VENTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO VENTESIMO

Garibaldi oggetto di viva simpatia in Italia. - Suoi primi discorsi. - Nizza ambita da Lamartine. - Incontro di Garibaldi con il re a Roverbella. - Disinganni. - Invincibile diffidenza di Carlo Alberto. - Impertinenze di Ricci ministro della guerra. - Garibaldi e Medici si rivedono. - Morte di Anzani. - Arrivo di Garibaldi a Milano. - Primo discorsetto. - Battaglione Anzani. - Primo bollettino. - Disastri dell'esercito sardo. - Garibaldi a Bergamo. - Lettera nella quale esprime la sua opinione sullo stato presente.

Facilmente si capisce che non essendo ancora ammessi a combattere sulle pianure lombarde uomini come Cialdini, Fanti e Cucchiari, un uomo con la fama di Garibaldi non potesse ricevere migliore accoglienza.
Già da più d'un anno i giornali italiani andavano narrando lo sue eroiche gesta. Non soltanto la Lega e il Pensiero Italiano di Genova, ma la Concordia, diretta da Lorenzo Valerio, e altri giornali albertisti, inserirono corrispondenze di G.B. Cuneo da Montevideo e diedero anche un rimprovero a un certo Opprandino Arrivabene che osava chiamarlo solamente condottiero, e la sua gente compagnia di ventura.
Valerio, sempre di facili speranze, sul suo giornale diffondeva la lieta novella "che il re in persona aveva richiamato da Montevideo l'eroe di Sant'Antonio".
Il G. Bertoldi - che il "Concordia" ospitava nel suo foglio - avendo già pochi mesi prima composto un inno in onore di Garibaldi, questi aveva scritto commosso da Montevideo al direttore Lorenzo Valerio:
«Pregiatissimo signor Valerio, Il dono che ella si é compiaciuto di farmi, accompagnato da un'iscrizione scritta di suo proprio pugno, mi fu consegnato, e lo conserverò sempre come cara e pregiatissima cosa. Ella più facilmente potrà immaginare, che non io descriverla, quanto commovente riuscisse ai miei fratelli d' arme e a me l'onorevole menzione che il Giornale del popolo e delle famiglie ha fatto di quel poco che noi col pensiero ed il cuore sempre rivolti al bene dell'universale e all'onore della patria, abbiamo operato, nella guerra che affanna questi infelici paesi.
Noi veramente non ci attendevamo una ricompensa simile, che supera di tanto i meriti che sono pur così tenui; né mai ci lusingammo che verrebbe un giorno in cui l'Italia ci animerebbe della sua voce, in tanta distanza, nei travagli che duramo da tanto tempo;
ed ora, giacché la comune patria ha pur voluto col suo plauso dar pregio ai deboli nostri sforzi, noi ci sentiamo doppiamente contenti d'averli rivolti a pro di una nobile causa.
E così, come ella, pregiatissimo signore, ne fa il lieto augurio, sorgesse l'ora in cui ci fosse
dato almeno offrire a codesta caduta il nostro braccio, comunque fiacco , e combattere e trionfare per essa, desiderio lungamente nutrito, e nei dolori dell'esilio fortificato.
La robusta poesia del signor G. Bertolti ha fatto battere con veemenza i nostri cuori; ed io prego lei, pregiatissimo signore, a voler trasmettergli questi nostri sensi di gratitudine.
Noi continuiamo qui a vivere in guerra, falliti i negoziati di pace; ma oggi é guerra fiacca, lenta, priva di gloria; pure, qualunque siano gli eventi che si preparano, la Legione Italiana non farà mai torto né alla sua causa né all'Italia il cui ricordo costantemente la infiamma e sostiene. Si compiaccia gradire i fraterni saluti dei nostri legionari ed i miei unitamente.
Affezionatissimo e riconoscente concittadino a GIUSEPPE GARIBALDI".
Medici intanto in Toscana stava raccogliendo e reggimentanto volontari, sempre nella fiducia che una volta giunto Garibaldi lui rimanesse ferreo alle istruzioni dategli quando era ancora a Montevideo; e ignorando gli eventi d'Italia intendeva agire senza mettersi agli ordini di chicchessia. Certamente lui nulla sapeva allora delle lettere di Garibaldi al Nunzio e ad Antonini.
Bisogna anche però dire che, mentre Mazzini e Medici stesso nei quasi quattro mesi avevano avuto tempo di ravvedersi dalla fede posta prima in Pio IX, poi in Carlo Alberto, conoscevano pure il tradimento atroce del re di Napoli il quale il 15 di maggio sommerse nel sangue la giurata costituzione; quindi quando ormai avevano appreso quale poca fede potesse riporsi nei principi in genere, Garibaldi sbarcò a Nizza, ancora ignorando tutti questi disinganni, ebbro di gioia dell'aver visto per la prima volta il tricolore italiano inalberato su un bastimento sardo; lui era solo impaziente di sguainare la spada per l'Italia.
Garibaldi, senza mettersi in contatto con Medici e Mazzini, espresse immediatamente il suo pensiero schietto ai suoi nizzardi: «Io non fui mai partigiano dei re, ma dacché Carlo Alberto si fece difensore della causa popolare, credo dovergli recare il mio concorso e quello dei miei camerati. D'altra parte una volta che la libertà italiana sia assicurata e il suolo liberato dalla presenza del nemico, io non mi dimenticherò mai d'essere figlio di Nizza, e mi si troverà pronto a difendere i suoi interessi".
(Corrispondenza da Nizza all'Echo des Alpes Maritimes - 26 giugno)

