TRENTATREIESIMO CAPITOLO

CAPITOLO TRENTATREIESIMO

Mazzini e i principali uomini della democrazia con la stampa e con le congiure preparano l'Italia a nuova e decisiva lotta. - Influenza delle dottrine di Carlo Cattaneo. - Sintomi annunciatori del colpo di Stato in Francia. - Mazzini firma in Londra il proclama ai popoli del comitato centrale democratico europeo. - Quest'atto, accolto favorevolmente dall'universalità degli italiani suscita ire e proteste. - Condanne politiche a Padova e a Rovigo. - Feroci rappresaglie e vendette del Governo restaurato nella Romagna e nello stato pontificio. - Fucilazione d'Antonio Sciesa in Milano e impiccagione di Luigi Dottesio in Venezia. - La congiura di Mantova e i martiri di Belflore. -
Il colpo di stato in Francia giudicato da Carlo Cattaneo.

Mentre il governo sardo si lasciava sospingere alla preparazione della guerra d'indipendenza dagli esuli monarchici e dai piemontesi, i principali capi della rivoluzione lavoravano indefessamente, ma con mezzi differenti, al medesimo scopo.
Garibaldi dal suo asilo in America spiava e attendeva l'occasione propizia per poter compiere la missione, riservata a lui solo dai fati d'Italia, di guidare le forze popolari alla riscossa e alla vittoria; intanto si manteneva taciturno o se parlava non era che per sconsigliare moti e iniziative parziali.


CARLO CATTANEO, pubblicata clandestinamente la Storia dell'insurrezione di Milano e della guerra del '48 (l'opera la troviamo interamente su queste pagine di Cronologia - vedi > > ), dove il valore, il martirio, il genio e gli errori di quella grande epopea sono mirabilmente disegnati e coloriti, si diede tutto a raccogliere e ad ordinare i documenti della rivoluzione italiana nell'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX alla caduta di Venezia.
(dopo averlo pubblicato in francese, con una edizione in italiano stampata a Brusselles, Cattaneo fa questa premessa iniziale "Il Piemonte ha fatto sequestrare in Francia questo libro che avevo là pubblicato in francese, nè posso sperare che questo in italiano possa essere mai letto.
Infelici gli eroi che temono la storia".

Nella stupenda prefazione di questa raccolta lumeggia l'idea federale, come unica ancora per la salute d'Italia. L'unità federale e repubblicana era il suo ideale. - Convinto dell'indomita unanimità degli Italiani nel concetto di nazione, la spronava sulle orme della libertà. Ma gli rimproverava di avere dimenticato, che l' arte della libertà è l' arte della diffidenza, che libertà è padronanza e padronanza non vuole padrone.
Federalista convinto e appassionato era pure il Ferrari, che nel gennaio del 1848, aveva ammonito l'Italia: "L'hypothèse de l' unité s' attacherait nécessairement à un prince , à a une famille royale; elle- inspirerait a tous les princes menacés l' alliance de l' Autriche, elle envelopperait l'oeuvre de l'indépendance dans le mystère d'une cour; la discorde se rait dans le camp avant le combat"

L'autore di queste parole era d'ingegno e di coltura di prim'ordine, e grande autorità avrebbe certamente avuto sugli uomini e sulle cose del suo tempo, se non avesse giudicato i tempi e gli uomini con criteri francesi.
E Cernuschi, l'imperterrito Cernuschi, l'anima delle barricate a Milano e a Roma, due volte imprigionato dal governo provvisorio di Milano, perché svelava nel suo giornale - l'Operaio - le mene subdole dei fusionisti, e nel 49 dai francesi per falsa accusa di aver eccitato il popolo ad insorgere contro di essi nel loro ingresso in Roma, l'8 luglio predicava che Parigi rivoluzionaria avrebbe abbattuto Roma reazionaria. Si sentiva in lui l'influenza delle idee del Ferrari e del Cattaneo, dei quali divenne discepolo anche il Montanelli, devoto un giorno al concetto unitario. E non deve dimenticarsi che proprio in quel tempo l'esule Vincenzo Gioberti scriveva in Parigi il suo "Rinnovamento".

