RIVOLUZIONE
FRANCESE |
CHARLOTTE CORDAY
( Sees 27-7-1768 - Parigi 17-7-1793)
UCCISE MARAT
(al processo: "DICHIARÓ DI AVER
" UCCISO UN UOMO PER SALVARNE CENTOMILA"( By: Alberto Sterza)
Nata nel 1768 Charlotte Corday diviene famosa per l'assassino del
"AMI DU PEUPLE" Jean Paul Marat.
Charlotte, proveniva da una famiglia della piccola aristocrazia della campagna normanna, di Caen, una famiglia non sua, ma di cugini che la adottarono. Lei era nata e vissuti i primi anni nella miseria più nera. La sua infanzia si caratterizza soprattutto per una profonda solitudine; infatti, non ebbe madre, la sua morì molto presto. Il padre, nobile decaduto di campagna, si occupava molto dei figli e poco dei libri. Scriveva, infatti, contro gli abusi della nobiltà. I due fratelli che aveva erano su posizioni politiche completamente antitetiche alle sue, non a caso nel 1792 si arruolarono nell'esercito del fratello di Luigi XVI, Principe di Condé.
I cugini, dandogli cure e affetto, le fornirono anche una ottima istruzione, introducendola così dentro quell'ambiente borghese provinciale legato alla tradizione monarchica.
Come Madame Roland, Charlotte fu sostenitrice della Repubblica, grazie soprattutto alle letture relative alla Roma Repubblicana.
A tredici anni è ammessa nel convento dell'Abbaye-aux-Dames di Caen, famoso per il fatto di annoverare fra le sue fila soprattutto le figlie della nobiltà decaduta.
Anche in convento però nonostante qualche approccio con qualche sua collega, le tradizioni non erano mutate; infatti, è risaputo che anche in quei luoghi, che dovevano essere i santuari dell'eguaglianza cristiana, le discriminazioni fra ricchi e poveri erano ben presenti, anche dentro lo stesso clero, che annoverava preti miserabili e preti che sfoggiavano opulenza e ricchezze.
I suoi veri amici erano i libri. Raynal e Rosseau caratterizzarono la sua formazione culturale. Quando furono soppressi i conventi, trovando suo padre riammogliato, si rifugiò a Caen presso una sua vecchia zia: madame Breteville. Fu proprio in casa della zia che maturò la decisione che la rese celebre. Fino allora era perfettamente concorde con gli ideali della rivoluzione, un fatto però la allontanò dalla rivoluzione. Il parroco di una chiesa di Caen (lo stesso che aveva impartito l'estrema unzione a sua madre) essendosi rifiutato di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, inseguito dalle autorità rivoluzionarie fu scovato nel suo nascondiglio nei boschi di La Delivandre e ghigliottinato nella Place du Pilori. Fu il primo ad essere ghigliottinato a Caen.
Tutto l'astio nei confronti di Marat, ebbe origine il 7 luglio 1793, quando sulla Gran Cour di Caen si svolse una parata dell'esercito federalista nella speranza di attirare nella cause federalista- girondina il maggior numero di giovani volontari. Nei giorni precedenti diversi moniti a sostegno della causa girondina e contro il "sanguinario" Marat, furono urlati per le piazze della Normandia e molti avvisi furono affissi sui muri. "Che cada la testa di Marat e la Repubblica sarà salvata… Purifichiamo la Francia da quest'uomo assetato di sangue… Marat vede la salute pubblica solo in fiume di sangue; ebbene allora deve scorrere il suo, perché deve cadere la sua testa per salvarne altre duemila". Il pretesto per intraprendere il viaggio a Parigi fu l'incarico che Charlotte ottenne dal Girondino Barbaroux da consegnare al suo collega Duperret.
Arrivata a Parigi giovedì 11 luglio verso mezzogiorno, scese al numero 17 di rue des Vieux-Augustins, all'hotel Providence nel quale si riposò fino all'indomani. Al mattino del 12 luglio non trovò Duperret, che era alla Convenzione. Ritornò dal deputato alla sera mentre stava cenando per consegnare la lettera che aveva come destinatario il Ministro degli Interni nell'intento di ottenere dallo stesso Ministro dei documenti utili ad un'amica emigrata (Mademoiselle Forbin). Il 13 luglio, dopo il rifiuto del Ministro di riceverla, si congedò da Duperret pregandolo di fuggire da Parigi. Subito dopo si recò al Palais Royal, più affollato del solito data l'imminente ricorrenza del quarto anniversario della presa della Bastiglia.
