CAPITOLO
DICIOTTESIMO.
IL 1848. LA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI
L'Italia al principio del 1848. - Secondo Metternich, "è
una espressione geografica". - Primo sangue sparso a Milano,
Pavia e Padova. - Ultimatum dei Siciliani al re. - Riforme o rivoluzione.
- Scoppia la rivoluzione. - Pio IX benedice l'Italia. - Lettera di
Carlo Alberto a Castagneto. - "Fuori lo straniero". - Incruenta
vittoria di Venezia. - Le cinque giornate a Milano. - Radetzky messo
in fuga. - Mene albertiste. - Proclama di Carlo Alberto ai popoli
della Lombardia e Venezia. - Carlo Alberto finalmente passa il Ticino.
La poesia "RE TENTENNA"
I nomi dei morti alle "Cinque giornate" di Milano.
Benedetta
quella mano
Che Radetzky ammazzerà.
Fuoco, fuoco, fuoco
S'ha da vincere o morir.
E col verde bianco e rosso
La bandiera s'innalzò.
(Canto del 1848).
Gli avvenimenti si succedevano l'uno all' altro con precipitazione imprevedibile.
E l' imperatore d'Austria, che aveva manifestata all'ambasciatore inglese
a Vienna la deliberazione di non perdere i propri possedimenti in Italia,
dava ad intendere che il suo governo era stato pregato dai Pontifici di
prepararsi a dar protezione armata al papa; e intanto ordiva una congiura
in Roma per una reazione sanguinosa, e allo stesso tempo (luglio 47) occupava
Ferrara.
Non gli riuscì - com'era intenzionato - di rapire il papa, oggetto
della congiura; e il corpo d'esercito austriaco non ottenne il permesso
del papa di entrare in Romagna; anzi l' occupazione di Ferrara infiammò
gli spiriti in tutta Italia, e le nuove soldatesche discese nel Lombardo-Veneto
invelenivano gli odii degli oppressi.
L'Austria chiama l'attenzione dell'Inghilterra sui moti sovversivi italiani,
e nella lettera del principe di Metternich all'ambasciatore conte Dietrichstein
in Londra figura
la celebre infelice frase che l'Italia "è solo una espressione
geografica". (Blue
Books inglesi. Correspondence respecting the affairs of Italy - dal giugno
48 al dicembre).
Il principe mette sull'avviso lord Palmerston che gl'italiani miravano
a costituirsi in repubblica federale. Allo stesso tempo l'Austria minaccia
il granduca di Toscana e gli altri principi italiani di occuparne gli
Stati, se essi concedono l'istituzione della guardia civica o nuove costituzioni.
Il modo poi, onde
all'ambasciatore austriaco a Torino è incaricato di comunicar queste
minacce a Carlo Alberto, questi le giudica come offesa, e ora sembra contento
del grido che intorno a lui riecheggia di - fuori i barbari.
Fa distribuire allora la famosa medaglia allegorica ove il leone dello
scudo di Savoia sbrana l'aquila austriaca.
A Milano intanto
il popolo festeggia l'elezione di un arcivescovo italiano in luogo del
tedesco Gaisruck , e il municipio inalbera per le vie di Milano i vessilli
della Lega Lombarda e erige archi di trionfo ove sono dipinte le vittorie
dei milanesi su Barbarossa. Tutto il popolo muove incontro al nuovo vescovo;
il mattino della domenica l' accompagna alla cattedrale; la sera brillava
intorno al suo palazzo una magnifica illuminazione a gaz.
Nessun segno dall'austriaca polizia del truce disegno del governo di atterrire
i mansueti milanesi: «ma - scrive Cattaneo - la popolazione di Milano
era agitata da una vasta cospirazione, senza che vi avessero cospiratori;
la città operava come un sol uomo.