Già egli presentiva la sorte dell'amata sua città, che la Repubblica sotto Lamartine agognava (*), e più tardi l'imperatore prendeva.
(*) Sulle disposizioni del ministero francese citiamo Lamartine:
"Le passé le présent et l'avenir de la République.
Le Roi de Sardaigne sollicité par la Lombardie "et par le vieille ambition de la maison qui convoite e la possession de l'Italie", déclare la guerre à l'Autriche déjà à demi expulsée de ses états italiens Le roi de Sardaigne demande itérativement à la république française un "mot de consentement ou d'encouragement à cette guerre déjà commencée. Le cabinet français refuse, avec une inflexible réserve de prolité, "de dire ce mot". Elle ne s'explique pas, elle ne le doit pas, mais elle prévoit et elle se prépare.
Que prévoit elle? et à quoi se prépare elle? - Elle prévoit donc que le roi de Sardaigne aura ou des succès ou des revers éclatants en Lombardie. Dans les deux cas la France est interessé à agir: elle crée et elle renforce jusqu' à 62 mille homnes l'armée des Alpes, pour être prête à l'action. Si le Roi de Piémont chasse l'Autriche de la Basse (!) Italie et englobe Milan, Venise, Parme, Modène et Gênes (!), la Toscane même, dans ses états, la France ne peut souffrir à ses portes la transformation d'une puissance secondaire en première puissance, sans ombrage. Les frontières de ce nouveau royaume italien touchent aux portes de Lyon. En s'alliant de nouveau avec l' Autriche, ce royaume italien changerait entièrement l'état défensif de la France; les Alpes péseraiunt le double La France, clans ce cas, doit prendre ses sûretés en Savoie et à Nice".
Garibaldi a Genova trovò morente l'Anzani, che come abbiamo già detto amava teneramente, e da Genova corse diritto al campo del Re a Roverbella.
Tutti i suoi biografi in vita e in morte cercano di persuadere gli altri che il re lo accolse benevolmente, mentre i soli ministri gli usarono disprezzo.
Infatti Augusto Vecchi nella sua "Storia di due anni" (Vol. I, pag 216) così descrive l'incontro:
" Carlo Alberto accolse amorevolmente il pellegrino soldato e riguardo alle cose da lui fatte in America gli esprimeva molte parole di elogio, e questi gli rispondeva con piglio di modesta semplicità: "Sire! ho combattuto in terra straniera per la libertà di un paese ospitale e Dio benedisse le armi nostre e i legionari italiani. Con pochi dei miei giunsi in tempo per l'impresa onorata. Ho qui dentro un cuore che ama l'Italia davvero e richiede a mercede poter operare con gli altri ciò che ridondi in di lei vantaggio ed onore".
Il re rispondeva che esprimesse il suo desiderio ai ministri, dolergli di non poterlo fare lui stesso, e lo accomiatatò con gentili testimonianze di affetto"
.
E il Guerzoni (nella sua vita di Garibaldi, vol. I, pag. 225)
« . . . . arrivò fra il 3 e il 4 luglio al quartier generale di Roverbella, e si presentò immediatamente al re. Questi lo accolse con principesca cortesia, si mostrò edotto delle sue gesta d'America e le commentò altamente; ma stretto a rispondere alla domanda dell'eroe, la invincibile sua irresolutezza lo riprese; l'antica sua diffidenza delle armi popolari e degli uomini rivoluzionari lo riassalse, e scusandosi molto male, a parer nostro, con i suoi doveri di re Costituzionale, lo rinviò ai suoi ministri."
