L) CAPITOLI :

LV. - Il Governo riparatore - LVI. - Decreto di morte - LVII. - Morte ai preti
LVIII. - Il principe T.... - LIX. - Il duello - LX. - Roma
LXI. - Venezia ed il Buccintoro - LXII. - La Sepoltura

LV

IL GOVERNO RIPARATORE


Quando si pensa all'unificazione di questa nostra Italia ed a coloro che l'ebbero a reggere sulla spinosa via che ella percorse, e che percorre ancora, non si può a meno d'inchinarsi davanti ai decreti della provvidenza che veramente volle aiutarla fino a costituirsi in nazione.
Io sovente, meditando sulla sorte di questa bella, grande ed infelice nostra patria, nell'immaginazione mia, me l'ho figurata: un carro tirato avanti a stento dalla parte generosa del popolo cui è unica meta il bene generale e che segue la sua stella provvidenziale come faro salvatore.
Poi, addietro attaccata, immaginai la turba malvagia de' reggitori coll'immensa coda de' loro satelliti scapigliati e spossati ma pure disperatamente intesi a far forza per trascinare indietro il veicolo dello stato anche a rischio d'infrangerlo. Il
popolo, impoverito, umiliato da quella ciurmaglia grassa e nuotante nel vizio si ferma pacato, tranquillo nelle sue miserie, sgombra volonteroso gli ostacoli accumulati sulla sua via di redenzione e procede e procede ingenuamente fiducioso in un avvenire di riparazione.
Riparazione!? e da chi verrà la riparazione? Povero popolo!... dai restauratori del clericume, del gesuitismo, dell'impostura, ricondotti nel tuo seno, a spese delle tue sostanze per mantenerti nell'ignoranza e nella miseria?
Ai molti mezzi di corruzione impiegati dai potenti per tener in servaggio le popolazioni si aggiunge oggi il più scellerato, quello della setta nera, moltiforme, ricca, sostenuta dalla forza della nazione in mani infami. E questa è la riparazione che tu aspettavi, popolo infelice! paria!, ilota delle nazioni!
Riparazione!? Da chi riparazione? da chi s'inginocchia ogni giorno, ogni ora, a piedi del sacerdozio della menzogna?
Intanto uno degli agenti di cotesto sacerdozio camminava a capo basso attanagliato nei polsi da Orazio e da Attilio mentre Muzio apriva la via, non facile ad aprirsi, in mezzo a quella moltitudine. Finalmente giunsero i quattro in un'osteria situata in una viuzza che metteva nella Riva degli Schiavoni.
LVI
DECRETO DI MORTE
"Passiamo presto,
e sulla punta dei piedi quel mucchio di limo e di sangue che si
chiama Popolo". (Guerrazzi)

Non è molto tempo trascorso che l'idra sacerdotale del Vaticano innalzava i suoi roghi nei chiostri della capitale del mondo cattolico - ed all'aria aperta tra parecchie delle infelici nazioni che avevano la disgrazia d'essere ammorbate dalle sue dottrine - come ad esempio la Spagna. Nei tempi moderni codesti errori non si tollerano più, ma l'idra dalle mille teste satolla ancora le sue libidini di sangue in molte altre guise: ferro, veleno, brigantaggi ed assassinii d'ogni specie.
Nella Curia romana una sentenza di morte, era stata pronunziata contro il principe T., fratello della nostra Irene, e Cencio con otto sicari della santa sede a' suoi ordini, doveva eseguire l'atroce mandato, profittando della confusione in cui si troverebbe Venezia all'arrivo del solitario.
Gli otto complici dell'ex-liberale erano in parte stati appostati nei dintorni dell' "Albergo Vittoria", in tutti gli sbocchi da dove poteva capitare la vittima. Quattro di loro tenevansi in agguato in una gondola ben pagata, con istruzione segreta, di sbarazzarsi anche del gondoliere a cose finite per non avere indiscreti testimoni, che potessero deporre contro di loro. Cencio, si era riserbato, non l'azione principale dell'omicidio ma quella del segugio che si doveva tenere ostinatamente sulle calcagna del principe. Per fortuna del nobile romano la cabala fallì perché il segugio era stato tolto dalla pesta e non solo si trovava al sicuro nelle ugne dei tre amici ma doveva fare i suoi conti anche con un quarto personaggio che valeva ciascuno dei primi e questo quarto era niente meno che il nostro vecchio e ben noto Gasparo.
Gasparo, dopo i fatti da noi raccontati nei capitoli precedenti, toccato il suolo non pontificio, s'era offerto a servire da domestico il principe T., che ben volentieri lo prese seco. Con lui venne a Venezia e mentre il padrone s'intratteneva nei saloni del palazzo Zecchin, il poco paziente domestico, che s'era fermato sull'ingresso del palazzo a godersi le scene del popolo festante, vedendo i tre romani, che amava come figli fendere la folla con tanta precipitazione volle seguirli e così anche lui si trovò all'osteria sulla Riva degli
Schiavoni alle calcagna di Cencio.
Descrivere lo stupore e la paura del mercurio clericale in mezzo ai quattro è cosa ben difficile. Essi Io condussero nella stanza più recondita dell'osteria in un piano superiore, dissero al cameriere che portasse loro da bere, e poi li lasciasse perché dovevano trattare d'affari, chiusero l'uscio a chiave, ordinarono allo sgherro di sedersi contro il muro, presero posto su di una panca collocata al di qua della tavola e cogli occhi fissi sul malvivente rimasero in attitudine di giudici inesorabili.
In altre circostanze forse il malandrino avrà sentito rimorsi, e si sarà pentito de' suoi tradimenti ma in questa vi assicuro che egli ne avea ben d'onde.
I quattro amici, freddi e tranquilli, come chi ha la coscienza della forza e dell'anima intemerata, contentavasi di fissare i loro occhi in quelli del perverso e questi fuori di sé, colla bocca e gli occhi spalancati sforzavasi di articolare delle voci che non volevano uscirgli dalla strozza, riuscendo penosamente a balbettare:
"signori... io non..." ed altre parole mozze.
