E) CAPITOLI :

XXV. - Lo Yacht - XXVI. - La Tempesta - XXVII. - Il Deserto
XXVIII. - La Ritirata - XXIX. - La Foresta - XXX. - II Castello

XXV

LO YACHT

"Dondola, o graziosa Naiade, gli eleganti tuoi fianchi sull'onda Mediterranea. Io ti rivedo commossa con tutto l'affetto dell'anima mia!
E perché non amerei te come un'amica? Te, a cui devo tante emozioni, tanti piaceri sublimi!
Io ti amo! Quando l'Oceano fatto specchio riflette ogni oggetto esistente con magica somiglianza, come è bello veduto dalla tua tolda!
E come è bello quando increspato dalla brezza, dolcemente tu gonfi l'eburnee tue ali quasi danzando, scherzando e sogghignando dinanzi all'umile sdegnosetta forza dell'Espero (Piccola brezza).
Ti amo perdutamente quando simile allo indomato corsiero del deserto, spumando dalle narici infocate (Spesso durante un temporale sul davanti delle navi si forma una specie di meteora giallo-azzurra che somiglia un arco baleno
infocato.), ti slanci impavida sull'onda irritata e la soperchi, la schiacci e procedi infiammata dagli ostacoli che la tempesta accumula sul tuo cammino glorioso!
Ti amo - graziosa Naiade - perché so che tu ti chiamerai Clelia per l'avvenire, in onore della bella e cara mia compagna, in onore della coraggiosa fanciulla che affrontò un demone quasi certa di perder la vita, per non soggiacere al vituperio!".
Così, con enfasi sclamava Giulia, e veramente dal momento in cui ella avea veduto Clelia slanciarsi sul masnadiero con tanta intrepidezza diventò di lei entusiasta e le giurò nel fondo dell'anima sua un affetto imperituro. Tali sono gl'istanti delle anime grandi. La bassa, la volgare gelosia non vi attecchisce mai. Così da una parte l'ammirazione e dall'altra l'ammirazione e la gratitudine strinsero queste due bellissime fanciulle d'un amore indissolubile per tutta la
vita.
Giulia, non potendo condurre l'intiera comitiva a Porto d'Anzo ove si potevano risvegliare le apprensioni di quelle sospettose autorità pontificie, condusse seco Manlio come cocchiere ed Aurelia come cameriera, lasciando Silvia e Clelia ad una certa distanza nel bosco che tocca la sponda del mare sotto la custodia di Orazio.
Eran ben custodite di certo. L'Orazio Romano le avrebbe difese contro un esercito e si sarebbe lasciato fare a pezzi per loro.
Il Capo d'Anzo a mezzogiorno e Civitavecchia a tramontana sono i limiti di quella spiaggia inospitale e pericolosa che si chiama "la spiaggia romana". Il navigante nella stagione d'inverno si tiene al largo in alto mare per non esser sorpreso dai venti di Libeccio che vi soffiano impetuosi e vi cagionano non pochi naufraghi.
L'imboccatura del Tevere che si trova quasi nel centro di questa spiaggia è praticata nella sola foce di Fiumicino da legni che non pescano più di quattro o cinque piedi d'acqua e nella sola stagione primaverile essendo pestifero il luogo, a cagione delle febbri, la estate, e pericolosissimo d'inverno per i venti di mare.
Sulla sponda sinistra del Tevere, verso Capo d'Anzo e Monte Circello, abitavano anticamente i bellicosi Volsci, che tanto da fare diedero ai Romani per sottometterli. Di Arde loro capitale, città cospicua, sussistono tuttora le rovine e attestano la prosperità di quei popoli antichi. Oggi, sotto il governo dei preti, quel paese è deserto.
Il Capo d'Anzo, adunque, forma col suo promontorio il porto che piglia il suo nome. Porto capace soltanto di piccoli legni ed in questo stava ancorato l'elegante Yacht della nostra Giulia pronto ai suoi ordini.
L'arrivo di Giulia nel porto se non fu una festa per le autorità pretine, sempre nemiche degli Inglesi, ai quali imputano il doppio delitto di eretici e di liberali, ben lo fu per l'equipaggio della Clelia verso il quale la nostra eroina era sempre gentile, e a cui era carissima.
L'uomo di mare, esposto quasi tutta la vita a pericoli, ha molti titoli alla benevolenza della donna sempre propensa, come già dicemmo, ad apprezzare i coraggiosi; e la donna trova pure grandi predilezioni tra i rozzi, ma leali e generosi marinai. Giulia poi aveva troppi meriti perché non fosse adorata dall'intero equipaggio!
Giunta sulla tolda, la bella inglese dopo d'avere corrisposto ai saluti affettuosi de' suoi concittadini discese nella camera, chiamò il capitano Thompson e con lui conferì sul da farsi per levare le compagne dal punto ove le aveva lasciate e condurle in luogo sicuro.