Dopo avere appreso dai giornali che in Convenzione era stata chiesta la pena di morte per i Girondini e acquistato un capello nero a nastrini verdi onde non dare nell'occhio con il suo berrettino bianco alla "caennaise" che avrebbe denunciato la sua provenienza dalla Normandia, acquistò l'arma del delitto: un coltello da cucina con il manico di legno con la lama di dodici centimetri.
Dopo avere appreso che Marat era malato, Charlotte dovette a malincuore cambiare il programma che inizialmente aveva preparato (che prevedeva l'omicidio dell'Amico del Popolo alla Convenzione) per recarsi quindi in Rue de Cordelliers dove risiedeva Marat. Nel salire le scale verso l'appartamento incontro Catherine Evrard (sorella della fidanzata di Marat) che, date le condizioni precarie di salute, dissuase momentaneamente Charlotte dai suoi intenti. In quella circostanza, infatti, riuscì solamente a far pervenire a Marat un lettera formulata in modo da stuzzicare la curiosità del destinatario poiché prometteva di svelare il nome di diversi Girondini fuggiti e radunatesi a Caen.
Alla sera dello stesso giorno, Charlotte ritornò con un'altra lettera cercando in tal modo di superare le resistenze Simonne Evrard (fidanzata di Marat) che insospettita dalla pervicacia della Corday cercava di respingerla. Marat, dopo avere sentito il vocio delle due donne, chiese a Simonne di lasciarla entrare. Dopo avere detto i nomi dei traditori soddisfacendo la "sete di sangue" dell'amico del popolo, si alzò dalla sedia e sferrò il colpo fatale sotto la clavicola sul fianco destro della vittima squarciandogli la carotide. Marat urlò "A moi, ma chère amie". Sentiti gli urli e il chiasso susseguente all'omicidio, due vicini di casa di Marat (un dentista - Clair Delafonde - e un chirurgo dell'esercito - Philippe Pelletan) si precipitarono nell'appartamento dell'Ami du Peouple nel vano tentativo di soccorrerlo.
Colta praticamente in flagrante, Charlotte non oppose la minima resistenza al suo arresto. Profondamente orgogliosa delle proprie azioni, a tutti gli interrogatori che fu successivamente sottoposta, sia da parte del commissario di polizia Guellard, sia al presidente del tribunale rivoluzionario (Montanè) che al procuratore capo (Fouquier-Tinville), non esitò un attimo a confessare le ragioni del proprio atto omicida. Le domande precise degli inquirenti erano dirette a scoprire la presenza (sperata) di diversi complici Girondini. Più volte, però, Charlotte negò sdegnosamente tali coinvolgimenti, nel più fiero convincimento di palesare alla pubblica opinione le vere intenzioni: "Avendo visto che in tutta la Francia stava per scoppiare la guerra civile ed essendosi convinta che Marat fosse il maggiore responsabile di quella catastrofe, aveva voluto sacrificare la vita per il suo paese" Riconosciuta, ovviamente, colpevole, Charlotte Corday fu trasferita dalla prigione dell'Abbaye a quella della Conciergerie.
Nonostante la reclusione, alla prigioniera fu concessa la possibilità di scrivere delle lettere, sempre nella speranza di captare messaggi più o meno criptati ai complici dell'omicidio. Disattendendo ancora una volta le speranze degli accusatori, le sue ultime missive furono indirizzate, una al padre chiedendogli perdono per avere operato il tutto senza avere chiesto il suo permesso, e l'altra a Barbaroux, deputato girondino, nella quale però non aggiunse alcunché a quanto i giudici conoscevano circa le sue passioni politiche.
Il 17 Luglio 1793
Charlotte Corday viene rapidamente processata e condannata a morte dal Tribunale Rivoluzionario.Prima di apprestarsi a salire sulla carretta dei candidanti, e di indossare la camicia scarlatta obbligatoria per i colpevoli di assassinio dei rappresentanti del popolo, chiese alle autorità di potere farsi ritrarre quale gesto finale di drammatizzazione della propria persona.
(il quadro sopra).
