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Elogio della Follia
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53 - I TEOLOGI  PAZZI PIU' DI TUTTI
Forse sarebbe meglio non parlare dei teologi, evitando di stuzzicare questi vespai  o di smuovere questa materia puzzolente, perché, boriosi e irritabili come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere con centinaia di argomenti, costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero senz'altro di eresia, essendo questo il fulmine con cui di solito atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure, ancorché siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell'alta opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la loro dimora, e li induce a guardare dall'alto in basso con una sorta di commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano a terra, mentre loro, trincerati dietro un valido esercito di magistrali definizioni, conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite, a tal segno abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con distinzioni che recidono ogni nodo con una facilità che neppure la bipenne di Tenedo possiede, inesauribili nel coniare termini nuovi e parole rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri che sono a base della creazione e dell'ordinamento del mondo; per quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di generazione in generazione; in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si è formato nel grembo della Vergine; come nell'Eucaristia ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma queste sono cose risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi e illuminati - così li chiamano. Quando se le trovano di fronte si esaltano:

"Qual è l'istante della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è sostenibile la proposizione "Dio Padre odia il Figlio"? avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? In caso affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? Infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere?". Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fino da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, fatta eccezione di un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre più profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Aggiungi sentenze così paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano al confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore è delitto più grave che strangolare mille uomini; che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ché usciresti prima dai labirinti che non dalle oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte le scuole, ma solo le principali.

In tutte c'è tanta erudizione, tanta astrusità, che, secondo me, persino gli Apostoli, se si trovassero a dover discutere con questi teologi di nuovo genere, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo. Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che "la fede è sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi", dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente fece professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima epistola ai Corinzi, un'analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano l'Eucaristia con la dovuta pietà. Non credo però che, interrogati sul termine A QUO e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull'ubiquità di un medesimo corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell'Eucaristia; sull'istante in cui avviene la transubstanziazione, dovuta com'è ad una formula composta di più parole distinte, e quindi a una quantità discreta in divenire: non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel definire, gli Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti.

Avevano conosciuto la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l'ineccepibile metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito - certo non ne ha mai colto la sottigliezza - la questione del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico: "Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito e verità". Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell'aureola che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità infusa e carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata. Detestano il peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. L'insegnamento di Paolo può essere preso come punto di riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli; ebbene, io non potrei mai indurmi a credere che egli avrebbe così spesso condannato le questioni, le discussioni, le genealogie e quelle che chiamava logomachìe, se fosse stato un esperto nell'argomentare. E sì che le dispute dei suoi tempi erano senz'altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri maestri che potrebbero dare punti a Crisippo.

Anche se poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono un'accettabile interpretazione Quest'onore tributano in parte all'antichità, in parte all'autorità degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva mai sentito far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica in Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: "affermazione respinta". Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi miracoli più che con i sillogismi. D'altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle "questioni quodlibetali" di Scoto. Al giorno d'oggi, qual mai pagano, qual mai eretico non si darebbe senz'altro per vinto di fronte a tante capillari sottigliezze? Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto privo di ritegno da scoppiare in sconce risate; o, infine, così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un mago di fronte a un mago, o un duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope. Secondo me i cristiani darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gl'invitti albertisti, e con essi l'intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato? chi tanto avveduto da non restarne accecato?

Ma voi credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne è di più dotti, che tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio esecrando, e il massimo dell'empietà, parlare con linguaggio così volgare di cose tanto misteriose, oggetto d'adorazione più che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e concetti così poveri e addirittura sordidi.

Nel frattempo, però, gli altri rimangono pieni di sé, addirittura si battono le mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare da certa rovina la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera? Esigere che le proprie conclusioni, già accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l'oracolo, sentenziano: "Proposizione scandalosa"; "proposizione irriverente"; "questa odora di eresia"; "questa suona male". Per fare un cristiano non basta più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né san Girolamo, né sant'Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l'insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: "vaso da notte, tu puzzi" e "il vaso da notte puzza"; oppure: "bolle la pentola" e "la pentola bolle"?

Chi avrebbe liberato la Chiesa da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno tutto ciò? o quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti, creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal segno la loro testa è infarcita di una miriade di sciocchezze del genere che, secondo me, nemmeno quella di Giove era così gonfia quando, sul punto di partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perciò non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe.