"Aye, Aye!" esclamò il bravo marinaio stanco d'esser rimasto per tanto tempo nell'ozio e altero di poter obbedire la sua giovane padrona in qualunque impresa fosse anche a pericolo della vita.
In meno d'un'ora da che erano saliti a bordo i nuovi personaggi la Clelia aveva già levato l'ancora e con tutte le vele spiegate, usciva dal porto con debole brezza da Greco che la spingeva.
XXVI
LA TEMPESTA

Ricorderanno i lettori che siamo nella seconda quindicina di febbraio e questo mese, lo dico ora, è il peggiore di tutti per coloro che corrono il mare, specialmente il Mediterraneo. "Febbraio corto, peggio d'un turco" dicono i marinai italiani a cui la rima, come si vede, non è troppo famigliare.
Il capitano Thompson, ardente di obbedire al desiderio della padroncina, s'era perfino scordato di consultare il barometro; ed il barometro abbassava furiosamente, ed in questi mari la caduta del mercurio è segno infallibile di forti venti da Libeccio.
Come dicemmo, la Clelia usciva con tutte le vele spiegate dal porto d'Anzo ed orzando a maestro (Orzare significa avvicinare la direzione della prora all'origine del vento) con piccola brezza da Greco, cominciava a graziosamente dondolarsi con un po' di mare a traverso.
Dico "graziosamente" per il capitano Thompson o per un osservatore dalla spiaggia, non per il nostro Manlio né per la povera Aurelia, che ambedue per la prima volta gettati loro malgrado sull'elemento infido cominciavano a risentire le nausee del mal di mare.
Era durante la notte che lo Yacht doveva avvicinarsi alla costa ove si trovava Orazio con le due donne, a circa tre miglia a tramontana di porto d'Anzo. Giulia aveva dato ordine al capitano di fare in guisa di trovarsi appunto la notte al luogo determinato; con Orazio era convenuto che dovesse segnalare la sua presenza accendendo un fuoco; e il romano ed il capitano inglese non erano uomini da mancare al loro dovere. Il temporale fu quello che decise altrimenti.
Il lieve Greco che aveva spinto la Clelia fuori dal porto a due miglia calmò intieramente: nuvoloni neri neri si avanzavano da Libeccio e, peggio di tutto, il mare da quella via veniva ingrossando spaventosamente: il vento dapprima temuto dai nostri Argonauti era ora ardentemente desiderato poiché lo Yacht privo di quell'aiuto si vedeva spinto verso la spiaggia senza governo ed in pericolo quasi certo di dare contro alla costa e perdersi.
Cadeva la notte, la costa co' suoi pericoli era vicina e Thompson alla disperazione avvertì la signora che il solo rimedio per evitare un naufragio era quello di dar fondo all'àncora.
Giulia, coraggiosissima in terra come in mare, avvolta in un ampio scialle, si teneva sulla tolda osservando il movimento e delle nubi e del mare e del povero legno, che somigliante a persona travagliata, gemeva sbattuto dalle onde crescenti che lo spingevano senza posa verso le scogliere della costa.
L'osservazione del capitano di dar fondo era giusta, ma in quel paraggio, che bastimento potrebbe tenere all'àncora contro la traversia? Pure altro rimedio non v'era, e Giulia acconsentì. Già i marinari dalla prora stavan col serrabozze (Corde o catene colle quali si tengon sospese le àncore alla prora) nelle mani per lasciar andar l'àncora quando un grido della nostra eroina fece sospendere l'opera incominciata.
Un primo soffio di Libeccio avea sfiorato la guancia di Giulia e in quel soffio ella intravvide l'inutilità e il pericolo della intrapresa manovra. La Clelia infatti, aveva contemporaneamente rigonfiate le vele e cominciava a prendere una posizione più stabile a sentire il timone, e ad orzare alquanto sulla sinistra. La prora, che senza governo aveva vagato da tramontana a maestro prendendo il mare a traverso cominciò ad avvicinarsi verso il ponente maestro e n'era ben tempo! Essendosi il legno colla deriva avvicinato ai bassi fondi della costa, un colpo di mare nell'atto che cominciava ad orzare, quasi quasi lo sommerse. La terribile traversia delle spiagge romane non si fece aspettare lungamente.
La bufera veniva a man dritta; vele, manovre, scotte, alberi, tutto cigolava, strideva, minacciava rovina. La parte destra della Clelia in pochi minuti fu sommersa dal mare ma l'agile legno saltava sui marosi spumanti come un delfino. Il bravo Thompson colle voci succinte ed energiche del comando inglese ordinava all'equipaggio di tenersi sulle drizze (Drizze; corde con le quali si alzano le vele) ma di non ammainare nulla.
Orzando in fuori con quella valentia che hanno le navi di questa specie, presto si sentirono meno i frangenti, ed ingrossando il vento il comandante ordinò che si diminuissero le vele. In circa mezz'ora furono presi tutti i terzaruoli alle due rande (Vele principali del Yacht) alla trinchettina (Vela triangolare di straglio) e ritirato il fiocco (Vela triangolare sull'estremità della prora), continuandosi ad assicurare ogni oggetto contro la violenza del mare.