Nel Canton Ticino, il quale per non volere venir meno alla sua "meravigliosa ospitalità" compromise perfino i propri interessi, altri insigni patriotti, sotto il titolo di Documenti della guerra santa d'Italia, ricordavano ai posteri la virtù e il valore del gentil sangue latino.
Mazzini con Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Montecchi, Quadrio, intraprese a Losanna, la pubblicazione dell' "Italia del Popolo" libera voce della patria raminga alla patria schiava.
(*) Cominciata nel settembre del 1849, continuò, per dispense mensii, fino al maggio del 1850, poi ad intervalli maggiori sino ai primi mesi del 1851. Vi scrivevano, con Mazzini e con me, M. Quadrio, F. De Boni, Pisacane, G. B. Varò, Arduini, Andreini, il generale Allemandi ed altri. Quella collezione, oltre importanti ricordi e documenti storici, indispensabili a un giusto giudizio delle cose nostre in quel tempo, contiene pregevoli articoli di Pisacane sulla guerra del 48 e sulla difesa di Roma nel 49, di G. B. Varò sull'assedio di Venezia e su questioni finanziarie, di Quadrio sulla guerra Austro-Ungherese, ecc. Le cose inseritevi da Mazzini furono riprodotte nelle Opere. Ma una scelta degli scritti degli altri collaboratori della Rivista potrebbe dar materia a un libro utile di storia patria, se nell'Italia odierna ci fosse più cura e più coscienza di studi imparziali sull' argomento.
(SAFFI, Scritti edili e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. IX, p. 16).

Ma, come ben dice il Saffi, Mazzini più che raccontare la storia era tutto inteso a continuarla, e si dette ben presto a escogitare e raccogliere mezzi, organizzando le forze per una nuova crociata.
Nel maggio 1850 l'Assemblea francese fu chiamata a discutere una legge tendente a restringere il suffragio. Di fronte a questa violazione aperta del terzo articolo della costituzione, Mazzini dalla Svizzera si trasferì a Parigi, sperando venuta l'ora di un rivolgimento decisivo. Quella legge mirava chiaramente a mettere un freno ai socialisti. Nella discussione che ne seguì, il Thiers venne fuori col famoso insulto alle "vile moltitudine" e il Montalembert propose "la spedizione di Roma all'interno".

La legge era approvata, come più tardi quelle per la chiusura dei circoli, e l'altra per la relegazione dei condannati politici alle isole. - I radicali francesi, tranne rare eccezioni, parevano accecati. Nessuno si accorgeva che la repubblica agonizzava; molti disprezzavano il presidente, nessuno lo temeva. E a Mazzini, che si ostinava nell'attribuirgli i più sinistri disegni, rispondevano "la sola paura loro essere dei bianchi e che se mai il ridicolo uomo avesse tentato un colpo di Stato, sarebbe quietamente condotto a Charenton, nell'ospizio degli impazziti!".

Né più antiveggenti dei Francesi erano gli italiani rifugiati in Parigi. Dolendosi con Pallavicino dell' errore commesso dell' arresto dell'arcivescovo Fransoni, il Gioberti scriveva: "Se le cose subalpine vanno male, le francesi vanno benissimo. Raccoglierete dai giornali quale sia l' esito politico delle peregrinazioni imprese dal miserabile presidente".
(*) E sì che non erano parole di colore oscuro quelle che questo miserabile disse a Poitiers: che "se il popolo francese nella pienezza della sua sovranità intendesse mantenerlo al potere, non l'Assemblea, non la costituzione gli farebbero ostacolo ad obbedirlo".

Fatto sta che l'Eliseo é costernato, e al pianto di certuni pare diventato un tartaro; perché vede andare l'imperio in fumo. I democratici e i socialisti tacciono, ma non dormono; il numero dei primi cresce, e quello dei secondi non é diminuito. I Borboni più accorti sono mesti, perché sentono che "lo schiaffo dato al principe apocrifo, rimbalza sulle guance dei più legittimi pretendenti, e che a dispetto di tutti la repubblica avrà vita!"

