OTTAVO CAPITOLO

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IL CORSARO !! - Ma anche poeta!

"Una Garopera, piccolo legno da pesca - scrive Garibaldi - che ci aveva servito in alcuni viaggi mercantili nei vicini porti della costa, fu armata con alcuni arrugginiti fucili: e tredici individui uscivano sopra di essa dal porto di Rio' Janeiro capitale dell'Impero, sfidando l'Impero.
Partimmo di notte e giungemmo nell'isola di Marcia ove sbarcammo. E' difficile
esprimere la gioia e la speranza da noi provata e concepita quando dall' alto di Marcia noi contemplavamo l'oceano in tutta la sua maestosa estensione. Il "Mazzini", nome dato al corsaro, galleggiava graziosamente sull' onda e nascondeva, pronta ad essere inalberato il tricolore della nascente Repubblica non ancora veduta sul mare!
Numerosi bastimenti di commercio imperiale usciti in quella mattina dal porto veleggiavano in varie direzioni, ignari del vicino pericolo. Noi girammo lo sguardo su di loro da padroni! Erano vuoti! ed il, preludio del nostro corso doveva essere splendido. Lasciammo dunque senza offese queste barche; salpammo e facemmo rombo verso l' Isola Grande."
All' alba scoprirono una sumacca, specie di brigantino-goletta, con la bandiera imperiale; la inseguirono intimando la resa, e salitivi a bordo, se ne impossessarono.
Mandarono allora a picco la Mazzini perché mancava l'uomo per capitanarla.
"La Mazzini ebbe (scrive Garibaldi) solo una breve ma gloriosa esistenza di corsaro".
La goletta catturata era per due ragioni presa legittima: prima, perché apparteneva ad un austriaco, oppressore d'Italia; in secondo luogo, perché carica di merce di un brasiliano nemico della Repubblica di Rio Grande. Garibaldi battezzava la goletta Scoropilla (pezzente), appellativo di disprezzo, con cui i brasiliani designavano gli abitanti delle piccole repubbliche.
Appena in poter suo, il capitano diede ai suoi seguaci la prima lezione di disciplina e di onestà. Sacrificando l'unica lancia appartenente alla goletta, vi fece scendere i passeggeri e l'equipaggio, con tutto ciò che a loro apparteneva, e rifiutando tre splendidi brillanti, che uno dei passeggeri, brasiliano, gli offerse, spartì con essi le provviste, e li lasciò liberi. Cinque negri, schiavi, vollero rimanere con lui. Li accettò, emancipandoli e pagandoli come marinai. Ciò fatto, riprese la via per Rio della Plata.
La Scoropilla portava sempre a bordo il carico di caffè, che il negoziante brasiliano aveva venduto e spediva all'austriaco; però Garibaldi decise di gettare l'àncora a Maldonado, paesetto allo sbocco del fiume, allo scopo di dar tempo a Rossetti di recarsi a Montevideo per regolare le carte.
Ma Oribe, capo della repubblica di Montevideo, non riconoscendo le altre repubbliche, ordinò la requisizione del carico, la cattura della barca, e forse anche il suo capitano. Sentendo ciò dal delegato di Maldonado, Garibaldi decise di partire la sera stessa; ma saputo che un negoziante aveva ricevuto il carico di caffé requisito senza pagarlo, andò di persona per esigere il denaro. Costui, vedendo il suo creditore avvicinarsi, colla mano gli segnalò il pericolo che correva la sua persona. Garibaldi, senza dargli retta, impugnò una delle due pistole che portava alla cintola, dicendo "il mio denaro!".
Tre volte dovette replicare l' intimazione; finalmente puntatagliela alla gola, i duemila patagoni gli furono pagati, e col sacco di denaro sotto il braccio tornò alla goletta, poi durante la notte risalì il fiume. Ma qui accadde un caso disgraziato. Le armi assiepate nella stiva in prossimità della bussola, ne deviarono l'ago, e la nave si trovò in mezzo agli scogli di Piedras-Negras.
