? come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l'anima dell'inferno.
Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono privilegio della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza di giri e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento s'introducesse un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il quale agognava all'intera proprietà della casa Pompeo.
Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia per infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi permettere ch'altri l'avvicinasse, quando il corpo e la mente dell'infelice per l'aggravarsi del male s'andarono indebolendo, il ribaldo non trovò difficoltà a sostituire al testamento che portava il legato un nuovo testamento che lasciava per intero l'eredità Pompea alla corporazione di S. Francesco di Paola, creando per giunta don Ignazio stesso esecutore testamentario.
Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse la miseria e lo spoglio dell'infelice bambino per impinguare la crapula di quei figli della maledizione.
Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua cameretta ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.
VIII
IL MENDICO

Diciott'anni sono trascorsi da quella sera fatale in cui un prete nero nero come la befana avea traversato la piazza della Rotonda per commettere il nefando delitto che abbiamo narrato e noi ritornando sulla stessa piazza vediamo appoggiato ad una delle colonne del Panteon un mendico avvolto nel solito mantello foggiato a toga.

Non era questa volta una notte oscura di dicembre. Era un tramonto procelloso di febbraio.
Il mendico teneva avvolto intorno alla persona lo sdruscito mantello tanto da nascondere anche la parte inferiore del viso ma alle scarse sembianze che rimanevano svelate scoprivasi una di quelle fisonomie che vedute una volta ti restano impresse per tutta la vita.
Un naso Romano divideva due occhi azzurri che avrebbero abbarbagliato un leone: benché coperte il contorno delle spalle era mirabile e mostravano di appartenere a tale che non sarebbe stato facile insultare impunemente. L'attitudine, il contegno della persona apparivano imponenti, e lo scultore spesso dovette aver ricorso a quel mendico quando volle inspirarsi ad un atteggiamento eroico (Il modello e la modella sono professioni apprezzate in Roma, terra classica di pitture e sculture).

Un piccolo tocco sulla spalla scosse il mendico dalla sua immobilità contemplativa. Si volse e con piglio famigliare disse al sopravvenuto:
"Sei qui fratello!" e sembrava veramente un fratello di Muzio quegli a cui egli dava quel nome. Egli era Attilio, l'amico nostro, il quale alle parole di Muzio soggiunse:
"Sei tu armato?".
"Armato?" rispose alquanto sdegnoso il mendico. "Il mio ferro, tu lo sai, fu il mio solo retaggio, tutto il mio patrimonio! vuoi tu ch'io l'abbandoni, io che l'amo quanto tu poi amare la tua Clelia ed io... la mia?". Poi, levando in alto gli occhi dopo un istante di pausa con amaro piglio continuava: "Ma e che giova l'amore ad un mendico, ad un reietto della società umana? Chi crederà che palpiti qualche cosa sotto un petto coperto di cenci?".
"Eppure," soggiungeva Attilio, rispondendo alla digressione del mendico, "quella bella straniera, sono sicuro che ti ama, quanto è capace di amare una donna".
Muzio tacque e d'improvviso annuvolossi, il che Attilio scorgendo e dubitando si sollevasse qualche tempesta nell'animo contristato dell'amico lo prese dolcemente per mano e gli disse: "Vieni" e Muzio lo seguì senza proferire parola.
Intanto la notte scendendo, copriva col nero suo manto la città eterna. Per le vie silenziose, i passanti s'eran fatti più radi, l'ombre dei palagi e dei monumenti si confondevano colle tenebre e solo alcune pattuglie di stranieri rompevano il silenzio della notte col loro passo misurato e pesante.

