QUINDICESIMO CAPITOLO

QUINDICESIMO CAPITOLO

Esultanza di corta durata. - Invidie e insidie. - Lettere inedite di Garibaldi. - Come egli concepisse la propria missione. - Rinuncia al grado di Generale. - Già contempla il ritorno in Italia. - È costretto ad accettare il comando supremo della guarnigione di Montevideo. - Presto si dimette. - Pensa solo all'Italia ".... arriveremo ultimi, quando tutto sarà finito".

Ecco dunque un momento di vera esultanza per il nostro eroe in cui, procedendo nella narrazione, non sappiamo se ammirare più il coraggio e il genio militare, o la paziente costanza con cui egli dedicò tutto se stesso ad allevare e disciplinare soldati degni e capaci di combattere le future battaglie della patria. Ma il giubilo fu corto, e la stessa sua prodezza e dei suoi uomini fu per lui e per loro una sorgente di indescrivibili amarezze.
Abbiamo già detto quale fosse lo scopo principale della campagna dell'Uruguay: aprire la via del ritorno ai resti dell'esercito Rivera per esser ricostituito. Abbiamo poi visto che il Baez e i suoi 200 cavalieri si sono condotti vergognosamente il giorno di Sant'Antonio, che venti soli parteciparono al combattimento e gli altri si rifugiarono al Salto.

Ma giunta la sera stessa, il generale Medina e gli altri invece di professar gratitudine, si accesero d'odio e d'invidia, contro chi aveva saputo vincere il Lavellaya e debellare il terribile Urquiza.
A tutta prima Garibaldi non sospettava nulla di tutto ciò, e scrisse immediatamente a G.B. Cuneo e alla commissione di mandargli a Salto tutti i legionari valenti e volonterosi, riponendo fondata speranza di finirla con le scorribande di Rosas mediante il ricostituito nuovo esercito.
Egli capiva ottimamente che ogni operazione in prossimità della capitale sarebbe stata paralizzata dall' intervento francese ed inglese, divenuto fiacco in ragione diretta della baldanza di Rosas. Invece Garibaldi a Salto - oramai fortificato, il valoroso Battle accampato in Colonia, gli emigrati accorrenti alle bandiere - con un buon ordinamento, era abbastanza razionale la speranza di ottenere un buon successo.
A Montevideo invece desideravano il ritorno della Legione, e Cuneo e gli italiani qui rimasti, avvertirono Garibaldi il quale non avvedendosi che i generali Baez e Medina si ingegnavano di allontanarlo dal teatro dei suoi trionfi, scrivendo la risposta il 26 febbraio da Salto (quasi presagendolo) insisteva:
"che si lasciassero i decrepiti e quelli di malavoglia a Montevideo, e che a Cuneo stesso venisse lui (a Salto) con uomini abili al servizio".
E aggiungeva:

« In una tua mi parli delle cose d'Italia; io, quando scenderà in me l'amore che porto a colei, vorrei che un fulmine m' incenerisse, però bisogna che ti faccia un'ammonizione della quale tu abbisogni, ed è che alla scuola delle palle ed altre simili cosucce, che stiamo facendo oggi, bisogna aggiungere la scuola morale delle conciliazioni, che forse più di tutte fa d'uopo a noi tutti Italiani
Procura di mantenere quella poca gente in piedi, se no sarà stato vano tutto il travaglio, le fatiche; i martiri, ed i mutilati più di tutti ci malediranno. Ti ripeto la necessità di raggiungermi con la Legione; però non bisogna precipitare nulla, ed io te ne additerò il modo»
(Raccolta Zunini).
E il 10 marzo:
«Oggi pure sono della stessa opinione di fare marciare la Legione da Montevideo e raggiungerci. Oggi pure, credo procederanno meglio riuniti che divisi per tantissimi motivi; se fossero ostacolo a tale disposizione le famiglie dei legionari, le mogli potrebbero accompagnare i mariti, oppure alcune di quelle, ed il rimanente resterebbe sotto custodia della Commissione.
A ogni modo desidero che non si usino a tale effetto violenze o lusinghe. Che vengano soli i volonterosi, sempre nella intelligenza che cessa l'obbligo nostro con questo paese subito, e che cessi l'assedio della capitale. I nostri feriti quasi tutti passeggiano»
Qui Garibaldi aggiunge che a Salto hanno bisogno d'ogni cosa; chiede 250 cappelli, 200 ponci abiti per i marinai.
Nell' aprile, il Cuneo avendo insistito sulle buone disposizioni del ministro della guerra verso di lui, ed avendolo questi promosso al grado di generale, Garibaldi risponde, un tantino irritato:
"Non ho accettato, il grado di colonnello maggiore, e per conseguenza non accetto quello di generale. Il ministro della guerra deve avere la mia non accettazione, non so se la farà pubblica, se no mi darò io questa pena. Il governo ci ha dimenticato del tutto, o ci ha ridotti ora all'ufficio di guarda-batterie".
"Le cose van bene qui se non fosse lo stato d' inerzia e di nullità a cui ci hanno condotti".....
"
Sono svogliatissimo e mi ci vuole la pazienza di Giobbe.... "
ecco poi la bella lettera che mostrava la sua risoluzione al rifiuto:

