I) CAPITOLI :

XLIX. - Il Parricida - L. - Imboscata - LI. - L'inseguimento
LII. - La Peregrinazione - LIII. - Venezia - LIV. - Roma in Venezia

XLIX

IL PARRICIDA

"L'uomo nasce più grande in questa terra
ne sono una prova i grandi delitti che vi si commettono" (Alfieri)


"Nacqui nella piccola città di S.... nello stato pontificio non lungi dalla frontiera napoletana. I miei genitori furono gente onesta, dediti alla pastorizia, al servizio del cardinale B. Di buon'ora, custodendo le mandre di vacche, di buffali, di pecore, quasi sempre a cavallo, io, forte di costituzione, come mi vedete ancora, divenni robustissimo e destro cavaliere.
Fino all'età di diciott'anni rimasi un vero figlio del deserto non conoscendo altro affetto, che quello del mio cavallo, del mio laccio e delle mie armi, con cui ero divenuto formidabile ai cervi ed ai cignali delle foreste romane. Appassionatissimo per la caccia, esercizio confacente alla mia natura, ero capace di passare delle notti intiere in agguato del cignale nelle paludi ove esso ama avvoltolarsi nel fango; conoscevo la posta del cervo e bene spesso
tornavo a casa portando sulle spalle uno di quei superbi corridori.
Un giorno, avendo lasciato il mio cavallo a certa distanza, stavo nascosto nel bosco alla posta del cervo quando un rumore si fece udire sul sentiero che dietro di me conduceva al paese. Sulle prime pensai, potesse essere una belva e tenni pronta la mia carabina; ma a misura che il rumore si avvicinava, mi sembrò udire una voce umana. Mi tenni più celato allora e attesi, finché mi comparve alla vista un giovane prete che aveva vedute alcune volte nelle mie rare escursioni alla città, il quale trascinava per mano una fanciulla sui sedici anni.
Il prete, circa ventenne, alto di statura e robustissimo, mancava d'una carabina, d'un cappello puntato e del giustacuore di guerra, per sembrare un vero e magnifico masnadiero.
La fanciulla!... perdonatemi la commozione! - e le pupille del vegliardo s'erano inumidite - la fanciulla era un angiolo! Non so come non fui scoperto, poiché vedendola fui invaso da un'emozione, da un palpito dell'anima, sì delizioso, sì nuovo per me, che mi spinse ad involontaria esclamazione. Ma troppo erano affacendati i nuovi venuti per poter udire la mia voce nella selva. Il prete, col volto di bragia, stringeva col braccio destro la fanciulla e con tutta la sua forza cercava di trascinarla avanti, ad onta degli sforzi di lei per non avanzare.
Giunta finalmente a quei modo a venti passi dal mio nascondiglio, la coppia fermossi ed io udii distintamente la ragazza piangendo, esclamare: "Giacomo, per l'amor di Dio, lasciami! non hai vergogna di usar violenza alla tua sorella?".
"Alba - rispondeva lo sciagurato - non mi parlare così, non chiedermi l'impossibile. Alba! mia bella Alba! così bella e che io amo tanto! l'anima mia, vedi, brucia come il cratere di un vulcano!".
"Così dicendo la stringeva nelle nerborute sue braccia e cercava carpirle un bacio. La giovane, robusta anch'essa e animata dall'ira, si svincolava dagli osceni abbracciamenti come un'anguilla. Così durarono un pezzo ma finalmente il perverso essendo giunto ad atterrarla con uno sforzo supremo, e tenerla ferma al suolo, con un fazzoletto le andava legando le mani ad onta del pianto e delle lamentazioni dell'infelice. Né qui è tutto - continuò il vecchio corrugando terribilmente la fronte; - quel demonio trasse fuori di tasca una funicella e colla fredda e spietata tranquillità del carnefice che applica la tortura assicurò alle verdi piante le membra della vittima a cui intanto ripeteva: "Vedi Alba! che ora ti tengo?".
"Alba non rispondeva perché la misera era svenuta.
Io là, a venti passi, l'ebbi più di dieci volte quell'assassino sotto la mira della mia carabina e non so perché non mandai l'anima sua all'inferno. Non avevo ancora versato sangue umano e, lo confesso, mi repugnava il cominciare.
Ma quando lo svergognato tentò andare oltre, feci un salto da tigre per raggiungerlo ed il calcio della mia carabina, come fosse una clava, lo stese sul terreno senza movimento.
"Slegai la fanciulla svenuta, la presi nelle mie braccia e la portai accanto ad una corrente che non era lontana, spruzzai con acqua fresca quel volto d'angiolo, ch'io tengo qui scolpito nell'anima mia ed essa rinvenne. Rinvenne, mi strinse la mano in segno di gratitudine guardandomi commossa, esterrefatta. Da quell'istanze fu deciso il destino della mia vita, ed io amai Alba come si può amare la divinità stessa.
"Il terribile sacerdote di lucifero tornando in sé ripigliò la strada di S.... imprecando e giurando vendetta contro tutto il genere umano.
Chiese contezza di me e lascio pensare in quale esecrazione poi mi tenne. Forte come lui, e con anima diversa, poco lo temevo.
