VENTUNESIMO CAPITOLO


Il costituito "Battaglione Anzani" nella campagna di Lombardia 1848 - Portabandiera era G. Mazzini

CAPITOLO VENTUNESIMO

Il Comitato di difesa decreta la leva in massa. - L' esercito sardo concentrato a Milano. - il commissario regio Olivieri e le barricate. - La capitolazione. - Tumulti. - Garibaldi non capitola. - Suo proclama agli Italiani. - Combattimenti. - Ritirata della legione in Svizzera.

Era già partita per Brescia la guardia nazionale mobilizzata - 100 uomini di ciascun battaglione - guidata da Zucchi, con altri duemila uomini, nuovamente arruolati a Milano. Ma ahimè! troppo tardi. Interpellato il re a Cremona sul suo disegno strategico, affinchè Milano potesse agire di conserva, prima egli rispondeva di voler schierare il suo esercito fra il Po e l'Adda, poi di voler custodire la linea bassa dell'Adda fino a Cassano, mentre Milano penserebbe dal canto suo a difendere la linea superiore da Cassano a Lecco.
Dati perciò gli opportuni ordini, il comitato il 1° agosto decretava la leva in massa dai 18 ai 40 anni, chiamando tutti sulla linea dell'Adda, invitando chi non aveva fucili a portare zappe, scuri, badili.
Poca o nessuna resistenza dell' esercito piemontese all' Adda; anzi il nemico passò quel fiume a Grotta d'Adda. Cosicchè la notte del 2 agosto Fanti, Restelli e un membro del governo provvisorio andarono a Lodi per conoscere le intenzioni del re.
Sua Maestà non li ricevette, ma il general Bava disse loro che il re era risoluto di recarsi alla difesa di Milano, calcolando sulla efficace cooperazione dei cittadini. Rispose la deputazione che tutto era pronto per ciò e che l'arrivo del prode esercito piemontese avrebbe raddoppiato l'ardore dei cittadini; che già si lavorava alle fortificazioni di Milano, e che vi si sarebbero richiamati tutti i volontari sotto Zucchi e Garibaldi.
Al loro ritorno, il comitato pensò di rivolgersi ancora una volta al duce delle Cinque Giornate, a Cattaneo. Egli diede saggi consigli intorno al modo di condursi in Milano; e, all'intento di preservare nello stesso tempo una invasione nemica dalle montagne, propose al comitato di aggiungere alla linea di difesa già formata sul confine del Tirolo, un'altra linea di posti fortificati che chiudessero gli sbocchi delle valli sui piani, la quale dal lago di Garda dovesse stendersi fino al lago di Como: di affidare agli abitanti la custodia di quegli sbocchi; Bergamo e Brescia costituendo due punti eminenti fuori della linea.

Il comitato accettò il disegno e Cattaneo andò subito a Como, Lecco, Bergamo, Iseo, Brescia, e dappertutto trovò rinato l'entusiasmo e gli ardiri
delle Cinque Giornate.
Garibaldi intanto aveva ordinato molto bene la sua schiera; ogni ombra di discordia fra lui e Mazzini era dissipata, anzi Mazzini fu il portabandiera nella compagnia Medici. A Milano il governo provvisorio aveva rassegnato il suo ufficio al generale Olivieri che il giorno 3 scrisse a Garibaldi nella seguente modo:
"Italia libera - Ministero della Guerra -
Milano , 3 agosto 48. Primo anno dell' Indipendenza -Italiana -
al Generale Garibaldi.
L'esercito regio é concentrato sopra Milano: formerà un campo trincerato fuori delle mura della città sul lato della Porta Romana. Noi per conseguenza cerchiamo di concentrare tutte le forze di cui possiamo disporre, per resistere al nemico. Io nella mia qualità di rappresentante del re vi prego di dirigere addirittura tutte le truppe sotto i vostri ordini, verso Milano, ben sicuro che il gran talento militare che vi distingue vi suggerirà i mezzi migliori per molestare il nemico al fianco e alle spalle, visto che esso per ora molesta la nostra avanguardia sulle strade conducenti a Lodi.
Il comandante generale : A. OLIVIERI.
Con la stessa data il segretario generale del comitato avverte il generale Garibaldi che il piccolo corpo di truppe piemontesi in Bergamo si trasferiva a Milano, - ma aggiunge
" voi potete agire liberamente con le forze sotto i vostri ordini, come vi pare meglio".
E il Fanti il 4 agosto gli scriveva:
"Il comitato vi prega di avvicinarvi il più possibile al nemico, di non dargli tregua e per questo scopo raccogliere sotto il vostro comando quanti possono e vogliono portar le armi per guerreggiare contro il tedesco".