La Clelia proseguì colle mure alla sinistra (Cioè vento che veniva dalla sinistra) e prima delle dieci essa lottava contro una decisa tempesta.
"Quel colpo di mare tremendo - disse Thompson a Giulia la quale non aveva voluto ancora lasciare la tolda - ci ha portato via il nostro John!".
"Povero giovane!" rispose Giulia, con un profondo sospiro.
Lo Yacht era orientato (Orientare vuol dire colle vele ed ogni cosa preparate ai temporali), i boccaporti chiusi ermeticamente. Il capitano, afferrato alle sartie di maestra del vento (Dalla parte dove viene il vento), aveva presso di sé quasi tutto l'equipaggio, ognuno fortemente tenuto per non essere portato via dal mare; i timonieri (poiché due erano al timone) erano anch'essi legati a metà corpo (Un colpo di mare che si frange sulla coperta d'una nave può portare via la gente che non si trova ben tenuta ed anche i timonieri).
Il capitano finalmente potè ottenere dalla sua signora che scendesse in camera, il che fece, piuttosto per aver contezza de' suoi amici che per riguardo al proprio pericolo.
A Giulia, entrando nella camera, si presentò uno spettacolo, dinanzi al quale non potè a meno di scoppiare in uno scroscio di risa. Aurelia, che forse lo stesso colpo di mare il quale aveva portato via il povero John slanciava come un sacco sulla parete di sottovento, ove già trovavasi Manlio spintovi da analogo impulso, si teneva disperatamente a lui avviticchiata. La povera donna che per la prima volta si trovava vittima d'una tempesta di mare credette venuto il finimondo, e trovandosi al contatto di un corpo umano vivente, vi si era abbarbicata con quella forza che dà la disperazione.
Invano Manlio gridava non lo strangolasse, invano, che anzi quando conobbe la voce amica dell'artista per impulso di simpatia gli si strinse intorno ancor più fortemente. Lo scultore assuefatto a muovere dei massi in marmo sarebbe pervenuto a svincolarsi da quegli abbrancamenti ma uomo buono e primitivo com'era, e un po' fiaccato da quelle maledette nausee altro non faceva che sforzarsi col miglior modo possibile a respingerla tanto da evitare la soffocazione.
In questa posizione tragicomica trovò Giulia i suoi compagni di viaggio. Dopo essersi abbandonata all'irrefrenabile ilarità ella chiamò un domestico e col suo aiuto pervenne a collocare gli amici in situazione più conveniente.
La Clelia lottò ancora tutta la notte colla tempesta e ben le valsero le superiori sue qualità marine per non essere soperchiata e non le valse meno l'intrepidezza del suo coraggioso equipaggio.
All'alba il temporale rallentò alquanto del suo furore ed avendo il vento girato all'ostrolibeccio si pensò di far correre (Prendere direzione) per Porto Ferraio o Longone onde riparare le sofferte avarie che non erano poche.
I due palischermi erano stati strappati e portati via dal mare; delle murate, da poppa a prora, non esisteva più un sol pezzo e di quanti oggetti si trovavano sulla coperta, nulla vi era rimasto.
Poco prima di giorno un maroso gigantesco come una montagna s'infranse sul trinchetto, lo sfondò e dié così agio alla bufera di continuare la sua opera di distruzione.
Quando il capitano Thompson era d'avviso di cercare un porto per ripararsi voleva dire che la necessità era estrema non essendo lui, come la maggior parte de' suoi connazionali, propenso a cedere alle prepotenti velleità dell'Oceano.
XXVII
IL DESERTO

Torniamo alla bella omonima del superbo e valoroso Yacht ed ai suoi compagni di solitudine. Orazio, siccome era convenuto con Giulia, accese un bel fuoco sulla spiaggia appena fu notte e con molta ansietà stette per un pezzo osservando se compariva il palischermo che doveva condurre le donne a bordo. Ma l'arrivo istantaneo della bufera e l'agitazione conseguente dell'onde lo persuasero ben tosto che era inutile pensare all'imbarco durante quella notte.
Orazio inoltre, benché non fosse uomo di mare, s'era accorto prima ancora dell'imbrunire che lo Yacht ch'egli non aveva perduto di vista dopo uscito dal porto si trovava tutt'altro che in istato d'inviare imbarcazioni alla costa; anzi coll'imperversare della tempesta egli temette per la salvezza del legno.
Dopo aver cercato un ricovero alle donne nelle rovine d'una vicina torre (In quasi tutte le coste del Mediterraneo vi sono torri di guardia, che servivano al tempo dei pirati barbareschi per dar avviso delle loro apparizioni).