"Ma contro di me non doveva sfogarsi la rabbia di quel mostro, bensì contro il vecchio suo genitore, testimonio più immediato de' suoi turpi tentativi. La prima vittima fu lui. Ingiuriarlo, maltrattarlo, batterlo, era poca cosa: un giorno il vecchio fu trovato col cranio fracassato sul lastrico del cortile interno di casa sua. Sarà caduto? o precipitato dal terrazzo? Il cadavere non rivelò il parricida!
"Che importa al prete un delitto, s'ei lo può coprire? Non ne commette uno grandissimo, quello di mentire, dicendosi ministro di Dio coprendo quell'enorme delitto coll'ignoranza del prossimo, ch'ei deride?
"La professione del prete è questa: godere e far credere alle moltitudini stupide ch'egli soffre di privazioni e di disagi.
"Povero prete! Ricordo d'aver veduto un quadro in America che rappresentava un prete nella sua sala da pranzo a tavola. Vivande d'ogni specie erano imbandite sulla mensa e molteplici le bottiglie di vini prelibati. Accanto al prete stava la polputa e rubiconda sua Perpetua che egli carezzava amorosamente.
"Alla porta dell'abitazione di quel gaudente giungeva un povero contadino irlandese, colla moglie che teneva un bambino sulle spalle. Tutte e tre le povere creature si vedevano sparute ed in miserabile stato. Il marito metteva una moneta nel bussolo del prete sul quale era scritto: "Fate l'elemosina pel povero parroco".
"Non è questa la genuina storia del prete? Da una parte il godimento, l'ipocrisia e la menzogna, dall'altra l'ignorante credulità e la miseria!
Godere dunque, per chi non deve godere per legge e per i giuramenti suoi è delitto! Quindi si copra il delitto ed incesti, infanticidi ed ogni scelleraggine, ogni bruttura si tenga celata.
"Io so d'un prete che vive colla sorella in termini matrimoniali e un altro ne conobbi che con maltrattamenti e battiture cagionò la morte del padre suo. E ripeto, questi sono delitti che giungono a notizia della gente. Gl'infiniti che rimangono sepolti nei penetrali della casa, nei sotterranei del chiostro e nei sepolcri chi li novera?
"Una sera - continua Gasparo - io ero seduto nel mio abituro campestre, di ritorno dalla caccia. Avevo veduto Alba la notte antecedente poiché dal giorno fatale in cui risparmiai all'umanità un incesto e che vidi per la prima volta quella stella della mia vita, raramente passavo una notte senza vederla, ad onta di tutte le precauzioni dell'innamorato suo cerbero.
Da quando seppi da Alba prevedevo bensì una catastrofe ma non così subitanea come la precipitò il parricida, mostro di lussuria, in quella terribile notte.
Ero dunque seduto nel mio abituro ed appena entrato quando si spalancò la porta ed Alba scapigliata e fuori di sé precipitossi nella stanza stramazzando ed esclamando: "Parricida! Parricida!".
L
IMBOSCATA

"Le parole di Alba mi avevan svelato come un lampo l'orribile delitto.
La raccolsi svenuta, l'adagiai sul mio lettuccio e per la prima volta potei contemplare tranquillo tutta la soave bellezza di quella sovrana dell'anima mia! Per Dio! sentii quasi menomare il mio aborrimento per l'assassino incestuoso, parricida, alla vista di sì bella creatura! forse cagione innocente di tanto delitto!
Alba risensando non mi svelò l'autore della morte del padre, né mi favellò del fratello ed io per non svegliare in lei reminiscenze dolorose scansai sempre d'interrogarla.
"Il prete però, credendomi consapevole del suo misfatto, coll'odio immenso che già mi portava e la gelosia per l'amore d'Alba, mise in giuoco tutte le trame di cui è capace un demone, per annientarmi. Non ardì accusarmi apertamente della morte del padre, ma insinuò tale sospetto tra i suoi intimi, mi tese quante insidie egli potè e mise a disposizione di sicarii per uccidermi, quanto possedeva.
"Al mio aspetto benché oppresso dagli anni e da' malanni voi potete congetturare ch'io dovea essere un giovane svelto, e capace di tener testa a dieci preti. Eppure quel lucifero fu tanto astuto da tendermi un'imboscata nella quale poco mancò ci lasciassi la vita.
"Invano egli aveva grassamente pagati vari sicari per farmi la pelle. Io, che sapevo di quanto era capace il mio nemico, dormivo con un occhio aperto e quando uscivo di casa avevo meco due amici fedeli, il mio Lione e la mia carabina, con tutti gli accessori. Lione a cento passi sentiva il rumore d'un uccelletto e cominciava a muovere la coda ed appuntava gli orecchi. Povero mio cane! egli fu vittima dell'affetto che mi portava! - e il cuore intenerito del povero vecchio l'obbligò ad una pausa finché la commozione fosse superata - Sì, quei mostri in una mia passeggiata a S.... pervennero ad avvelenarlo.
Fra S.... e il mio abituro esistevano certi folti, certe macchie nella selva idonei ad imboscate e i sicarii vi si eran nascosti qualche volta, ma frustrati dalla mia vigilanza ed impauriti dalla mia carabina eran fuggiti al mio avvicinarsi e confessarono al prete che volean desistere dall'impresa. Così però non l'intendeva Don Giacomo: eccitati con lauti pasti e vino abbondante e guadagnati con molto denaro, una sera condusse seco i tre malandrini e venne ad imboscarsi vicino alla mia casetta, in una macchia che dava sul sentiero che io doveva percorrere.