Preti a quell'ora se ne incontravano pochi. Non s'incomodano, né si fidano: la tepida sala è preferibile alla squallida via, poi nella notte sono poco sicure le strade di Roma ed i preti, meno di chicchessia, amano di mettere la preziosa loro pelle in pericolo.
"La finiremo un giorno con questi mercenari che la fan da birri ai preti" diceva il mendico tornato in calma al suo compagno.
"Oh sì! la finiremo, e presto" rispondeva Attilio.
Così discorrendo ascendevano il Quirinale, oggidì Monte Cavallo, per le due famose statue equestri, capolavoro dell'arte greca che sulla piazza si ammirano.
Giunti a pié dei colossi si fermarono entrambi. Attilio tolto di tasca un acciarino ne trasse delle scintille; all'estremità della piazza lo stesso segnale si ripetè, e allora i due amici si avanzarono.
Prima di giungere all'ultimo limite della piazza un militare del picchetto di guardia al palazzo facevasi innanzi, stringeva la mano ad Attilio e conduceva i due verso una porticina laterale al portone d'entrata. Entrarono. Passato un angusto corridoio salirono una scaletta e si trovarono in una stanza apparentemente lasciata a disposizione del comandante la guardia.
Tutti gli arredi della stanza consistevano in un desco ed alcune sedie; sul desco varie bottiglie, parecchi bicchieri ed un lumicino ad olio. Quivi, dopo aver fatto sedere gli ospiti, ed essersi lui pure seduto, il militare ruppe il silenzio dicendo:
"Beviamo un bicchiere d'Orvieto, compagni, che val più d'una benedizione del Santo Padre, in questa notte d'inverno", e presentava così dicendo un calice del benefico liquore ai due amici.

"L'han dunque condotto qui Manlio?" chiese Attilio appena libato il primo sorso.
"Qui, siccome ti ho avvertito", riprese Dentato il sergente dei dragoni; "fu la scorsa notte verso le undici, e lo hanno rinchiuso in una segreta come fosse un gran delinquente. Dicono però che presto lo trasporteranno in castel S. Angelo, essendo queste prigioni soltanto di transito".
"E si sa per ordine di chi sia stato arrestato?" riprese Attilio.
"Eh! per ordine del favorito, del cardinale ministro; si dice e si aggiunge," continuò il militare, "che Sua Eminenza voglia stendere la mano potente non solo sul padre, ma anche sulla figlia, la perla di Trastevere".

Un movimento convulsivo di rabbia agitò Attilio alle ultime parole del sergente e:
"A che ora tenteremo di liberarlo?" chiese con visibile impazienza.
"Liberarlo! ma siamo in pochi per riuscire davvero", rispose Dentato.
"Fra un'ora sarà qui Silvio con dieci dei nostri; con tal rinforzo saremo sufficienti ad assalire tutta quella caterva di birri e di preti", soggiunse Attilio con accento d'uomo convinto.
Un istante di silenzio successe a queste ultime parole. Allora Dentato:
"Poiché hai deciso di tentare questa notte, dovremo aspettare almeno sino alle dodici. Allora direttori e custodi saranno in potere di Bacco e forse già addormentati. Il mio tenente poi ha trovata certa Lucrezia nelle vicinanze, la quale basterà per tenercelo discosto fin presso al mattino".
Le parole di Dentato furono tronche dall'entrare del dragone lasciato di guardia alla porta, il quale annunzio l'arrivo di Silvio co' suoi.
IX
LA LIBERAZIONE

Una delle cose ch'io notai come straordinaria in Roma fu il contegno e la bravura del soldato Romano. Quei soldati propriamente che si chiamano "soldati del Papa" e servono il più schifoso dei governi hanno conservato certo robusto piglio marziale e tanto valore individuale da far stupire davvero.
Alla difesa di Roma ho veduto gli artiglieri Romani combattere con tale coraggio da andarne superbo, ed ho pure veduto i pochi dragoni, allora esistenti, condursi valorosissimamente.
Nelle frequenti risse tra soldati romani e stranieri dopo caduta la città non v'è forse esempio di Romani sopraffatti, anche se gli avversari prevalevan di numero.
I preti lo sanno, e sanno pure che il coraggio disdegna essere guidato dalla viltà e sono certi che in caso d'insurrezione i soldati romani saranno col popolo; di qua il bisogno di mercenari, di qua le implorate invasioni straniere tutte le volte che il popolo accenna di avere perduta la pazienza.