Orazio si mise a percorrere in su ed in giù la spiaggia con l'intento di prestar aiuto se ne fosse stato d'uopo a qualche naufrago. E non fu invano. Fregandosi gli occhi acciecati dagli sprazzi del mare e dalla pioggia che gli flagellavano il volto parvegli scorgere sulla cresta di un maroso che brillò un istante nell'oscurità qualche cosa di scuro che si sforzava di tenersi a galla. Questa scoperta spinse Orazio ad avvicinarsi vieppiù verso l'onda e nell'andirivieni di questa finalmente ei giunse ad afferrare un corpo umano che si moveva a stento. Era il povero John che si dibatteva contro la morte, dopo aver lottato con sovrumani sforzi co' flutti imperversanti.
Colse Orazio nelle robuste sue braccia il giovane Inglese e lo trasportò verso le donne situate in un canto della torre, dove d'accordo si sforzavano ad alimentare un fuoco preziosissimo in quella disastrosa notte.
Era John una di quelle simpatiche fisonomie di giovine marinaro inglese, dagli undici ai dodici anni, però sviluppato e forte. Lascio pensare con che amorevolezza lo accolsero le nostre Romane. Lo spogliarono, lo asciugarono, lo coprirono dei loro abiti asciutti; mancava il grog (Bevanda fatta d'acquavite o rhum allungata con acqua) per il piccolo John, ma un fiasco d'Orvieto di cui Orazio aveva provvisto le viaggiatrici vi supplì dovutamente e John dopo due ore coi suoi abiti asciutti, rifocillato ed in sì bella compagnia, avea dimenticato Yacht, tempesta, il mondo e russava colla testa sopra un sasso ed i piedi vicini al fuoco, come se fosse in un letto di piume.
Orazio dopo aver percorso la spiaggia un gran pezzo ad onta dell'infuriante tempesta col timore e la speranza di poter essere utile a qualch'altro disgraziato, tornò alla torre e procurò anch'egli d'asciugarsi i panni e rifocillarsi.
Clelia accantucciata colla madre in un angolo col capo appoggiato in grembo di lei, avea pur essa ceduto alla stanchezza ed alla gioventù, beandosi in un profondo sonno.
Silvia non dormiva, sonnecchiava. Coll'indole sua delicata e gentile essa era stata troppo scossa dalla sequela di così terribili avvenimenti. Madre affettuosissima, sosteneva il caro peso della sua Clelia e stava immobile per timore di svegliarla; un pensiero affannoso le annuvolava la fronte piena di mestizia: "Che sarà del mio Manlio in questo finimondo?". E poi, quasi un rimorso la colpisse di consacrare i suoi pensieri unicamente allo sposo, aggiungeva: "e la povera Aurelia?!". E sonnecchiava affannosamente!
Non così il Romano. Egli sapeva d'esser troppo vicino alle volpi pretine di Porto d'Anzo perché s'abbandonasse al riposo. Seduto sopra un gran sasso delle ruine ch'egli avea avvicinato al fuoco, lo alimentava di quando in quando vigilando.
Il suo mantello lo avea lasciato alle donne che se ne coprivano; tutti i pezzi delle vestimenta bagnati nelle sue escursioni sulla spiaggia erano stati asciugati l'un dopo l'altro e rivestiti; la sua cartucciera di cuoio maestrevolmente lavorata, cingeva alla cintura.
Due revolver pendevano ai suoi fianchi nelle rispettive fonde, il suo pugnale a larga lama da potersi usare come arma di guerra e coltello da caccia, sporgeva obliquamente dalla cartucciera ov'era immerso per metà e la fida carabina ch'egli avea minutamente ispezionata pria di sedersi, posava adagiata alla sua sinistra.
Era vestito di velluto oscuro con bottoni inargentati. Le uose affibbiate fino al ginocchio coprivano un piede comparativamente piccolo e ben fatto e contornavano graziosamente la polputa sua gamba.
Al collo cingeva una cravatta di seta nera ed un elegante fazzoletto di raso rosso sciolto circondava le sue magnifiche spalle annodato sul petto. Un cappello nero di forma quasi calabrese un po' inclinato sulla destra copriva il capo di cui si sarebbe onorato Marte, e compieva l'abbigliamento.
Quando il chiarore della fiamma da lui ravvivata risplendea sull'abbronzata e maschia fisionomia del liberatore, un maestro dell'arte del bello chi sa cosa avrebbe dato, per poter ritrarre in quel marziale aspetto il simbolo della forza, del coraggio e dell'eroismo!
E qual delitto era se la sensibile Silvia, sonnecchiante, tra una beccata e l'altra contemplava il suo protettore con occhi spalancati e dimenticava per un momento solo il suo caro Manlio battuto dalla tempesta e forse in quell'istante non troppo dolcemente stretto dalle braccia d'Aurelia?