Il mio Lione era sepolto e, ad onta delle mie precauzioni, io fui sorpreso. Quattro scariche quasi simultanee partirono dalla macchia e rimbombò un furioso grido di muori! degli assassini che mi corsero addosso credendomi ferito. Ma non era così: quasi per miracolo, le quattro palle mi colpirono, ferendomi molto leggermente essendo la ferita più grave quella che mi portò via questo pezzo di orecchio sinistro. Un'altra palla colpì nel davanti del mio cinto di cuoio e fracassò alcune cartuccie, la terza mi forò il cappello radendomi la testa e la quarta mi sfiorò la spalla destra cagionandomi una semplice graffiatura.
"Il primo che venne a me fu il prete, con la carabina nella sinistra, e la destra armata di pugnale. Sembrava un energumeno, ma il mio tiro riuscì più efficace dei loro. Il malnato, rotolò ai miei piedi, dando un grugnito da cignale. Ne rovesciai un secondo coll'altro tiro e i due ultimi, veduta la sorte dei loro compagni e scorgendomi colla pistola in mano, pronto a scaricarla, se la diedero a gambe.
"La uccisione di un prete e d'un altro assassino, in difesa della mia vita, furon le mie prime colpe. In un altro paese, facendo valere i miei diritti d'assalito, avrei forse potuto scamparla perché, sebbene non avessi testimoni, la cosa era così evidente, che difficile non mi sarebbe stato provare la mia innocenza. Sotto il governo clericale, trattandosi della morte d'uno de' suoi, era altra cosa ed io pensai bene di tenere la campagna. Allora cominciò la storia del mio così detto brigantaggio; però, vi giuro, che la morte dei tanti sgherri d'ogni specie da me spacciati fu sempre una necessità per la mia difesa.
Molti, come me maltrattati dal clericume, mi seguirono, ed in poco tempo formai una banda formidabile al punto che il governo papale trattava con me, come si suol dire, con potenza costituita e riconosciuta. Assassini e ladri di mestiere meco non ne volli mai. Gli infelici d'ogni specie eran da noi soccorsi e se si assaltavano qualche volta le autorità pretine ciò accadeva per insegnar loro a non commettere infamie ed ingiustizie.
Così vissi per molti anni, sovrano della campagna romana, più di colui che siede al Quirinale, finché i coccodrilli di quella corte astutissima, vedendo che nulla potevano colla forza, ricorsero agli inganni, e quella buona lama del cardinale A.... mio degno parente, che Dio maledica, contribuì più d'ognuno alla mia cattura, avendo io avuto la debolezza di fidarmi a lui. Così rimasi per quattordici anni in ferri.
"La giustizia di Dio stenderà finalmente la sua mano su quella setta di malvagi, vero flagello del genere umano. Delle galere pontificie, io seppi di voi, Orazio, della coraggiosa vostra resistenza ai cannibali del Vaticano e, vi assicuro, pregavo Dio, che pria di morire volesse concedermi d'esservi compagno. La mia preghiera fu esaudita, ed altro non bramo, che dar questo resto di vita per la santa causa che voi e i vostri nobili compagni, propugnate".
Giulia, incantata dal racconto del bandito, era lì lì per chiedere un cenno della vita avventuriera d'Orazio ma girando lo sguardo sugli astanti s'avvide che la stanchezza universale e l'ora tarda facevano necessario il riposo e si astenne e contemplò curiosa i preparativi dei letti da campo.
Le verdi frasche della selva in un momento distese sulla parte più piana del sito, coperto dal secolare gigante della natura, formarono un magnifico letto per le donne, che vollero dormire insieme, ravvolte con parte dei mantelli dei loro cari. Muzio con cenno supplichevole, offerse il suo alla bella inglese, e la pagò con uno sguardo di gratitudine per averlo accettato. Frattanto Orazio ed i compagni fecero un giro d'ispezione alle guardie e sentinelle avanzate, e diedero ordini di dare la sveglia prima dell'alba.
Lì, tra quelle piante, distese sulla terra, dormivano le speranze di Roma, il risorgimento da diciotto secoli di sonno e di vergogna, l'avanzo illustre dei vecchi conquistatori del mondo anelanti d'essere accolti nella grande famiglia umana!
LI
L'INSEGUIMENTO

Dio ebbe proprio a decidere così delle cose umane, che la somma delle grandezze dovesse venir ridotta al più basso delle umiliazioni. Così quella ciurmaglia che si chiama "esercito romano" doveva tenere il posto, e il nome e calpestare il terreno dove un giorno il vero ROMANO ESERCITO dominò il mondo conosciuto. Solo il prete, lo ripeto, potè produrre tale mostruosa trasformazione.
Il generale romano, cioè straniero, al servizio del papa, giunto in Viterbo con quante forze aveva potuto raccogliere, chiamò a consiglio nel palazzo municipale gli ufficiali superiori del suo esercito pigmeo. Tra questi ultimi si trovava un maggiore, col naso enfiato, come un cocomero e coperto di striscie di cerotto. Era il famoso pugno con cui il nostro Silvio lo aveva capovolto tra le ruote della carrozza.