Fu un po' barbara la tranquilla pacatezza dei quattro romani e chi avesse potuto contemplare quella scena certo coll'immaginazione sarebbe corso al paragone del sorcio sotto l'inesorabile sguardo del gatto, che ne spia ogni minimo movimento, per lanciarvisi sopra e stritolarne le ossa sotto i denti. Se un pittore avesse potuto trovarsi presente a quel muto consesso ne avrebbe tolto il soggetto di un bellissimo quadro.
Già abbiamo descritto i primi tre, veri tipi degli antichi romani, di bellezza, di forme veramente artistiche.
Gasparo era, e con ragione, una di quelle figure che un romanziere francese avrebbe pagato a peso d'oro per poterne fare il suo "Brigant Italien" e fotografato da Bernieri (Bernieri, Maggiore e fotografo a Torino) il suo ritratto, avrebbe prodotto assai maggior lucro all'artista, che quello di qualunque sovrano d'Europa.
Era veramente una gran bella figura di brigante quel vecchio Gasparo, ma di buon brigante, di quelli che l'hanno a morte coi birri, ma che non si macchiano con azioni infami come quei mostri assoldati dai preti che commettono eccessi da far inorridire una tigre.
Anche il successore di Gianni, avrebbe fatto un'idonea comparsa in un quadro caratteristico e certo per rappresentarne la paura in tutta la sua bruttezza, nessuno avrebbe potuto servir meglio di lui. Inchiodato al muro cui appoggiava le spalle egli lo avrebbe rovesciato, forato, se la forza fosse stata pari alla volontà, coll'intento di potersi allontanare un po' più da quei quattro tremendi osservatori lì davanti a lui, fissi, impassibili, e che pure meditavano la sua rovina, forse il suo esterminio.
La voce austera di Muzio, dell'antico capo della contropolizia di Roma, fu la prima che s'udì rompere quel sepolcrale silenzio.
"Dunque: disse egli io ti voglio contare una storia o Cencio, forse da te conosciuta come Romano, e che imparerai se per caso non la conosci; sta attento:
Un giorno i nostri padri, stanchi delle prepotenze del primo re di Roma che fra le altre amabili imprese, aveva ucciso con un pugno il fratello Remo perché si divertiva per scherzo a saltare il fosso di cinta fatto da Romolo, i nostri padri dico, in un senato consulto decisero di sbarazzarsi del loro re, un po' troppo manesco e con disposizioni un po' troppo dispotiche. Detto fatto! gli saltano addosso colle daghe sguainate e Romolo, benché valorosissimo, dovette cadere sotto i loro colpi. L'affare era fatto, ma al popolo romano alquanto innamorato del suo re guerriero, per non avere dei guai, bisognava contare qualche fandonia su quella morte e l'avviso d'un vecchio senatore prevalse su quello degli altri sul da farsi.
"Noi conteremo al popolo - disse il vecchio - che Marte padre di Romolo disceso tra noi, dopo averci rimproverato d'essere un po' troppo ladri e quindi indegni d'aver a capo il figlio di un Dio, se l'ha preso seco e trasportato in cielo".
"E cosa faremo del corpo?" - soggiunsero più voci di senatori.
"Del corpo? - disse il vecchio - Niente di più facile che provvedervi - e sguainando la sua daga cominciò a tagliare a pezzi il cadavere. Quando ebbe terminata tale anatomia - ognun di voi, ora - disse - prenda uno di questi pezzi, lo nasconda sotto la toga e vada a gettarlo nel Tevere. Prima di domattina, i mostri marini avranno dato degna sepoltura a questi avanzi del fondatore di Roma.
"Che te ne pare, Cencio? Senza essere re di Roma, né figlio di Dio, una morte cotale non ti parrebbe onorevole? per te che altro non sei che un miserabile traditore?".
"Per l'amor di Dio!..." gridò il satellite esterrefatto e piangente come un fanciullo e le lacrime per un pezzo gli soffocarono la voce. Alla fine alquanto sollevato dallo stesso pianto, ripigliò: "Io farò quanto mi chiederete, ma per l'amore che portate ai vostri amici, alle vostre donne, alle vostre madri, non mi fate soffrire una morte così crudele!".
"Parli di morte crudele!? Ma per uno sgherro, una spia, un traditore c'è forse morte troppo crudele?" rispondeva Muzio con quella impassibilità che Io distingueva. "Hai forse scordato quando vendevi la gioventù romana ai preti che poco mancò non la facessi crudelmente trucidare tutta dai loro carnefici?".
Nuovo pianto! nuovo pianto ancora scorreva dagli occhi del codardo.
Muzio: "Ora poi, la tua venuta a Venezia, bel soggetto! cosa significa? Chi t'ha inviato? A che sei venuto qui, perverso?".
"Vi racconterò tutto" era la risposta del malandrino. E l'altro: "Conterai tutto, vedremo! e nulla ti resti in fondo di quel sacco di malizie e di tradimenti che tieni al posto della coscienza".
"Tutto! tutto!" gridava Cencio come un energumeno. E come dimentico di quanto doveva narrare e sopraffatto ancora da immensa paura non sapeva da dove cominciare.
"Saresti più lesto nelle tue delazioni al Sant'Ufficio, boccone da forca", sussurrava Gasparo, col suo vocione. "Avanti!" esclamarono Orazio ed Attilio, rimasti pazientemente silenziosi sino a quel punto.
Un momento d'assoluto silenzio seguì quel primo atto un po' tempestoso, e Cencio principiava a narrare così: "Se vi è cara la vita del principe T....". "Del principe T.? il fratello d'Irene", sclamò Orazio varcando d'un salto la tavola ed afferrando il traditore per la gola!
Cencio, tra l'ugne di una tigre o tra gli abbracciamenti del re delle foreste avrebbe corso meno pericolo che non tra le mani del principe della campagna di Roma, che l'aveva agguantato al collo. Ma Attilio, con modo gentile: "Fratello, - disse ad Orazio, - abbi pazienza, lasciamolo parlare".
Veramente spacciato Cencio, addio rivelazioni. Ciò era chiaro come il sole, onde la suggestione del capo dei trecento di Roma fu capita da Orazio e sciolse dalla gola di Cencio le sue mani frementi.
"Se vi è cara la vita del principe T. - ripigliava il malvagio - andiamo insieme a farlo avvisato che un agguato di otto emissari del Sant'Ufficio lo apposta nei dintorni dell' Albergo Vittoria, ove egli sta d'alloggio".