Dican pur ciò che vogliono gli ermafroditi moderni inginocchiati davanti al menzognero simulacro d'una teocrazia buffona o dinanzi ai gradini del trono d'uno spergiuro straniero, brutto di sangue concittadino e nostro! Chiamino pure briganti come il prezzolato dal prete il mio Orazio Coclite. Ove il suo brigantaggio si confini a voler l'Italia una e sia sempre pronto a menar le mani contro l'impostura e contro lo straniero io dirò sempre: Ecco il mio uomo!
Ecco il mio eroe! Ecco l'Italiano com'io lo sogno e come diverrà quando non sia più educato dai settari di Lojola.
"Signora! - disse Orazio con una voce che fe' rimescolare ancor più la nostra buona Silvia tanto essa era dolce e filiale - Signora! il giorno non deve trovarci in queste macerie e subito che vi sia tanta luce da poter mettere il piede sicuro sul sentiero della foresta noi dobbiamo internarci allontanandoci dalla sede dei nostri nemici". "E Manlio, Aurelia, e Giulia?" disse la donna volta dolorosamente col pensiero a quei cari.
"Essi - rispose Orazio - sono probabilmente lontani in alto mare e speriamo fuori di pericolo. Nonostante pria d'internarci nel bosco ricercheremo la spiaggia ove è meglio che non si trovino".
"Dio li liberi! - esclamò la donna colle mani giunte e gli occhi rivolti al cielo - Dio li liberi! d'esser stati gettati alla costa da sì furioso uragano!".
Un silenzio assoluto succedeva a queste parole. Orazio che non cessava di spiare l'apparire dell'alba, quando s'accorse che le donne ci potevan vedere tanto da non mettere in fallo il piede sul terreno si alzò e disse: "È tempo di porci in viaggio".
Silvia scosse dolcemente la sua Clelia; col calcio della carabina fu destato John ed in pochi minuti i quattro con Orazio alla testa uscivan dalle macerie dirigendosi verso tramontana e seguendo l'orlo della macchia non lontani dalla costa.
La tempesta aveva rimesso della sua furia ma non abbastanza perché le donne non ne fossero disturbate nel procedere; per buona sorte la pioggia avea cessato ma i frangenti del mare inviavano i loro sprazzi sul volto dei viaggiatori in guisa da incomodarli assai. Pur bisognava scoprire il lido pria di addentrarsi nel bosco ed Orazio salito su d'un monticello di sabbia con dietro John spingeva l'acuto suo sguardo su tutta l'estensione del litorale già abbastanza rischiarato dal giorno. Fortunatamente nulla scoprì che dasse indizio di naufragio in quello sconquasso spumante dell'onde infuriate sulle deserte e desolate spiagge romane.
Tornati alle donne, ch'erano rimaste in una specie di avvallamento del terreno, Orazio disse: "I nostri amici sono fuori di pericolo, tocca ora a noi a fare altrettanto". Così dicendo prese a destra per un sentiero a lui conosciuto e s'internò nel deserto accompagnato dalla silenziosa comitiva.
XXVIII
LA RITIRATA

Dopo l'avvenuto nelle Terme di Caracalla, la posizione d'Attilio, e de' suoi amici divenne ben pericolosa. Il traditore avea pagato il fio con la sua vita; i cagnotti del Governo avevano avuto la peggio, ma la polizia era sulle tracce della cospirazione e certo ne conosceva, od almeno ne sospettava i capi.
Se gli amici di fuori fossero stati pronti come lo erano i romani, nella stessa notte del 15 febbraio si poteva farla finita coi preti e lo si poteva in qualunque altro giorno. Ma i moderati sempre paurosi ed indissolubilmente legati al carro dei potenti non volevano saperne di menar le mani e volevano a qualunque costo aspettare la manna dal cielo, e dal beneplacito dello straniero, la libertà della patria.
Che importava loro del decoro nazionale? del sogghigno beffardo di tutte le nazioni Europee, di provincie compre coll'oro, e coll'oro vendute? Essi, avviticchiati ai lucri ed agli impieghi, eran sordi a qualunque proposito generoso che potesse compromettere l'Eldorado a loro consegnato dalla Rivoluzione, che altro per sé non volle che il bene e l'unità nazionale. Quindi l'Italia da tanti secoli divisa, depredata, avvilita, corrotta da quella caterva di iene in sottana, si trova oggi ancella ringiovanita, riportata all'altare del sacerdozio di Satana a rinnovare l'antico bacio della pantofola.
I porporati, assoldatori di briganti, tornarono alle grasse prebende, il popolo alle solite miserie ed i valorosi che bagnarono del loro sangue tutte le terre italiane obbligati a ripigliare la via dell'esilio, ad errare nelle foreste per sottrarsi alle vendette dei preti.
Tale era la condizione di Roma nei primi mesi di quest'anno 1867 in cui si vedevano mercenarii stranieri sostituiti da altri mercenarii ancora peggiori impossessarsi della città nostra; si vedeva l'Italia prostrata ai cenni di un devoto assassino rinnegare Roma e le sue glorie per compiacergli e potendo viver bella, rigenerata, rigogliosa, sorta colla superba aureola di libertà e d'indipendenza sì caramente acquistate per virtù de' suoi figli, la si vedeva ravvoltolarsi spudoratamente nel fetido brago dei corruttori e persecutori del
genere umano.