Silvio fu accolto dalla brigata con amorevolezza. Anch'egli era uno di coloro che portavan nell'anima l'impronta del romano antico e su cui il compagno poteva fidare come sul proprio ferro.
"I nostri sono al loro posto. Li ho rimpiattati", disse Silvio, "tra le gambe dei cavalli di granito. Saranno pronti al primo cenno".
"Bene" rispose Attilio. Poi impaziente di farla finita, rivoltosi a Dentato: "il mio piano" soggiunse, "è questo: io andrò dal custode delle carceri con Muzio per le chiavi e tu guida Silvio co' suoi dieci per assicurarti dei birri collocati alla porta delle prigioni".
"E così sia" rispose Dentato; "Scipio (il dragone che annunziò Silvio) ti condurrà dal custode. Ma bada ch'hai a fare con un demonio. Quel signor Pancaldo è capace di metter le manette al Padre Eterno ed una
volta che lo tiene non lo lascia andare nemmeno per la gloria del Paradiso. Bada ai fatti tuoi!".
"Lasciami fare" replicò Attilio, e senza perdere più tempo incamminossi con Muzio sui passi di Scipio che li precedeva.
Un'impresa di questo genere non presenta in Roma le difficoltà che presenterebbe in altro Stato ove il Governo è più rispettato ed i suoi agenti meno avviliti, ma qui ove il soldato non s'inspira all'amore di patria, al decoro nazionale, all'onore della bandiera, ma sa di servire un governo d'impostori, disprezzato e maledetto da tutti, qui, dico, tutto è possibile ed il giorno in cui lo straniero porrà davvero il piede fuori di Roma, quello stesso giorno il governo delle sottane sfumerà davanti al disprezzo dei cittadini e dei soldati romani.
Dentato condusse la brigata di Silvio verso il picchetto de' birri stanziati alla porta del carcere e ciò non era difficile essendo lui sergente di guardia ed avendo i dragoni la custodia esterna del palazzo. Era inteso che egli non doveva svelarsi, potendo giovare di più se l'affare si fosse andato ingrossando.
Silvio, avendo dal difuori adocchiato la sentinella, attese che nel suo uniforme va e vieni gli avesse rivolte le spalle e allora colla destrezza ed agilità con cui si avventava sul cignale della foresta le fu sopra in un baleno, colla sinistra l'agguantò al collo, colla destra le tolse il fucile ed assestandole un colpo di ginocchio nel fianco la rovesciò supina sul pavimento. I suoi compagni che l'avean seguito da vicino prima che il rumore delle grida e della caduta potesse sollevare in armi il picchetto gli furon sopra e con garbo ma senza cerimonie, mentre i birri fregavansi gli occhi, te li pigliarono tutti e incominciarono a legarli.
X
L'ORFANA