E nello spigliato e brioso suo libro, Jack la Bolina, figlio del Vecchi, scrive:
"Garibaldi lasciò Genova e corse ad offrire la spada a Carlo Alberto. Le corrette abitudini di un esercito regolare dispongono male i suoi capi verso chi ha nome di fortunato capo di partigiani. Il grave ed austero Re, circondato da uomini d'indubitato coraggio, ma sospettosi di qualsiasi novità e come lui gravi ed austeri e legati da pregiudizi di casta, di professione e d'abito, accolse amorevolmente ma con esitazione il bollente capitano d'America. Vol. I, pagine 74-75.).
Mentre ora ecco le parole testuali di Garibaldi scritte in America dopo la caduta di Roma (Carlo Alberto era già morto):
"Io lo vidi, vidi quell'uomo che aveva uccisi i più nobili figli d'Italia, che aveva condannato alla morte me e tanti altri, e capii la freddezza del suo accoglimento. Eppure io avrei servito l'Italia sotto gli ordini di un re con lo stesso fervore che sotto una repubblica e avrei condotto i miei giovani guerrieri sullo stesso sentiero, perché essi avevano piena fiducia
in me.
Fare l'Italia una, liberarla dal maledetto straniero, questa fu la mia meta, e fu quella di tutti i miei compatrioti a quell'epoca. L'Italia non poteva essere ingrata al suo liberatore, chiunque fosse. Io non voglio sollevare la pietra che copre una tomba, nè criticare quella condotta che si deve giudicare dalla posterità; io dirò soltanto che chiamato dalla posizione, dalle circostanze a capitanare la guerra dell'indipendenza, Carlo Alberto non rispose alla fiducia riposta in lui. Può darsi che non abbia saputo prevalersi degli immensi elementi che erano a sua disposizione, certo è che egli fu la causa principale della rovina d'Italia."
E il Medici stesso, nelle sue "Memorie", narra così:
"Trovato Garibaldi a Torino, - ma voi - gli chiesi - non venite da Roverbella? non siete andato ad offrire la vostra spada a Carlo Alberto?
Il suo labbro si atteggiò ad un sorriso sdegnoso.
"Quelle persone là - rispose - non meritano che cuori come i nostri si sottomettano alla loro volontà."
Siccome non sembrava disposto a raccontarmi i particolari del suo colloquio con Carlo Alberto, io tralasciai d'interrogarlo.
Più tardi seppi che Carlo Alberto l'aveva ricevuto più che freddamente, rinviandolo a Torino per aspettar gli ordini del signor Ricci ministro della guerra.
Il signor Ricci essendosi degnato di ricordarsi che Garibaldi aspettava i suoi ordini, l'aveva chiamato al palazzo e gli aveva detto "Io vi consiglierei di partire per Venezia: là prenderete il comando di alcune piccole barche, e come corsaro potreste essere utilissimo ai Veneziani. Io credo che quello sia il vostro posto migliore".
Garibaldi, voltandogli dispettosamente le spalle, gli rispose:
"Sono uccello di bosco e non di gabbia".