A volte, anch'io rido del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto più si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d'ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignità delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella dei teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi agli Dèi quando vengono salutati con venerazione quasi religiosa, e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell'appellativo qualcosa di simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un'empietà non scrivere "Magister noster" tutto in lettere maiuscole. Se poi qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister", di colpo annullerebbe la maestà del nome teologico.

54 - I RELIGIOSI E I MONACI - SATIRA DELLA LORO PAZZIA
Quasi altrettanto felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci, usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione; e nessuno s'incontra in giro più di questi pretesi solitari. Non vedo che cosa potrebbe esserci di più miserando di loro, se non ci fossi io a soccorrerli in tanti modi. Perché, pur essendo questa genìa a tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale con qualcuno di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia nell'illusione di essere chissà che cosa. In primo luogo ritengono che il massimo della pietà consista nell'essere tanto ignoranti da non sapere neppur leggere. Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi, di cui sono in grado di indicare a memoria il numero d'ordine senza peraltro capirli, sono convinti d'accarezzare in modo dolcissimo le orecchie degli Dèi. Neppure mancano quelli che vendono a caro prezzo il loro sudiciume e l'andare in giro mendicando: dinanzi alle porte chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c'è albergo, non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo danno degli altri mendicanti. Cosi, queste carissime persone, dicono di darci un'immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza, rozzezza, impudenza.

E cosa c'è di più divertente del loro fare tutto secondo una regola, quasi in base a un calcolo matematico che sarebbe delittuoso violare? Quanti nodi deve avere il sandalo; di che colore deve essere il cordone; quale il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e di quale larghezza la cintura; di che tipo e di che capacità il cappuccio; quale la precisa misura della chierica; quante ore vanno concesse al sonno? Eppure, quanta diversità, chi non lo vede, in questa uguaglianza imposta a corpi e temperamenti così vari! Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo si considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro si disprezzano a vicenda e, pur professando la carità apostolica, fanno un'autentica tragedia di una cintura diversa o di un colore un po' più scuro. Ne potresti vedere di così rigidamente attaccati alla regola da portare esclusivamente vesti di lana di Cilicia, e biancheria di lino di Mileto; altri, al contrario, portano vesti di lino e biancheria di lana. C'è chi, odiando toccare il danaro come fosse veleno, non si astiene comunque né dal vino né dalle donne. Infine, mirabile in tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto a regola di vita, e questo, non nell'intento di guardare a Cristo, ma per distinguersi tra di loro.

Buona parte della loro soddisfazione deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome di Cordiglieri, distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del nome di Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti, altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco. Gran parte di costoro, a tal punto dà peso alle proprie cerimonie e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che Cristo, non facendo alcun conto del resto, chiederà loro se hanno osservato il suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà il pancione gonfio di pesci d'ogni specie; un altro rovescerà al suo cospetto centinaia di moggi di salmi. Un altro ancora farà il conto degli infiniti digiuni; se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, è stato per quell'unico pasto che si concedeva... dopo. Altri ancora mostrerà il mucchio delle cerimonie a cui ha partecipato, tanto greve che a malapena potrebbero trasportarlo sette navi da carico. Qualcuno si vanterà di avere oltrepassato i sessant'anni senza toccare denaro, se non con le mani protette da due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e grassa che neanche un marinaio se ne gioverebbe. Chi ricorderà di avere fatto per più di undici anni la vita dell'ostrica, sempre attaccato allo stesso luogo; e chi si farà un merito della voce divenuta rauca per l'ininterrotto cantare, o del rimbecillimento derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa torpida dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo queste vanterie che altrimenti rischierebbero di non finire più, "Di dove viene, dirà, questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa non si fa parola. Pure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di parabola, ho promesso l'eredità del padre mio non alle cocolle, non alle giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carità. Non conosco questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero sembrare anche più santi di me, occupino, se vogliono, i cieli dei seguaci di Abraxas, o si facciano edificare un nuovo cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai miei precetti".

Quando sentiranno queste parole, e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che faccia credete che si guarderanno a vicenda?