Quando Silvio colla disperazione nell'anima ebbe raccolto la povera Camilla nel Colosseo e la condusse verso la casa di Marcello non una parola fu articolata dai due durante il viaggio.
Silvio aveva un cuore d'angelo. Egli sapeva che la società tollera ogni specie d'impudicizia, colla sola condizione che le apparenze si salvino; ma che si mostra inesorabile contro l'errore di una fanciulla sia essa stata la vittima dell'insidia o della violenza. Egli sapeva che mercé questo pregiudizio passeggia a fronte alta il delitto, e vilipesa è l'innocenza tradita. In cuor suo protestava contro questa evidente ingiustizia. Egli che aveva tanto amato la sua Camilla e che la ritrovava ora sì infelice, poteva egli non impietosirsi alla sua sorte? Oh! anche in questa terribile notte egli avrebbe difeso la povera fanciulla contro un esercito!
Pieno di questi sensi gentili ei la sorreggeva poiché la sentiva stanca e lei si contentava di quando in quando di alzare uno sguardo timidamente supplichevole verso il suo protettore. Così camminavano verso la casa paterna che Silvio non aveva più riveduta dacché era stata deserta da Camilla, e camminavano silenziosi.
Un terribile presentimento invadea l'anima d'entrambi e l'ombra della notte copriva su quelle interessanti fisonomie un aspetto di mestizia, di disperazione, di dolore che s'andavano a seconda dei loro pensieri alternando.
Alla casa di Marcello giungevasi per un viottolo perpendicolare alla strada maestra, dalla quale distava circa un cinquecento passi. Entrati che furono nel viottolo (e già cominciava ad albeggiare) l'abbaiare d'un cane scosse Camilla dal suo letargo e sembrò infonderle nuova vita. È Fido! "Fido!" essa esclamò con una ilarità che da molti mesi erale sconosciuta, ma al tempo istesso come le avesse balenato un lampo nella mente, le si allacciò l'abbiettezza della sua presente condizione, si staccò dal braccio di Silvio, Io guardò e rimase sbalordita ed immobile come fosse una statua.
Silvio s'avvide di tutto, come leggesse nell'animo di lei e temendo di qualche ritorno alla pazzia s'avvicinò amorevolmente, e: "vieni Camilla" le disse "è il tuo Fido che ti ha udita, e ti ha forse riconosciuta". E non aveva infatti terminate ancora quelle parole quando il bracco apparve e indeciso prima, poi con una corsa furiosa si slanciò sulla sua padrona e saltellando, lambendo, urlando presentò una scena che avrebbe intenerito un animo di bronzo. Camilla inchinatasi automaticamente per corrispondere alle carezze dell'amoroso animale proruppe in un pianto dirottissimo.
La fatica e l'emozione avevano affranto quella buona ed infelice creatura. Adagiata sul terreno pareva incapace di rialzarsi; onde Silvio la coprì col suo mantello per preservarla dal freddo mattutino ed egli frattanto si avanzò in esplorazione.
L'abbaiare di Fido doveva avere svegliato chi si fosse trovato nella casa e veramente, appena Silvio vi fu giunto, scorse un giovinetto di circa dodici anni sulla soglia e conosciutolo lo chiamò per nome:
"Marcellino!". Il giovinetto che sulle prime erasi insospettito di una visita sì mattutina, quando riconobbe la voce amica corse incontro a Silvio e teneramente gli si avvinghiò al collo.
"Ov'è tuo padrino?" chiese il cacciatore, dopo ricambiate le amorevoli accoglienze del fanciullo. Ma questi rimase muto. "Ov'è Marcello?" ripeteva l'altro ancora.
Singhiozzando dolorosamente il giovinetto mormorava "Morto!".
Silvio commosso alla scoperta di tante sventure si lasciò cadere su di un gradino della soglia senza poter articolare parola e lui pure come la Camilla sentì bagnarsi il volto dalle lagrime.
"Oh! Dio giusto!" sclamava Silvio lagrimoso, "come puoi tu permettere che per contentare le disoneste voglie di un mostro tante e sì buone creature siano ridotte all'abbiezione ed alla morte!
"Se l'ora della vendetta non fosse vicina e se la speranza di presto immergere questo pugnale nel cuore dell'assassino non mi trattenesse, mi frugherei con esso le viscere per non vedere più oltre un solo giorno di umiliazione e di sciagura della povera patria mia!".
Intanto l'infelice Camilla all'alito soave dell'aria nativa, spossata com'era dalla fatica della mente e del corpo, dallo stupore e dal letargo, era passata ad un sonno provvidenziale e riparatore.
Quando Silvio e Marcellino giunsero accanto a lei s'accorsero che dormiva, onde Silvio vietò la si destasse, dicendo: "A che svegliarla alla sventura! Essa avrà tempo abbastanza per piangere e trascinare una vita di dolore e di pentimento".
XI
IL RICOVERO

Noi vedemmo Attilio, Silvio e Manlio, dopo che quest'ultimo fu liberato, incamminarsi per la campagna e dirigersi per l'appunto verso la dimora di Marcello, ora occupata da Camilla e dal giovine Marcellino.

Essi camminavano silenziosi, ciascuno sotto la grave soma de' suoi pensieri. Manlio contento d'esser libero, comunque fosse, (poiché è preferibile essere morti al trovarsi nelle prigioni dei preti sotto l'imputazione di delitto politico), volava col pensiero verso la sua Silvia e la sua Clelia che erano l'Eden della sua esistenza. Silvio, il quale aveva proposto la casa di Marcello come primo ricovero per Manlio, pensava alla necessità di trovarne un altro più recondito e più sicuro, forse anche alle macchie Pontine in quella stagione non pericolose; Attilio riandava nella sua mente la visita di Gianni a Manlio, il suo ritorno in casa Procopio, le parole di Dentato sulla vociferata ragione dell'arresto del suo amico ordinato dallo stesso Cardinale e ravvicinando i fatti e combinando le osservazioni sentivasi costretto a concludere che veramente una trama fosse stata ordita dal Cardinale contro l'amata sua Clelia.
Dopo avere alquanto esitato decise di far parte de' suoi sospetti a Manlio e tutto per filo e per segno gli raccontò. Manlio sentì pur troppo di dover convenire nelle opinioni di Attilio e turbato da quel sospetto, disse: "Ma per Dio! io non voglio allontanarmi dalla mia famiglia quando essa può trovarsi in pericolo di ricevere insulti da quella canaglia!".