Questa è storia, e ci sembra storia naturale, pensando al carattere dei due uomini ed alla data del colloquio. Quell' invincibile diffidenza che Carlo Alberto sempre mantenne verso i repubblicani, anche se convertiti, non poteva non incupirsi alla vista di quel bell'audace che egli aveva condannato a morte per aver troppo amato la propria patria e che ora, coronato di vittorie a pro di lontane repubbliche, veniva, secondo il re, a rinforzare quel partito che voleva l'Italia libera dalle Alpi all'....Adriatico. Mentre proprio allora egli trovava necessario l'abbandono del Veneto per assicurarsi il possesso della Lombardia, non prevedendo che l'abbandono dell'uno implicava la perdita dell'altro.
Fresco ancora del colloquio e fremente di sdegno, passeggiando sotto i portici di Torino, Garibaldi s'imbatte in Medici, adirato a sua volta per ciò che egli giudicava mancata fede di Garibaldi. Però Medici aveva in quel giorno seppellito Anzani, che tutti e due così teneramente amavano.
E Anzani, in morte come in vita, era stato l' angelo tutelare di Garibaldi.
"Anzani - scrive Medici - era preoccupato più di quello che dovesse esserlo del mio malumore contro Garibaldi. Spesso me ne parlava, un giorno mi prese per mano e con accento profetico che sembrava attingere l' ispirazione in un mondo migliore mi disse " Medici, non esser severo con Garibaldi: e uomo il quale ha ricevuto dal cielo tale fortuna, che è necessità assisterlo e seguirlo. L'avvenire dell'Italia da esso dipende; è predestinato. Io spesse volte mi sono bisticciato con lui; ma, convinto della sua missione, mi sono sempre umiliato per il primo".
Quelle parole mi colpirono, come devono colpire le ultime parole di un morente, e da quel giorno, spesse volte le udii risuonare alle mie orecchie".
Alla vista di Garibaldi a Torino la raccomandazione di Anzani gli tornò alla mente. L'uno si gettò nelle braccia dell'altro, e quella stessa sera entrambi partirono per Milano.