E la notte dal 3 al 4 agosto, la legione composta di 5000 uomini si mosse, attenendosi alla linea dell'Adda: ma a Monza si seppe dell' armistizio di Milano. Garibaldi non dubitando che tutti i generali non attualmente dipendenti da Carlo Alberto non avrebbero preso in nessuna considerazione come lui la capitolazione, rivolse a tutti un appello. Ecco quello al generale Griffini in Bresca:
Como, 6 agosto 1848.
Generale,
« Avrete prima di questa lettera udito della capitolazione di Carlo Alberto, e dell' evacuazione della città di Milano dalle truppe piemontesi, con altre notizie. Tutto ciò non ci riguarda; la guerra contro l'Austria continuerà finché ci sono italiani capaci e volonterosi di continuarla. Io ho deciso di fare il mio dovere: spero che voi avrete le stesse intenzioni; e vi prego in questo caso di avvicinarvi con tutte le forze sotto i vostri ordini.
Questa volta davvero, l'Italia farà da sé.
"Vostro con devozione e affetto
G. GARIBALDI."
Intanto essendo l' Olivieri commissario regio della milizia, Montezemolo delle finanze, Strigelli degli affari interni, sotto la presidenza dell' Olivieri, assumevano da quel momento tutti gli attributi del governo provvisorio; e necessariamente cessava con esso, perché ne procedeva, il comitato di pubblica difesa.
Ma i commissari stessi pregarono i membri di aiutarli ancora nei difficili cimenti, ma l'Olivieri li avvertì, che nessun loro provvedimento sarebbe stato valido, se non sancito da lui. E infatti, appena pubblicato dal comitato il proclama che invitava i cittadini ad erigere le barricate al primo tocco della campana a martello, l' Olivieri se ne lamentò amaramente dicendo che era stato imprudente aver messo così in apprensione la cittadinanza, a un pericolo ancora remoto; e minacciò di far rientrare il comitato entro i limiti delle proprie attribuzioni.
Ma oramai il comitato e il popolo comprendevano troppo l'ora del tempo per badare alle ciarle: tacevano le campane ma sorgevano le barricate e si domandavano le armi. Intanto alle due del giorno 4 il nemico assalì i sardi dalla banda di Porta Romana, e i consoli inglese e francese si recarono a Carlo Alberto per ottenere una scorta che li accompagnasse al maresciallo Radetzky, al quale avrebbero chiesto di poter mettere in salvo i loro connazionali.
Non trovarono Sua Maestà e se ne andarono via.
Fanti e Restelli insistevano frattanto con Olivieri per la costruzione delle barricate, al che Olivieri replicava negandone l'urgenza, opponendovisi per non sbigottire la popolazione, per non insultare l'esercito e i suoi duci che in 45 mila facevano scudo alla città, e aggiunse che, pranzando col re in quello stesso giorno, il sovrano gli avrebbe su tutto ciò dato questi ordini.
Un' ora dopo annunzia la perdita di una batteria, la prigionia di un battaglione e il nemico alle porte. Allora, senz'altra esitazione, il Comitato fa suonare le campane a stormo di tutte le chiese, fa chiamare all' armi perché la guardia nazionale sia pronta sotto le bandiere, ai rispettivi quartieri; e dato appena il segnale dell'azione comincia uno di quegli spettacoli solenni e commoventi che bastano a dare giudizio d'un popolo.
"Giovani, vecchi, donne, ragazzi, di ogni classe, con quella festosa benché austera serenità che dimostra la fiducia nella vittoria, accorrono alla costruzione delle barricate. Verso la mezzanotte del quattro agosto Milano ne era tutta piena. Si leggeva sul viso di tutti il desiderio di rinnovare le glorie delle Cinque Giornate: l'avvicinarsi dell'uragano aumentava l'entusiasmo: chi era in Milano in quel giorno, e fu testimonio dello slancio generale del popolo nell'apprestarsi alla difesa, deve deplorare amaramente che gli sia stata imposta una ignominiosa capitolazione! E debbe essersi anche profondamente convinto della impossibilità che Milano rimanesse una città austriaca! (Gli ultimi tristissimi fatti di Milano, narrati dal Comitato di pubblica difesa)
Lo stesso giorno 4 agosto il re entrava in città e prese alloggio nel palazzo Greppi. Il Montezemolo disse al comitato di difesa di esercitare pur liberamente le sue funzioni che il re voleva confermate. Nelle stessa sera, un aiutante di campo del re andò a domandare al comitato in nome di Sua Maestà l'autorità di incendiare le case contigue alle mura, che nuocevano alla difesa della città. Il comitato si mostrava sorpreso di tale domanda; avendo il popolo abbastanza dimostrato di essere pronto a qualsiasi sacrificio.
Durante la notte, tutta la città fu illuminata dalle fiamme delle case fatte incendiare lungo la linea di circonvallazione. Questi incendi, che dal popolo si credevano a scopo di difesa, erano salutati con festa, ed accrescevano coi loro fantastici bagliori l'ebbrezza dei proposito di una gloriosa resistenza.
Fu distrutto così un valore di molti milioni di lire; i proprietari steso assistevano impassibili all'opera di distruzione, o di loro mano concorrevano ad aiutarla"
(idem).
Ora qui succede una cosa incomprensibile. I consoli inglese e francese, a mezza notte del 4-5 agosto, vogliono assolutamente andare al quartier generale di Radetzky; e in cammino sono raggiunti da due generali di Carlo Alberto, Roso e Lazzari. Assieme con essi, ma dichiarando di non aver nulla in comune, si recarono presso Radetzky, sei miglia da Milano. Questi prima riceve Rossi e Lazzari, poi i consoli inglese e francese. Monsieur Reiset prega il maresciallo di accordare un armistizio di 48 ore. "Che armistizio - risponde Radetzky - se hanno capitolato !" - "In tal caso - replicano i consoli, - la nostra missione è compiuta."
"Alle 6 di questa mattina 5 agosto - scrive il Campbell - siamo andati al palazzo Greppi ove era alloggiata Sua Maestà, per sapere se la capitolazione era vera"
( Corrispondenze, parte III, dal luglio al dicembre 48, hag. 128, N. 143.).