Attilio lo tranquillò dicendogli:
"Subito giunti in casa Marcello, io stesso passerò da casa vostra, avviserò le donne d'ogni cosa e vi assicuro che prima d'essere insultati, Roma vedrà delle novità!".
Attilio benché giovane erasi acquistata la simpatia e il rispetto di tutti, anche degli uomini maturi i quali si acconciavano facilmente ai suoi consigli, laonde Manlio che lo amava come figlio piegò senza molta resistenza al parere di lui.
L'alba cominciava a rischiarare il cielo, quando giunsero al viottolo che faceva capo alla casa Marcello. Fido si fece innanzi, minaccioso prima, poi lieto alla vista di Silvio e quando furono sul limitare dell'uscio apparve pure Marcellino a cui Silvio chiese dove fosse Camilla.
"Camilla!" rispose il giovane "se venite meco v'indicherò dove si trova". E guidandoli verso un'eminenza ove Io seguirono tutti, Marcellino additò loro un non lontano santuario, accanto al quale scorgevasi il recinto d'un Cimitero e disse: "Là all'alba ed al tramonto, voi potrete trovare Camilla e là essa si trova ora".
Silvio senza far motto ai compagni i quali continuavano a seguirlo, s'avviava al luogo indicato, ove Camilla, vestita a lutto, stava inginocchiata accanto ad un modesto tumulo di terra smossa di recente, così assorta che non si accorse dell'avvicinarsi di gente. Silvio la contemplava impietosito, e non osava disturbarla, sicché quando parve che la poverella avesse terminata la sua preghiera fu udita esclamare:
"Ah! fui io sola la causa della morte del mio povero padre!". Ciò dicendo si levò e scorse Silvio ed i compagni alla qual vista non si turbò né alterossi ma sorrise d'un sorriso angelico al suo antico amante e s'avviò verso la casa insieme alla comitiva.

La pazzia di Camilla avea cessato d'essere furiosa. Dal momento in cui condotta da Silvio ritornò all'alloggio paterno s'era cambiata in una monomania melanconica che le lasciava le apparenze di una perfetta tranquillità. Ma il male quantunque mutato durava tuttora e la poverina non avea ricuperata la sua ragione.
"Ove ti domandassero chi è il signore che oggi viene ad abitare con voi, tu dirai ch'è un antiquario che studia le ruine della campagna Romana".
Questa era l'ammonizione che Silvio credette prudente di fare a Marcellino nel caso in cui Manlio dovesse rimanere alcuni giorni con loro.
Attilio dopo breve consulta con Manlio e Silvio sul piano ulteriore della fuga, lasciò subito quella casa e s'avviò solo verso Roma dove lo chiamava il suo cuore e l'adempimento della promessa che aveva fatta a Manlio.
XII
LA SUPPLICA