Quando Sanson, il carnefice, venne per rilevare la condannata da scortare al patibolo, si fece dare da costui le forbici, si tagliò una ciocca di capelli per donarlo al pittore "come ricordo di una povera giovane morente".
"Al cittadino Marat,
Vi ho scritto questa mattina, Marat. Avete ricevuto la mia lettera. Non posso
crederlo, poichè mi si è chiusa la vostra porta. Posso sperare
un minuto d'udienza? Vi ripeto, arrivo da Caen. Vi ho da rivelare i segreti
più importanti per la salute della Repubblica. Del resto io sono perseguitata
per la causa della libertà; io sono infelice basta questo perchè
io abbia diritto alla vostra stima.
CARLOTTA CORDAY ».
Ella mise in saccoccia questo biglietto, nascose il coltello nel seno, prese
una vettura, si fece condurre alla porta di Marat, che abitava al numero 20
di Via dei Cordelieri. Ella era vestita di una vesticciuola bianca a disegni
scuri; portava un cappello alto circondato di tre giri di nastro e ornato
d'una coccarda nera.
Marat era custodito meglio che da guardie : una donna, Caterina Eward, e la
sorella di lei, Simona, vegliavano su lui con la doppia sollecitudine dell'amore
e del fanatismo. La prima rifiutò nettamente l'ingresso alla giovane
Normanna, che parlamentò a lungo con lei. Marat, sentendo una voce
fresca e femminile e riconoscendo in lei la donna che gli aveva scritto il
mattino, ordinò a Caterina Eward d'introdurla.
Marat era nel suo bagno, con la testa avviluppata in un asciugamano; un sudicio
panno ricopriva la vasca; davanti a lui c'era un'asse che gli serviva da scrivania
e sulla quale stava scrivendo.
Egli volle sapere ciò che avveniva a Caen; chiese a Carlotta i nomi
dei deputati rifugiati in quella città e quelli degli amministratori
dei dipartimenti del Calvados e dell'Eure. Man mano che ella parlava, egli
scriveva, e quando ella ebbe finito, esclamò : - Fra pochi giorni
andranno alla ghigliottina!
Questa minaccia richiamò
Carlotta Corday alla sua missione, che la pietà e l'orrore dell'omicidio
le facevano forse dimenticare: ella si avvicinò al bagno, e tratto
il suo coltello lo immerse nel petto di Marat.
Il colpo fu menato con mano così ferma che l'arma penetrò fino
al manico e tagliò la carotide.
Marat chiamò aiuto e spirò.
Al suo grido, un fattorino di nome Lorenzo Basse, che piegava giornali in
una stanza vicina, Caterina Eward e sua sorella, si precipitarono nella stanza.
Carlotta Corday era in piedi davanti alla finestra, immobile, e non faceva
il minimo tentativo di fuggire. Il fattorino la colpì con una seggiola
e la gettò a terra. Ella si rialzò; ma Basse afferrandola alla
vita, la scarventò di nuovo al suolo e la tenne sotto le sue ginocchia,
mentre la Eward ed altre vicine, aiutate da un chirurgo che era fra i casigliani,
trasportarono Marat sul suo letto.
Ai rumore, alle grida delle donne, accorsero i vicini, e ben presto anche
alcune guardie nazionali del prossimo posto, che arrestarono Carlotta Corday.
Solo a notte fatta, per salvarla dalla folla che l'avrebbe voluta a pezzi,
la si riuscì a condurre in vettura alla prigione dell'Abbaye, dove
i membri del Comitato di sicurezza generale la interrogarono parecchie volte,
senza che mai si smentisse la sua fermezza.
Ella comparve il 17 luglio dinanzi al tribunale rivoluzionario. Igiornali
della Montagna, tra le loro imprecazioni, lasciano intravedere l'impressione
che la fermezza dolce e fiera di Carlotta Corday produsse sui giudici e sugli
spettatori. « Si è notato - disse il suo avvocato Chauveau-Lagarde
- che essi avevano l'aria di prendere lei stessa per un giudice che li
avrebbe chiamati al suo tribunale supremo ».
Carlo Enrico Sanson non incominciò regolarmente il diario dei suoi
ricordi che verso la fine del gennaio 1793; ma egli ci ha lasciato sulla morte
di Carlotta Corday - una nota più particolareggiata, più estesa
che non quelle delle quali si son serviti i narratori della prima fase della
Rivoluzione.