Non potendo avere risposta, essi mandarono la seguente lettera a Radetzky
M. Reiset and Vice-Consul Campbell to Marshal Radetzky
(Idem, pag. 129).
"M. Le Maréchal,
M. Reiset, chargé d'affaires de France, et Mr. Robert Campbell, Vice-Consul d'Angleterre, ont l'honneur de vous demander au nom de tous les consuls résidant à Milan, quarante-huit heures d'armistice, afin qu'ils puissent faire sortir de la ville tous leurs nationaux. Ils demandent encore à M. le Maréchal Radetzky de vouloir bieu fournir un « sauf-conduit jusqu'à la frontière Suisse.
MM. les Consuls étrangers à Milan mettent sous la sauvegarde de M. le Maréchal Radetzky toutes les propriétés appartenant à leurs nationaux et les chancelleries des Gouvernements étrangers.
MN. Reiset et Campbell ont l'honneur de joindre la liste des' noms des Consuls résifiant à Milan, et en même temps d'assurer son Excellence de leur haute considération.
REISET. - R. CAMPBELL. »
Ora ci domandiamo, come mai il re che aveva promesso di difendere la città fino all'ultimo, aveva prima stipulata la capitolazione e poi chiamava a consulta il corpo municipale il mattino del 5 ?
E il municipio volle consultato altresì il comitato di difesa e lo stato maggiore della guardia nazionale, ma il re non li ricevette
(Gli ultimi tristissimi fatti narrati dal Comitato di pubblica difesa.).
In sua vece furono accolti vari suoi generali, fra i quali Olivieri, Salasco, Bava.
Il generale Olivieri espose che il re era venuto a Milano con la ferma determinazione di difendere la città, ma che imperiose circostanze lo avevano posto nell'impossibilità di realizzare tale suo desiderio; l'infelice successo del fatto d' arme dei giorno antecedente aver prodotto la perdita di una batteria - essere stato intercettato il parco dell'artiglieria di grosso calibro e le munizioni da guerra non avanzarne che per una sola giornata - sapersi della mancanza di viveri per l'esercito e per i cittadini - difettarsi di denaro, ed essersi perciò il re determinato, nella sera del giorno antecedente, di proporre accordi a Radetzky, anche per risparmiare alla città l'estremo eccidio, essendo inutile qualunque resistenza.
Le proposte essere le seguenti: che il re colle sue genti si ritirerebbe al di là del Ticino, domandando che la città fosse risparmiata, e si accordasse oblio totale del passato per i compromessi in questa guerra e facoltà a qualunque cittadino di partire assieme all'esercito.
A queste proposte Radetzky avrebbe risposto: che accettava la ritirata dell'esercito al di là del Ticino, che avrebbe risparmiata la città, che avrebbe avuto, "per ciò che stava in lui", quanto al passato, i riguardi voluti dall'equità, che voleva la consegna di Porta Romana per occuparla militarmente, che accordava la uscita dei cittadini con le truppe del re per tutta la giornata fino alle sei pomeridiane.
La capitolazione fu presentata dai generali Olivieri e Bava con l'aspetto di un fatto compiuto: e lo era.
Ora noi non vogliamo indagare se la capitolazione fosse inevitabile; certo non era necessario l'inganno in cui furono tratti i milanesi, e neppure la calunnia dopo averli consegnati al nemico.
Molto si è biasimato il popolo milanese per aver insultato Carlo Alberto in Milano; ma ancora torniamo al console inglese per la narrazione genuina dei fatti. Soltanto quando si seppe della capitolazione e molte delle carrozze reali erano già in via per Torino scortate da un corpo di cavalleria, il popolo correndo al palazzo Greppi tolse i cavalli a quattro o cinque di esse gridando: "morte a Carlo Alberto ! siamo stati traditi !".
Ancora fra mezzanotte e le due circolavano le voci che Carlo Alberto avesse rifiutata la capitolazione; allora da capo suonava la campana a stormo; la guardia nazionale e i cittadini armati correvano alle barricate, risoluti a difender la città fino all'estremo. Alle 4 e mezza del 5 si affiggeva un proclama firmato da Pompeo Litta e dall'abate Anelli: " Il re ha dato la sua parola d'onore e offre la sua vita come garanzia che combatterà con tutto l'esercito fino al l'ultimo istante."
Ma nessuna fiducia fu posta nella promessa del re; e all'avemaria una immensa folla si radunava sotto le finestre di Sua Maestà Carlo Alberto, servendosi dei più obbrobriosi epiteti contro lui e la sua famiglia. Venne sul balcone il duca di Genova, pregando la folla di ritirarsi, giacchè Sua Maestà era indisposto.
"Meglio che fosse morto - fu risposto - quanto a voi, siete un impostore".
Ci fu un momento che si temette per la vita di Sua Maestà; giacchè il popolo provocato dalle fucilate tirate su di esso, dal fatto della capitolazione e dall'ignoranza in cui fu tenuto dei termini della stessa, tirava fucilate contro il palazzo Greppi. Verso le due di mattina si caricava il popolo (con cartucce vuote) e intanto il re riuscì a fuggire da Milano.
Il giorno 6 il municipio di Milano annunciava che, in virtù della convenzione conclusa fra Carlo Alberto e Radetzky, il maresciallo occuperebbe Porta Romana alle 8 e la città alle 12.
Già nel proclama di Carlo Alberto ai soldati e al popolo dell'Alta Italia si scagionava il suo esercito dicendo che esso pativa la fame; ma, come ben dimostravano i suoi propri ufficiali, se ne doveva incolpare i suoi intendenti i quali non sapevano distribuire i viveri a tempo e luogo.
Nè ciò desti meraviglia perché anche nella guerra del 70 fra la Prussia e la Francia la metà degl'insuccessi di tutta la guerra e tre quarti di quelli di Bourbaki, vanno attribuiti alla inefficenza o all'infedeltà dei commissari dell'intendenza. Era però dura per i milanesi e per tutti i lombardi l'accusa di aver lasciato patire la fame all' esercito di fratelli venuti in loro aiuto; e avevano ragione i membri del comitato di difesa di insistere per una inchiesta intesa a scoprire i rei.