Alla cortesia del dottor Pietro Ripari dobbiamo la seguente testimonianza sull'arrivo di Garibaldi a Milano:
" Mazzini era già alloggiato all' albergo della Bella Venezia in piazza
S. Fedele; ed io stavo per entrarvi quando osservai verso mezzodì un uomo con le braccia incrociate al petto serrato in un abito turchino, logoro per averlo usato a lungo, ed un cappello bianco in testa. Era fermo davanti alla porta dell'albergo. Un tale mi disse: - quello è Garibaldi. - Vedendo che egli cercava qualcuno, lo accostai e gli dissi all'orecchio: - Se cercate Mazzini, abita lì in quella stanza. - E senza muover il collo mi rispose - Non cerco Mazzini; cerco il Governo. - Allora non avete che da attraversare la piazza. Ecco là il palazzo del Governo. - E difilato corsi da Mazzini con queste parole: - Ho veduto Garibaldi: è qui. - Ed egli a me: - Lo so; eravamo d'accordo che sarebbe sbarcato a Livorno. Là congiungendosi a Medici avrebbe potuto radunare molti volontari e presentarsi qui con una forza già ordinata. Egli invece sbarcò a Nizza, da Genova corse a Roverbella a offrire la sua spada al re. E Carlo Alberto gli rispose che lui era solo un generale in capo dei combattenti contro l'Austria; che si presentasse ai ministri a Torino. E lui male accolto, ora è venuto a Milano. E per quanto facciamo, anche dal Governo provvisorio sarà freddamente ricevuto. -
Poco dopo questo colloquio, entrava un tale, mandato da Garibaldi, certo Boeno, americano, il quale in un linguaggio impossibile faceva intendere a Mazzini che Garibaldi lo aveva inviato a lui per dichiararglisi disposto a fare per l'Italia il suo meglio, essendo a tale scopo giunto dall'America con i suoi cento legionari.
Mazzini rispose essere già molto tardi, ma che comunque se ne sarebbe occupato subito.
Partito Boeno, io dissi a Mazzini: - Vuoi che vada io da Garibaldi? - Ed egli: - Ma sì. Combinerò col Governo provvisorio; metteremo fuori gli avvisi per dire che Garibaldi, arrivato a Milano, accetta di condurre i volontari disposti a seguirlo. - Io andai, e trovato Garibaldi all' albergo del Marino, lui fu gentilissimo con me; e accettava l'incarico propostogli da Mazzini."
La stessa sera nell'Italia dei Popolo, giornale diretto da Mazzini, si leggeva il seguente titolo e articolo:
"GARIBALDI E LA LEGIONE ITALIANA di Montevideo.
Ai valorosi che difendono la nostra patria un valoroso si è aggiunto; lietissimo a noi, lietissimo a quanti lo conoscono, fu il giorno che sapemmo che Garibaldi era in Italia. Arriva in tempo il nostro fratello: la patria ha necessità di uomini a lui simili per senno e per valore. E' venuto il gran dì che egli ebbe sempre in pensiero, quello cioè dell'estremo duello d'Italia e di casa d'Austria; della civiltà e della barbarie; della libertà e della tirannia. A questo giorno egli pensava quando ordinò in Montevideo con Anzani la Legione Italiana. Egli volle esercitare nelle armi uomini nati in Italia, cacciati dalla patria per crudeltà di governi o di sventure, e viventi in remote contrade.
E quando in Montevideo si seppe che il popolo d'Italia si era scosso dal collo il giogo e impugnava le armi, si levò un grido di patrio amore, di amore d'Italia tra quei prodi compagni di Montevideo: e volevano partire subito, e se avessero avuto potere eguale alla volontà, eguale alla fede, sarebbero giunti molto prima in Italia; ma dovettero pensare ai provvedimenti della partenza; la patria carità non venne loro meno, e chi potè portagli aiuto lo aiutò: e tra questi sono da segnalarsi Capurro, Carlo Navizzano, Stefano Antonini, Giovanni della Zoppa e Giannello.
Dolente era la gente di Montevideo, dolentissimi i suoi magistrati che Garibaldi e i suoi compagni abbandonassero quella terra per la quale avevano tanto operato, e tutti ricordavano i memorabili fatti d'arme, il valore di quella legione, e la virtù dei suoi capitani, i quali volevano vestire come i soldati, nutrirsi con gli stessi alimenti, e compiere le stesse fatiche. Voleva il governo esprimere a Garibaldi la sua gratitudine, aiutando come poteva la partenza della legione; e Garibaldi rifiutò l'aiuto, e disse che gli era un gran premio ciò che doveva operare, e che Iddio gli dava largo compenso concedendogli di ritornare in patria. I cittadini di Montevideo, commossi dai pericoli della guerra, pregavano che egli rimanesse ancora; volevano trattenerlo; temevano perdere così tanto aiuto: e Garibaldi acconsentì di restarci quaranta giorni ma non più. E il giorno 15 marzo partiva da Monteviteo, e lo seguiva il pensiero, e il perpetuo amore di quella gente, che annoterà nella sua futura storia il nome, i fatti e la virtù del nostro glorioso fratello.
Garibaldi é dunque fra noi, e lo segue un centinaio di bravi ed esperti uomini d'armi. Grande ventura é per Italia che Garibaldi sia scampato dal fuoco di tante battaglie, ed ora possa adoperarsi in guerra per la sua salvezza. Egli ha tutte le parti del soldato e del capitano; pronto avvedimento nei casi estremi, giudizio nei subiti mutamenti, scienza, esperienza e invincibile costanza.
E per le guerre di bande, di scorrerie non fu mai uomo più adatto, perché si guadagna l'animo dei soldati, i quali lo seguono ciecamente, e per salvarlo non vedono ostacoli, perché egli é infaticabile e raro conoscitore di simile genere di guerra. Noi salutiamo dunque con fraterno affetto il valoroso, l'aspettato Garibaldi; e gli desideriamo nuova gloria, perché la gloria sua é gloria nostra, é gloria italiana." - 15 luglio 1848.