Da quella sera
di settembre quando la polizia, si rovesciò sull'inerme popolazione,
fino al seguente marzo, ogni giorno quest'ultima diede nuova prova d'odio
e di disprezzo per gli austriaci, Radetzky, capitano generale dell'esercito,
arrotava la spada, come Benedek in Brescia. Il 2 gennaio fu sparso il
primo sangue a Milano; il popolo essendosi imposto di non fumare, il governo
per provocare tumulti sfrenò commissari e poliziotti, che fumando
dicevano: "Vedete, noi fumiamo e a nessuno di voi basta l'animo d'impedircelo".
Il popolo rispose a suon di fischi e i poliziotti replicarono menando
le mani. Interpostisi fra il popolo e le pattuglie i membri del municipio,
il podestà, conte Casati, fu brutalmente percosso sul viso e tratto
in arresto.
Ed ecco comparire gendarmi a cavallo e cacciatori tirolesi schierarsi
dietro ad essi. Casati protesta fieramente al cospetto di Torresani, direttore
di polizia, ma senza avera nessuna soddisfazione; Spaur se ne lava le
mani.
Il 3 la polizia affigge un avviso accusando gente irrequieta e facinorosa
d'aver ingiuriato i tranquilli abitanti e tentato di forzare i passanti
a non fumare; indi prorompono dal castello e dalle caserme 3.000 soldati,
ubriachi di vino e di acquavite, contro i quali i milanesi tennero testa,
ed ebbero 10 morti e molti feriti, e fra i primi il consigliere d'appello
Carlo Manganini, sessantenne e cittadino inoffensivo.
L'8 gennaio e
l'8 febbraio nuovo sangue fu sparso alla Università di Pavia e
di Padova, d'onde fu da quel momento applicata la legge marziale.
Frattanto i siciliani
che avevano domandato pure loro le riforme al re, vassallo fedele dell'Austria,
lo sfidarono per il 12 gennaio, e il 12 gennaio le donne palermitane vestite
a lutto andarono al palazzo del vicerè di Sicilia a prendere la
risposta, che fu negativa. Allora esse diedero il segno del combattimento,
e il popolo di Palermo, che Garibaldi più tardi appellava per antonomasia
il popolo delle iniziative, si gettò sui soldati borbonici e li
disfece. Costoro cacciati per tutta l'isola furono costretti a rifugiarsi
nella fortezza di Messina.
Napoli, imbaldanzita
da questo successo, strappò un' ampia costituzione al re, che fino
allora si era rifiutato ad ogni ombra di riforme. Su questo esempio, a
Roma, a Firenze, a Torino, fino allora contenti di miglioramenti e di
riforme, si richiese la costituzione, che il papa il granduca e Carlo
Alberto dovettero concedere.
Il 10 febbraio Pio IX bandì il famoso proclama, che si chiude con
queste parole:
« Qual pericolo infatti può sovrastare all'Italia finchè
un vincolo di gratitudine e di fiducia, non corrotto da veruna violenza,
congiunga insieme le forze dei popoli, con la sapienza dei principi, con
la santità del diritto? Ma Noi massimamente, Noi capo e pontefice
supremo della santissima Cattolica Religione, forse che non avremmo a
nostra difesa, quando fossimo ingiustamente assaliti, innumerevoli figliuoli
che sosterrebbero, come la casa del padre, il centro della Cattolica Unità?
Gran dono del cielo é questo fra tanti doni con cui ha prediletto
l'Italia; che tre milioni appena di sudditi nostri abbiano due cento milioni
di fratelli di ogni nazione e di ogni lingua. Questa fu in altri tempi,
e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma; per questo
non fu mai intera la rovina d'Italia: questa sarà sempre la sua
tutela, finché nel suo centro starà questa Apostolica Sede.
Oh ! perciò benedite, gran Dio, l'Italia, e conservatele sempre
questo dono preziosissimo di tutti, la Fede!
Beneditela con la benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte
per terra, il vostro Vicario. Beneditela con la benedizione che per lei
vi do mandano i Santi, a cui diede la vita, la Regina dei Santi, che la
protegge, gli Apostoli di cui serba le gloriose reliquie, il Vostro Figlio
Umanato, che in questa Roma mandò a risedere il suo rappresentante
sopra la terra ».