"Nella mia qualità di comandante in capo la Marina nazionale, onorevole posto in cui piacque al Governo della Repubblica collocarmi, nulla ho io fatto che meriti la promozione a colonnello-maggiore (generale).
Come capo della Legione italiana quello che posso aver meritato di ricompensa, lo dedico ai mutilati ed alle famiglie dei morti della medesima. I benefici non solo ma anche gli onori mi opprimerebbero l'animo, comprati con tanto sangue italiano. Io non aveva seconde mire, quando fomentavo l'entusiasmo dei miei concittadini, in favore di un popolo che la fatalità lasciava in balìa di un tiranno; ed oggi smentirei me stesso accettando la distinzione che la generosità del Governo vuole impartirmi. La Legione mi ha trovato colonnello nell' esercito, come tale mi accettò suo capo, e come tale la lascerò, una volta compiuto il voto che offrimmo al popolo orientale.
Le fatiche, la gloria, i rovesci che possono ancora toccare alla Legione, spero dividerli con essa fino all' ultimo. Rendo infinite grazie al Governo e non accetto la mia promozione del Decreto 16 febbraio. La Legione italiana accetta riconoscente la distinzione sublime che il Governo le decretò il 1° marzo.
Una sola cosa chiediamo, i miei ufficiali, la Legione, ed io, ed è questa: che siccome spontanea e indipendente fu l'amministrazione economica, la formazione e la gerarchia del corpo fin dal suo principio, s'abbia a continuare sullo stesso piede, e chiediamo quindi a V. E. compiacersi di annullare la promozione di cui tratta il decreto del 16 febbraio relativamente agli individui che appartengono alla Legione italiana.
Dio sia per molti anni con V. E.
G. GARIBALDI

Alcuni membri della Commissione avvertono Garibaldi della mancata disciplina fra i legionari, delle risse che si scatenano tra di loro e dei tanti disgusti che ne sono la conseguenza.
E qui nella stessa lettera da Salto accennata più sopra Garibaldi ne parla:
"Circa a tutto ciò, vi dirò, Fratelli, che la nostra carriera é di apostolato, che dobbiamo aspettarci ogni misfatto ed ingratitudine dai Farisei di cui non rideremo, ma dei quali avremo compassione come di stolti... - Desidero che a tutti i membri della Commissione riunita, come al Comandante Bottaro, agli ufficiali della Legione siano lette queste mie parole, e che esse riescano espressioni di affetto a voi tutti, che siete la mia prima famiglia.
I dismissioni degli Italiani sono l'unica causa del loro abbassamento e delle disgrazie; difetti ne abbiamo tutti, l'essenziale é saperseli tollerare reciprocamente
Comunque io abbia proceduto, amatemi, perché già vi dissi che gli Italiani sono la mia prima famiglia. Addio e scrivetemi : credo ci vedremo presto.
"G. GARIBALDI. n
" P.S. Mandatemi, ve ne supplico, duecento e cinquanta paia di scarpe e cinquanta stivali; e se non avete mezzi, ipotecate il brik "28 di Marzo" che ci appartiene irrevocabilmente."

(Raccolta Zunini).