Mazzini, tentato invano di aprire gli occhi agli uni e agli altri, e convinto dell'inutilità de' suoi sforzi, pensò di ritornarsene a Londra, dove molti illustri esuli, ai quali la repubblica francese negava ospitalità, si erano rifugiati. Di là firmò con Ledru Rollio, Arnoldo Ruge, Darasz il proclama del comitato centrale democratico europeo ai popoli, e più che mai si dedicò a procacciare sottoscrittori al prestito nazionale.

Caduta Roma, sessanta deputati avevano costituito provvisoriamente un Comitato nazionale italiano, composto di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Mattia Montecchi, ai quali furono conferiti mandato e poteri per contrarre un prestito in nome del popolo romano e a beneficio della causa nazionale, e generalmente per ogni atto politico e finanziario che potesse promuovere il ristabilimento della legittima autorità popolare in Roma - abilitandoli ad aggiungersi, occorrendo, due o più cittadini italiani - a chiamare collaboratori tutti i buoni d'Italia.

Le cedole del prestito furono universalmente accettate. Manin e Montanelli, che apertamente sottoscrissero, ebbero i rimproveri del Gioberti.
Sottoscrissero pure sessantacinque membri dell'assemblea francese; che provocò un'interpellanza dei deputati clericali.
E l'8 settembre 1850 comparve il primo proclama del Comitato nazionale italiano. I principii fondamentali erano Indipendenza, libertà, unificazione, come scopo; Guerra e Costituente italiana, come mezzi.

Il proclama, oltre ai nomi dei tre eletti dai rappresentanti dell'Assemblea romana, recava anche quelli del Saliceti e del Sirtori, e di Cesare Agostini in qualità di segretario. Quest' atto approvato in Italia da quasi tutti gli uomini del partito d' azione, e all'infuori di La Farina e del Varé, suscitò invece le ire che fusionisti lombardi e dei municipali piemontesi da un lato, le censure di parecchi fra gli uomini noti delle diverse scuole del partito repubblicano dall'altro.
I primi gridavano all'utopia e alla demagogia; i secondi vi ravvisavano un atto di abdicazione, e di piemontesismo.
(*) Giuseppe Montanelli fra gli altri. Il Montanelli poeta, non il prosatore dice motteggiando Gioberti in una delle sue lettere a Pallavicino, "trova Mazzini troppo poco liberale, perché in quel certo suo bando lascia una porta aperta a Casa Savoia. Che dite di tanta sapienza?".
(Il Piemonte ecc., p. 105.)

Mazzini pubblicò la protesta contro il prestito austriaco, e altra protesta all'Assemblea francese contro l'occupazione di Roma, firmata questa dalla maggior parte degli esuli.
Intorno a questa seconda protesta, Mazzini scrive a Saffi e a Sirtori:
"Bisogna essere arditi per un' altra ragione; ed é che siamo minacciati di guerra, non dai nemici, ma dagli amici: come dottrinari, codini, gesuiti e falsi repubblicani.
Non parlo di Ferrari, che vuol confutare il manifesto; non di Cernuschi, che scrive a tutti doversi cominciare dal repubblicanizzare Mazzini, ma essere quasi impossibile; parlo di Cattaneo, che é furioso, che dichiara che non siamo mai stati repubblicani, che abbiamo voluto blandire il Piemonte, che vogliamo rifare la fusione, che abbiamo dato presa al governo regio per farsi avanti un'altra volta, ecc., ecc. Se noi faremo dell' eau de rose, saremo presto battuti dagli uni e dagli altri.... D'altra parte, quanto dico é vero, e non altro, meritano peggio.... Ricciardi ha protestato (contro il manifesto) nell'Opinione. Temo d'altre proteste più importanti. »

Il popolo conservava fede in sé stesso e teneva le polveri asciutte. A Padova e a Rovigo nel 1849 le condanne politiche, a vari gradi di pena, sommarono a 2514; nel 1850 a 1329, e nel primo trimestre del 1851 a 223. Dal maggio al giugno del 1851 la sola Corte marziale d'Este pronunciò 212 condanne, delle quali 115 di morte.