Indescrivibili
la gioia, la speranza, l'amore e la gratitudine che tali parole accesero.
L'amor patrio divenne passione, e sacro debito la cacciata degli austriaci.
I preti, avutane autorità dall'esempio del loro capo, si tramutarono
in apostoli di libertà e di odio contro l'austriaco. E le plebi
cittadine e rurali supine e inconsapevoli, persuase che la libertà
d'Italia non contraddiceva alla religione la quale in cambio la sanciva
e la benediceva, assursero per la prima volta, e per la prima volta il
sentimento di fraternità si diffuse come per incanto dall'Alpe
al Lilebeo. Gli albertisti per mettere la sordina alla corda dell'entusiasmo
salito al delirio per Pio IX, ovunque salutato capo della nazione, e per
deviare un po' di quell'affetto verso Carlo Alberto, sparsero una lettera
che si diceva di pugno del re al conte Castagneto, ove sta scritto: «Se
la Provvidenza ci manda la guerra dell'indipendenza d'Italia, io monterò
a cavallo co' miei figli, mi porterò alla testa del mio esercito,
e farò come ora fa Sciamel in Russia. Che bel giorno sarà
quello in cui si potrà gridare alla guerra per l'indipendenza d'Italia»
Ed essi commentandola
magnificavano gli ordini e la forza dell'esercito e il genio militare
del re. Asserivano intender egli risolutamente di cancellare la macchia
del 21, e temendo l'avvenimento di un'altra forma di governo, o l'innalzamento
sugli scudi di un altro principe, si affannava nell'indurre la gioventù
ardente di Lombardia a consentirgli l' iniziativa della guerra. Ad accrescere
questo timore e a moltiplicare l'entusiasmo popolare sopraggiunse l'annunzio
della repubblica in Francia.
Carlo Alberto, che assai più dell'Austria temeva il contagio delle
idee repubblicane, mandò truppe in Savoia per la formazione d'un
cordone sanitario lungo la frontiera francese, e pareva assai più
incline a dichiarar guerra alla libertà che non all'Austria. E
per la verità la rivoluzione di Milano lo colse quasi disarmato
sul Ticino, benché l'Austria avesse più che raddoppiato
l'esercito in Lombardia.
Alla notizia della
rivoluzione di Vienna scoppiatavi il 13 marzo, Milano e Venezia alla costituzione
offerta risposero: troppo tardi, fuori lo straniero, la nostra costituzione
la detteremo noi.
In Venezia, l'unica provincia ove la propaganda albertista non aver messo
radice, l'impeto rivoluzionario fu universale. Gli arsenalotti, ucciso
Marinovich, il comandante, s'impadronirono dell' arsenale e dei bastimenti
ancorati nel porto; il popolo nella piazza San Marco, le milizie italiane,
segnatamente i granatieri, affratellate con esso. Avesani presentatosi
a Palfïy governatore e a Zichy comandante militare intimò
la resa di Venezia ai veneziani, la partenza della soldatesca austriaca
per Trieste. Guerra, risposero gli austriaci; e guerra, replicarono
i veneziani.
Al suono di questa
parola, l'atteggiamento risoluto dell' implacabile moltitudine, quelli
esitarono, poi capitolarono. I soldati, sparsi nei 72 forti che circondano
la città, e giurato di non più rivolger le armi contro l'Italia,
si imbarcarono e salparono per Trieste.
Questa quasi incruenta vittoria ebbe come risultato la proclamazione fatta
da Manin della repubblica di Venezia e il ritorno del gonfalone del Leone
di San Marco.

Nelle città fortificate di Osopo e di Palmanova, gli abitanti costrinsero
le guarnigioni a sgomberare. A Rovigo un battaglione di cacciatori italiani
imprigionò il colonnello e si mise a disposizione della patria.