Nel frattempo si beano della loro speranza, e non senza mio merito. E poi, benché lontani dalla vita pubblica, nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare, perché attraverso la cosiddetta confessione conoscono senza eccezione i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro, è peccato, salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi di qualche racconto più divertente; ma anche allora raccontano i fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi calabroni, predicando al popolo, se ne vendicano a misura di carbone, e bollano il nemico con allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce proprio nulla. Né la smettono di latrare, se prima non gli hai gettato il boccone in bocca.

Eppure, quale commediante, quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando nella predica s'esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta ridicolaggine, s'attengono nel modo più spassoso alle norme sull'arte del dire tramandate dai maestri? Dio immortale! come gesticolano! E come cambiano voce! E come canterellano! Come si spenzolano verso l'uditorio e come mutano espressione! come punteggiano tutto con urla! Quest'arte oratoria viene trasmessa come un segreto da un fraticello all'altro: sebbene non mi sia concesso di venirne a conoscenza, tenterò comunque di procedere per congetture.

Scimmiottando i poeti, cominciano con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità, prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono trattare del mistero della Croce, prendono opportunamente gli auspici da Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro discorso è la fede, premettono una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido, scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare il mistero della Trinità, volendo fare cosa che suonasse gradita all'orecchio dei teologi, e mettere al tempo stesso in mostra la sua non comune dottrina, si dette a battere una strada affatto nuova. Partì dalle lettere dell'alfabeto, dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo e dell'aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia dei più, anche se non mancava qualcuno che borbottava tra sé le parole d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente arrivò al punto di dimostrare che l'immagine di tutta la Trinità scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale che nessun matematico potrebbe disegnarla con più evidenza nella polvere. E nel comporre questa orazione, quel teologo principe per otto mesi interi aveva faticato tanto, che anche oggi è più cieco di una talpa, senza dubbio per avere consumato tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto il successo con poca spesa.

Ho ascoltato un altro ottuagenario, un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns Scoto redivivo. Dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con mirabile sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. Perché il fatto che la sua declinazione abbia tre casi soli è segno manifesto della divina Trinità. Il mistero ineffabile poi, sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S, il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano che è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più ostico, da risolversi col calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una lettera, in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli Ebrei è SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai peccati. Per l'originalità dell'esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare, sì che per poco non toccò loro la sorte di Niobe; mentre a me quasi successe come al Priapo di legno di fico che, con suo grave danno, si trovò ad assistere ai riti notturni di Canidia e di Sagana. E non a torto. Infatti, quando mai il greco Demostene, o il latino Cicerone, sono andati ad escogitare un simile esordio? Essi ritenevano difettoso un proemio che troppo si scostasse dal tema: neanche i bifolchi, che hanno la natura per guida, esordiscono così. Ma questi dotti ritengono che il loro preambolo - così lo chiamano - raggiunga il massimo della potenza retorica quando proprio non ha nulla a che fare col resto del discorso, tanto che chi ascolta meravigliato finisce col dire tra sé: "ma dove si va a finire?". In terzo luogo commentano, tirandone fuori un raccontino, qualche breve passo del Vangelo, ma frettolosamente e quasi incidentalmente, mentre questo solo era il punto da sviluppare. In quarto luogo, cambiando parte in commedia, sollevano un problema teologale, che talvolta non sta né in cielo né in terra. Anche questo ritengono conforme alle regole dell'arte. Qui finalmente assumono piglio teologico, riempiendo gli orecchi degli ascoltatori di famosi nomi di dottori solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. Allora sbandierano davanti ad una folla ignorante sillogismi, maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive di mordente e decisamente scolastiche. Resta ormai il quinto atto, in cui l'artista deve rivelarsi in tutta la sua bravura. A questo punto tirano in ballo una qualche rozza e sciocca storiella, tolta, penso, dallo SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA ROMANORUM, e ne offrono un'interpretazione allegorica, tropologica, ed anagogica. Così portano a compimento la loro Chimera, qualcosa che neppure Orazio riusciva a immaginare quando scriveva: "aggiungete ad una testa d'uomo, ecc.".