Eran passati due giorni dall'arresto di Manlio e ancora non se ne sapevano notizie. Le donne sue erano alla disperazione.
"E che sarà del tuo buon padre?" diceva Silvia piangendo alla figlia.
"Egli non s'è mischiato mai in affari compromettenti, che era liberale sì e odiava i preti com'essi meritano d'esserlo, ma non esprimeva le sue opinioni che con noi e coi nostri intimi; come ha potuto destare sospetti nella polizia?".
Clelia non piangeva ed il suo dolore per la disparizione del padre, più concentrato, era più forte di quello della madre. Anzi trovava la forza di confortarla e: "Non piangete" le diceva, "il pianto a nulla rimedia. Bisogna sapere ove hanno condotto mio padre e, come dice monna Aurelia, cercare di liberarlo ricorrendo ove sia di mestieri. Poi Attilio è in cerca di lui e certo, egli non poserà finché non sappia che cosa ne sia avvenuto".
Le due donne così ragionando cercavano di confortarsi, quando il battente della porta annunziò una visita. Clelia corse ad aprire ed introdusse monna Aurelia, una buona vicina ed amica della famiglia. "Buon giorno monna Silvia".
"Buon giorno", rispondeva l'addolorata asciugandosi gli occhi col fazzoletto. "Ecco qui" diceva Aurelia, "il nostro amico Cassio, cui ho parlato dell'affare, ha scritta questa supplica in carta bollata per chiedere al Cardinale-Ministro la liberazione di Manlio. Egli mi disse che voi dovete sottoscriverla e per maggiore sicurezza presentarla voi stessa all'Eminenza".
Silvia impicciata per la prima volta in queste faccende ripugnava d'andarsi a gettare ai piedi d'uno di quei demoni ch'essa aveva imparato ad odiare sino dall'infanzia. Ma come si fa? Trattavasi di uno sposo adorato, imprigionato, forse alla tortura. E quest'idea metteva un raccapriccio di morte in cuore alla povera donna.
Poi Aurelia consigliava ci andassero tutte due ed offrivasi di accompagnare le amiche al Palazzo Corsini;
"Andremo dunque" diceva Silvia finalmente risoluta. In mezz'ora eran le donne pronte, ed incamminate verso l'eccelsa dimora del delitto.
Eran le nove del mattino quando S. Eminenza il cardinale Procopio, ministro di Stato, fu avvisato dal Questore del Quirinale della fuga di Manlio e del modo violento con cui era stato sottratto. La furia del prelato fu somma. Immediatamente ordinò si arrestassero quanti birbanti attendevano alla custodia del Quirinale e delle sue prigioni e direttori, custodi, ufficiali di guardia, dragoni, birri, tutto quanto si trovava nel palazzo era posto in arresto per ordine perentorio dello sdegnato ministro. Poi, dopo aver provveduto a questo primo sfogo, fece chiamare Gianni alla sua presenza.
"E come diavolo" gridò apostrofando il Gianni appena fu entrato "non hanno rinchiuso quel maledetto scultore in Castel S. Angelo ove egli sarebbe stato al sicuro? Perché l'hanno condotto al Quirinale ove quella canaglia di custodi se l'hanno lasciato fuggire?".
"Eminenza!" rispondeva Gianni "quando si tratta di qualche affare importante come questo, l'E. V. lo affidi a me e non a quella ciurmaglia di birri, che V. E. sa cosa sono e quanto valgono. Robaccia vile" aggiungeva il Gianni coll'onesto intento di sollevare sé stesso deprimendo altrui "gentaglia che si lascia egualmente impaurire e corrompere...".
"Cosa mi vieni questa mattina ad annoiare co' tuoi sermoni, ribaldo!" interruppe l'Eminenza "come se io avessi bisogno de' consigli tuoi! Tuo dovere è di servirmi sempre senza far parole. Fruga ora nella tua
testa di rapa per cercar modo di condurmi qui quella ragazza, se no, per Dio, i sotterranei del palazzo udranno risuonare presto lo schifoso tuo falsetto sotto la stretta della corda o il pizzicare della tenaglia".

Sapeva ognuno, e quant'altri sapevalo Gianni, che queste non erano vane minaccie e se il mondo crede l'èra della tortura finita, in quel pandemonio della Città santa essa esiste in tutta la sua pienezza.
E Gianni sapeva che i sotterranei delle chiese, de' conventi, dei palazzi e le catacombe nascondono delitti e patimenti tali da far inorridire gli assassini medesimi.
A capo chino, il miserabile eunuco (tale egli era, giacché simili ai Turchi quei perversi non confidano le loro donne che a castrati, mutilati dall'infanzia, col pretesto di farne dei cantanti) aspettava la sua sentenza senza fiatare.
"Alza quegli occhi di volpe" disse vedendolo intontito il porporato "e guardami in faccia". E quegli tremante fissava gli occhi sul volto infiammato del suo padrone. "Non saresti dunque capace, birbante, dopo avermi fatto spendere tanto denaro, sotto un pretesto o l'altro di portarmi qui la Clelia?".
"Sì signore" era la risposta di quel manigoldo il quale voleva uscire prima di tutto dalla vista del cardinale e pel resto si affidava alla sua buona stella.
In quel momento, con gran soddisfazione di Gianni che intravide una nuova occasione per essere licenziato, il campanello annunziava una visita ed un servitore in livrea fattosi avanti:

"Eminenza! - diceva - tre donne, con una supplica chiedono di potersi presentare all'E. V."

"Entrino" fu la risposta di Procopio, ma a Gianni non fece motto.

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