Finalmente nel giugno, il calice traboccando, Garibaldi scrive una lunga lettera a Cuneo, dove narra che, nonostante le nuove vittorie della piccola flottiglia e della legione il 20 maggio contro le genti del Gomes comandate dagli ufficiali Lamas e Vergara, le persecuzioni crescono e gli atti degli invidiosi divengono infamie.
" Le sconfitte - così scrive - di Lamas e Vergara ci hanno lasciati padroni del Norte del Gualaguay sino alla frontiera del Brasile dimodoché le nostre vittoriose bande signoreggiano sopra spazi immensi e dominano la parte più fertile della Repubblica con la probabilità di non vedere nemici per tutto l'inverno.
E qui narra come questa vittoria si sia "ottenuta proprio quando per demenza del vecchio che io credetti un salvatore, stavamo sul punto di abbandonare il Salto per fame e miseria. Tu ben sai che egli (il generale Medina) indebitamente mi mise agli ordini di Baez (colui che scappò con la cavalleria!), e lo sostenne sacrificandogli persino le glorie nostre per accreditarlo".
Pure, per il buon andamento delle cose, Garibaldi sopportò queste e altre indegnità, finché scoprì che si cercava di corrompere perfino i marinai, e che Medina si accinse a far passare una delle sue creature in Corrientes con tutta la cavalleria; e non gli riuscì unicamente perché i soldati si rifiutarono di seguirlo; il comandante stesso della cavalleria avvertì Garibaldi. Questi allora diede ordine al colonnello Centurione di arrestare il Carvallo capo dei congiurati; ma il Carvallo, essendo a cavallo, si sottrasse all'arresto con la fuga. E fuggendo incontra Medina.
«Fugge anche Medina in pianelle ed entrambi ci liberano così dalle conseguenze di così bassa congiura, lasciandoci morti dal ridere al racconto del Centurione. Dunque uno dei generali in capo cammina a quest'ora in pianelle con questo po' di temporale che fa, accompagnato dal colonnello Carvallo e da due aiutanti sul deserto suolo della Patria, espressione familiare di quel povero vecchio! »
Nel narrare questo comico incidente Garibaldi torna alla consueta calma. Vuole riunita la legione, contro cui vede che il governo stesso é poco benevolo, e continua:
"tu sai quanto sia necessaria la concordia fra i difensori di questo sciagurato popolo".
E chiude la lunga lettera:
"Ti mando una lettera per Mazzini. Ti ringrazio di tutto e particolarmente di quanto fai per la Legione. Voglimi bene ed accelera il tuo venire e dei legionari, Addio.
G. GARIBALDI.
"

Già aveva messo mano alle pratiche per il ritorno in patria, ma per tale scopo erano necessari i mezzi. E ne scriveva al Cuneo in Montevideo.

" Ho deciso di mandare la famiglia a Nizza e siccome si trova affatto impecuniata vorrei che tu avessi la compiacenza di volerla aiutare nel disimpegno di un passaggio per cui do a mia moglie una commendatizia per Lainé e Ousely. Fa anche in modo che possa realizzare certe obbligaciones di Adriana che essa lasciò in mano di Antonini e per cui ha una raccomandazione al presidente Soars. "
Compatisce Cuneo per le contrarietà sofferte e prosegue:

« Ma ti fo una sola osservazione, cioè che disgustandoci e lasciando l'arena, i nostri nemici faranno strazio di noi con diabolica compiacenza ed avremo perduto ogni diritto. Ti raccomando perciò un altro po' di pazienza e vieppiù di condurmi il resto della Legione"
(Raccolta Zunini).