Nella Romagna papalina il numero delle vittime delle commissioni miste degli austriaci ebbri di sangue e di vendetta, dei preti baldanzosi per l'inaspettato ritorno, ingratamente insolenti verso la Francia, senza della quale essi non avrebbero mai più messo piede in Roma, s'ignorerà in perpetuo.
(*) E austriaci e commissari papalini per maggiormente tormentare gli abitanti di quelle disgraziate province, li costrinsero a festeggiare il loro ritorno. Nell'occasione dell'ingresso di monsignor Bedini in Bologna, furono illuminate tutte le ville sparse sui colli felsinei, compresa quella di Marco Minghetti. Una sola giaceva nelle tenebre: la villa di Ronzano, del conte Giovanni Gozzadini.
Invitato ad illuminarla, questi e la contessa Maria Teresa di Serego-Allighieri Gozzadini, donna di ingegno e di coltura, ardentissima amatrice della patria, professando dottrine di larghissima libertà, essendo anticlericale nelle viscere, risposero " No".
E il poeta Marchetti in quella occasione scrisse questi versi:
Quel no magnanimo
Prezzo non ha,
O splendidissima
Oscurità."

Disarmata la guardia civica, espulsi i forestieri e i soldati, e ogni persona sospettata di avere parteggiato per la repubblica, i tre infami tribunali misti, laici ed ecclesiastici, lavoravano assiduamente. Fino al punto che dai papalini coll'approvazione del generale Oudinot, fu restaurato il Santo Ufficio con tutte le giurisdizioni antiche. Di questo "quarto rito", il rito della Sacra Inquisizione, solo questo sappiamo: "che gli inquisiti scomparsi misteriosamente o non ricomparvero mai più o si ripresentarono senza il bene dell'intelletto: e il terrore li attanagliava così tanto che, anche nei tempi di libertà politica, non fu possibile cavare loro di bocca una sola sillaba sui misteri di quel "sacro" inferno.
Non mancarono allora né forza materiale decisamente brutale, come quella della soldatesca dantesca francese nella città, e dell'austriaca nelle province, né gli oscuri sgomenti, onde si presidia il governo dei preti, per distogliere i romani da qualsiasi tentativo rivendicatore
della perduta libertà.

Purtroppo il popolo che aveva pregustata la vita pubblica, la vita in comune con i suoi capi, e anche conservata la fierezza e l'audacia dei giorni dell'assedio, non si abituava che a stento alla necessità della cospirazione, non reagiva!
Mazzini partendo aveva istituito il "Comitato Centrale Romano" che poi formava parte dell' Associazione Nazionale Italiana. E tutti vi appartenevano.

Ma in quel tempo il popolo non aveva ancora appreso l'uso proditorio del pugnale, ed era anzi sollecitudine dei migliori rimasti a guida dopo Mazzini di conservare pura di sangue l'immacolata fama della Repubblica.
Mazzini non soffrì che si disobbedisse al suo mandato, che spesso ritirava ai suoi capi facendo giustizia da sé, loro malgrado. Ma molti assessori, monsignori, spie, poliziotti furono conciati per le feste dai poderosi pugni trasteverini; un guardiano delle carceri di S. Michele, il quale aveva insultato una povera donna che piangeva il marito carcerato, fu ucciso con una punitiva coltellata.
Una delle regole che il popolo non volle infranta fu che nessun patriota potesse mostrarsi in corso di gala durante il carnevale, che i preti e i francesi cercavano di rendere il più brillante possibile. Il principe di Canino, patriota ma millantatore, diceva sempre: "Quanti, ma quanti non mi hanno proclamato Re di Roma" e l'arguto romano, di ripicco: "E quanto li avete pagati a testa?". Eppure egli era in stima di buon romano.
Si può dunque immaginare il senso di sdegno che destò nella popolazione, partito lui, il vedere suo figlio nei primi giorni del carnevale uscire in magnifica carrozza insieme all'aristocrazia reazionaria. Fu avvertito costui dagli amici di suo padre; ricevette lettere dal comitato. Nulla valse. Un giorno un magnifico mazzo di fiori fu gettato nella sua carozza, vi entrò una palla di cristallo, piena di materia esplodente che ferì lui e sua sorella.