Costui, col volto infiammato dal vino di cui egli aveva bevuto copiosamente per coprire la sua vergogna, consigliava di marciare subito all'assalto dei "briganti". Ma il generale più pacato opinò, che meglio sarebbe stato, muovere all'alba non essendo sicuro a quell'ora tarda di poter raccogliere i soldati, quasi tutti ubbriachi.
Dopo alcune discussioni, si deliberò di seguire il parere del capo.
All'alba i campioni dell'altare e del trono suonarono a raccolta, ma ci vuol altro per mettere insieme quei coraggiosi adoratori del fiasco italiano, una parte stanchi dalla marcia forzata da Roma a Viterbo e della vergognosa scappata degli altri dal Ciminio.
Il sole già si presentava sulle vette dell'Appennino, quando l'esercito principiò le sue mosse complicate al solito di combinazioni difficili ad eseguirsi in una selva montuosa ove il capo ignorante era obbligato di servirsi di guide indigene che mal volentieri lo servivano.
I proscritti all'incontro, praticissimi, s'eran mossi all'alba e quando il sole spuntava, già dominavano il vertice del monte e potevan di là scoprire il nemico da qualunque parte si fosse avvicinato.
Orazio, cui nessuno contendeva il comando, aveva disteso circa cento dei suoi, comandati da Muzio in bersaglieri, tra i massi ed il bosco che dominavano il monte dalla parte ove si vedeva il nemico avanzare.
Il resto, circa dugento, era in colonna dietro lo stesso vertice, pronti a caricare al primo cenno.
Avendo così disposto i suoi trecento, il capo fece chiamare a sé il capitano Tortiglia, e gli chiese degli Ufficiali che conducevano la colonna nemica e che si vedevano ascendere il monte, benché ancora lontani. "Chi comanda la vanguardia - disse Tortiglia - e viene avanti risolutamente è il maggiore Rascal, coraggioso ufficiale, ma un Rodomonte di prima categoria".
"Oh! se non m'inganno, - disse Silvio, che aveva puntato il binoccolo, - quegli è lo stesso che voleva ieri farsi portare il bagaglio da me; lo riconosco al suo naso impiastricciato di cerotti"."E quell'altro? dimandò Orazio che viene a cavallo alla testa credo del corpo principale?".
"Prestatemi il binoccolo, - disse Tortiglia, e dopo averlo puntato sull'individuo accennato: - Oh per Dio! - egli esclama, - quegli è proprio il Generale in Capo dell'Esercito; e vedete che spunta anche il suo stato maggiore a cavallo".
"Ed il suo nome?".
"Il suo nome, è Conte de la Roche... de la Roche-Haricot. Questi legittimisti francesi, rappresentanti del feudalismo, hanno certi nomi, quasi tutti di Roche e che per noi della lingua del "" sono ben difficili a pronunciarsi"
Ma anche voi siete della lingua del signor spagnuolo?" gli disse Orazio un po' stizzito.
"I Como nò" - articolò in spagnolo il capitano - siete forse voi soli figli degli antichi latini e soli possessori di quella universale lingua? sappiate che v'è tanta differenza tra la lingua italiana e la spagnuola e portoghese quanta tra il volto di un Calabrese e quello di un Andaluso o d'un Lusitano, che si somigliano come fratelli".
"Bravo capitano Tortiglia" disse Attilio giunto in quel momento dal corpo di battaglia che comandava. "Voi siete un vero erudito, e noi Romani educati dai preti a baciamani, a inginocchiarci, e servire la messa, nulla sappiamo di ciò che avviene fuori dalle mura di Roma".
Ma l'esercito papale avanzava ed Orazio da esperto capitano ne misurava il progresso, senza turbarsi ma con quell'ansia che non può a meno di risentire chi ha la responsabilità di un corpo di militi in presenza del nemico ed in procinto di venire alle mani. Uno degli inconvenienti della guerra per bande e che più preoccupa il capo è il dover spesso abbandonare i feriti, o affidarli agli abitanti per lo più paurosi e che temono di compromettersi.
Tale considerazione e l'ineguaglianza delle forze spinsero il prode Orazio a decidersi per la ritirata, non però senza mostrare ai mercenari del prete che i liberi italiani non li temono, anche nelle circostanze più sfavorevoli.
Ordinò a Silvio, che comandava la retroguardia, di collocarsi in posizione vantaggiosa per proteggere la ritirata ed il cacciatore, colla sagacia che lo distingueva, collocò i suoi cinquanta uomini con tale maestria come se li avesse destinati alla posta del cervo o del cignale.
Avendo comunicate tali disposizioni ad Attilio ed ingiuntogli che non s'impegnasse fortemente ma eseguisse l'ordine di ritirata in scaglioni, Orazio andò verso Muzio già pronto a ricevere il nemico che si avvicinava celeramente.
Scambiate alcune parole col comandante della squadra, il capo supremo ascese il punto più alto della posizione donde poteva distinguere ogni cosa accompagnato da soli due aiutanti.
Il Generale Haricot, che non mancava di una certa bravura, degna di miglior causa, assaliva francamente le posizioni dei liberali colla sua vanguardia in catena, sostenendola lui stesso con piccole colonne in massa.
In un combattimento od in una battaglia, il comandante supremo deve collocarsi in posizione da poter vedere il campo di battaglia più che sia possibile, il che gli verrà sempre fatto più facilmente, ove egli possa tenersi tra le sue prime truppe impegnate.