Ma per quanto persuasi di questa necessità, gli amici di Montevideo non cedettero e sapendo quanto Pacheco-y-Obes lo stimasse, appena costui fu richiamato al potere per la nuova caduta di Rivera, assediarono Garibaldi, con preghiere di ritornare e di accettare il comando della piazza.
Fu questa nella sua vita una delle rare volte che Garibaldi si piegò contro le proprie convinzioni; il Nizzardo a cui non era ignoto il malanimo contro di lui e della legione, andava sempre ripetendo ai suoi che l'unico modo di essere utile e onorato, allo stesso tempo, era di non accettare onori né ricompense.
Ma i suoi amici martellavano ostinatissimi il chiodo che accettando avrebbe egli meglio servito la causa abbracciata e facilitato il componimento della legione in grandi proporzioni; in quantoché l'esercito rimasto a Montevideo era in uno stato di insubordinazione indescrivibile; chi parteggiava per Rivera, chi per Pacheco.
Una scena terribile avvenne quando 800 soldati si ribellarono contro il colonnello Giacinto Estibao; questi non volle arrendersi ai ribelli, nonostante gli eccitamenti degli ammiragli francesi ed inglesi di mettersi sotto la loro salvaguardia. Estibao rispose: "Al posto che il generale mi ha assegnato, vivo o morto mi troverà"; lottò per due ore; e, tranne due, quanti gli rimasero fedeli furono uccisi; e ad uno di quei due lui stesso gli schiacciò la testa perché gli propose la resa. Proseguì pertanto a combattere con il solo aiutante di campo che gli era rimasto, fin che entrambi perirono.
Tuttavia non vogliamo mettere in dubbio il patriottismo dei Montevideani e specialmente delle donne. La città che prima dell'assedio contava 60.000 abitanti, era ridotta a 24,000. Ma i pochi nel male seppero impedire il bene voluto dagli altri.
Alla fine, nel settembre del 1846 Garibaldi accettò il comando supremo della guarnigione della città riconducendo a Montevideo i gloriosi superstiti di Sant'Antonio.

Sobillato da alcuni ufficiali, si é ammutinato un reggimento di Colorados, e nessuno dei capi volle assumersi di ricondurlo al dovere, memore della fine del colonnello Estibao. "State dunque qui, se avete paura" disse Garibaldi. E solo, corse a cavallo in mezzo al reggimento, che persuaso dalle sue parole o impaurito dalle sue minacce, si sottomise. E non accaddero altri tumulti.
Presto comunque egli si dimise, e benché la legione continuasse nel servizio della Repubblica, si può dire che il lavoro di Garibaldi nell'America del Sud era compiuto.
Qualche suo biografo ce lo dipinge in sembiante di avventuriero, Ma se avventuriero lui
nell'America del Sud, avventuriero può dirsi Lafayette nell'America del Nord; avventurieri quanti combatterono per la libertà degli altri: Santarosa come Deflotte, Nullo come Bossak, Pacchierotti come Byron, quale morto per la Grecia, quale per l'Italia o per la Polonia o per la Francia o per la Spagna. Luminosa fra le pagine della vita di Garibaldi pare a noi questa all'incontro.

A Montevideo, ove lo vedemmo arrivare buon soldato e nocchiero, egli sviluppava il suo genio di capitano. Sovrano signore di sè stesso, imperava sugli altri quasi per incantesimo. Elementi caotici seppe convertire in ordinate falangi, in forze morali ammirabili e con mezzi inadeguati conseguire vittorie mitologiche. - Onde ci sovvengono quei due versi del Leopardi nei Paralipomeni della Batracomiomachia:
"O costanza, o valor de' prischi tempi !
Far gran cosa di nulla era vostr' arte"

