TRENTAQUATTRESIMO CAPITOLO

CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO

LA CONGIURA DEL 6 MARZO '53 A MILANO
Tendenze reciproche del governo piemontese e dell'uomo del 2 dicembre. - Espulsione di cospiratori dal territorio Sardo. - Legge restrittiva della libertà di stampa. - Viaggio di Cavour all'estero. - Le cospirazioni raggiungono il massimo grado. - Le condanne di Mantova. - Fratellanza segreta di popolani in Milano. - La sommossa e le vittime del 6 febbraio.

L'uomo del 2 dicembre (colpo di Stato in Francia) aveva però bisogno di un alleato per distruggere il trattato di Vienna e adocchiò il Piemonte, il cui re e i ministri erano soddisfattissimi di vedere abbattuta la repubblica e inaugurato un "governo stabile".
Da quel momento la frase "l'Italia fa da sé" non fu più udita, o se ricordata da qualche importuno non suscitava che alte proteste e forti opposizioni. Era chiaro; il piemontese si era messo umilmente e ciecamente agli ordini del nuovo sire di Francia.

Venti giorni dopo il colpo di Stato, uno dei ministri di Luigi Napoleone si recò presso l'ambasciatore sardo in Parigi, alfine di "consigliarlo a insistere presso il suo governo sulla necessità che questo prendesse pronti seri provvedimenti contro i fuoriusciti politici" - questo, soggiunse - é il vostro lato debole: ve lo debbo, dire e ripetere; su questo vi si possono fare forti rimostranze. Importa evitare che ai vostri danni sorgano leghe d'interesse, se volete che il Governo francese senza contraddire alle sue massime vi possa proteggere". (Storia Documentata della Diplomazia Europea in Italia dall'anno 1814 all' anno 1861 per Nicomede Bianchi, vol. VII, p. 91.)

E nello stesso tempo il conte Walewsky, ambasciatore francese in Londra, diceva al legato sardo presso quella corte:
"La nuova vostra legge sulla stampa é molto savia, ma insufficiente. Bisogna che il vostro Governo pensi seriamente ai fuoriusciti. E venuto il momento in cui è necessario prendiate una deliberazione, che serva di garanzia all' Europa. Voi né potete né dovete credere, che i Potentati maggiori, tutti d'accordo nel chiedere al sovrano inglese efficaci rimedi contro le macchinazioni dei fuoriusciti sul suolo della Gran Brettagna; siano poi disposti a lasciar libero il campo ai rivoluzionari di cospirare nel vostro paese."

E il 4 febbraio '51 ( Idem, p. 96-7) Giacinto Collegno, ambasciatore sardo a Parigi, in un dispaccio confidenziale al d'Azeglio scrive:
" Il gabinetto parigino specialmente era impensierito dei fuoriusciti, e andava perfino a proporre al governo piemontese di trasportare a Caienna i più turbolenti e pericolosi".

L'Azeglio indietreggiò davanti all'idea della deportazione a Caienna, ma docilmente espulse dal territorio sardo i cospiratori di provata tenacia, e aveva già proposto una legge che il Parlamento approvò, in forza della quale si tolsero alla cognizione del magistrato d'appello, congiunto ai giudici del fatto, i reati di stampa per offese ai sovrani e ai vari Governi stranieri, e si deferirono a quella dei tribunali ordinari, sotto condizione della richiesta della parte offesa.

A questa legge, che strappava gli accusati ai giudici naturali e legali, i giurati, Rattazzi fieramente si oppose, mentre il Lanza riconosceva la necessità di sottrarre alla potestà del giurì il giudizio dei reati concernenti le potenze estere, perché la repressione di essi fosse più pronta e spedita.
Ed era questa sentenza anche del Cavour, i cui "amori" con il Napoleonide erano già cominciati.
Però da quel momento Cavour e Rattazzi si intesero, e più tardi, l'opera del primo nel sollevare il secondo alla presidenza della Camera preluse al famoso connubio celebrato con un passo avanti di Cavour e uno indietro di Rattazzi.