Dovendo avere informazioni di quanto accade nella pugna, se il generale in capo è lontano dall'azione ha il pregiudizio della perdita di tempo, dell'inesattezza dei rapporti e ciò che più importa, non può con un colpo d'occhio discernere le parti del suo esercito che abbisognano di un pronto soccorso o, quando sia vittorioso, lanciare in perseguimento del nemico quei corpi leggeri di cavalleria e fanteria che possono compiere la vittoria.
Tale non fu qui il torto dei due capi, che comandavano le forze opposte. Haricot, giustamente baldanzoso per la superiorità delle sue forze, le spingeva all'attacco senza riguardo ed Orazio, deciso a ritirarsi per l'inferiorità del numero, disponevasi a dare al nemico una lezione che lo facesse guardingo e meno furioso nel suo inseguimento.
La scabrosità del terreno e le folte piante avevano permesso a Muzio di collocare i suoi al coperto in vantaggiosa posizione. Egli aveva ordinato d'assaltare il nemico a bruciapelo, di scaricare a colpo sicuro e ritirarsi poscia dietro la linea degli altri scaglionati.
Così fecero i suoi valorosi. Quella prima scarica seminò il terreno di cadaveri nemici e di feriti. La vanguardia dei mercenari ne fu rovesciata ed i sostegni condotti avanti dall'intrepido loro capo, rallentarono il loro progresso e diedero tempo agli italiani di compiere la loro ritirata in buon ordine.
Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa di defezione nelle fazioni degli italiani.
Io ho veduto tale scandalo in Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell'agro romano per essere il territorio regio troppo vicino.
Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui raccontate.
Benché composto d'uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li lasceremo godere un po' di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a nuove avventure.
LII

LA PEREGRINAZIONE

Il solitario è sul continente ove lo chiamarono i suoi amici. Egli ha lasciato la sua dimora per compiere un dovere verso quella Italia a cui egli ha dedicato l'intiera sua vita.
Egli deve fare una peregrinazione di propaganda in molte parti della penisola e principiare dal Veneto.
Lo scopo è d'illuminare sulle elezioni politiche le popolazioni, non solo, ma di seminare il germe dell'emancipazione della coscienza che può portare l'Italia ad un nuovo primato, ad una nuova iniziativa che conduca l'umanità alla distruzione di quel tabernacolo d'idolatria e d'impostura che si chiama Papato, guidandola sulla via della religione del Vero.
Noi ne seguiremo le orme tra il clamore delle moltitudini entusiastiche, festanti, alla vista dell'uomo del popolo, plaudenti alle sue dottrine d'insofferenza di dominio straniero e di umiliazioni e soprattutto esultanti alle schiette sue manifestazioni sulle turpitudini clericali e sul connubio liberticida tra il Papato e le volpi di Corte che governano l'Italia.
"Io seguo la religione di Dio! - egli dice - non la religione del prete. Dio, padre dell'umanità intiera, vuol tutti gli uomini fratelli e felici. I preti dividono gli uomini in cento sette diverse, che reciprocamente si maledicono. Essi attizzano gli uni contro gli altri popoli a sbranarsi, trucidarsi, distruggersi e condannano senza pietà alle pene dell'inferno i novecento milioni d'esseri umani che non appartengono alla loro bottega.
Non seguo la religione del prete io, perché il prete degrada Dio, ne fa un essere materiale, passionato, coi difetti stessi che offuscano questo misero insetto chiamato uomo, a cui fa mangiare Dio, lo fa digerire! e poi!... Anatema all'impostore che si chiama ministro di Dio! e che così lo deturpa e lo prostituisce!
Il prete che insegna Dio è un mentitore, poiché nulla egli sa di Dio.
Egli, sacerdote dell'ignoranza, persecutore della sapienza, insegna Dio! Ma se Dio avesse voluto rivelarsi all'uomo lo avrebbe fatto ai Kepleri, ai Galilei, ai Newton, non a questi miserabili adoratori del ventre.
E fu veramente una scintilla divina che illuminò quei grandi nelle vie celesti, quando essi scorsero sotto l'etereo padiglione rotare i mondi e ne manifestarono alle nazioni attonite i moti, le leggi e l'armonia a loro impressa dell'Onnipotente. Il prete, sacerdote delle tenebre, colpito nelle sue miserie e nelle sue menzogne, trascinò il più grande degli italiani, Galileo, sull'altare dell'impostura, e con torture orribili volle fargli abiurare la grande dottrina del vero!
Ed i preti passeggiano sulla terra di Galileo da padroni; e l'Italiano porge le impudiche sue labbra all'umiliante, vergognoso baciamano!
La fratellanza umana è impossibile coi preti.
Il cattolico danna all'inferno l'umanità non cattolica. Il dervis, prete dei turchi ci chiama, infedeli, maledetti, ed eccita le plebi a lapidarci. Il bonzo e tant'altra canaglia impostura fa lo stesso. E voi non potete passeggiare per le vie di Stamboul e di Canton perché la vostra vita è messa in pericolo da quei fanatici.
La maggior parte delle guerre, e le più sanguinose, furono, e sono fomentate dai preti.