Gli austriaci furono obbligati di andarsene da Padova, da Vicenza, da
Treviso, da Udine. Nelle fortezze di Mantova e di Verona custodivano in
fraterna compagnia dei cittadini armati i bastioni e le porte della città;
ma, senza la moderazione dei veri italiani, quelle fortezze quasi improvvisate
e debolmente guarnite sarebbero, come quelle di Osopo e di Palmanova ,
cadute in mano del popolo.
Nella Lombardia,
se eccettuiamo Milano e Como dove gli abitanti costrinsero le soldatesche
ad arrendersi a discrezione - questi veri italiani, ossia albertisti,
tutti ricchissimi proprietari o patrizi, giunsero a frenar l'impeto popolare
e consentirono alla partenza degli austriaci senza torcere loro un capello,
i quali ricoverarono dietro le rive dell'Oglio e del Mincio.
In Milano però
questi non ebbero autorità di sorta; qui preponderanti erano i
democratici audaci, che accettando le teorie della Giovine Italia
si erano però liberati da qualsiasi forma settaria. Appartenevano
per lo più alla borghesia, ma ebbero l' accorgimento di guadagnarsi
l' affetto del popolo senza urtare le suscettibilità dei patrizi,
teneri degli albertisti; volevano presentarli con sembianze gradite al
popolo e da essi ottenere i mezzi per la compera delle armi e per le altre
esigenze dell' insurrezione.
«Se essi avessero dato un fondo di 200,000
lire e 20,000 carabine - scrive
il Cernuschi - questo sarebbe bastato
per finir la guerra in tutte le città lombarde , si sarebbero assicurati
gloria durevole e la supremazia per molti anni in avvenire; ma pur possedendo
una rendita di 100.000.000 di lire, l'aristocrazia di Milano non diede
che spiccioli: solo 7 mila lire".
Però spiriti
dall'amore della popolarità non si erano rifiutati di prender parte
alle dimostrazioni politiche e perciò alcuni di loro furono in
seguito al ritorno degli austriaci arrestati e confinati; il che fece
dire all'arguto Meneghino: "il buon papa ha convertito i nostri
signori".
Ma al giorno delle dimostrazioni era poi succeduto pochi giorni dopo quello
della battaglia, delle barricate, e degli assalti ai presidi austriaci.
Radetzki aveva in Milano ai suoi comandi 27.000 soldati e 60 cannoni e
trenta mila partigiani fra individui nati in Austria e impiegati; le sue
forze concentrate nel castello furono distribuite in 52 caserme ed edifici.
Impedire, punire, imprigionare, esiliare non bastava più all'Austria.
Il martedì grasso, poco prima del Carnevalone, in cui era consuetudine
di molte famiglie lombarde e piemontesi di passare allegramente la settimana
a Milano, fu inaugurato il giudizio statario (da statini), cioé
l'autorità di condannare senza appello e impiccare lì per
lì.
Il maresciallo
Radetzky si fortificava entro il castello, consigliando il viceré
e il conte di Spaur di andarsene. L'eccitamento nel popolo era al colmo;
già si parlava di Carlo Alberto alla frontiera, di 40 mila fucili
spediti da lui a Milano. Intanto, il 17 marzo, abolita la censura, promessa
una legge sulla stampa, la convocazione degli stati tedeschi e slavi e
le congregazioni centrali del regno Lombardo-Veneto.
Durante la notte fu deciso di domandare:
1.° l'immediata abolizione della vecchia polizia, e la composizione
di una nuova magistratura politica sotto il governo del municipio;
2.° l'immediata abolizione delle leggi di sangue e la liberazione
dei detenuti politici;
3.° una reggenza provvisoria del regno;
4." libertà della stampa, per avere l'espressione dei voti
del paese;
5.° la convocazione immediata di tutti i consigli amministrativi per
l'elezione dei deputati ad una rappresentanza nazionale;
6.° guardia civica sotto gli ordini della municipalità;
7.° neutralità con le milizie austriache garentendo loro il
rispetto e i mezzi di sussistenza.
Ma il popolo ormai
non voleva più udire né di concessioni né di doni.