Spitover, il più codino di tutti i codini, libraio, espose nelle bacheche un quadro insolente, rappresentante i generali italiani sotto i piedi di Radetzky e di altri generali austriaci, o sotto le zampe dei loro cavalli. Invitato con lettere minatorie a togliere l'ingiuriosa caricatura, non se ne diede per vinto. La sua bottega allora giaceva in angolo di Via Frattina e Piazza di Spagna ed egli informò la guardia francese alla Propaganda Fide delle intimazioni ricevute e delle successive minacce. Invano, un'altra palla di cristallo carica di polvere inglese scoppiò nella sua bottega e il ritratto alla fine fu tolto. Il disprezzo di simili avvertimenti diede gli stessi frutti all'emulo libraio Boniface a S. Marcello.
I romani si affidavano a loro volta nel pronto richiamo della soldatesca francese a causa della temporaneità del presidio promesso al Papa. Ma intanto non tolleravano insulti. Risse continue in Trastevere: più di una donna ferì col "tremolante", ossia lo spadino che le popolane configgono nei capelli, gli insolenti che osavano avvicinarle.

E gli uomini facevano il resto; sbirri papalini marciavano alla testa dei picchetti francesi a perlustrare le strade: all'incontro di persona sospetta o in una via appartata, la trascinavano sotto un portone, spogliandola di ciò che aveva addosso, compreso la cravatta e il cappello, sotto pretesto che questi erano palesi segnali di rivoluzione.
Questo trattamento, fatto un giorno a un americano, per poco non mise in seri imbarazzi il Quirinale a causa della richiesta riparazione. Nei pretestuosi sequestri quotidiani e notturni di libri, di abiti, di gioielli, e ogni altra cosa prelevata, poi scompariva.
Per più di due anni il Comitato centrale aumentò i suoi associati e fu interamente e puramente repubblicano.

Il 2 agosto 1851 si fucilava in Milano il tappezziere Antonio Sciesa, arrestato nell'atto di affiggere nelle cantonate del corso di Porta Ticinese il seguente proclama del Comitato nazionale dell'Olona, in risposta alla minacciosa notificazione Radetzky del 19 luglio
"Cittadini
Il segreto istinto della loro propria coscienza, avverte i nostri oppressori della loro impotenza contro la causa della giustizia, ed il povero vecchio Radetzky, nel suo proclama 19 corrente, si dichiara incapace di proteggere le sue spie. Coraggio dunque, vicina é l'ora, la rivolta del servo oltraggiato sarà protetta dalla potenza di Dio, padre dell'uguaglianza, e perciò nemico dei re e della conquista. - I nostri tiranni mettono le mani nel sangue e nella roba dei popoli senza legge né fede; e noi ci difenderemo nell'oscurità finché non potremo farlo alla luce del sole. Se siete servi, rassegnatevi e servite; ma se siete uomini, resistete; un giorno vedremo i nostri figli ballare intorno agli alberi della libertà."

Per il truce Giulay, quell'oscuro operaio, semplice incaricato dell'affissione di "proclami incendiari", era troppo una umile vittima: si sperava di salire tramite lui più in alto, e già il minaccioso Radetzky pregustava le voluttà di più larga vendetta; ma quel disprezzato tappezziere era nato per essere un eroe. Popolano di cuore altamente nobile, marito e padre più che affettuoso, amatore ardentissimo della patria, lo Sciesa era l'incarnazione più splendida di tutte le più schiette virtù popolari. Resistette fieramente a lusinghe ed a torture quotidiane, con i quali si sperava di strappargli di bocca le bramate rivelazioni. "So già qual sorte mi aspetta," rispondeva a chi gli rammentava che l'ostinato tacere gli avrebbe procurato la pena di morte.
E a morte sulla forca fu condannato lo stesso giorno, in cui, per la vacanza del boia imperiale, fu invece fucilato. Gli si interdì di abbracciare la famiglia e gli si negò il confessore. Mentre il forte popolano s'incamminava serenamente alla morte, respingendo le promesse del capitano auditore, che lo andava sollecitando a rivelare il nome dei complici, ecco un ufficiale superiore raggiungere il funebre convoglio e presentare alla vittima una carta con queste parole: "Ringrazia la clemenza del tuo governo: tu sei salvo a patto di nominare i complici".
Lo Sciesa tra lo sdegnoso e l'ironico gli ripose "Tirem innanzi": memorabili parole, che Milano ha voluto eternare in una lapide, posta poi sulla casa dell'audace popolano. Pochi minuti dopo, Antonio Sciesa cadeva crivellato dal piombo austriaco. Sul suo corpo furono trovate scritte a matita queste parole: "Eccellenza, il solo motivo per cui avrei chiesto la vita sarebbe stato per la mia povera donna e per i miei teneri figli che restano senza pane. Moglie amata! ti raccomando i miei figli; é l'ultimo mio ricordo".