Il proclama è del 7 agosto da Vigevano, vi si legge il seguente periodo:
"Tutte le truppe furono condotte da noi sotto le mura di Milano, pronte a fare forte resistenza; quando abbiamo saputo che il denaro, la munizione e le provviste mancavano completamente, mentre le nostre erano state consumate durante le nostre battaglie date".
Il console Campbell nello scriverne lord Palmerston (prot. 193, n. 196), dice:
"Sento essere mio, dovere, mio lord, di affermare che non ci fosse mancanza di denaro, essendoci più di due milioni di lire nella tesoreria; dippiù tutta l'argenteria appartenente alle chiese e alle famiglie più ricche era depositata alla zecca pronta per esser coniata. Noi, vi era mancanza di provviste, giacché per molto tempo prima il Comitato di difesa ne aveva raccolto una quantità abbondante. Non v'era mancanza di munizioni, essendovene abbastanza per difendere la città per parecchi mesi; grandi quantità di munizioni erano state depositate in parecchi punti della città; i depositi principali erano il Genio, la chiesa di S. Carlo, la chiesa del Camposanto e il palazzo Borromeo. Mi ha assicurato una delle più alte autorità austriache esserci una tale abbondanza di munizioni in questa città, da doverne loro gettare molta parte nei canali".

Ma intanto Radetzky e gli austriaci erano in Milano. I lombardi raminghi, il popolo piemontese fremente, il ministero dimissionario. Un uomo solo operava, stupito dell'inerzia degli altri: Garibaldi, che da Monza aveva comandato ai suoi 5000 di retrocedere per Como, aspettava la risposta dei corrieri spediti da esso a Manara, a Griffini, a Durando, a D'Apice e ad altri capi dei corpi volontari dell' alta Lombardia invitandoli a congiungersi con lui nelle forti posizioni che egli occupava; forti e sicure, perché garantita la ritirata nella Svizzera.
Ma i volontari del colonnello D'Apice erano già dispersi per mancanza di vestiti e di pane; molti altri sotto Saverio Griffini giunsero con molti difficoltà per la via dei monti fuori del passo d'Aprica alla frontiera dei Grigioni, ove il Griffini lasciò i cannoni, e ai Grigioni consegnò uomini ed armi.
Durando era già in Piemonte, e il valoroso Manara non seppe decidersi ad affrontare l'armistizio, in cui purtroppo egli sapeva essere consenzienti quei milanesi che a Milano governarono.
Garibaldi a Como, formando i ruoli della legione, non trovò che duemila soldati. "Allora collocò in batteria i suoi due cannoni a San Fermo (dove poi nel 1859 disfece gli austriaci) e prima di prendere posizione sulla piazza, - scrive il Medici - ci unì e ci fece un discorso".
I discorsi di Garibaldi, vivaci, pittoreschi, seducenti, hanno l'impronta della vera eloquenza del soldato. Ci disse che bisognava continuare la guerra da avventurieri, in bande armate, e che questa guerra era la più sicura e la meno pericolosa, che trattavisi solo d'aver fiducia nel capo e di aiutare i propri compagni".
Il giorno 7 la legione era a Varese, l'8 a Sesto Calende, sempre inseguita dagli austriaci, per cui, a riordinare i suoi, Garibaldi li condusse a Castelletto sul territorio piemontese da dove bandì il seguente proclama:

ITALIANI,
"Dio e il Popolo.
Eletto in Milano dal popolo e da' suoi rappresentanti a duce di uomini, la cui meta non é altro che la indipendenza italiana, io non posso uniformarmi alle umilianti convenzioni ratificate dal Re di Sardegna con lo straniero aborrito dominatore del mio paese.
Se il Re di Sardegna ha una corona che conserva a forca di colpe e di viltà, io e i miei compagni non vogliamo senza compiere il nostro sacrificio abbandonare la sorte della nostra sacra terra al ludibrio di chi la soggioga e la manomette.
Un impeto solo di combattimento gagliardo, un pensiero unanime ci valse la santa civile indipendenza che gustammo, sebbene ben pochi fra i migliori l'avessero guadagnata, ed uniti poi con i più, per inganno la vedessero scomparsa. Ma ora che il pensiero, sciolto l'iniquo freno alla sua manifestazione, già diffuse per tutte le menti quella suprema verità, che suona sterminio di tiranni, ora che l' opera, da infiniti elementi rafforzata, si può coordinare, e vi concorrono già numerosi corpi emancipati dagli interessi recati ora che sono smascherati quei traditori che pigliarono le redini della rivoluzione per annichilirla; ora che son note le ragioni dell'eccidio a Goito, delle mitraglie e delle febbri a Mantova, dello sterminio dei prodi Romani e Toscani , e delle codarde capitolazioni, il popolo non vuole più inganni. Egli ha compresa la sovrana sua potenza: la provò, e vuole conservarla al prezzo della vita. Ed io ed i miei compagni che ne ricevemmo fiducioso mandato, che accogliemmo qual dono il più prezioso che potesse a noi elargire il Supremo, noi vogliamo corrispondervi come ne spetta. - Noi vagheremo sulla terra che é nostra non ad osservare indifferenti la tracotanza dei traditori, né le straniere depredazioni, ma per dare alla infelice e delusa nostra Patria l'ultimo nostro respiro combattendo senza tregua e da leoni la guerra santa, la guerra della indipendenza italiana.
Castelletto, 13 agosto 1848.
GIUSEPPE GARIBALDI".