Ma torniamo indietro al nostro racconto.
Una sera dei primi di marzo in una stanzuccia sul di dietro della casa di Manlio in Trastevere s'eran riuniti, Attilio, Muzio e Silvio per conferire sul da farsi. Dal 15 febbraio eran rimasti in Roma per tentare la fortuna; ma la fortuna di Roma era intricata in un labirinto tale che tutto il generoso patriottismo dei nostri giovani eroi e de' loro trecento bellicosi compagni, non poteva trovarne l'uscita.
"Oggi, - diceva Attilio, - non v'è più merito a dar la vita per il proprio paese quando è santificato il principio del "non fare" per non disturbare il bell'andamento di cose ordite dal moderantume. I nostri amici di fuori sonosi rappattumati vergognosamente con questi nemici d'Italia, ma noi!... come lo potremo mai? Potremo noi vivere in famiglia e concordi cogli scellerati, che ci venderebbero cento volte allo straniero, che corruppero, che depravarono questa nostra città e la prostituirono come solo loro sono capaci di prostituire, che arsero i nostri padri, che stuprarono le nostre vergini, che fecero della
nostra Roma, un bordello! una cloaca!!!".
Attilio fuori di sé alzava la voce oltre misura, onde Silvio più pacato gli disse: "Parla sommesso, fratello! Tu sai come siamo perseguiti e non è difficile che nei dintorni di questa casa vi sieno sgherri appiattati. Qui già non si può più stare, lasciamo Regolo incaricato delle cose nostre in città e prendiamo la campagna. Là, non mancano amici, i coraggiosi vivono dovunque. Lasciamo che Italia si stanchi d'essere ludibrio di queste sue mignatte in maschera liberale, di questi mercanti di uomini tra l'impostura e il dispotismo!
"Andiamo! - continuò Silvio dopo un istante di pausa, durante la quale pareva che un'ignota forza volesse collocarsi fra lui e il suo divisamento. - i nostri nemici ci chiameranno briganti, avventurieri, come ci chiamarono nella gloriosa spedizione di Marsala. Che importa? come allora, noi tuteleremo la libertà di questa nostra patria infelice e marceremo alla riscossa quando essa voglia devvero emanciparsi dalla tirannide".
XXIX
LA FORESTA

Dopo aver camminato per circa due ore nella foresta, per sentieri ove in molti luoghi mancavano le traccie dell'uomo e somigliavan piuttosto ad aperture dovute alle corna del bufalo. Orazio che era sempre alla testa della comitiva composta di Silvia, Clelia e John, e che adoperavasi a sbarazzare il sentiero da piante cadute, e dai rami che lo attraversavano, fermossi finalmente in uno spiazzato, ove il bosco aprivasi per lasciare il posto ad un ameno praticello.
Il tempo s'era rasserenato, alcune raffiche di vento, resto della notturna tempesta, colpivano ancora le cime delle secolari piante ma nel sito ove si trovavano i nostri viaggiatori appena se ne sentiva il soffio.
"Signora Silvia, - diceva Orazio: - voi con Clelia, adagiatevi qui in questo luogo e riposatevi che ne avrete molto bisogno. Io con John m'allontanerò per poco a cercar da mangiare".
Così dicendo distese il mantello sull'erba e facendo un segno a John che lo seguisse s'imboscò con lui per una nuova direzione nella foresta e entrambi scomparvero.
Silvia era stanca veramente. Clelia giovane e di costituzione più robusta lo era meno, però anch'essa trovò ben piacevoli alcuni momenti di riposo in quel sito ameno e appartato dal mondo ove altra traccia di creatura umana non si distingueva che quella da loro stessi solcata sull'erba.
Dopo un momento di riposo la nostra eroina cedendo alla vivacità dell'età sua ed avendo scoperto che il praticello era variopinto di fiorellini alzossi e si mise a raccoglierne un mazzolino da presentare alla mamma. Tornata a Silvia, e sedutasi accanto, nel mentre che porgeva il mazzo, un tiro di carabina s'udì a non molta distanza e l'eco della foresta lo ripetè più volte.
Silvia fu scossa dal rimbombo della scarica e certamente per la sua delicata natura, quel tuonare subitaneo in quella silenziosa solitudine ebbe qualche cosa di straordinario. Clelia però accorgendosi dell'effetto provato dalla madre disse sorridendo: "ma questo è uno sparo del nostro amico; sta pur sicura, mamma, che presto noi lo vedremo qui di ritorno con della selvaggina".
Un abbraccio amoroso alla sua Clelia fu la risposta di Silvia ed ambe s'intrattennero a ricordare i loro cari, le straordinarie vicende che le avean divise da loro, ed a pascersi della speranza di poterli rivedere presto.