L'11 ottobre 1851 fu visto in Venezia penzolare dalle forche imperiali il corpo d'un altro valoroso italiano. Era questi Luigi Dottesio di Como, arrestato con indosso un programma della "Società Patria" e come divulgatore di scritti rivoluzionari, condannato militarmente con giudizio statario.
Il Dottesio dopo i moti del 1848, ai quali aveva nella sua patria preso audacemente parte, consacrò tutta l' ardita operosità dei suoi trentatré anni a porre in salvo dalla rabbia tedesca i più ricercati patrioti, e a divulgare tra il popolo gli scritti della Tipografia Elvetica.
Questa propaganda costo la vita al generoso comasco, i cui carnefici vollero in lui, per confessione del generale Singer, vendicare la coraggiosa ostinazione, con la quale la sua patria si era negata alle feste per la venuta in Italia di S. M. I. Francesco Giuseppe.

Il nobile paese da Virgilio e di Sordello, mal sopportando l'accusa di essersi poco italianamente condotto nel 1848, rivendicò a sé l'iniziativa della riscossa, e, facendo tacere inutili sfoghi e recriminazioni reciproche, si unì in forte e compatta associazione.
Professionisti, proprietari, studenti, popolo, persino preti, ogni classe di cittadini insomma si accordava nei preparativi. Essi non si prefissero il giorno, né i modi dell'azione, ma fu universale il sentimento di agire, che le cartelle del prestito di Mazzini passarono per moneta effettiva sui mercati della città e della provincia di Mantova.

Fu istituito un comitato segreto di 18 patrioti, che scelsero per capi Enrico Tazzoli, Attilio Mori e Carlo Marchi. Fra i più animosi cospiratori si segnalarono i fratelli Don Giovanni e Giuseppe Grioli. Giuseppe, come volontario, aveva combattuto a Curtatone e a Roma. Giovanni, accusato di aver suggerita ad un soldato ungherese la diserzione, fu arrestato il 25 ottobre e condotto in prigione. Qui conservò il più rigoroso silenzio, protestando solo l'innocenza del reato appostogli. Nondimeno fu condannato a morte. - Condotto a Belfiore, l'auditore avvicinandosi a lui ch'era tranquillo e sereno, gli disse:
"Grioli , se voi volete, siete ancora in tempo di salvarvi; parlate, e siete salvo e libero". - "Nulla ho da dire - rispose quell'intrepido - né da aggiungere. Ciò che dovevo dire l'ho detto; credetti di fare una beneficenza, non di tentare una seduzione, l' opera mia fu male interpretata, se mi si vuole colpevole sono pronto a subire il fato estremo; io mi abbandono nelle mani di Dio".- "Volete dunque la morte? gridò indispettito l'auditore - e tal sia di voi; io non posso più
salvarvi
".
Si volse indi fece un cenno all'aiutante, ma questi impedito dal tremore di allacciare la benda al capo del morituro, questi se l'allacciò da sé stesso, ed ebbe appena tempo d'inginocchiarsi che cadde fulminato. Questo barbaro assassinio non fece che aggiungere la sete di vendetta al sentimento di patriottismo nel cuore del fratello e dei concittadini del prete martire, cosicché la sempre pià ampia cospirazione procedeva a gonfie vele.