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I tempi ingrossarono davvero. E i membri meno accecati del Governo provvisorio cominciavano ad avvedersene. Il 10 dello stesso mese di luglio Fanti era nominato maggior generale delle genti lombarde, con incarico speciale di comandare una delle due brigate della divisione che si stavano componendo dal generale Perrote. Appena reggimentate, le milizie lombarde erano destinate al blocco della piazza di Mantova e infatti quando Garibaldi entrava in Milano, la divisione, prima brigata Poerio, seconda brigata Fanti, partì per Bozzolo.
Garibaldi la sera dell'arrivo ebbe accoglienze festosissime. La guardia nazionale in parata: grandissima folla e due bande musicali andarono a dargli il benvenuto in piazza del Marino, gridando evviva all'eroe di Montevideo. Il suo primo discorsetto non garbava a tutti:

"Cari milanesi: vi son grato delle vostre ovazioni, ma questo non é tempo di grida e di "ciarle"; é tempo di fatti. Purtroppo lo sgherro nemico ha ripreso lena e coraggio; noi dobbiamo sbarrargli la via al ritorno in queste belle contrade. Non permetteremo nessun intervento straniero in Italia. L'Italia unita può far fronte non soltanto agli austriaci, ma a tutto in mondo. Viva dunque Minano - viva l'indipendenza italiana e buona notte".
Quella frase sull'intervento straniero diede sui nervi alla (mazziniana!) Voce del Popolo che era l'organo di chi accarezzava la speranza di aiuto dalla repubblica francese. E sapendo che Garibaldi era di ritorno dalle tende reali e dalle visite a Torino ove era stato acconto con aristocratica diffidenza, scrisse "queste espressioni non a tutti sembrarono vere o opportune; dobbiamo astenerci perchè possono offendere una nazione amica: non dobbiamo condannare l'Italia ad un fatale isolamento; se mai i suoi destini la mettessero un dì nella posizione di aver bisogno dell'alleanza disprezzata di un popolo fraterno" - (Voce del Popolo, 15 luglio 48).
Ma in quel discorsetto c'era tutto Garibaldi. E smesse le ciarle, accettava l'ufficio di costituire un battaglione di volontari lombardi, e vi si dedicava con Medici.
Garibaldi lo battezzava "battaglione Anzani": ma le armi furon date con scarsezza, avendo detto chi doveva fornirle che erano armi perdute, essendo Garibaldi uno sciabolatore e null'altro. Né meglio procedeva l'assegnazione delle divise; c'eran quelle lasciate nei magazzini austriaci; ma indossarle suscitava avversione a tutti; e d'altra parte pareva assurdo militare in giubba e in tuba, sicché quei patrioti si rassegnarono agli abiti di tela degli austriaci, detti kitters, che trasformarono in tuniche.

Mentre i legionari destinati a Vicenza portavano il nome del loro generale Antonini, e Sacchi che giaceva tuttora ferito a Pavia, vi mandava una compagnia di pavesi, Garibaldi disciplinava i resti dei corpi franchi, e di quanti volontari gli vennero da Genova e da Nizza, intorno al nucleo dei suoi di Montevideo. La legione raccolta nella caserma di S. Francesco era pronta alla partenza.
E intorno ad essa scrive un corrispondente della Concordia:

" Questa notte arrivò un battaglione di Pavia e nel silenzio della notte non mancò ad esso la fraterna accoglienza della nostra cittadinanza. Una schiera numerosa di guardie nazionali vegliò tutta la notte ad aspettarli, soffrendo la pioggia ed il temporale, ed ebbe la ventura d'abbracciarli, di far loro i primi onori della nostra città, di accompagnarli trionfalmente alla caserma. Il popolo li precedeva facendo evviva e cantando inni nazionali.
Lungo tutta la strada si risvegliarono gli abitanti più dormiglioni e s'illuminarono, quasi per incanto, le finestre".

 

Ecco - alla partenza - il primo bollettino di Garibaldi:
" La guerra ingrossa; i pericoli aumentano. La patria ha bisogno di voi!
Chi vi indirizza queste parole ha combattuto per onorare come meglio poteva il nome italiano in lidi lontani; é accorso, con un pugno di valenti compagni, da Montevideo per aiutare anch'egli la vittoria patria o morire su terra italiana.
Egli ha fede in voi; volete, o giovani, averla in lui ?
Accorrete: concentratevi intorno a me: l'Italia ha bisogno di dieci, di ventimila volontari: raccoglietevi da tutte parti in quanti più siete; e alle Alpi! Mostriamo all'Italia e all'Europa, che vogliamo vincere, e vinceremo!.
Milano, 25 luglio 1843. « G. GARIBALDI ».
Pur troppo in quegli stessi giorni accadevano i disastri dell'esercito sardo sull'Adige e sul Mincio. Gli austriaci riordinati e rinforzati, fingendo un attacco sull'estrema sinistra del re a Rivoli, uscirono invece in grandi masse da Verona, piombando sul centro fra Sommacampagna e Custoza. Retrocesso il general Desonnaz da Rivoli e riunitosi al centro e alla destra, tutto l'esercito si riparava a Villafranca e Valeggio e poi dietro il Mincio. Il Governo provvisorio, in grande apprensione, richiamava Fanti da Bozzolo, e stabilì che lui, Restelli e il dottor Pietro Maestri di formare un comitato di pubblica difesa.
Primo atto del comitato fu di mandar Garibaldi a Bergamo col seguente ordine:

"Il comitato di difesa pubblica, in virtù dei poteri dittatoriali di cui é investito, manda il generale Garibaldi a Bergamo con pieni poteri d'intimare la leva in massa e di assumere il comando di tutti i corpi militari stazionati in Bergamo.
Il general Garibaldi raccoglierà i dispersi lombardi e li disporrà come troverà meglio; manderà i piemontesi a Cremona e tratterrà i disertori a qualsiasi provincia appartengano, secondo le circostanze.
Ha autorità di domandare tutto quello che è necessario per la guerra, avvalendosi ove crede meglio dell'aiuto del comitato provvisionale per armare la guardia nazionale. Può requisire provviste, cavalli, abiti, armi e munizioni per completare l'armamento delle sue truppe. Brescia é il punto della più grande importanza, la conservazione di essa é una necessità suprema. Si spera che Brescia possa sostenere un assedio, e che in questo caso il general Garibaldi avanzerà quanto é possibile per congiungersi con Durando e Grifoni e cooperare nella difesa. Se al contrario Brescia non può sostenersi, il general Garibaldi proteggerà i nostri corpi in ritirata e cercherà di prender posizione fra le colline e molestare il nemico. In questo caso sarà suo compito di distruggere ponti, barricare le strade, mettere i villaggi in stato d'assedio e con ogni possibile mezzo ritardare l'avanzata del nemico. Se mai il luogotenente generale Zucchi o altri assumessero il comando in capo dell'intero esercito italiano, il general Garibaldi ne verrà opportunamente informato, ma intanto pieni poteri sono a lui concessi per l'organizzazione di nuovi corpi, e la nomina degli ufficiali con una sola condizione: di darne avviso al comitato di pubblica difesa per ricevere da lui i necessari brevetti.

RESTELLI. - FANTI. - MAESTRI.
Restelli e Maestri scrissero poi: "In tre giorni Garibaldi aveva sotto le armi 3.000 uomini, e si portava fin sotto Brescia.
Passando per Treviglio e giunto a Bergamo, Garibaldi viveva addirittura in mezzo ai suoi; e come egli la pensasse, si può arguire dalla seguente lettera al suo amico Antonini inviata a Genova"
.
Milano, 27 luglio.
"Il nostro esercito pare che abbia sofferto un rovescio che io credo di poca considerazione, nonostante la mancanza d'esperienza militare di molti, e la paura di tanti che lo ha ingigantito, come se tutto fosse perduto. - Bene, io scrivo a te come ad uomo che non sarà d'opinione che un milione di uomini armati, fra i quali più di centomila regolari, debbano abbandonare centomila barbari (obbligati di lasciar fortificato ogni piccolo punto, nell'immensa estensione di paese cha devono invadere) abbandonare, dico, la loro terra, le loro donne, i loro bambini. I bambini, sì, le donne, perchè quelli non le rispettano. - Ed ora non solo il Lombardo-Veneto, ma l'intera, la bella penisola costoro adocchiano con propositi di sterminio e di stupro.

E poi, dove andranno questi nostri infelicissimi paesani? In esilio se salvano la brutta esistenza.
Oh ! svegliate la Liguria, per Dio" in nome di quelli che sono disposti a morire sulla terra italiana, in nome di tanti fratelli e sorelle, ora calpestati dagli infami oppressori. - Svegliate i romani, i toscani, i nizzardi. Scrivete, gridate, fatevi apostoli instancabili della più santa dalla causa. Io piango, scrivendoti, fratello, e non é certo di disperazione. Ho tanta fede nel destino dal mio paese, che non dubito un momento del successo, e non vi é, per rispetto dal nostro esercito e dello spirito nazionale, nulla da temere; ma - non vorrei, per Dio, fosse vilipeso il nome italiano.
Non temo per me, io mi seppellirò certo fra l'ultimo pugno che combatte, e non voglio sopravvivere alle vergogne italiane; ma non ho che una vita e la vita dei fidi e temprati che m'accompagnano. In questo momento ricevo ordine per marciare su Bergamo con 1500 uomini; se vi fosse della gente che desiderasse unirsi a me, procura che ne abbiano i mezzi. Ad ogni modo, fate che non si sgomentino i paesani; non vi é motivo; dobbiamo invece armarci di coraggio e di costanza. Fate poche parola e molti fatti. Evitata le riunioni tumultuanti, dite alla gente cha invece di gridare si presenti con l'arma disponibile, e preparata per marciare ovunque. Ti sarò fratello tutta la vita.
G. GARIBALDI.

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