Non tardarono Orazio e John a raggiungere le loro compagne portando a stanga un giovane cignale che la carabina del Romano aveva atterrato."Clelia, - disse Orazio, - fate capire all'Inglese di raccogliere legna secca per far fuoco"; e Clelia che conosceva un poco quella lingua ed era stata l'interprete del giovin marinaro glielo spiegò.
John si accinse colla miglior voglia del mondo a spezzare rami, ad ammassarli,
ed in pochi minuti un magnifico fuoco scoppiettava allegramente in mezzo ai nostri viaggiatori.
L'arte del macellaio è disprezzata e veramente quell'imbrattarsi di sangue d'altra creatura e sminuzzarne le carni ripugna, ha del selvaggio, e per indurito che sia il cuore dell'uomo egli non può a meno di risentirsene. Io, per esempio, mi sarei volentieri conformato alla vita dei Pittagorici (Seguaci di Pittagora che s'imponevano l'obbligo di non mangiare altro che vegetabili) e più crescon gli anni, più aumenta in me la ripugnanza degli eccidi animali e, devo confessarlo, cacciatore una volta, io soffro oggi nel vedere anche un uccello ferito.
Non so se lo stesso sentimento provasse Orazio, il coraggioso figlio della foresta; ma repugnante o no, come avrebbe egli potuto vivere senza la caccia, obbligato com'era a tenersi lontano dall'abitato? Per quella volta intanto, egli con molta grazia distese la sua preda sull'erba, trasse il suo coltello pugnale, fece in pezzi il cignale, acconciò a guisa di spiedo un virgulto di legno verde, v'infilzò la carne, ed in poco tempo presentò ai suoi compagni affamati un arrosto da invogliarne anche un moderato. L'appetito servì di condimento alle vivande, e non mancarono durante il pasto motti graziosi, massime sul conto del piccolo John che, eccitato dalla Clelia a parlare italiano principiava, com'era
naturale, col dire spropositi che mettevano la compagnia in una cordiale ilarità.
Il marinaro poi è un essere più allegro degli altri quando è a terra e da lungo tempo egli non l'ha toccata. Questo non era veramente il caso del nostro John ch'era rimasto molti giorni in Porto d'Anzo ed avea visitato coll'Yacht la maggior parte dei porti d'Italia; ma, comunque fosse, in questo nuovo mondo della foresta, egli si trovava perfettamente e non invidiava punto i suoi compagni nel tempestoso Tirreno. Poi Clelia era così bella! così gentile! ed Orazio uno di quei tipi che affascinano la gioventù, ed era inoltre il suo salvatore!
Terminato il pasto frugale, la comitiva si rimise in viaggio, seguendo all'incirca la stessa direzione tenuta nel venire e dopo aver camminato a lungo, giunse verso sera alla vista di quegli edifizi antichi che il tempo sembra avere rispettato, simili all'immortale Panteon a cui non posso pensare, senza tributargli un pensiero di rispetto e di ammirazione.
Erano i nostri sul limitare della foresta, ove il sentiero metteva in un ampio prato quasi circolare. Secolari querce erano sparse con certa regolarità su tutta la superficie del circolo e le reliquie di quelle antiche figlie della terra, cadendo per secoli al loro piede, identificate col piedestallo delle naturali colonne, vi avean formato dei graziosi tumuli, recessi di verdura, che invitavano gli stanchi
viaggiatori al riposo.
"Riposatevi qui per un momento", disse Orazio alle donne, e mettendo alla bocca un piccolo corno ch'ei portava a tracolla ne trasse dei suoni che sembravan sproporzionati alla piccolezza dell'istromento. Un suono simile rispose da una capanna di guardia, situata sopra uno dei detti tumuli, capanna che Orazio certo doveva conoscere e della quale i suoi compagni non si erano accorti.
Un individuo vestito alla foggia d'Orazio uscì dalla capanna, gli si fece incontro con aria di rispetto ed una stretta di mano dei due accennò che non si trovavano per la prima volta. La sentinella (perché tale era lo sconosciuto) dopo breve colloquio, facendo segno alle donne di alzarsi, incamminossi precedendole verso l'edifizio.
XXX
IL CASTELLO

Il periodo di grandezza e di gloria durante il quale la capitale del mondo maggiormente rifulse si chiuse colla Repubblica, e la maestà del sistema Repubblicano con gli Scipioni. Dopo la battaglia di Zama (Zama in Africa ove Annibale fu disfatto da Scipione), quando Roma non ebbe più nemici potenti, e facile divenne mettere le mani su ciò che v'era ancora da conquistare dei paesi sconosciuti, i Romani impinguati delle spoglie dei vinti dieronsi alle gare interne e ad ogni sorta di lussuria da cui furon trascinati poi all'ultimo stadio di degradazione a diventare gli schiavi dei loro schiavi. E fu giustizia che così avvenisse: Dio li pagò della stessa moneta con la quale essi avevano trattate le nazioni.