Benché il legno fosse flagellato dai marosi, con la vela a brandelli, lesto come un uccello, Garibaldi dalla verga di trinchetto, diresse il timoniere. Pareva ai marinai spaventati che il bastimento obbedisse perfino alla sua voce, tanto ben presto fu abile di trarlo da quegli scogli che ad ogni istante minacciavano di sfasciarlo.
Superato il tremendo pericolo, spiegò all'equipaggio le cause della deviazione dell'ago: col seguirne le errate indicazioni, erano stati in procinto di naufragare sulla costa, mentre si credeva di esser distante più di tre miglia. Frattanto, per l'affrettata partenza, si trovarono senza provviste, impotenti di avvicinarsi alla costa con la goletta; poiché, come si é detto, l' unica lancia era stata regalata ai passeggeri e al primo equipaggio.
Ma nella mente del capitano i ripieghi fiorivano come le rose in maggio. Capovolge egli la tavola da pranzo, la cala in mare, colle delle botti vuote la trasforma in zattera, la tiene ferma con due àncore, si arma di uno zaffio e con un solo marinaio giunge a riva. Vedendo una casa in lontananza, lascia Maurizio custode della zattera e si presenta alla casa di campagna ove la moglie del proprietario lo avverte che per avere vettovaglie bisognava aspettare il ritorno del marito. Intanto essa lo incanta recitando terzine di Dante, canzoni di Petrarca e stanze del Tasso, le regala delle poesie di Quintana, e recita i propri versi, che Garibaldi trova bellissimi.
In ultimo ecco il marito il quale lo prega - se desidera altro - di aspettare il mattino, ma intanto gli dona un bove, e con questo, ridotto a pezzi in un batter d' occhio, egli ritorna a Maurizio, che lo temeva già divorato dalle tigri. La forza della corrente li allontana dalla goletta, ma questa rimettendosi alla vela li raggiunge; gettata una corda, Garibaldi e Maurizio vi si arrampicano e salgono a bordo, dopo averla legata alla zattera. Indi tirano la zattera, e la restituiscono al suo ufficio di tavola da pranzo, ove fu imbandito il più allegro desinare di tutta la cristianità, come direbbe Benvenuto Cellini.
Nella memoria di Garibaldi rimase impressa l'immagine della poetessa ospitale, isolata in quell'immensa pianura, quà tutta verde dell'erba che serviva da pascolo al cavallo, al bue, alla gazzella, là tutta nera con foreste foltissime, dimore di tigri e d'altre bestie feroci.
Sopraggiunto poi Garibaldi da due barche piene di gente armata, gli fu intimata la dedizione in nome del governo di Montevideo. «All'armi e braccio in vela di prora» lui comanda , e una lotta accanita comincia. Cade morto il timoniere - un italiano per nome Fiorentino. - Garibaldi afferra il timone e nello stesso momento una palla lo stramazza, e fu creduto morto. Ma gli italiani, suoi compagni, mentre gli stranieri e i negri si rifugiano nella stiva, continuano il combattimento e mettono in fuga il nemico.
Garibaldi, ritornato in sé, ma impotente a muoversi, credendosi anzi mortalmente ferito, si fa portare la carta, indica a Luigi Carmiglia di condurre la goletta a S. Fé nel Parana, assiste mestamente alla sepoltura nel fiume del povero Fiorentino; e ripugnandogli l'idea di trovare pure lui una tomba «nel ventre di un lupo marino o di un alligatore» implora dai suoi compatrioti "un sasso che distingua le sue da le infinite Ossa che in terra e in mar semina morte!" - Versi recitati da lui in quel supremo momento.