La recente guerra di Crimea, ove perirono tante migliaia d'uomini e dove s'inghiottirono immensi tesori, fu suscitata dai preti. In una chiesa di Gerusalemme chiamata il Santo Sepolcro celebravano la messa un prete greco e un prete cattolico. Un bel giorno quegli oziosi litigarono sulla preminenza, uno volendo dir messa prima dell'altro. La lite fu portata davanti gli imperatori di Francia e di Russia; ne seguì la guerra e vi presero parte l'Inghilterra e l'Italia e se ne ebbe per risultato l'immenso macello.
L'Inghilterra è oggi in angustie per l'insurrezione dell'Irlanda suscitata dai preti. Dio salvi il mondo da una simile insurrezione negli Stati Uniti ove su trentatré milioni d'abitanti quasi la metà è di cattolici fanatici e compatti sotto la dittatura d'un vescovo, mentre le altre sette sono divise e si odiano cordialmente".
In questa guisa parlava il solitario alle moltitudini che lo richiedevano d'una parola e le moltitudini applaudivano a quelle verità sacrosante e piangevano e baciavano le falde del mantello del popolano e giuravano di essere con lui a qualunque cimento.
Alla mattina, la maggior parte di quella folla che avea pianto e giurato di seguire i precetti del solitario era ammassata nel peristilio d'una bottega ove si vende l'indulgenza di Dio a contanti, ove l'idolatria, sotto le forme della creatura, ha eretto il simulacro vano e mentitore dell'onnipotente.
Tale è il popolo e tale sarà forse per molto tempo ancora. Terribile nelle sue ire suscita sovente il cataclisma delle rivoluzioni e più sovente è guidato con un fil di seta dall'impostura e dall'astuzia quasi sempre da chi è men degno di guidarlo e tende a profittare del frutto delle sue fatiche e del suo sangue.
Socrate, Gesù, Rienzi, Masaniello, i Gracchi, tribuni coraggiosi del popolo, sacrando ad esso la loro vita, son rinnegati e crocifissi! E la sorte dei tribuni moderni, sarà essa più fortunata? Che importa!
Cos'è la vita? tanto sotto il saio come sotto la rossa camicia può battere la coscienza del giusto!
In fine i Cesari ed i Napoleoni vengono a scialacquare il frutto del cruento eroismo delle nazioni, ma un pugnale o il tedio delle nequizie rovescia talora nella polve anche que' simulacri della grandezza e dell'ingiustizia.
LIII
VENEZIA

Parata a festa, la regina della laguna accoglieva su d'un Buccintoro moderno il suo simpatico visitatore, colui che per due volte (1848-1849) aveva voluto partecipare ai disagi, ai pericoli ed alle battaglie di lei. Egli la prima volta, già col piede sul legno che dovea trasportarlo a Venezia, fu chiamato alla difesa della pericolante metropoli delle nazioni e pugnò contro i discendenti di Brenno; e tinse del suo sangue il granito del ponte ove Coclite avea da solo sostenuto l'urto dell'intiero esercito di Porsenna.
Sulle alture di Preneste e di Velletri egli vide in fuga il tiranno, padre del tirannello che poi abbandonò il trono ai valorosi suoi mille e così fu rovesciato nella polve quel governo "prima negazione di Dio".
Dio gli dia vita per contemplare i frantumi del secondo governo, negazione più impudente di Dio che il primo e più fatale all'Italia, la "Negromanzia".
Ma Roma cadeva sotto i colpi del dispotismo Europeo, spaventato dal rivivere della padrona del mondo e dal terribile incubo della repubblica, e capitanato dalla grande repubblica di Francia condannata a morte per questo suo orrendo misfatto.
Il Bonaparte, nemico di tutte le libertà, e protettore di tutti i tiranni, volle, come per saggio, provare le sue armi contro Roma ove approdò sulle ali della menzogna e, consumato quel delitto di lesa-nazione, rovesciò i suoi inganni ed i suoi satelliti sul popolo credulo di Parigi e ne fe' macello per le strade senza distinzione di età e di sesso.
Dio rimeriti l'assassino del due dicembre e della libertà del mondo!
Cessata la difesa di Roma, non disperando delle sorti dell'Italia, il "solitario" ne uscì con pochi seguaci, decisi a tener la campagna ma ci vuol altro ai popoli per liberarsi! Un pugno di prodi all'Italia non manca mai; ma contro quattro eserciti, un pugno di prodi non basta!
È vero, che in questi giorni lo spirito nazionale è innalzato e il pugno di prodi accresciuto, ma in quegli infausti giorni le popolazioni guardavan passare stupite ed impaurite considerando perduti irremissibilmente quegli avanzi della difesa di Roma. Non un sol uomo venne ad accrescere le loro file. Al contrario, ogni mattina una quantità d'armi sparse sul terreno attestava il numero dei fuggiaschi. E quelle armi si caricavano sui muli e sui carri che accompagnavano la colonna e la colonna a poco a poco, avea più carri e muli che individui. E a poco a poco la speranza di sollevare quel popolo di servi svaniva nell'anima dei fedeli e coraggiosi superstiti.
A San Marino, vedendo che non v'era più volontà di combattere uscì un ordine del giorno del Solitario che congedava i militi rimandandoli alle loro case.
Quell'ordine del giorno diceva: "tornate alle vostre case, ma ricordatevi che l'Italia non deve rimanere serva". I più presero la via del ritorno. Ma v'erano non pochi disertori dell'Austria e del governo papale soggetti alla fucilazione e questi vollero accompagnare il loro capo nell'ultimo tentativo di guadagnare Venezia.