Ma l'ultimo periodo della Repubblica ha in sé qualche cosa di grande.
Prima di morire, quella schiatta di giganti (parlo degli ultimi Repubblicani), presenta alla storia un complesso di uomini tali da far giustamente meravigliare. Lucullo, Sertorio, Mario, Silla, Pompeo, Cesare son tali uomini, tali generali, uno solo dei quali basterebbe per illustrare i fasti guerrieri d'una grande nazione.
Se la perfezione fosse possibile all'uomo e Cesare alle sue qualità avesse unita l'abnegazione di Silla, io direi come l'autore della Grandezza e Decadenza dell'Impero romano "Cesare è il più grande di tutti i grandi uomini del mondo".
Di Silla in fatti strenuo generale anche lui questo racconta la storia. Dopo aver voluto correggere i Romani e sottrarli alla corruzione con mezzi terribili sino ad ordinare l'eccidio di ottomila cittadini in una volta, un bel giorno radunò il popolo nel Foro e sedendo in mezzo alla adunanza al posto di dittatore, rimproverò ai Romani i loro incorreggibili vizi, quindi disse loro: "Tenni la dittatura colla speranza di migliorarvi. Oggi mi son convinto che non lo posso. Ritorno privato cittadino, pronto a dar ragione del mio operato a chi me lo chieda".
Così dicendo scese dalla tribuna, e si confuse nella folla tranquillo ed altero, mentre dei Romani non uno gli chiese conto di un torto. E sì a molti dei presenti egli avea ucciso congiunti, amici, fratelli.
Cesare non sanguinario al pari di Silla ma d'un'intelligenza a lui superiore, non seppe imitarne l'abnegazione, si lasciò cullare dalla propria ambizione, e sognò di poter cingere la fronte d'una corona. I pugnali degli ultimi Romani distrussero il suo sogno trafiggendolo a morte.
Sulle rovine della Repubblica sorse l'Impero. Fra gl'Imperatori ve ne furono dei meno tristi come Trajano, Tito, Antonino e Marco Aurelio. La maggior parte però furon mostri che non contenti delle immense ricchezze che possedevano nelle loro condizioni supreme, cercavano ancora usurpare le sostanze altrui, e guai al ricco Romano ch'essi potevano depredare con uno od altro pretesto!
I cittadini che possedevan grandi ricchezze procuravano d'allontanarsi da Roma. Alcuni cercavan rifuggire in paesi stranieri, altri in siti reconditi ove non vi fosse probabilità di venire molestati. Tra questi ultimi un discendente di Lucullo sotto il regno di Nerone era andato a stabilirsi nel luogo ove all'estremità della foresta i nostri viaggiatori avevano scorto un antico monumento. Colà egli si credette di trovarsi al sicuro dalle carezze di quel pezzo di galantuomo ch'era l'incendiario di Roma (Nerone un giorno fece mettere fuoco a Roma per godere lo spettacolo dell'incendio dall'alto del suo Belvedere).
Il sito adunque ove Marco Lucullo edificò il suo castello era lo stesso in cui noi lasciammo la nostra Clelia coi compagni e forse alcuna fra le quercie che ne adornavano il parco ricordavasi del figlio di quel vincitore dell'Asia ( Lucullo fu uno dei generali romani che maggiori conquiste ebbe a fare nell'Asia).
L'architettura del castello era superba e superbamente conservata. Le facciate esterne dell'edificio erano ricoperte d'edera ingigantita dai secoli, ma, l'interno ripulito accuratamente dai moderni abitatori, se non presentava tutti gli agi che si possono aspettare in una casa moderna, offriva buon numero di sale e stanze ben conservate e spaziosissime.
Privo d'abitatori per molto tempo, oltre all'edera che lo tappezzava, il castello era pure nascosto dalle piante gigantesche che lo circondavano, e questa circostanza lo rendeva acconcio ai bisogni d'Orazio e dei suoi compagni di proscrizione. Di più, come tutte le abitazioni edificate in quei tempi di sospetto, il castello aveva i suoi sotterranei in cui non solo era agevole il nascondersi, ma a traverso i quali si poteva percorrere immenso tratto di paese nel seno della terra.
Chi avesse chiesto qualche cosa ai pochi pastori il cui gregge pascolava nei dintorni della foresta avrebbe udito rispondersi, che nel centro di quella v'era un castello abitato dagli spiriti cui nessuno aveva mai potuto avvicinarsi perché de' più coraggiosi che lo tentarono non se n'ebbe mai più notizia.
Raccontavano ancora, che una figlia del ricco principe I..., che con la famiglia s'era trovata ai bagni marini di Porto d'Anzo, essendosi avvicinata colle sue damigelle all'orlo del bosco, era stata, a' loro occhi veggenti, portata per aria dagli spiriti e più nulla se ne era saputo ad onta delle minute indagini fatte praticare dal padre in tutti gli angoli della foresta.
Ecco, in quel paese di meraviglie capitò la comitiva condotta da Orazio.

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