LVII
MORTE AI PRETI

Morte ai preti!
Morte a nessuno! gridava il solitario dall'alto del balcone alle moltitudini rispondendo alla terribile loro esclamazione!
Morte a nessuno! "Eppure, chi è più meritevole di morte che la setta malvagia la quale ha fatto dell'Italia un "paese di morti" (Lamartine), un cimitero? O Beccaria! le tue dottrine sono sante! io ripugno dal sangue! ma non so se l'Italia potrà liberarsi da' suoi tiranni dell'anima e del corpo senza distruggerne, senza annientarne sino l'ultimo rampollo!".
Queste considerazioni passavano per la mente dell'uomo del popolo e lo distraevano. Frattanto quella parte di popolo che non avea potuto udire la voce che partiva dal balcone Zecchin ma solo il grido di morte che mille infocate voci avevano esclamato, quella parte di popolo dico, più distante dal solitario, ma più vicina al palazzo principesco del Patriarca, s'avanzava come l'onda d'un torrente che precipita dalle montagne ed assaltava il vestibolo del palazzo suddetto rovesciando quanti ostacoli si opponevano alla sua furia.
In pochi minuti ogni salone, ogni stanza del maestoso palazzo erano invasi e per le finestre si vedevano svolazzare tutti que' simulacri d'idolatria con cui i preti sì spudoratamente beffeggiano le ingannate moltitudini.
Molti artisti innamorati del bello avrebbero potuto gridare allo scandalo, al sacrilegio! in quel rovinìo d'ogni oggetto d'arte e per vero dei ben preziosi capolavori sotto forme di santi o di madonne andaron travolti ed in pezzi nel generale esterminio.
Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com'eran furon sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d'impiegare gli artisti più eminenti nell'illustrazione delle loro favole. Quindi i Michelangeli ed i Raffaelli d'ogni età, furon da loro assoldati ed il popolo anche persuaso della vanità delle proprie credenze, e dell'impostura dei leviti di Roma rispetta ancora i simulacri della
sua prostituzione perché sono capi d'opera di molto pregio.
Ma il primo capo d'opera d'un popolo non è la libertà? non è la dignità nazionale? E tutti quei portenti dell'arte, benché portenti che gli rammentano il suo servaggio e la sua degradazione, oh!, non sarebbe meglio che ei li mandasse all'inferno?
Comunque fossero, opere preziose o volgari, il popolo rovesciava, e precipitava sul lastrico ogni cosa, e tutto mandava in frantumi.
Ed il Patriarca!? guai a lui se fosse caduto nelle mani della turba furente! Ma la pelle è cara ai discendenti degli Apostoli! ai campioni della fede! Essi edificarono veramente la loro baracca sul martirio degli antichi seguaci di Gesù e su quello del Nazzareno, ma di martirio questi grassi epuloni, non ne vogliono sapere nemmen per sogno!
L'Eminenza sua al primo ruggito della tempesta popolare, se l'era svignata e per un uscio segreto avea guadagnato una delle sue gondole e con essa si era posto al sicuro.
Intanto la voce del solitario che esclamava: "Morte a nessuno!" era ripetuta nella moltitudine e giungeva fino agli assalitori del Patriarcato. Quella voce amata e rispettata dal popolo, calmò il fremito delle turbe, ed in pochi momenti la tranquillità venne interamente ristabilita.
LVIII
IL PRINCIPE T....

Nei bei tempi del diritto della coscia (Diritto dei signori feudali, come già dicemmo, altrimenti chiamato diritto della prima notte, che gli sposi vassalli dovevano subire, o redimere a danaro, a beneplacito del signore) i principi non avevano bisogno di correre dietro ad una forosetta per implorarne il favore e ben fortunate eran quelle cui capitava di poter fissare per un momento lo sguardo de' loro sultani.
Oggi le cose corrono alquanto diverse: benché vi siano dei principi con tanta autorità quanta ne avevano gli antichi, anzi molti con più, perché il loro despotismo si copre con maschera liberale, pure ne vediamo nei giorni che corrono parecchi conformarsi a più moderate pretensioni ed aspirare anche all'adorazione di qualche divinità plebea. Così la pensava il nostro povero principe T.... obbligato a rimanere lontano da' suoi beni e bersaglio a tutta la rabbia pretina, tanto più accanita in quanto che giovinetto lo avevano iniziato ai
segreti più intimi della Corte di Roma.
Giovane ancora ed avvenente della persona, il principe prevenuto della reputazione meritamente stabilita delle venete bellezze, non mancava di certo prurito, di certo desiderio di voler fare una conquista.
Dobbiamo a giustificazione del giovane principe notare, che quel suo prurito è pure comune anche ai vecchi, il che sia detto senza mancar loro di rispetto.
Egli trovavasi dunque sul vestibolo del palazzo Zecchili ammirando le graziose visitatrici che per pura curiosità donnesca giungevano a vedere il solitario.
In mezzo alla calca dei saloni era arduo poter contemplare le fisonomie e massime il portamento della persona ma da quella parte del vestibolo sulla prima gradinata ove s'era collocato il romano l'osservazione riusciva più facile ed abbracciava quelle che entravano e quelle che passavano senza entrare.

Dall'interna folla, sguizza traversando il sottoportico del Cappello una di quelle figure che basta vedere una volta perché vi restino impresse nell'anima tutta la vita. Le ciglia, gli occhi, i capegli d'ebano il più pulito e brillante adornavano un volto che avrebbe potuto servire a Tiziano per dipingere le sue Veneri famose. Il tipo di quella donna era veramente l'ideale della veneta bellezza.
Il principe sino allora impassibile dinanzi al gran numero di passeggieri che formicolavano in un andirivieni continuo fu colpito da uno sguardo dell'incantatrice la quale sembrava adocchiare ogni cosa, ogni persona, senza fissarne alcuna. Colpito da questa apparizione, il principe precipitossi sui passi della sconosciuta i cui piedi sfioravano il suolo, in quella guisa che il Colibrì sfiora i fiori eterni della zona torrida. Precipitossi sui suoi passi. Ma altro era il volere, altro il potere. La graziosa e bellissima fanciulla o più svelta o più assuefatta a scivolare fra la folla nelle calluzze della sua città era già seduta in fondo alla sua gondola, e già aveva comandato al gondoliere di andare, quando il T.... giunse alla riva del canale.