Qui comincia una storia più dolorosa ancora. Anita, compagna inseparabile del solitario neppure in questo terribile estremo consentì ad abbandonarlo. Invano lo sposo si affaticava a persuaderla di rimanere a San Marino: incinta, spossata, inferma, non vi fu verso di persuaderla. La coraggiosa donna non volle udire ammonizioni e rispondeva al suo diletto: ch'egli voleva abbandonarla!!
Attorniato da corpi di truppe austriache, cacciato dalla polizia papalina, dopo una marcia di notte, delusi i persecutori, quello stanco avanzo dell'esercito Romano giunse alle porte di Cesenatico allo spuntare della mattina.
"Scendete e disarmateli! - esclamava il solitario ai pochi individui del suo seguito a cavallo e stupefatti i soldati delle guardie austriache si lasciarono disarmare. Poi si svegliarono le autorità e si richiesero loro pochi viveri e alcuni bragozzi (Piccole barche) per imbarcare la gente.
Non si può negare, la fortuna era stata favorevole al solitario in varie difficili imprese; ma qui, doveva cominciare per lui un infausto episodio di difficoltà, di contrarietà e di sciagure. Un nembo da Bora, scoppiato nell'Adriatico in quella stessa notte, aveva imperversato sul mare e la stretta bocca del porto di Cesenatico era un frangente. Immensi furono gli sforzi che si fecero per uscire dal porto co' bragozzi carichi di gente, in numero di tredici! Ma solo all'alba vi si riuscì ed all'alba gli Austriaci rinforzati e numerosi entravano in Cesenatico.
Si veleggiò, il vento spirò favorevole ed all'alba dell'altro dì, quattro dei bragozzi, uno dei quali col solitario, Anita, Cicerovacchio e i figli, con Ugo Bassi, sbarcarono nelle foci del Po.
Anita nelle braccia dell'uomo del suo cuore sbarcò morente! Gli altri nove bragozzi s'erano arresi alla squadra austriaca, che al chiarore del plenilunio, scoperti i piccoli legni, li avea fulminati di cannonate.
Come segugi in traccia delle fiere gli esploratori nemici inviati a perseguire i fuggenti, gremivano la spiaggia. Anita giaceva poco lontano in un campo di frumento, e vicino a lei il solitario che le sorreggeva il capo. Leggiero( Era un coraggioso Maggiore dell'isola della Maddalena che a qualunque costo, avea voluto seguire il Solitario. Lo avea seguito in America e poi di là in Italia inseparabilmente), l'unico compagno, gli rimaneva, spiando tra gli interstizi degli steli i maledetti bracchi che cercavano preda di sangue. Cicerovacchio, Bassi e nove compagni che avevano prese direzioni diverse per sfuggire al nemico, perché così erano d'intesa con me, furono arrestati tutti dagli Austriaci e fucilati come cani.
Eran nove; a forza di bastonate si condussero nove contadini a scavar nove fosse nella sabbia ed una scarica del picchetto di stranieri soldati spacciò gli infelici. Il più giovane figlio del tribuno romano (Aveva tredici anni) si moveva non ben morto dopo la fucilazione ma il calcio del fucile d'un austriaco gli fracassava il cranio.
Bassi ed il suo compagno Pizzaghi ebbero la stessa sorte a Bologna.
Lo straniero ed il prete gozzovigliarono nel più puro sangue italiano e la iena di Roma rimontava il suo trono contaminato sui cadaveri dei cittadini suoi fatti sgabello!
Ecco la storia secolare del papato che il despotismo cerca di eternare in Italia!
Serva agli italiani questo esempio di freddo eccidio de' loro onesti e prodi concittadini e possa insegnar loro a non più lasciare la patria terra in preda allo straniero ed ai preti suoi manutengoli, assuefatti a servirsene di villeggiatura, poi devastarla e prostituirla!
Il solitario, col caro peso della compagna sua, vagò addolorato tra le valli del basso Po sino a che non gli rimase che a chiuderle gli occhi e pianse sulla fredda salma di lei lacrime di disperazione.
Vagò, vagò per foreste e per monti, incalzato dovunque dalla sbirraglia del Papa e dell'Austria. Ma la sorte lo serbava a nuove fatiche ed a nuovi pericoli. I tiranni dell'Italia lo troveranno sul loro sentiero, sul loro sentiero imbrattato di sangue e di delitti e guai a loro! perché, codardamente fuggenti, gli lasceranno le loro mense imbandite ed i tappeti de' loro superbi palagi porteran per un pezzo l'impronta del suo rozzo calzare!
Intanto egli è a Venezia per cui tanto aveva sospirato. Le lagune coperte di gondole salutano tripudianti la camicia rossa senza macchia e senza paura, simbolo del riscatto nazionale, ma puro, ma con ferro italiano!
LIV
ROMA IN VENEZIA

Eran le undici della notte. Le gondole ingombravano i canali di Venezia e la piazza S. Marco, illuminata a giorno, era sì affollata di gente, da non potersi distinguere un palmo solo del suo lastricato.