La sera del 17 assalì i picchetti disperdendoli per la città
, spaventandoli con la campana a martello, e impedendone il congiungimento.
Tale audacia impensieriva chi sapeva disarmati i cittadini, inetto e pauroso
il podestà Casati, in cui tutti fidavano, dubbio il soccorso del
Piemonte, scaltro e poderoso il nemico.
Carlo Cattaneo stava scrivendo il programma del giornale il Cisalpino
- "Armi e libertà per tutte le nazioni dell' impero, ognuna
entro i suoi confini", quando all'alba alcuni della gioventù,
alla quale egli aveva insegnato a tradurre la teoria nella pratica, irruppero
nel suo studio dicendo: "Maestro, l' ora é suonata l guidateci
e noi cacceremo gli austriaci da Milano ! "
"Voi non avete armi" egli rispose, tremando all'idea
della responsabilità che quelli gli addossavano.
"Armi o non armi, con voi o senza voi, noi arrischieremo tutto:
i vostri consigli possono decidere della vittoria, ma la vostra opposizione
non può impedire la lotta".
Egli gettò
le sue prove di stampa nel cestino e in un lampo la sua prudenza esitante
si trasformò in un'audace risoluzione. Scelto con tre altri cittadini,
Terzaghi, Clerici e Cernuschi, a comporre un Consiglio di Guerra, dal
primo momento fino all' ultimo egli fu riconosciuto dal popolo quale suo
vero e unico capitano, e dalla stessa gioventù elegante, la quale
in guanti gialli e in vesti all'ultima moda parigina usciva dai balli
e dai saloni per salire sulle barricate.

Radetzky che il
giorno 18 disprezzava quei "damerini" altrettanto li malediceva
il giorno 22 per la loro profonda "dissimulazione"! E aveva
ben ragione di stupirsene. La città per nulla inerme, con sedicimila
austriaci dentro le mura, agguerriti e forniti di tutto quanto in quei
giorni rendeva formidabile un esercito; e per gli insorti nessuna comunicazione
col di fuori, nessuna certezza di soccorso dal Piemonte. Ma Cattaneo si
pose all'opera imperterrito scrisse il breve proclama ai popoli, ai principi,
e al bellicoso Piemonte perché essi aiutassero Milano.
E questi foglietti, subito trascritti e stampati, furono trasmessi con
palloni volanti, i quali servirono egregiamente. Egli conosceva tutti
i lati deboli del nemico e tutte le ragioni d'incertezza, e spedì
ordini precisi e concisi con rapidità elettrica; combinò
le barricate, pose all'opera donne e bambini sui tetti delle case, e nel
frattempo cercava di calmare il timore panico dell'aristocrazia e delle
autorità municipali.
Bolza, agente
di polizia, zelante, ardito, cui il Torresani, che ne era il Direttore,
dava gli incarichi più difficili, al più maledetto dei mortali
agli occhi dei milanesi, di alcuni dei quali egli aveva assassinato, torturato,
imprigionato, esiliato i figli e i padri; colui che aveva spedito allo
Spielberg Confalonieri, Pallavicino ed altri ottimi patrioti, cadde nelle
mani del popolo, che andò a Cattaneo per decidere il da farsi.
E questi: "se voi l'uccidete, operate secondo giustizia; se voi
non l'uccidete, fate opera santa". E Bolza fu salvo.

Gli austriaci
furono assaliti con tale impeto che al terzo giorno si videro costretti
ad abbandonare le loro posizioni nella città (qui sopra l'uscita
a Porta Tosa, in un quadro di C. Bossoli) e Radetzki offrì un armistizio
di quindici giorni che Casati (il podestà, dal proprio figlio trovato
nascosto in un solaio) si mostrava assai propenso ad accettare.
"Giammai, rispose Cattaneo - Quand'anche noi approvassimo
tale viltà, voi non potreste strappare il nostro popolo dalle barricate".
"Voi lo potreste, se lo voleste, rispose Casati".