Da non so chi, hanno poi sentito dire che l'inizio dell'orazione deve essere basso di tono. Perciò cominciano con una voce così bassa che neanche loro la sentono, come se il parlare servisse quando nessuno capisce. Hanno anche imparato che, a volte, per suscitare emozioni, è opportuno erompere in un grido. Perciò, a metà di un discorso concitato, all'improvviso si mettono a strillare furiosamente, senza il minimo bisogno. Quegli scoppi di voce che nulla giustifica ti farebbero giurare di trovarti davanti a casi da trattare con l'elleboro. Inoltre, avendo appreso che il discorso deve animarsi via via che procede, quando, bene o male, hanno esaurito l'inizio delle singole parti, a un tratto adottano un tono appassionato, anche se l'argomento è dei meno interessanti, e finiscono col concludere dando l'impressione di essere esausti.

Avendo infine imparato che i retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre qualche battuta scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con un tale senso d'opportunità, da farti dire che sono come l'asino davanti alla lira. Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare più solletico che ferite. Né riescono mai ad adulare meglio di quando fanno mostra di non aver peli sulla lingua. Infine tutto il loro stile è tale da farti giurare che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone però molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto da non lasciare dubbi: o i ciarlatani hanno imparato la retorica dagli oratori, o gli oratori dai ciarlatani.

Nondimeno, certo per opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui si curano di parlare in modo gradito, perché i mercanti, opportunamente lisciati, sono inclini, di solito, ad elargire una piccola parte del mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre ragioni, sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perché è loro costume attingerne conforto quando vogliono sfogare i propri malumori coniugali.

Vi rendete conto, suppongo, di quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando tra i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole sciocchezze e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant'Antonio.

55 - CONTRO I RE E I LORO CORTIGIANI
Non mi par vero di concludere, oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati nel nascondere ciò che mi devono, quanto empi nell'ostentare una finta pietà religiosa.

E' giunto il tempo di trattare un po', con tutta schiettezza, dei re e dei prìncipi di corte, che, come si conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima sincerità. Se, infatti, avessero solo una briciola di senno, che vi sarebbe di più malinconico, o di meno desiderabile, della loro vita? Né riterrà che valga la pena d'impadronirsi del potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri l'entità del peso che grava sulle spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi. Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi dell'integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli occhi di tutti, può, a guisa di astro benefico, giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all'estrema rovina. I vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si propagano tanto. Ma se il principe, con la posizione che occupa, si scosta appena dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini. Inoltre poiché la condizione del principe porta con sè parecchie cose che di solito inducono a tralignare piaceri, libertà, adulazione, lusso - tanto più attentamente egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al proprio compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima gli chiederà ragione anche della colpa più lieve, e tanto più severamente quanto più prestigioso fu il suo imperio. Se il principe riflettesse su queste cose e su moltissime altre del genere - e ci rifletterebbe se avesse senno - non dormirebbe, credo, sonni tranquilli, né riuscirebbe a gustare il cibo.

Col mio aiuto, i prìncipi lasciano, ora, tutti questi motivi d'affanno nelle mani degli Dèi, e se la spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, perché una punta d'ansia non abbia mai a levarsi dal fondo del cuore. Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un principe, se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita per trarne un utile magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro sostanze, facendole confluire nel loro tesoro privato: ma trovando dei pretesti, tanto da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare comunque le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione. Dovete immaginare un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con un'autentica avversione per la cultura, la libertà e la verità, che non si cura minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura le proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una collana d'oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virtù riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche. Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza dell'animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo Stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare solo vergogna della sua pompa, e col temere che qualche critico salace non si prendesse gioco di lui volgendo in beffa questo apparato scenico.

56 - CONTINUA
Che dirò dei cortigiani più segnalati? Benché nulla vi sia di più strisciante, di più servile, di più sciocco, di più spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto. In una cosa sola sono modesti all'estremo: paghi di portarsi addosso oro, gemme, porpora ed altre insegne della virtù e della sapienza, lasciano sempre agli altri il privilegio di praticarle. Si ritengono molto fortunati perché possono chiamare "mio signore" il re, perché hanno imparato un saluto di tre parole, perché sanno intercalare titoli onorifici: Serenità, Maestà, Magnificenza; perché sono abilissimi nel deporre ogni pudore quando si tratta di ricorrere a complimenti adulatori. Queste, infatti, sono le arti di un vero nobile, di un vero uomo di corte. Del resto, se vai a guardare più da vicino il loro costume di vita, troverai degli autentici Feaci, dei pretendenti di Penelope - il resto del verso lo conoscete, e l'Eco ve lo ripete meglio di me. Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano. Poi la colazione e, a mala pena terminata, è già ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli scacchi, le lotterie, i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i giochi, le insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a tavola, si cena; a questa seguono i brindisi, non uno solo, per Giove. E così, senz'ombra di noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Io stessa, a volte, mi allontano col voltastomaco quando li vedo, quei magnanimi, in mezzo alle donne, ognuna delle quali si crede tanto più vicina all'Olimpo quanto più lunga ha la coda, mentre i grandi fanno a gomitate per mostrarsi più vicini a Giove, e ognuno tanto più è beato quanto più pesante ha la catena al collo, segno manifesto, non solo di ricchezza, ma anche di robustezza.