Che fare? Precipitarsi nell'onde, ed aggrapparsi all'orlo della barca, come un forsennato chiedendo per pietà d'esservi ammesso, fu la prima e matta sua idea. Un bagno di marzo, nell'acqua fresca della laguna poco spaventava il nostro affascinato, ma presentarsi alla donna de' suoi pensieri così grondante, e forse senza cappello in testa, non è cosa che soddisfaccia nessuno e meno poi un principe. Egli dunque si attenne al più savio consiglio, imbarcossi in altra gondola e così pensò inseguire la sconosciuta.
"Voga - egli disse al gondoliere - e se raggiungi quella gondola là, guadagnerai una buona mancia".
"Lasci fare" rispose il gondoliere, quindi "Tita, comio! "(Comio, gomito, forza Giovanni Battista) gridò al compagno di prora e rialzando su ambe le braccia la camicia rossa (poiché molti gondolieri la portavano in quei giorni per onorare
l'ospite di Venezia) si accinse al maneggio del remo con quella grazia e vigore non superati da altra gente marinaresca del mondo.
"Voga, voga, elegante gondola, segui e raggiungi la scivolante fuggitiva che porta seco l'anima mia! E perché non sarà essa l'anima mia quella fanciulla leggiadra, quella bellezza adriaca, che io sognai mille volte quando le lagune erano schiave come lo è la mia Roma?
Perché? perché non la vidi che un solo istante? ma essa mi saettò con quel suo occhio di fiamma che mi vinse, e mi fé' suo per l'eternità?
Però non feriva essa colle sue luci tutti i circostanti egualmente!
Non spargeva essa una atmosfera di balsamo che se inebbriò me doveva
anche inebbriare gli altri?
È questo poi amore? È questo quel passatempo che i mortali succhiano come l'arancia e scaraventano poi nel letamaio? oppure è quell'amore celeste! sublime, che avvicina la creatura al creatore, che trasforma i disagi di questa misera vita... i pericoli... la morte in delizie indescrivibili?
Potente della terra, vieni a toccarmi questa mia donna ch'io amo d'amore che non posso descrivere. Vieni col tuo esercito di sgherri, fossero essi mille volte più numerosi. Vieni! e tocca soltanto il lembo della sua veste; questo pugnale s'immergerà nel codardo tuo seno come la lingua del Coral, la più velenosa delle americane serpi, nelle latebre dell'infame tua vita!"
"Voga! Voga! - gridava ancora il principe impaziente di raggiungere il fuggente tesoro.- Voga, e se non basta un marengo (In questa fucina di servilismo che si chiama Italia, ad ogni passo si devono ricordare le glorie dei tiranni) ne avrai dieci. Voga!"
"E se fosse una plebea?- ruminava ancora nel suo soliloquio il principe. - Che plebea d'Egitto? Ha forse Dio creato dei plebei e dei grandi? Non sono la malizia e la prepotenza che imposero alle moltitudini i despoti ed i tiranni?
E non era Gesù un plebeo?...E se quella fanciulla sì bella! sì affascinante! fosse contaminata! fosse una di quelle!... Oh! profano al celeste amore non pronunziare sacrilegi!
Come potrebbe il volto di una simile donna arieggiare l'angelico viso della mia sovrana?".
Ed era precisamente plebea l'Annetta: gli scalini della modesta sua casa ove approdò la gondola ben lo accennavano. Non atrio, non peristilio con colonnato ma semplici scalinate al di dentro e al di fuori. Non tappeti sulle scale o ornamenti di ricchi vasi e d'esotici fiori. Alcuni vasi di fiori potevano scorgersi sulle finestre perché anche Annetta amava i fiori quanto una principessa ma piccoli esemplari, non dirò miseri perché cari come erano alla giovinetta, essi valevano un tesoro.
Una donna attempata che di giorno avrebbe attratto l'attenzione di tutti tanto era l'ansia espressa sulla sua fisionomia avea aspettato sin a quell'ora, circa le undici della sera, la sua amatissima Annetta, che curiosetta avea voluto anch'essa vedere da vicino l'uomo del popolo e che non potendo essere accompagnata da Mario, unico fratello, assente, l'avea la madre affidata a Nane, il gondoliere di casa.
Quando Rosa si fu accertata che era la propria gondola che giungeva, lasciò il balcone ove era stata spiando con ansia indescrivibile e con un lume in mano scese rapidamente la scala a ricevere l'adorata figliuola.
Erano nelle braccia l'una dell'altra, come se un secolo le avesse divise, quando il principe sopravvenne e profittando della porta rimasta aperta e della distrazione delle due donne, via, dentro anche lui coll'audacia di un soldato in paese di conquista.
Sciolse dall'affettuoso amplesso, mentre la madre con dolce rimprovero cominciava: "Annetta? ma perché sei rimasta tanto fuori?" ambedue misero un grido di sorpresa vedendosi in presenza di uno straniero.
Il principe, avventurato in un'impresa così ardita, comprese che doveva mantenersi in corrispondente contegno, quindi avanzandosi verso la giovine, che al chiarore della lucerna le sembrò ancora più bella di quanto se l'aveva figurata, volle prenderle la mano per baciarla e per ispirarsi ad alcune parole convenevoli di discolpa e di ammirazione. Ma una mano ferrea, in quell'istante stesso, colto di dietro il pugno del principe con una scossa che fece traballare l'intera persona, lo distaccò dalla donna.
Da una terza gondola approdata poco dopo le prime, era disceso svelto e risoluto un nuovo e giovine attore su questa interessante scena. Alto di statura, nerboruto e bellissimo della persona, il nuovo arrivato vestiva la camicia rossa e sulla parte sinistra dell'ampio suo petto portava il distintivo dei prodi, la medaglia dei "mille".
Morosini era l'amante riamato di Annetta e sul volto della fanciulla l'osservatore attento avrebbe letto un mondo di espansioni affettuose alla vista del suo diletto, espansioni alle quali tenne dietro subitaneo timore quando la voce di lui maschia e sonora, rivolta al principe lo incalzava con queste parole:
"Credo che vi siate ingannato, signor damerino, non troverete qui ciò che cercate. Vi prego dunque di rifar la via e andare altrove alla cerca".