"Non lo voglio: - Per tre giorni la nostra campana ha eccheggiato
fra i villaggi e le vicine città. Se noi accettassimo un armistizio
noi rimarremmo inerti spettatori dell'eccidio che gli austriaci farebbero
dei nostri amici i quali si affrettano a soccorrerci"
II 21 Radetzky offrì un secondo armistizio rifiutato da Cattaneo.
Gli fu fatto osservare dal conte Durini che l'armistizio riuscirebbe ad
esclusivo favore degli insorti, accordando loro tempo di approvvigionare
la città, la quale, a detta del conte Borromeo, conteneva soltanto
vettovaglie e munizioni per 24 ore e tempo altresì agli alleati
di fuori di venire in loro aiuto.
"Il nemico
- replicò Cattaneo - ci ha fornito fin qui di vitto e di munizioni,
abbiamo viveri per 24 ore; 24 ore di cibo e 24 di digiuno basteranno.
All'ultimo, quand'anche i viveri dovessero mancarci, meglio morir di fame
che di forca".
Tutti gli insorti nelle barricate fecero eco a questa virile risposta.
Agli inviati di Radetzky, Casati rispose: "Signori, vogliate
significare a S. Eccellenza da un lato che le autorità municipali
sono pronte ad accettare l'armistizio, e dall'altro la risoluzione dei
combattenti di morire al loro proprio posto".
A coloro che proposero di bendare i messi, Cattaneo soggiunse: "Non
vi è cosa alcuna da celare" E uno di essi colpito dallo
strano contrasto fra la morale risolutezza e la forza materiale, nell'andarsene
si volse esclamando: "Addio, brava e valorosa gente!".
II 22, l'ultimo
dei Cinque Giorni, il nemico si batté per sei ore ai bastioni di
Porta Tosa. La sera i cittadini forzarono le porte e aprirono la comunicazione
con gli amici, mentre Radetzky cominciava la sua precipitosa fuga verso
le fortezze. Se i consigli di Cattaneo fossero stati eseguiti, quelle
fortezze egli non le avrebbe mai più riviste.
Nel frattempo
arrivava un messo di Carlo Alberto promettendo l' assistenza del Piemonte
se la città si fosse data al re sabaudo (la "Repubblica"
lui l'aborriva e la temeva una volta giunto a Milano)
"Signor Conte Enrico Martini - gli disse Cattaneo - la
città é dei combattenti che l'hanno conquistata; non possiamo
richiamarli dalle barricate per deliberare. Noi suoniamo giorno e notte
le campane per chiamare aiuto. Se il Piemonte accorre generosamente, avrà
la gratitudine dei generosi d'ogni opinione. La parola; gratitudine é
la sola che possa far tacere la parola repubblica".
Durante la lotta, Radetzki così scrisse a Fiquelmont: "Delle
nostre perdite non posso formarmi un'idea, non ho avuto tempo di informarmene
con qualche precisione; in Milano sono smosse perfino tutte le fondamenta,
non centinaia ma migliaia di barricata attraversano le strade e il nemico
dimostra, nell'esecuzione dei suoi disegni, tale circospezione e audacia
che é certo che i suoi capi sono militari stranieri, il carattere
del popolo é assolutamente cambiato, ogni classe, ogni età,
ogni sesso è divenuto fanatico".
I creduti capi
militari ... stranieri erano Cattaneo, Terzaghi, Clerici, Cernuschi, dei
quali neppure uno era stato mai soldato; per mezzo di palloni areostatici
essi sparsero proclami e domande di aiuto alle città e ai villaggi
vicini, e in risposta accorsero dal contado uomini armati di forche, di
vanghe e di picche.
La notizia della
vittoria di Milano agiva come scossa elettrica in tutta l'Italia.