La mattina dopo una trentina dei più arditi ritornò sul suolo lombardo, assalì gli austriaci, uno ne uccise, due li ferì, e riportò indietro una lancia come trofeo. Ancora Garibaldi aspettava risposta da Durando e Griffini; poi il 14, senza viveri e denaro andò ad Arona, ebbe dal Municipio settemila lire e venti sacchi di riso e più di mille razioni di pane, sequestrò nove barche e due battelli a vapore, il San Carlo e il Verbano, v'imbarcò la legione e il giorno 15 discese a Luino, ove fu obbligato a fermarsi, prostrato dalla febbre, in un alberguccio detto La Beccaccia.
Ma egli in persona dispose i suoi avamposti sulla strada di Germignaga e sul lato opposto di Luino. Nella notte seppe che 700 austriaci si erano avvicinati a Luino; mise in agguato cento uomini tra l'albergo e una casa appartenente alla contessa Crivelli, gli altri li lasciò sulla riva del lago, anche per guardare i due cannoni, che non potevano trasportare dal S. Carlo. Giunsero rinforzi: così erano in tutto 1200 austriaci sulla strada. Quattrocento, la colonna con Garibaldi; quella di lato obbediva a Medici. Eseguito un simultaneo attacco alla baionetta, gli austriaci fuggirono abbandonando un centinaio fra morti e feriti, e 80 prigionieri. Il Vecchi scrive:

(L'Italia - storia di due anni, 48-49, vol. I, pag. 262)
"La mattina seguente il duca di Genova giungeva in Arona, e saputa la disfatta dei 700 austriaci in Luino e il quartier generale di Garibaldi poco lontano da quel paese, gli mandó tramite un gendarme un suo dispaccio con cui gli ordinava di entrare nel territorio piemontese, e di rispettare i trattati fatti coll'Austria; in caso contrario sarebbe stato costretto, perchè il governo non si rendesse complice di simile violazione, di provvedere a fine che egli ed i suoi non rientrassero più negli Stati Sardi."
Garibaldi rispose: "di non riconoscere affatto l'armistizio Salasco, di essere soldato d'Italia e aver giurato combattere il nemico della sua patria, fino all'estremo".
Garibaldi allora ordinò a Medici di inseguire gli austriaci; e questi li incalzò fino a Germignaga, ove ebbe disponibile un corpo assai più agguerrito che circondò il paese, costruì barricate, e forava le mura.
Riunita allora la legione, Garibaldi si affretto su Guerla e di qui a Varese ove gli abitanti lo ricevettero a braccia aperte. Spinse Medici a Viggiù e più avanti sulla via di Como per impedire l'avanzare del nemico. Medici collocò una compagnia a Cazzone per guardare la via che viene da Malnate, dove erano i croati; la seconda sulla via di Rodano d'onde sarebbero venuti i nemici da Como e da Olgiate; la terza a Ligurno. Ciascuna compagnia di 110 uomini.
La mattina si annuncia nelle file austriache con l'arrivo di molti croati; Medici manda una squadra di 20 sotto il capitano De Vecchi ad occupar la Collina dirimpetto a Rodano; giunti sulle alture, i croati salivano dall'altra parte ed erano a cento passi. I legionari li ributtarono a precipizio; o si ritirarono a ridosso delle case del paese, poi o dalle finestre o nascosti dietro i muretti della strada improvvisamente cominciarono a far fuoco sugli Austriaci.