La scossa ricevuta e le austere parole che la seguirono sollevarono nel principe un certo orgasmo di dispetto e poiché alla indignazione univa il coraggio, rispose sullo stesso tono al suo interlocutore.
"Non venni qui ad insultare, signor insolente ma ad ossequiare, e del vostro insulto se siete gentiluomo, me ne darete ragione. Eccovi la mia carta e sarò all' Albergo Vittoria ai vostri ordini sino al meriggio di domani".
"Io non vi lascerò aspettar tanto", fu la risposta del Morosini.
LIX
IL DUELLO

Il contadino non persegue la pernice nel folto delle boscaglie ma, dopo avere coperto le acque delle fonti circostanti, l'aspetta a quella fonte che unica lasciò scoperta e lì la caccia col vischio, colla rete o col piombo micidiale in quell'ora che la povera innocente vi cerca rifugio e ristoro alla sete.
Così nelle ore meridiane il bifolco aspetta imboscato i renitenti al giogo da cui rifuggono.
Ed il corsaro, che invano si cercherebbe sugli immensi spazi dell'Oceano, si aspetta al varco de' suoi nascondigli, ove deve condurre le prede, e là si cattura.
Analoga fu la risoluzione dei nostri quattro romani per rinvenire il principe T. che inutilmente avevano cercato in ogni via. Dopo d'aver riconosciuti e mandati a casa, col mezzo di Cencio i cagnotti del Sant'Ufficio si posero loro in agguato nei dintorni dell'Albergo Vittoria aspettando la comparsa del T. il quale verso mezzanotte arrivò, e fu seguito nella sua stanza dagli amici suoi che gli palesarono la trama dei porporati ed ogni loro scoperta.
Era troppo nobile d'animo il principe per mettere i suoi amici a parte dell'imminente duello. Orazio specialmente il cui animo ardente ei conosceva e che non avrebbe concesso ad altri la parte di secondo.
Pure d'un secondo egli abbisognava e profittando d'un momento di calda discussione tra gli amici, con un'occhiata chiamò Attilio al balcone, e lo richiese di fermarsi con lui per quella notte.
Orazio, Muzio e Gasparo si congedarono, ed Attilio rimase col pretesto d'affari particolari.
Alla prima alba, un giovine in camicia rossa picchiava alla porta della stanza N. 8 dell'Albergo Vittoria e presentava al principe T. un cartello firmato Morosini espresso in questi termini: "Io accettai la vostra sfida e vi sto aspettando alla porta dell'albergo nella mia gondola. Ho meco delle armi ma se non vi convenissero, portate le vostre. I padrini stabiliranno le condizioni del duello".
Alzatosi il principe e fatto chiamare Attilio lo presentò al secondo di Morosini ed in pochi minuti le condizioni furono fissate.
Armi: pistole. Distanza: venti passi. Facoltà di marciarsi incontro, sparando a volontà.
Il sito era dietro i murazzi, ove i contendenti potevano recarsi subito, essendo tale il piacimento dello sfidato.
In verità se s'ha a morire od ammazzare è meglio si faccia subito poiché anche alle anime più risolute tanto una cosa che l'altra ripugna e quindi si desidera abbreviare il termine della decisione.
Cosa diavolo dirò del duello? Io fui sempre d'avviso che fosse vergognoso il non potersi intendere senza uccidersi ma d'altra parte, tocca a noi, iloti ancora dei prepotenti della terra, paria dell'Europa, a predicare la pace individuale e generale? a noi, il perdono dell'oltraggio! a noi! così oltraggiati da tutti! a noi cui è vietato di passeggiare sulla nostra terra!? di fregiarci delle nostre glorie!? A noi calpestati nei nostri diritti, nella nostra coscienza e nel nostro onore dalla più vile scoria della nazione nostra!? A noi, che per vivere, per essere considerati, protetti, ci bisogna prostituirci!? Via! non duelli quando saremo costituiti, ben governati e godremo nei nostri diritti all'estero ed all'interno ma di fronte alla prepotenza, all'arbitrio e al privilegio no! non si può patrocinare la pace.
Intanto vogano verso i murazzi le gondole che portano i contendenti. Uscite da Malamocco costeggiano per un pezzo l'argine immenso costrutto dalla Repubblica, contro le furie dell'Adriatico e sbarcano finalmente alla spiaggia esterna e deserta che fuori dei murazzi è a secco quando gl'impetuosi bora o scirocco stanno in riposo. Saltarono sulle sabbie, scelsero un sito a proposito, e dopo aver misurato i venti passi i secondi porsero le pistole agli avversari che si collocarono sui due segni marcati nell'arena. Attilio doveva batter tre volte palma a palma ed alla terza i combattenti potevano avanzare e far fuoco a volontà.
Già i due colpi eran battuti e le mani erano alzate per il terzo segno quando una voce dal lido, ove si trovavano le gondole gridò: "Fermi!" ed i quattro volgendo lo sguardo videro uno dei gondolieri, canuto e di aspetto venerando, che si affrettava correndo verso di loro.
"Fermi!" ripeteva ancora il vecchio venendo avanti e non si fermò se non giunto che fu tra i due armati. Allora cominciò con voce alquanto tremante ma maschia e sonora, tanto che pareva incompatibile col mucchio d'anni indicato dalla sua canizie: "Fermi! figli d'una stessa madre, l'atto che voi siete per compiere, macchierà l'uno dei due col sangue d'un concittadino! Non potrebbe essere versato invece a prò di questa terra infelice, cui tanto ancora resta a fare, per raggiungere la indipendenza a cui agogna da secoli. Tra voi, il vinto morirà senza una parola d'affetto, una benedizione de' suoi cari: il vincitore rimarrà coll'aspide del rimorso nel cuore tutta la vita! Oh voi! che ai lineamenti gentili io conosco nati su questa terra di pianto. Non ha l'Italia molti nemici ancora, e non abbisogna essa di tutte le braccia de' suoi figli per scuoter le secolari catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre donne, chi dei due sia più valoroso".