Intanto il 2 dicembre 1851 avvenne il colpo di Stato in Francia. La spedizione di Roma all'interno portò il suo frutto: la Francia fu ferita mortalmente dalla spada da essa stessa affilata. Ecco come CARLO CATTANEO con intelletto divinatore giudicava l'evento in una lettera privata a Carlo Pisacane il 29 dicembre 1851 (Questa lettera mi fu consegnata da Carlo Pisacane il giorno prima della sua partenza per la fatale spedizione di Sapri 1857)

"Il regno dei burgravi di tutti i colori é caduto: "laqueum quem posuerunt, inciderunt in ipsum". Sono stati presa nella rete della loro polizia, dei loro gendarmi, dei loro prefetti. E i loro preti cantano il TeDeum. Bravo signor Falloux ! Bravo signor Oudinot ! Il papa vi tratta da papa.
Il 2 dicembre è un po' di stile borgiesco, tranne però la dissimulazione. L' uomo di Strasburgo, di Boulogne, e di Satory non é un ingannatore: si dice che chi é avvisato é mezzo salvato; ma chi avvisato non bada, nessuno lo può salvare.

" Ma lasciamo l'Assemblea sul letamaio: parliamo della Francia.
Credete voi che la Francia, la quale cacciò dal suo servizio Cavaignac, Luigi Filippo e Carlo X non fu contenta di Napoleone, potrà star contenta un pezzo senza la stampa, senza la parola, senza il respiro, con un ministro di polizia che vuol rifondarla, e colla prospettiva diurna e notturna da Cayenna e da Nouka-hiva?
Chi s'annoia del bene s'annoierà anche del male.
I repubblicani, é inutile negarlo, furono sempre una minorità: minorità, nella prima rivoluzione, audace, diffidente e vigorosa; minorità, nella seconda rivoluzione, più numerosa ogni giorno, e d'ora innanzi più che mai. Ma il suffragio universale non ha fatto la repubblica; l'ha fatto l'assemblea, e il presidente e l'imperatore. I burgravi non hanno proscritto il suffragio universale perchè fosse repubblicano, ma perché non poteva essere filippista.

Luigi Napoleone se ne accorse un po' tardi: rimediò ad uno sproposito con una violenza.
I prìncipi intanto si fregano le mani: da che? D'aver rimesso in piedi l'impero.
Ma se era una così bella cosa per loro, perché si erano dati tanta briga di disfarlo e tanta gloria di averlo disfatto?
Perché scrissero nel trattato di Vienna l'eterna condanna di tutto il parentado di Napoleone?
Disperando di poter frenare la rivoluzione universale, essi hanno evocato dalla tomba il nemico. Ma il nemico non é l'amico. L'impero non é lo statu quo. E non è compatibile con lo statu quo. E' uno squilibrio generale, uno spostamento del centro da gravità.
Il napoleonismo é un sistema; é il predominio della Francia in Europa. Il napoleosismo ha le sue proprietà come il triangolo o il circolo: e con la geometria non si transige.
Se al napoleonismo si aggiunge l'alleanza da Tilsitt, gli altri principi del continente non sono più sovrani, sono feudatari e satrapi, o dell'impero d'Occidente o di quello d'Oriente. Possono quando che sia chiamare in aiuto la repubblica, non fosse altro per non morire invendicati.

"E l'Inghilterra? L'Inghilterra pagherà a piatti rotti: pagherà caro. E i conigli suoi alleati? I conigli che si erano appiccicata la coda della volpe? L' impero non ha paura di conigli, e ciò che é peggio non ne ha bisogno.
Col primo dell'anno avremo l'impero; in carnevale il matrimonio; e poi il Reno e il Po. Bisogna rifare Napoleone che rifece Carlo Magno, al quale si chiamò col nome di Cesare, al quale fu l'erede dei vecchi Druidi sul Reno e sul Po e sull'Ebro, e anche sul Tamigi.
Prima della battaglia delle Piramidi, e prima delle Crociate, vi fu la Cisalpina; e la Celtiberia; e il "Boiokemata"; e la "Gallogrecia".
Era meglio l'alveare dei socialisti che al nido dell'avvoltoio.
La Francia che si annoia del bene si annoierà anche del male.
Io sono quinquagenario e togato, e sto a vedere. Voi siete giovane e soldato.
Se vi sono uova rotte, dovete avere una mano sulla frittata. In ogni caso di guerra dovete cercarvi esperienza, grado e nome. Non mancherà tempo di farne poi giovamento all'Italia e alla libertà."

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