57 - I VESCOVI
Già da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno a modello il genere di vita dei prìncipi, e con un successo forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della veste di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune da ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell'arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza è tutta occhi.

58 - I CARDINALI
Altrettanto dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po' anche al loro paludamento e si chiedessero: che significa il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa l'ampio mantello che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la cavalcatura di sua Eminenza, e che basterebbe a coprire anche un cammello? Non significa forse la carità che ovunque si diffonde per venire in aiuto a tutti, cioè per insegnare, esortare, consolare, rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi ai prìncipi malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie ricchezze, ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero poco alla carica: deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate, alla maniera degli antichi Apostoli.

59 - CONTRO I PAPI
Ora è la volta dei sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno più di loro si troverebbe a soffrire, se tentassero di imitarne la vita: povertà, travagli, dottrina, croce, disprezzo del mondo; se pensassero al loro nome PAPA, cioè padre, e alla loro qualifica di SANTISSIMO! Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti vantaggi dovrebbero dire addio, se la saggezza riuscisse appena a farsi sentire! Ma che dico, saggezza? Dovrei dire un grano di quel sale menzionato da Cristo. Addio a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze, e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate un po' che mercato, che razza di messe rigogliosa, che mare di ricchezze ho concentrato in poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime, preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. Ancora - particolare non trascurabile - sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari, mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani - e stavo per aggiungere un'espressione più sguaiata, ma temo che offenda l'orecchio, insomma, una così folta schiera che costituisce l'onere - è un LAPSUS, volevo dire l'onore - della curia romana. Sarebbe proprio inumano, anzi un delitto abominevole! ma sarebbe molto peggio riportare al bastone e alla bisaccia quei sommi prìncipi della Chiesa, che sono la vera luce del mondo.

Ora, se fatiche ci sono, si lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno tanto, e si mantengono per sé la gloria e il piacere, quando ci sono. Così, col mio aiuto, non c'è quasi nessuno che più di loro faccia, in perfetta tranquillità, una gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo, se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha movenze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli: beatitudine, reverenza, santità; e benedizioni e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba d'altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.

Rimangono solo le armi e le "dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all'inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché le parole dell'Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito", essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall'amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici. Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell'oblio; legiferando all'insegna dell'avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l'insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.

Poiché la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, I'intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d'impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carità che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

60 - I VESCOVI TEDESCHI SONO DEI SATRAPI
Una cosa, continuo a chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando più per le spicce, tralasciando il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere, si comportano addirittura da satrapi, fino a considerare una specie di debolezza, e senz'altro una vergogna per un vescovo, rendere la valorosa anima a Dio altrove che su un campo di battaglia, sono stati loro a offrire il modello di un tale comportamento, o lo hanno a loro volta imitato?

Ma ormai la massa dei sacerdoti, considerando peccaminoso venire meno alla santità di vita dei presuli, levando il grido di guerra si dà a combattere per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie! e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi documenti qualcosa con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo debito va al di là delle decime! Né intanto ai sacerdoti vengono in mente i molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte loro, essi hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Sono gente buffa: sostengono di aver fatto tutto il loro dovere quando hanno borbottato alla bell'e meglio le solite giaculatorie, e io, per Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda, perché nemmeno loro sono capaci di udirle o di intenderle, pur gridandole con quanto fiato hanno in corpo.