Essi piangendo promettono, e Luigi Carmiglia giura che se morrà non sarà calato nel fiume. Dopo 19 giorni di infinite cure, peggiorando la ferita e aggravato dalla febbre, con il solo caffè, o poc'altro per nutrimento, riesce a Luigi di condurlo semivivo a Gualeguay, paese in Eutrerios. Per loro buona sorte, all'imboccatura dell' Ibiqui, braccio del Parana, incontrarono un bastimento comandato da un Mahonese, Don Lucas Iartauto, che lo riforniva di tutto il necessario ed anche di lettere di raccomandazione per Gualeguay; specialmente per il governatore della provincia, Don Pasquale Echague.
Purtroppo le carte di corsa del governo repubblicano di Rio Grande non sono ritenute valide, la bandiera tricolore nemmeno, tutti sono messi in prigione, e Garibaldi, travagliato da continua febbre, stava per soccombere alla terribile ferita quando un giovane chirurgo Ramon Delarea gli estrasse la palla che, entrando dal lato sinistro sotto l'orecchio, attraversato il collo, si era fermata fra gli ossicini dell'orecchio destro; prodigando all'infermo tenere cure quanto sapienti, potette anche a cagione della robusta costituzione del malato ridonargli la primitiva salute. Grazie alla benevolenza del governatore della provincia, egli non fu tenuto nelle prigioni comuni, ma poté accettare l'ospitalità di uno spagnolo Don Giacinto Andreas, e di là scriveva a Cuneo informandolo del proprio stato.
Nella prima lettera non parla che dell'Italia; dice che i giornali francesi recano buonissime notizie. Calabria, Abruzzo, Sicilia sono in effervescenza, Mazzini ed il Comitato in Malta non è turbato dall'Inghilterra, e soggiunge: «Rispondiamo qui a certe freronate dei giornalisti come possiamo, sempre pronti a pagare di persona ».
Insistendo Cuneo per avere particolari delle sue ferite, Garibaldi risponde:

Gualeguay, 1° ottobre 1837.
« Veniamo alle questioni che lo squisito tuo cuore m'indirizza. Le mie ferite sono quasi dimenticate, come pure l'operazione fattami alla cervice; era entrata quella maladetta palla sotto l' orecchia sinistra, e dopo aver traversato diametralmente il collo, si era collocata sotto la destra, a mezzo pollice dalla cute, e mi ha regalato di una operazione di circa mezz'ora che dava gusto, massimamente quando il dottore mi scostava i tendini nervosi fra i quali quella s' era incastrata. La ferita del braccio destro, fu leggerissima; solo la palla me lo aveva solo lambito.
"BOREL"
« PS. Non so se Giacomin II ..23 . 3 . 12 . 25 . 16 . 12 . 4 2 . ti abbia parlato di 210
sacchi caffè, che gli rimisi alla tua consegna, e penso sarà pure roba perduta. »
Questo poscritto e il seguente: « Non so se t'invierò degli aranci e dei fiori; farò il possibile» é scritto certamente in senso traslato e allude a intelligenze politiche stabilite fra loro.
Ma se le sofferenze fisiche egli sopportava con tanta superiorità d'animo, il suo stato di prigioniero gli pesava molto.
«Circa ad evadere, ti basti sapere che sono in questa condizione sulla mia parola d'onore. Passo la maggior parte del giorno leggendo libri che l'instancabile bontà del mio ospite mi provvede; talora nella sera d'un bel giorno vado a passeggio, visito qualche conoscente, e guardo malinconicamente le bellezze del paese, poi mi ritiro a casa; altra volta esco a godere d'una bella mattinata, e leggo o scrivo; e sempre in cuore l'Italia; e parlando con dispetto io grido:
lo la vorrei deserta
E i suoi palagi infranti,
Pria-che vederla trepida
Sotto il baston del Vandalo.
.

(Quest' estratto fu citato da Cuneo stesso nella sua biografia.)