« Questo mercoledi 17 luglio - egli scrive - l'anno primo della Repubblica
una ed indivisibile, fu giustiziata la cittadina Corday, di Caen, cospiratrice
e assassina del cittadino Marat, deputato alla Convenzione.
« Questo mercoledì 17 -- come ho detto - alle dieci del mattino,
andai a prender gli ordini dal cittadino Fouquier. Il cittadino Fouquier era
in seduta; mi fece rispondere che avessi ad attenderlo e a non allontanarmi.
Ridiscesi e andai a prendere un boccone dal cittadino Fournier. Verso un'ora
dei pomeriggio un cittadino che scendeva dal Tribunale ci disse che la giovane
era condannata. Allora mi portai là e mi trovai nella camera dei testimoni
quando il cittadino Fourquier vi passava col cittadino Montanè. Egli
non mi vide poichè disputava molto vivamente col suo detto Montanè,
che egli accusava di essere stato favorevole all'imputata. Essi restarono
chiusi più di un'ora nel gabinetto. Uscendo, il cittadino Fouquier
mi vide e mi disse incollerito : « Tu sei ancora qui? » Gli osservai
che non avevo ricevuto ordini. Il cittadino Frabricius entrò con la
minuta e con la copia della sentenza, che fu firmata; e scendemmo alla Conciergerie.
Parlai col cittadino Richard, e parlandogli vidi la cittadina sua sposa che
era tutta pallida e pareva tremante. Le domandai se fosse malata. Mi rispose:
« Aspettate un poco, e forse il cuore vi mancherà più
che a me ».
Il cittadino Richard ci condusse alla camera della condannata. I cittadini
Tirrase e Monnier, uscieri del tribunale, entrarono primi; io rimasi sulla
porta.
« C'erano nella stanza della condannata due persone, un gendarme e un
cittadino che faceva il suo ritratto. Ella era seduta sopra una seggiola e
scriveva sul dorso di un libro. Ella non guardò gli uscieri, bensì
me, e mi fece cenno d'aspettare. Quando ella ebbe finito, i cittadini Tirrase
e Monet cominciarono la lettura della sentenza, e durante quel tempo, la cittadina
Corday piegò in forma di lettera la carta che ella aveva scritta e
la consegnò al cittadino Monet pregandolo di farla avere al cittadino
deputato Pontécoulant. Allora ella trasse la sua seggiola in mezzo
alla stanza; sedette, si tolse la cuffia, sciolse i suoi capelli color castano
chiaro, che erano molto lunghi e molto belli, e mi accennò di tagliarli.
Dal tempo del signor de la Barre non avevo incontrato tanto coraggio a morire.
Quando i suoi capelli furono tagliati, ella ne diede una parte al cittadino
pittore che l'aveva ritratta e consegnò il resto al cittadino Richard
per la sua sposa. Io le diedi la camicia rossa che ella infilò e si
aggiustò da sè. Ella mi domandò, quando io mi accingevo
a legarla, se ella doveva conservare i guanti, poichè quelli che l'avevano
legata il giorno del suo arresto, l'avevano stretta con tanta forza che gliene
rimanevano le cicatrici ai polsi. Io le dissi che ella poteva fare ciò
che desiderava, ma che la precauzione era inutile poichè io avrei saputo
legarla senza farle alcun male. Ella disse sorridendo: - Difatti, essi
non ci hanno la vostra abitudine - e mi tese le sue mani nude.
"Salimmo nella carretta. C'erano due sedili; io la invitai a sedere,
ella rifiutò; le dissi che aveva ragione e che in tal modo le scosse
del veicolo l'avrebbero meno stancata; ella sorrise ancora, ma senza rispondermi.
Fermin, che era seduto dietro la vettura, volle prendere lo sgabello; ma io
glielo tolsi, e lo misi davanti alla cittadina perchè ella potesse
appoggiarvi un ginocchio; piovve e tuonò, nel momento che noi arrivammo
al fiume, ma il popolo, che era molto numeroso al nostro passaggio, non si
disperse come di solito. Si era gridato molto nel momento che noi uscivamo
dall'Arcata; ma più procedevamo, e meno numerosi erano i gridatori.
Soltanto quelli che camminavano vicino a noi insultavano la condannata e le
rinfacciavano la morte di Marat.
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