"A Milano, a Milano in aiuto dei fratelli!" fu il grido
universale. Duemila guardie civiche da Bologna, mille e trecento da Livorno,
guardie civiche e studenti da Pisa, da Genova, guardie civiche e volontari
da Firenze; a Roma, bruciato lo stemma dell'Austria, all'ambasciata, e
sostituitavi la leggenda "Palazzo della Dieta Italiana"
partirono benedetti dal papa 10.000 romani. Settemila toscani giunsero
al Po, mentre Napoli mandò una "deputazione di baionette",
per annunciare che il popolo aveva costretto il re a permettere l' arruolamento,
e che presto sarebbe giunto nel nord un forte corpo d'esercito capitanato
dal generale Pepe (Questi fatti e date sono ricavati dalla
corrispondenza fra il governo inglese o i suoi ambasciatori e consoli
in Italia. Blue Books, 1848).
Genova sopra tutte
fremeva; ogni genovese, abile alle armi, si offriva. Spinola, sovrintendente
della regia università, pubblicò il seguente proclama:
"Il Sovrintendente della regia Università
rende noto che tutti quegli studenti i quali, o per far parte della Guardia
civica , o per essersi per altri motivi assentati dalla città,
non possono in questo momento continuare i loro corsi, non cesseranno
perciò d'essere ammessi agli esami senza che abbiano a soffrire
la perdita dell'anno.
Fin da oggi comincia un tempo di vacanza: si pubblicherà in seguito
l'avviso del giorno in cui i corsi saranno riaperti.
Studenti dell'Università, la Patria ha gli occhi volti sopra di
voi; sia che dobbiate difenderla colle armi, sia che dobbiate prepararvi
a servirla coll'ingegno, non vi sfugga che l'ordine e la libertà
sono inseparabili.
"Genova, 23 marzo 1848. - T. SPINOLA. "
Il fremito della
mal domata (e temuta) idea repubblicana serviva come scusa alle indecisioni
del "re tentenna". Fino allo sponde del Ticino, non si era deciso
di inalberare il tricolore, tant'é vero che l'articolo 77 dello
Statuto dichiara che lo Stato conserva la sua bandiera, e la coccarda
azzurra è la sola nazionale; ma il re, fatto il giro dei suoi Stati,
si era reso conto di ciò che gli aveva detto e scritto il gran
genovese (Mazzini) nel 1832: "Con voi, senza di voi, o contro
di voi".
Nel suo successivo
comunicato indubbiamente cambiò idea
E quando uscì
da Genova stessa, un giovane ardito di cui parleremo molto in queste pagine,
Nino Bixio, afferrando le redini del suo cavallo, gli gridò: «Sire,
passate il Ticino e noi siam tutti con voi» (
Brofferio (Storia del Piemonte) narra il fatto e soggiunge: "Uno
scoppio di applausi, lungamente ripetuti, tenne dietro a quelle parole.
Il re impallidì e tacque".)
Dice bene il Brofferio:
"La repubblicana Liguria si faceva monarchica per avere in Carlo
Alberto un italiano stendardo".
E i genovesi senza aspettare il permesso partivano per la frontiera, e
Raffaele Rubattino forniva i mezzi necessari; eppure ancora il ministro
Balbo minacciava di arresto chi osasse passare il confine senza aspettare
gli ordini o i permessi reali.
Alla fine il re, ricevuta la deputazione dei milanesi... (che invocavano
il "vicino bellissimo Piemonte" - petizione firmata perfino
dal Manzoni! l'uomo della "rassegnazione")...
i quali uscendo
dall'udienza dissero ai torinesi: "Noi abbiamo fatto una grande
rivoluzione e voi farete una grande guerra" Carlo si mostrò
al popolo affollato sotto la loggia reale per salutarlo liberatore d'Italia
e campione della nazionale indipendenza, sventolando la bandiera tricolore;
e il giorno 24 sulle mura della capitale si leggeva il seguente proclama:
Tre giorni dopo la cacciata degli austriaci
da Milano, Carlo Alberto passò il Ticino. Sedici giorni dopo quel
fausto avvenimento, avvenne il primo combattimento fra i piemontesi e
gli austriaci.
Ma la fama di "re
tentenna" era purtroppo sempre viva, e tale rimase...
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