Poi ispirandosi a quella fede che mai venne in lui meno, soggiungeva:
« La mia sorte é legata alla tua - guidati da un solo principio, consacrati ad una medesima causa, abbiamo rinunziato alla tranquillità ed imposto silenzio a tutte le passioni; ad onta dei giudizi leggeri e sconsiderati della moltitudine, che non riguarda sovente il nostro generoso proposito che sotto l'aspetto d'interessate mire, o d'ambizione, proseguiremo. - Il testimonio della coscienza ci basta. »
Il nuovo documento che la liberazione d'Italia fu sempre la sua idea fissa, riproduciamo la poesia che egli, come narrò a F. Cavallotti, compose mentre un giorno riposava in una foresta e il suo cavallo pascolava; la quale poesia non vide la luce se non pochi anni prima della sua morte;

Non fra pomposi ed aurei
Vaghi giardin ridenti,
Non sotto immensi aerei
Archi e dell'uom portenti,
Ma ne l'ombrose selve
Piacesi il mio pensier.
Non quando il ciel sereno
E de' zeffiri l'alito
All'ente fausto in seno
Diffondo un dolce palpito,
Ma quando mugghia il nenbo
E scuote l'orbe inter.
Non se Teti da spume
Tranquille erge la fronte
Non se queto il bitume
Bolle nell'igneo monte,
Ma quando i flutti infuriano,
Quando rugge il crater.
E che m'importa il bene
Di servi e abbietta pace ?
Che importan le catene
Di società mendace ?
E di vil plebe immemore
Il codardo giacer ?
E che m'importa, Italia,
Se a liberi concenti
Di Allemagna e di Gallia
I bellici stromenti
Nel ciel di questa imbelli
Fan gli echi ride star ?
Io la vorrei deserta,
I suoi palagi infranti
Ed io de l'Alpi a l'erta,
Le sue città fumanti
Scorgere e con sardonico
Sorriso contemplar,
Pria che vederla trepida
Sotto il baston d'un vandalo
Disonorata e fetida
De le nazioni scandalo,
Il suo destin superbo
Stolida rinnegar !


Il buon governatore di Gualeguay Echaque era partito e il suo successore Leonardo Millan aveva sequestrato la Scoropilla dando a Garibaldi in quella vece uno scudo al dì, senza apparentemente prendersi più pensiero di lui; onde Garibaldi credette ciò che parecchie persone gli venivano sussurrando all' orecchio, di essere d'imbarazzo al governo, il quale udrebbe con piacere la notizia della sua scomparsa, o un allontanamento.
A sparire vi si accinse lui stesso, ma il suggeritore della fuga era un agente provocatore, una spia la guida; cosicchè fu inseguito, e ricondotto
colle mani legate alla schiena e i piedi sotto la pancia del cavallo; poi gli fu intimato di denunciare i complici della fuga. Rifiutatovisi, il prigioniero fu trasportato in carcere e qui torturato con tratti di corda.
Ad ossa slogate, gli si presenta il Millan, e gli rinnova l'intimazione. Garibaldi, memore per avventura del Vochieri, gli sputa sul muso per tutta risposta. Già affranto dal viaggio di 60 miglia, legato sul cavallo, riarso dalla febbre, tormentato da «zanzare grosse come cavallette» perdette di nuovo i sensi, e quando quel mostro lo fece slegare lo si credette ormai cadavere.
Anche questa volta fu salvato da una donna. Non molti anni dopo, quello scellerato con tutta la sua famiglia cadde in podestà di Garibaldi; il quale, ben s'intende, proibì ai suoi di torcergli un capello.
Dopo quello strazio lo si portò ad altra prigione in Bojada, capitale della provincia. Qui riprese la sua corrispondenza con Cuneo nel febbraio 1838 rallegrandosi della felice riunione degli amici in Montevideo e partecipando a tutte le loro speranze. Si doleva di non poter congiungersi ad essi, e con mesta esclamazione ripensava il lungo tempo che lo separava da qualsiasi dolcezza.