Le onde dell'Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie del vecchio sull'ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l'aristocratica origine intimò al vegliardo: "ritiratevi".
Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono, ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata nella destra e coll'occhio fisso l'uno sull'altro senza battere palpebra col meditato intento dell'omicidio.
A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell'avversario, s'avvicinò di più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore.
Il Sant'Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano? Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.
LX
ROMA

Il due dicembre il despota della Senna, l'Imperatore-menzogna (75), il nemico di tutte le libertà, il protettore di tutti i tiranni, dopo diciassett'anni di perverso dominio colla stessa ipocrisia con cui la tenne schiava, liberò la Niobe delle nazioni, la vecchia metropoli del mondo, la dominatrice, la martire, la più grande delle glorie umane!
Egli fu il continuatore della vendetta universale. Totila alla testa delle feroci sue orde conquistava Roma, la distruggeva, ne sterminava la popolazione ed era questa giustizia di Dio! "Morrà di ferro chi uccide col ferro!"
Perché i romani vollero dominare il mondo? perché dalle fertili contrade assegnate loro dalla natura vollero scorrere tanta parte di mondo aggiogando sino le nazioni le più remote derubandole, disertandole?
I popoli della terra portarono per contraccambio ai loro tiranni servitù, rovine, miserie.
Il continuatore degli Attila e dei Totila non men depredatore di loro gettossi lui pure sulla facile preda e palpitò di gioia il fallace suo cuore mentre la stringeva tra le ugne!
Che bell'appannaggio al crescente principino!... Parodia del gran zio.
Ci vuol altro! Alle grandi opere, si richiede un alto cuore; ed il figlio dell'ammiraglio olandese (Si dice il Bonaparte III figlio di un Ammiraglio Olandese), sortì cuore piccino, e codardo!
Eppure in tutti gli atti della sua vita, si scorge la presunzione d'imitare lo zio ma nello stesso tempo si vede la mancanza di energia, di genio per l'esecuzione.
I barbari antichi conquistarono e fecero un mucchio di rovine della superba conquistatrice, il moderno barbaro, il devoto camuffato da gesuita, non distrusse, non ruinò, ma considerò roba propria la grande preda. Poi, indebolito dalle lascivie e dagli anni, scosso sino alle fondamenta l'insanguinato suo trono dalle fallite imprese americane ove avea tentato, il malvagio, di dare il colpo di grazia al santuario della libertà del mondo, alla grande Repubblica, edificando alle sue porte un impero austriaco per farsi perdonare dai coronati, la sua origine plebea, l'apostata della Rivoluzione, mutò in parte pensiero.
Distruggere la libertà sulla superficie della terra per ottenere la concessione d'un posticino al banchetto della tirannide!! Povera Francia! a che fosti ridotta!
E il governo Italiano ha accettato l'eredità dell'imperatore-menzogna. Far il birro al Negromante del Vaticano, obbligarli a soggiacere al governo del S. Uffizio. Rinunziare alla capitale d'Italia, proclamata dallo stesso Governo Italiano, votata e sancita dal suo Parlamento: ecco l'opera del Governo.
Io credo che governo più codardo sia impossibile trovare nelle storie antiche e moderne e bisogna che sia proprio destino dell'umanità che si debba trovare accanto al bene tanto male, tante umiliazioni, tanta perversità!
Ho detto "accanto al bene" poiché non si può negare essere l'unificazione italiana un miracolo di bene, ad onta degli sforzi fatti da governi e da sette più o meno nere, per trattenere, e far retrocedere questo povero paese, impoverendolo, pervertendolo con ogni modo di depravazioni e di menzogne.
Governo! si può egli chiamar governo quest'agenzia di corruzione!?
Grazie ad essa il popolo è ridotto: ad una metà comprata per aggiogare l'altra, tenerla nel servaggio e nella miseria!
Salve! valoroso popolo del Messico! Oh! io invidio la tua costanza e la tua bravura nella liberazione del tuo bel paese dai mercenari del despotismo!
Accettate, coraggiosi nipoti di Colombo, dai vostri fratelli d'Italia, un saluto alla vostra libertà redenta!
A voi s'imponeva la stessa tirannide e la spazzaste come la fantesca spazza le immondizie. Noi soli!... garruli, pieni di preterizioni, vani, millantando glorie, libertà, grandezze!... e legati per il collo... imbavagliati! troppo liberi per le ciarle ma inetti a compiere quella ricostituzione politica che sola può darci il diritto di sedere accanto alle libere nazioni.
Tremanti dinanzi al despotismo d'un abbietto tiranno straniero, noi non osiamo, per paura che ci castighi, passeggiare per casa nostra, dire al mondo che siamo padroni di noi, strapparci dal fianco il dardo che perfidamente ci ha conficcato.
E più umiliante, più degradante ancora è la condizione che il despota straniero ci ha imposta, lasciò la preda che l'anatema del mondo gli vietava e ne disse: Codardi! guardatela, fate da birri in vece mia, ma non la toccate!
Oh! Roma! patria dell'anima! tu, sei veramente la sola! l'eterna! Al disopra d'ogni grandezza umana anche oggi... sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può esser che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo!
LXI
VENEZIA ED IL BUCCINTORO

Le macchie del servaggio e le rughe della miseria il popolo alla fine le lava e le spiana col suo sangue. La classe intelligente e ricca dovrebbe una volta, capirlo e risparmiare all'umanità quelle orgie di macelli, che la deturpano e la riconducono sovente alla primitiva barbarie.
In altri tempi Venezia, seguendo l'impulso della sorella lombarda, lavava nel sangue molti anni di umiliazioni e di servaggio. Non così ora. Essa sorge dalla dominazione straniera, non per propria, ma per altrui virtù.
Oh! fosse almeno la libertà sua raggiunta per opera, per coraggio dei fratelli, pazienza! Ma chi la redime sono vittorie di stranieri.
Sadowa, gloria Prussiana, ha liberato Venezia! e la nazione italiana a niuno chiede ragione di tanto sfregio!
Eppure le nazioni, come gli individui, abbisognano di dignità per vivere e più della vita dell'anima abbisognano che non della vita del ventre a cui ci vogliono condannare i reggitori nostri.