Dal balcone del palazzo Zecchin, parte dell'antica Procuratia che limita la piazza a tramontana, il solitario aveva salutato il popolo e quel saluto al popolo redento, alla grande mendica, all'antico baluardo della civiltà europea, alla venduta di Campoformio, era corrisposto freneticamente dalla moltitudine esultante e commossa.
Ed anche il solitario era commosso e tra sé pensava: "i solchi che il despotismo lascia impressi sul volto umano, anche qui possono distinguersi. Gli antichi dominatori del mondo furon trasformati dallo straniero e dal prete mago, la cui verga tuffata nella melma d'inferno, è solo atta a cambiare il bene in male, l'oro in immondizie e le nazioni le più prospere, le più potenti, in una turba di mendichi e di sagrestani. Questa stirpe, che si dice figlia della romana, fu pure invilita, degenerata!".
E lui, che tanto ama il popolo, ne piangeva nell'anima addolorata!
Il solitario era commosso ma non per questo lasciava di gettare uno sguardo scrutatore sulla folla circostante. L'esperienza di cui non doveva mancare a sessantanni di una vita di tante prove lo avvisava di star cauto rispetto alla natura delle folle e degli assembramenti popolari ove nelle moltitudini si nasconde facilmente il ladro, l'assassino, la spia ed il prete, generalmente occulto sotto mentita veste. E veramente: in quella povera Venezia, surta appena dalla tirannide straniera, formicolava ancora gran parte di quella canaglia, che rende il despotismo possibile, vendendo l'anima a quattrini e molta se ne poteva distinguere da occhio esperto frammischiata al buono ed onesto popolo.
Girava dunque il suo sguardo sulla popolazione affollata il solitario quando un picchio leggiero sulla spalla lo fece accorto di Attilio.
"Non vedi, - gli disse il suo amico, - quel ceffo camuffato col berretto alla veneziana frammischiarsi fra quei buoni popolani veneti?
Egli è facile il riconoscerlo, come la vipera tra le lucertole, la tarantola velenosa tra le formiche. Quando cotesti rettili serpeggiano nelle moltitudini non è senza scopo. È un inviato di Roma, e certo c'è del nuovo per noi. Colui è Cencio. Addio!".
I nostri lettori ricorderanno l'agente subalterno di Don Procopio, per cui Gianni aveva affittata una stanza in vista dello studio di Manlio.
Costui dopo la impiccatura del padrone era stato promosso a maggiori uffici ed era agente principale di S. E. il cardinale A.... primo ministro del papa.
Cencio, una volta liberale e traditore poi avea fatto tesoro delle cognizioni acquisite tra i democratici di Roma e perciò era reputato prezioso come agente segreto dalla curia cardinalesca. Vedremo ora qual era la sua missione in Venezia.
In un salone di casa Zecchin, affollato di visitatori, risplendevano sulle venete bellezze, le tre bellissime eroine nostre, Irene, Giulia e Clelia. La gioventù veneta assuefatta a contemplare le vezzose figlie della regina adriaca rimaneva ammirata all'aspetto delle tre romane, dico: tre romane poiché Giulia, che avea sposato il suo Muzio, benché figlia affettuosa della sua bella patria, vantavasi e si compiaceva dell'adottiva sua terra chiamandosi ella pure romana.
Irene, la più attempatella delle tre, conservava ancora tanta freschezza da nascondere sotto il maestosissimo portamento gli anni che aveva di più delle compagne. La sua bellezza era tale da poter servire di modello all'artista cui piacesse ricordarci le antiche e severe matrone della Roma dei Cincinnati.
Il matrimonio nulla avea tolto alle bellissime più giovani compagne e le tre, formavano un ornamento tale nel Veneto salone da tenere, come dissi, quella gioventù sospesa in ammirazione.
Accanto a Clelia stava Muzio e la buona Silvia con lui, talché delle nostre donne mancava solo l'Aurelia. Gettata in una vita romanzesca e di avventure che mai non avea sognato, quest'ultima finì con l'avvinghiarsi al buon capitano Thompson come l'edera alla quercia.
Benché un pochino repugnante da quelle certe tempeste il cui saggio tanto l'avea malconcia, pure col suo caro leone di mare a lato i marosi le sembravano assai meno spaventevoli.
Orazio e Muzio stavano insieme in un canto del salone conversando sugli avvenimenti del giorno quando Attilio, giungendo vicino ai due amici, partecipò loro la sua scoperta ed i tre s'incamminarono giù per le scale verso Piazza S. Marco.
Non furono pochi gli sforzi dei tre amici per rompere la moltitudine ammassata sulla piazza e penetrare sino all'oggetto della loro ricerca, ma vi pervennero alfine e mentre il solitario richiamato dal popolo al balcone gettava gli occhi verso il punto accennatogli prima da Attilio potè scorgere i suoi giovani amici che accerchiavano il finto popolano di Venezia.
La mano di ferro di Orazio strinse il polso dello sgherro come una tenaglia; Muzio con quel certo accento già noto al malvagio, fissandogli negli occhi i suoi occhi fiammeggianti:
"Con noi, Cencio - gli sussurrò - e tosto". Il familiare dei preti, il traditore delle Terme di Caracalla, tremò da capo a piedi, cambiò il rubicondo suo volto in quello di un cadavere e senza articolare parola seguì la via indicata da Muzio in mezzo agli altri due romani che lo spingevano avanti irresistibilmente.

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