C'è un punto, però, che i sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi ad accumulare guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire. Se poi c'è un peso da portare, prudentemente lo scaricano sulle spalle altrui, e lo fanno passare di mano in mano, in una sorta di gioco a palla. Come i prìncipi laici, delegano a vicari, settore per settore, le funzioni di governo, e il vicario, a sua volta, ricorre a un vicario in sottordine; così, per modestia, lasciano al popolo la cura di tutto quanto riguarda la religione. Il popolo la scarica su quelli che chiama ecclesiastici, come se per parte sua non avesse nulla a che fare con la Chiesa: pare che i voti pronunciati al battesimo non contino nulla. A loro volta, i sacerdoti che si denominano secolari, come se appartenessero al mondo più che a Cristo, scaricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare sui monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza più rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i soli presso cui, sepolta, si nasconde la pietà, ma così nascosta che a mala pena si può scorgerla.

Così fanno anche i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami più strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti, che, a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore.

61 - LA FORTUNA AIUTA I PAZZI
Ma io, qui, non mi propongo di passare in rassegna i costumi di pontefici e sacerdoti; non vorrei avere l'aria di comporre una satira, mentre è il mio elogio che pronuncio; né vorrei si credesse che, mentre elogio i cattivi prìncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato brevemente di queste cose per mettere in chiaro che nessuno al mondo può vivere felicemente, se non è iniziato ai miei misteri, e se non ha me dalla sua.

Come mai, infatti, la stessa dea di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto va d'accordo con me da avere giurato eterna inimicizia a questi sapienti, mentre ai folli ha donato ogni bene anche nel sonno? Voi conoscete il famoso Timoteo, che di qui ha preso anche il soprannome, ed il proverbio: "anche dormendo piglia pesci". C'è anche l'altro detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri sono i proverbi che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva stella"; "ha il cavallo di Seio e l'oro di Tolosa". Smetto le citazioni: non vorrei avere l'aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo.

Per tornare in argomento: la Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il motto "il dado è tratto". La saggezza, invece, rende piuttosto timidi; perciò comunemente vedete questi sapienti impegnati a combattere con la povertà, la fame, il fumo; li vedete vivere dimenticati, senza prestigio, senza simpatie: mentre gli stolti, ben forniti di soldi, raggiungono le alte cariche dello Stato e, per dirla in breve, prosperano in tutti i sensi. Infatti, se si ripone la felicità nel favore dei prìncipi, nell'entrare a far parte della cerchia di questi miei fedeli simili a Dèi ingioiellati, che c'è di più inutile della sapienza, anzi di più aborrito presso gente del genere? Se si vuole arricchire, che cosa può guadagnare un mercante attenendosi alla sapienza? Se terrà in qualche conto gli scrupoli dei sapienti sul latrocinio e l'usura, avrà ripugnanza a spergiurare; colto a mentire, arrossirà. Se si desiderano onori o benefizi ecclesiastici, un asino o un bue potrà aggiudicarseli prima del sapiente. Se è il piacere che ti muove, le fanciulle, che in questa storia hanno il posto d'onore, si danno di tutto cuore agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente e lo fuggono come fosse uno scorpione. Infine, chiunque si ripromette una vita in qualche misura lieta, comincia con l'escludere il sapiente, tollerando piuttosto qualunque altro animale. In breve, da qualunque parte tu ti volga, presso pontefici, prìncipi, giudici, magistrati, amici, nemici, grandi e piccoli, tutto si ottiene col danaro alla mano; ma il sapiente disprezza il danaro, e perciò, di solito, da lui ci si tiene lontani con la massima cura.

62 - ELOGIO DELLA PAZZIA PRESSO I CLASSICI
Ed ora, benché sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perciò smetterò di parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo perché qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a compiacermi di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di non produrre documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove senza preoccuparmi che siano pertinenti.

In primo luogo, tutti sono persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo è somma sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti così grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Già in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti. Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti più si estende, tanto più vale?

63 - LA SACRA SCRITTURA ESALTA LA PAZZIA
Ma forse per i cristiani l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e porcospino, perché dalla sua Sorbona per un po' si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di furto, come se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c'è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.

Torniamo in argomento. Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto". Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "Perché, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."

Ritorniamo all'Ecclesiaste. Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità", che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta un gioco della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc'anzi: "Tutto il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21] di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.

Alla stessa conclusione approda il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".

Non riteneva, infatti, che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia". E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo è l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare l'ultimo posto, il che è conforme al dettato evangelico.