Un giorno la regina dell'Adriatico portava il suo superbo leone nel lontano oriente, rintuzzava il conquistatore Ottomano e vi dettava la legge. I monarchi dell'Europa, collegati e sorretti dalle gelose italiane repubbliche, movevan compatti contro le lagune ed eran respinti dai coraggiosi repubblicani. Chi riconosce oggi quei fieri concittadini di Dandolo e dei Morosini?
Per liberarsi, abbisognano dello straniero. Liberi si gettano nelle file delle raschiature di Seiano (Così Guerrazzi chiama i moderati), setta propensa a tutte le umiliazioni! a tutti gli obbrobrii!


Come la tirannide trasforma le più nobili creature in abietti ermafroditi! e non siete soli o veneti! Tali ho pur veduto i discendenti di Leonida e di Cincinnato.
La schiavitù imprime sulla fronte dell'uomo un marchio tale d'infamia e di depravazione da renderlo irriconoscibile da confonderlo coi beati abitatori delle foreste.
Eppure, umiliato come fu ed è ancora, il popolo italiano non dimentica i suoi divertimenti, le sue feste. "Pane e giuochi" esso grida ai nuovi tiranni come già gridava agli antichi. Ed il prete in ispecie per compiacerlo, per ingannarlo e corromperlo, si è ravvolto in un ammasso di pompe e di cerimonie da oltrepassare tutto quanto ci narra la storia dello sfarzo in cui gli impostori dell'antichità si avviluppavano.
Non parlate di politica, non ci pensate! pagate e spogliatevi di buona grazia per grassamente mantenere i vostri scorticatori. Poi, di giuochi, di divertimenti, di prostituzioni ve ne lasceremo a dovizia.
Le sponsalizie del mare erano delle cerimonie predilette del popolo di Venezia, quando questo popolo era padrone di sé, aveva un governo proprio e questo governo era presieduto dal Doge.
Nel giorno prefisso per la festa il Buccintoro, la più splendida galera della repubblica, mirabilmente adorno e imbandierato, risplendente di arazzi e di dorature con a bordo il Doge, la maggior parte dei membri del Governo, gli ambasciatori stranieri e le più cospicue tra le belle signore di Venezia in gala, moveva al suono della musica dal palazzo di S. Marco e s'avviava verso l'Adriatico.
Facevan corteo al Buccintoro altre molte galere ed un numero immenso di gondole, tutte parate a festa e portanti la maggior parte della popolazione.
Eri pur bella in quei giorni fatata regina! quando i tuoi Dandoli, i tuoi Morosini, seppellivano nel seno di Anfitrite l'anello maritale e la dichiaravano sposa propiziandola agli arditi navigatori delle lagune!... Oh! salve! Repubblica di tredici secoli, vera matrona delle Repubbliche! Oh! se alle pompe de' tuoi sponsali avessi associato un fraterno banchetto colle altiere tue consorelle italiane lo straniero all'erta sulle vostre discordie non vi avrebbe certo calpestate tutte e ridotte in servaggio!
Cancellate le cicatrici delle vostre catene, spianate le rughe che la miseria impresse sulla vostra fronte, non dimenticate ringhiose! le umiliazioni per cui siete passate e rammentate che unite potrete sempre sfidare ogni prepotenza straniera.
Il solitario, appoggiato ad un balcone del palazzo Dogale che dava sulla laguna, in compagnia delle nostre belle romane, di Muzio, Orazio e Gasparo, ascoltava un vecchio Cicerone che gli narrava le antiche glorie della Repubblica e dopo aver parlato d'ogni cosa, giungendo alla descrizione della festa del Buccintoro, esprimeva il rammarico di non aver più nemmeno la speranza di rivedere una di quelle feste ed accennava al sito ove dal molo partiva il legno famoso.
Seguendo la direzione del dito, l'occhio di Muzio si fermò su di una figura ben conosciuta che si teneva in piedi in una gondola col gomito appoggiato al felze e stava per approdare ai gradini della piazza.
Sparì Muzio e in un lampo comparve al cospetto di Attilio che scendendo strinse la mano dell'amico ed appena potè articolare la mesta parola "morto!".
"Dunque era destino, che questo resto di grandezza romana venisse qui a finire" mormorò l'ex mendico avendo in parte inteso e parte indovinato la fatale storia. "Egli morì da prode" disse il capo dei trecento. E molti italiani sanno morire da prodi, pensava Muzio, ma fosse almeno contro i loro oppressori!
"Io torno alla comitiva, disse Muzio, m'intenderò col solitario acciocché devii la passeggiata per altra parte perché Irene ed Orazio non abbiano ad abbattersi nella salma del loro caro. Ti raggiungerò poi con Gasparo".
LXII
LA SEPOLTURA
"Un sasso! Che distingue le mie dall'infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte". (Foscolo)
Io, idolatra del Carme dei sepolcri del grandissimo poeta, sono per l'onoranza ai morti e veramente, credo, che onorare la virtù nei defunti serva d'incentivo ai viventi per imitarli. Ma quando si pensa alle smodate cerimonie con cui il pretismo accompagna il viaggio finale della salma d'un potente non si può a meno di deplorare le spese e lo sfarzo.
La morte! quel tipo vero dell'uguaglianza che distrugge inesorabilmente ogni superiorità mondana e confonde in un ammasso di putredine gli avanzi dell'imperante e del mendico! la morte deve stupire di tanta differenza fra i funerali del povero e quelli del ricco! Deve stupirsi di tanto apparato alla sepoltura d'un cadavere, ridere direi (se la morte potesse ridere) per tante fandonie di lutto che sovente altro non è che gioia nell'animo del vorace erede e nei più, indifferenza.
E i piagnistei per moneta non sono cose da far compassione? Io ho veduto in Moldavia (e lo credo uso d'altri paesi) all'accompagnamento del cadavere d'un Bojardo una frotta di donne pagate per piangere.
E che pianto! e che grida, mandavano quelle sciagurate! Del dolore che ne risentivano, lascio giudicare i miei lettori. Colesti piagnistei li ho ricordati qualche volta, alla lettura delle discussioni parlamentari, ove certa gente pagata o che spera d'esserlo si sfiata ripetendo dei "bravo, bravissimo" alle insulse e sovente liberticide ragioni di questo o di quell'altro primo ministro.