In una di queste lettere narra nei particolari l'episodio della tentata fuga e della tortura, dimostrando chiaramente che avendo le autorità di Gualeguay deliberato di mandare lui in compagnia del nostro uomo e di certi altri prigionieri, in Bojada, egli si sentì sciolto dal vincolo della sua parola e decise di partire.
« E qui - soggiunge - dovrei finire per non rammentare ciò che mi fece soffrire un mostro aborto di natura sotto gli auspici dell'inferno, però vi dirò almeno il suo nome, acciò lo possiate consacrare all'esecrazione dell'Universo tutto. Sì ! Leonardo Millan ha tenuto un vostro fratello due ore appiccato per le mani. »
Anche questa lettera é firmata "G. Borel".
A Bojada ebbe la fortuna di ritrovare il buon governatore d' Echaque che lo rimise in libertà; ed egli scrive:
«Benché io professi principii diversi da quelli d' Echaque, e abbia combattuto la causa da lui sostenuta, non posso nascondere l'obbligo a lui dovuto e vorrei oggi ancora potergli provare la mia riconoscenza per tutto, ma principalmente per la mia « libertà. »
Libero alla fine, trovò subito il capitano Venturi italiano che lo condusse al Guassa, foce del fiume Parana, e qui con un altro italiano, il capitano Carbone, s'imbarcò per Montevideo, ove trovò molti amici, fra essi G. B. Cuneo, Napoleone Castellani e il Rossetti, il qual gli proponeva di ritornare al servizio dei repubblicani di Rio Grande, visto che a Montevideo il fatto del combattimento con i lancioni l'obbligava a vivere nascosto. Accolse la proposta volentieri, e con sua grande soddisfazione fece il viaggio all' escotero, ossia con una ventina di cavalli usi a seguire i cavalieri, cosicché, stanco l'uno, il viaggiatore getta la sella sopra un altro, corre a galoppo tre o quattro leghe, e così fino a viaggio finito.
Pertanto il nostro intrepido marinaio, inarrivabile nuotatore, instancabile camminatore, divenuto nella lunga cattività a Gualeguay esperto cavallerizzo, arriva a Piratinim, capitale della Repubblica di Rio Grande; la capitale vera, Porto Allegro, essendo allora in mano degli imperiali.
Qui a Piratinim accolto cordialmente dal governatore, si affretta a far visita a Bento Gonzales, verso cui nutre gran simpatia; e questi gli promette di armare alcuni lancioni sul Camacua, fiume parallelo al canale di San-Gonzales, i quali sboccano entrambi nella laguna di Los Patos.

Sulla riva meridionale di Los Patos si trova la città fortificata di Rio Grande; e sulla riva settentrionale San José del Nord, altra città fortificata: ambedue, come Porto Allegro, erano in mano degli Imperiali, padroni così dell'entrata e dell'uscita della laguna. Garibaldi volentieri accettò in unione all'americano John Briggs, l'armamento di due lancioni sulle acque del Camacua, col grado di tenente capitano.
Ma era un'impresa alquanto scabrosa l'allestimento dei due legni: bisognava provvedere il legname di qua, il ferro di là, trovar falegnami, fabbri, operai: ad ogni modo si misero in assetto i due sloops dal primo chiodo all'ultimo cerchio di ferro, per assicurare gli alberi. Furono armati, ciascuno, di due pezzi di cannone in bronzo, infine varati e battezzati l'uno il Rio Pardo, l'altro il Repubblicano.
Garibaldi comandava il primo di 18 tonnellate; John Briggs, il secondo. Con 40 negri e mulatti aggiunti ai suoi, il capitano si pose subito in mare per fronteggiare l'armata degli imperiali, forte di 30 navi e di un bastimento a vapore.
Quasi subito si impadronì di un battello con ricco carico, che distribuì all'equipaggio, riservandone una parte per vestire i marinai in uniforme.

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