Che poi la Follia è superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa è più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e dappoco?" Perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare per la strada oro e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli più segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde quanto è più prezioso, mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza è migliore dell'uomo che nasconde la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede nessuno suo simile? Così infatti intendo le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo lui stolto, crede che tutti lo siano". E non è forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri ciò che in te c'è di buono? Perciò il gran re Salomone non si vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo [Prov. 30, 2], disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il più dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse sconveniente.

Qui mi danno sulla voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie - cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa [il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]). Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue parole non cerca di farsi passare per più stolto degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato, con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri, rettifica: "ma io lo sono anche di più", perché nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia come copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire la verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli pazzi.

Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento.

64 - POLEMICA CONTRO INTERPRETAZIONI ARISTOTELICHE
Ma perché mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico, tanto è vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa: "Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi figli di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o cinque parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto. Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono tratti a invidiare i teologi.

Che mai hanno più da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di più ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco, Cristo, perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così poco equipaggiati da non avere né calzari contro le spine e i sassi, né bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non intenda il giusto significato di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo anche più inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non quella, però, di cui si servono predoni e parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla vi resti, salvo la pietà.

Orbene, state un po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo. Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non rendendo male per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio dei passeri e dei gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La comprino, a costo di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine spada indichi tutto ciò che può servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i bisogni vitali. Così l'interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perché non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato. Né il brav'uomo è turbato neppure dal fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato di comprare a così caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione.

C'è poi un altro, e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra" - ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.

Di recente partecipai io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. Poiché uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]: "Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona strada, evitalo". E più volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Finì con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico, e poiché qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorità irrefragabile: "State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico è malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici". Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione e all'ubriachezza.

65 - CONTINUA ANCORA
Sono una sciocca a volermi dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto è stato concesso a quei maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto esatte.

E ora, tornando finalmente a Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".

In Luca [34, 25] Gesù chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia di Dio è più saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio: "La parola della croce è follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].

Ma perché mai insisto nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è bisogno, se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e Cassio - mentre di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.

Lo attesta chiaramente san Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto", e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perché attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi".

E ancora quando Gesù lo ringrazia perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zofói ). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le più lontane dall'astuzia della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po' dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. Né c'è animale più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità di quell'animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome: "Ecco l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.

Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. Né volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della sapienza, quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.

Forse c'è anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Così infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa così: "E' chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non che non l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza della follia.

66 - LA RELIGIONE E' UNA FORMA DI PAZZIA
Per non dilungarmi all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.
Infine non c'è pazzo che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.

Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'è intenzione d'offesa; considerate piuttosto i fatti. C'è in primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò, finché l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi in piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora è pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito del divino.
Non c'è dubbio: questo accade perché la mente, libera in parte dall'influenza del corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell'ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati che in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell'antro afferma di avere contemplato le cose reali, e che loro s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista se non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti in così grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze, al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono esista perché l'occhio non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia: ossia all'anima, che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno, ed è come se non avessero; posseggono, ed è come se non possedessero. Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto, il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto, la volontà.

Dato che la potenza dell'anima risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone religiose, poiché tutta la forza dell'animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi, subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega così ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece di vino.
E anche fra le passioni dell'anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall'animo anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo è opera di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.
Con questo medesimo criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile, se non è da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai moti d'ira o di superbia, perché lo spirito già meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto dicasi della Eucaristia. Benché non vada sottovalutato l'aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura è pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cioè del contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui.
Queste le azioni, questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se, come ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio altro non è se non una forma di follia.

67 LA FELICITA' CELESTE E'UNA FORMA DI PAZZIA
Considerate in primo luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più gode. E quando l'animo si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si può parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è in sé", o anche "torna in te stesso", e "è tornato in se stesso"? D'altra parte quanto più è perfetto l'amore, tanto più è grande, tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo punto l'uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.

Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!

68 - CONCLUSIONE: HO SCHERZATO!
Dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne.
Vedo che aspettate una conclusione: lo vedo. Che stupidaggine! Credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto?  Che diluvio di parole! Ho rotto gli argini! Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Mentre i moderni oggi dicono: "Odio il lettore che ha buona memoria". Perciò addio! Applaudite, state sani, bevete, vivete, o rinomatissimi discepoli della Follia.


FINE

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