Addestrarsi nell'arte della guerra, celebrar col grido del valor militare il nome italiano, in vista della liberazione d'Italia, furono le idee che guidarono Garibaldi nelle sue gesta americane. Garibaldi non fu mai battuto tranne quando cadde mortalmente ferito e tratto prigioniero a Gualaguay, soggiacque alla tortura. Per quante ricerche abbiamo fatto, ben magri particolari potemmo attingere intorno alla campagna di Rio grande, perché morto Rossetti non c'era altri che sapesse registrare le sue imprese.
Ma resta assodato che egli ne uscì sempre vittorioso come sul Patos, a Santa Caterina, e Santa Vittoria e Imerai; o quando con ingegnose trovate trasportava la flottiglia da lui stesso costruita per via di terra al mare; o sotto il fuoco di 22 bastimenti e di numerose schiere dai sovrastanti monti, salvava armi, munizioni e i compagni superstiti; o, come a Cortigiani, con 60 uomini proteggeva la ritirata dei regolari contro nemici dieci volte superiori, poi attraverso foreste e fiumi li conduceva ai luoghi designati. - A Montevideo nemmeno l'ombra di una sconfitta, salvo quando, dopo tre giorni di combattimento, arde in faccia al nemico i tre bastimenti, come alla foce della Laguna, e va a combattere e a vincere per terra.
Ma le sue vittorie, neppure quella di Salto, ci fanno senso come le qualità morali che andava progressivamente rivelando. Quale acume nelle lettere, ove addita la piaga di provincialismo negli abitanti della repubblica; l'intolleranza scambievole degli italiani, il fatto che essi, essendo apostoli e pionieri della Giovine Italia, tutte specie di avversità, egli ripete sempre, debbono aspettarsi, e subire per risvegliare simpatia a pro della patria derelitta !
E poi, in mezzo a quelle popolazioni semicivili, ove ciascuno ambiva di essere o generale, o presidente, o dittatore, egli non vuole nulla per sè, nulla per i suoi, soltanto la dovuta considerazione, il dovuto rispetto. Questo poi sì! Guai a chi calpesta o disconosce il merito e le sofferenze dei suoi, della sua prima famiglia! Allora diventa quel leone della Basvilliana che
" Fe' con un crollo della sacra chioma
Tremanti i polsi e reverente il ciglio ".
Tale in Montevideo, tale lo troveremo più tardi a Torino quando Cavour e Fanti bistrattavano i superstiti delle Sicilie, tale a Bordeaux quando "i rurali non vollero lasciarlo perorare a favore dei feriti, delle vedove e degli orfani caduti per la Francia".
Fu questo il Garibaldi che destò l'ammirazione del valoroso Brown, del generoso Laine e dell'irato Howden. E se oggi Garibaldi é adorato in Montevideo come in Italia, si deve indagare la ragione altrettanto nel suo carattere che nelle vittorie; tutti conservano qualche ricordo della sua modestia, del suo disinteresse o della sua bontà. Adorazione meritata per i riguardi delicatissimi che egli ebbe verso il paese che l'ospitava. A tal punto che molte delle cose rivelateci dalle lettere di lui a Cuneo, i dolori sofferti, le mortificazioni subite, egli non le ha mai narrate a nessuno; perdonando, magnanimo, le cattiverie di alcuni in omaggio al popolo che soffriva e lottava.
Perdonava, sì; non dimenticava. Nessuna memoria tenace come la sua, e ciò si vedrà quando, pregato di ritornare in Montevideo dopo il 1849, declinò l'onore dell'invito, ragguagliando intorno ai motivi il Cuneo.

Insistiamo sul "lato morale" e dei dieci anni spesi da Garibaldi in America. Perché ritornato in Italia, tutto ciò che sapeva di moderato o di clericale si diede a denigrarlo, rappresentandolo come una specie di capo guerilla, quasi selvaggio, non tollerabile fra popoli civili.
Negli ultimi tempi di Montevideo s'incalorì la sua corrispondenza con Mazzini, avvicinandosi con palesi segni il momento della gran prova per la redenzione d'Italia.

Mazzini commise allora il ritratto di Garibaldi, e fu quello che circolava durante il 1848; e da Mazzini con il mezzo e con i denari di Adriano Lemmi fu noleggiato un bastimento e inviato a sua disposizione, che per fatalità andò perduto.
" È difficile, scrive Cuneo, descrivere l'impressione che le novelle d'Italia producevano nell'animo di Garibaldi ancora in America; la sua fisionomia pareva avesse preso una espressione nuova, i suoi modi erano divenuti più concitati: sovente egli si arrestava sopra pensieri, e gli sfuggiva un leggero sorriso come a chi attende una lieta fortuna"
"Sorgeva a trattenerlo dal sospirato viaggio il governo di Montevideo, che non sapeva rassegnarsi alla privazione di un tanto uomo; ed il giorno della partenza veniva quindi indefinitamente ritardato. Gli indugi frapposti accoravano profondamente Garibaldi, che ogni giorno vissuto in quell'inerte aspettativa, lo tormentava come un rimorso e pareva a lui che ogni giorno di più, passato nella terra straniera, fosse una colpa verso la patria; ond'egli soleva in quella circostanza ripetere con accento di sentito dolore "Duolmi che arriveremo gli ultimi, quando tutto sarà finito".

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