Medici spedì un'altra squadra di 30 uomini, che con uno schieramento sottile occuparono per lungo tratto le colline. Durante cinque ore i garibaldini risposero vigorosamente in cento al fuoco di 3000 nemici e di due artiglierie: e poi soltanto quando capirono che il nemico stendeva le sue ali per circondarli, indietreggiarono al passo, combattendo, fino in Svizzera.
Medici che occupava Ligurno non aveva fatto male i suoi calcoli. Fra Cazzone , Ligurno e Rodano, che guardano tutte le strade verso Como, si trovava la forte posizione di San Matteo; qui richiamò tutte le sue genti, sapendo di aver molto vicino la divisione di Aspre che era di circa 5000 uomini; i quali in quella forte resistenza non riuscivano a capacitarsi di aver contro di loro un così scarso numero di nemici, e infierirono perfino contro i contadini locali ritenendoli dei fiancheggiatori.
Medici perdette il valoroso Azzolini e due altri furono feriti; giunto in Svizzera, dove gli svizzeri stessi narrarono nel giornale Il Repubblicano con grande meraviglia l'evento, rideva allegramente al proclama altisonante del generale d'Aspre, che diceva di aver sostenuto un combattimento accanito contro l'esercito del generale Garibaldi forte di 5000 volontari.
Ma Garibaldi, bene informato del numero e della posizione dei nemici, fidandosi in Medici in grado di cavarsela da solo, si arrampicò sulla Valgana, scese a Gavirate, poi per Capolago e Gazzada giunse a passo di corsa a Morazzone, alle spalle del nemico che credeva di averlo già cacciato in Svizzera.
La mattina lo stesso d'Aspre lo attacca con i suoi cinquemila. Garibaldi si slancia a cavallo e lo fronteggia, benché venti volte inferiore di numero. E per tutta quella giornata lo batté senza mai indietreggiare. Egli però sapeva di non poter vincere, ma volle difender la via della ritirata fino alla frontiera elvetica. Caduta la notte riunì tutti i suoi uomini in una colonna serrata, poi irrompendo sul nemico alla baionetta, apertosi un varco si trovò con i suoi in aperta campagna. E qui, ad un miglio da Morazzone, Garibaldi sciolse la sua gente, dandole convegno a Lugano per la ripresa delle ostilità.
Poi travestito da contadino giunse ad Agno in Svizzera, poi a Lugano, ove per ordine del governo federale fu arrestato; ma poi prosciolto di lì a poco ritornò a Nizza, per guarire della febbre che incessantemente lo travagliava. Così finiva la prima campagna di Garibaldi in Lombardia (1).
Quantunque questo fatto non ottenesse un gran successo, l' ardito combattere, senza contare i nemici e la mossa stupendamente strategica della ritirata, fecero conoscere Garibaldi come gran generale; e più tardi il general d'Aspre pensando agli scontri di Luino e di Morazzone, in presenza di un'autorità piemontese a Parma, si dice abbia esclamato:
"L'uomo, che avrebbe potentemente giovato alla vostra guerra, voi non lo avete conosciuto: questi è Garibaldi" (2).
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(1) Per i particolari della spedizione di Garibaldi in Lombardia, dopo l'armistizio, mi sono servita principalmente del Vecchi allora capitano sotto Medici, di relazioni inedite di volontari che facevano parte dell'impresa: Ghiglione, Viscardinì, Achille Sacchi e altri. Finora si è data troppa, anzi esclusiva importanza alla parte che vi prese Medici. Egli combatteva da prode quale era, ma il duce o la mente direttrice era sempre Garibaldi.
(2) G. B. CUNEO, Biografia di Giuseppe Garibaldi, Torino 1850.

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