Il feretro del principe T. fu seguito da molta gente perché si seppe egli essere un principe e nella massa degli uomini che accompagnavano il titolo per altro colla maggiore indifferenza, si distinguevano pure alcune fisonomie meste e queste erano i veri amici del defunto: Attilio, Muzio e Gasparo. Quest'ultimo si vedeva chiaro avere gli occhi gonfi dal pianto.
La fiera natura del vecchio sovrano della campagna di Roma era stata scossa dalla perdita del suo amico e padrone a cui s'era affezionato sinceramente il che provava la buona indole dell'uno e l'eccellente cuore dell'antico proscritto.
Piangeva egli il principe? No! egli piangeva l'amico, il benefattore!
Quanti amici potrebbero avere i grandi della terra ed a poco costo se volessero aprire l'anima loro alla beneficenza e far sentire men dura l'ingiustizia della sorte a coloro cui fu matrigna.
Molti io conosco tra i grandi benefici, anzi angeli di bontà tra il sesso vezzoso, ma sono pochi in paragone delle moltitudini sofferenti e la maggioranza dei favoriti della fortuna non solo è indifferente pei tapini ma li sprezza, li scaccia da sé, li scortica in mille modi.
Cura di governo dovrebbe essere quella di migliorare la condizione del povero e non è così sventuratamente. I governi pensano alla propria conservazione e per consolidarsi corrompono gran parte del popolo col fine d'avere dei satelliti e dei complici.
La massa dei benestanti potrebbe in gran parte correggere questo capitale difetto dei governi sorreggendo i miseri e migliorandone la sorte ma non lo fanno. Pure loro sarebbe facile! se soltanto volessero privarsi d'una parte del loro superfluo. Il povero manca del necessario per sostentarsi e il ricco nuota tra le copiose vivande e gli squisiti e variati vini il più delle volte nauseato dell'abbondanza e dalla penosa sazietà.
"A che tanto dolore per la perdita d'un nostro nemico, signor Capitano?" Queste parole furon precedute da un picchio sulla spalla destra dato a Gasparo da una figura singolare che gli veniva dietro nel funebre convoglio. Il vecchio voltossi, stette un momento a considerare il famigliare suo interlocutore, e poi con una esclamazione poco convenevole alla santità della circostanza e con
sorpresa dei vicini "Accidenti ai settandue! (I 72 cardinali--bestemmia dei Romani) Ma sei proprio tu Marzio?!"
"E chi ha da essere altro che il tuo luogotenente, mio venerabile comandante!".
Oh Dumas! Oh romanzieri francesi! che magnifica scena per voi! Qui, avevate veramente il tipo del brigand italien.
Il vegliardo, in molti mesi di vita principesca, avea alquanto ripulita la sua fisionomia brigantesca, ma Marzio conservava il feroce aspetto del masnadiero romano. Alto della persona e quadrato, era difficile sopportare senza un brivido di timore lo sguardo tagliente che due nerissimi occhi vi lanciavano saettandovi. La sua chioma, nera e pulita come l'ala del corvo contrastava colla lunga barba dello stesso colore brizzolata di grigio in molte parti. Le sue vesti eran forse poco diverse da quelle portate, quando spargeva il terrore per le romane campagne ma alquanto più pulite. Il famoso farsetto di velluto nuovo, non mancava, e se non si vedevano al di fuori di quell'indispensabile accessorio del brigante pistole o daghe. Un coltello-pugnale era di certo religiosamente nascosto dalla parte di dentro. I cappelli sono portati in diversa foggia anche dai briganti e Marzio portava il suo un po' inclinato sulla destra, però di forma somigliante ad un cappello d'operaio. Le ghette di cuoio erano state abbandonate da Marzio ed il suo abito di color azzurro con ampie saccoccie non offriva oltre l'ampiezza alcun'altra singolarità.
La circostanza non era opportuna a lunghe espansioni. Si leggeva però su quelle due straordinarie fisonomie un vero e mutuo sentimento di piacere e di simpatia.
Tant'è; io sono innamorato dei briganti e se fossi una donna chi sa, che non diventassi una brigantessa.
In questi tempi ove la gloria e l'onore italiano hanno avuto certi spiacevoli sfregi, dico il vero: quel pugno d'uomini chiamati briganti che per sette anni si sostiene contro un esercito numeroso altri due eserciti di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza un quarto esercito di guardie nazionali ed un'intiera ostile popolazione; quel pugno d'uomini dico: chiamateli come volete, sono almeno uomini di grande coraggio. E se voi signori governanti in luogo di mantenere la scellerata istituzione "prete" vi foste adoperati all'istruzione del popolo quegli stessi briganti in luogo di essere stromenti di reazione pretina sarebbero oggi nelle file nostre dandovi l'esempio del come si
combatte, uno contro venticinque.
Dunque: Viva i briganti! meno gli assassini, s'intende.
E ancora una parola all'orecchio, signori alto-locati che m'intend'io!
Quando voi assaltaste le mura di Roma (per devozione lo si sa) foste voi meno briganti derubando e sgozzando un povero popolo che vi credeva amici. Voi, non solo siete briganti, ma per di più traditori!
Ma mi direte: quelli erano repubblicani, gente infesta al mondo. E cosa eravate voi, signor Menzogna? non repubblicano certamente, perché per esserlo bisogna essere onesto. E... quanto ad onestà vi lascio metter la mano sulla coscienza... se pure ne avete una.
E a Castelfidardo, a Gaeta, non erano republicani che assaltavate! Con che legalità, con che diritto di genti? né più né meno di quello che vanti un brigante sulla strada od in casa colla sola differenza, che il brigante spoglia, e non sempre uccide, e vi siete imbrattate le mani nel sangue innocente.
Chiedo perdono al lettore d'averlo piantato per tanto tempo nel poco piacevole funerale d'un principe per disgredire favellando di grande e piccolo brigantaggio.
Giunto il convoglio al camposanto e sepolto il cadavere non una voce vi fu che in suo onore dicesse una parola di orazione funebre. Il povero principe con tutta la sua volontà di fare il bene n'era stato impedito da prematura morte.
E che cosa si sarebbe potuto dire di bontà, d'eroismo o d'altre qualità commendevoli non avendo egli avuto il tempo d'esercitarle?

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