Nell'ottobre 1852, Vittorio Emanuele II rifiuta di sancire la (spinosa) legge sul matrimonio civile, già approvata dalla Camera, e a quel punto D'Azeglio rassegnò le dimissioni. Il sovrano incaricò Cavour di formare un nuovo ministero. E lui non aspettava altro che quello.
Intanto parve non lieve fortuna per l'avvenire del Piemonte la nomina del signor Hudson a ministro britannico in luogo di Sir Ralph Abereromby, che, durante la guerra, era favorevole e aveva dimostrato simpatia all'Austria.

In quegli anni Cavour peregrinò spesso all'estero nell' intento di conoscere i sentimenti dei governi europei verso il Piemonte. Trovò benevolenza in Inghilterra, schietta cordialità in Belgio, e in Francia "singolare cortesia" dal presidente Luigi Napoleone e dai suoi ministri; infatti il Conte scrive entusiasticamente a La Marmora, "... hanno tenuto con me un linguaggio, che in nulla somiglia a quello, che Butenval fa risuonare alle orecchie di Azeglio".

E si può dire che da quel primo "singolare cortese" colloquio, data l'alleanza fra l'Impero ed il Piemonte.

Ma già in precedenza, quindi prima del 2 dicembre parigino, nella previsione che il presidente avrebbe presto abbattuta la repubblica in Francia e creato un governo imperiale autoritario tutto suo, D'Azeglio fin dall'11 ottobre si era affrettato ad istruire l'ambasciatore sardo in Parigi, perché si tenesse pronto a riconoscere il nuovo Stato in Francia, e qualsiasi eventuale ritardo del Piemonte nel farlo non doveva suscitare nè dubbi nè sospetti.
Onde il Villamarina nel giorno in cui l'Impero fosse proclamato, doveva testimoniare la soddisfazione piena del re di Sardegna e dei suoi ministri per un avvenimento che, assicurando un governo stabile alla Francia, era una guarentigia per l'Europa. Il legato adempié dignitosamente e frettolosamente le ricevute istruzioni (
Nicomede Bianchi, vol. VII, 115).

Fu questo l' ultimo atto di Massimo D'Azeglio, che si dimise definitivamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri, indicando al Re nel Cavour l' uomo adatto a succedergli.
Dal suo primo insediamento alla Camera (12 ott. '50, come ministro della Agricoltura e Commercio), nel "muoversi" Cavour apparve subito come uomo superiore di fronte ai pigri colleghi (agitati ma inconcludenti); lui usciva spesso dalle sue competenze per ingerirsi in quelle degli altri dicasteri; lo stesso D'Azeglio con questa continua invadenza,  iniziò a sentirsi messo da parte, esautorato, preso a rimorchio; fino a quando nel '52 disse "non ne posso più" e si ritirò. 

D'Azeglio, il Cavour fin dal primo momento lo aveva in antipatia, non l'avrebbe mai chiamato, ma aveva perso un consistente appoggio (Balbo e Revel) della destra nella disputa ecclesiastica. Mandò quindi giù il boccone amaro nel fare di malavoglia quest'opportunista scelta.
Dopo era venuto il peggio; era insofferente quando Cavour pretendeva di guidarlo, come guidava tutti i ministri e i deputati, che si lamentavano dicendo di lui "vuole tutto dire, tutto sapere, e tutto fare".

Il re a quel tempo era della stessa opinione del D'Azeglio, condivideva l'antipatia per il conte, ne aveva diffidenza, perché gli sembrava a dismisura ambizioso, intrigante e troppo dinamico e spregiudicato nei suoi affari. Detestava perfino suo padre, Vicario della Polizia Regia, che agiva con un autonomo potere assoluto. "Pensateci bene - gli disse a D'Azeglio mentre si accingeva a chiamare al governo Cavour- quello lì vi manderà tutti con le gambe all'aria".
Quando poi in seguito (19 apr. '51) Cavour si prese anche il portafoglio delle Finanze, fu perfino sarcastico e malizioso "Attenzione, quello lì, vi prenderà tutti… i portafogli".

Ma bisogna dire che il D'Azeglio in questo clima, lui pacifico com'era, non avrebbe combinato un bel nulla. Inoltre la sinistra di Rattazzi -con una destra debole- iniziava a rivelare qualche ambizione, quella di ritornare al potere. In soccorso arrivò proprio Cavour che decise poi di accordarsi per dominare la situazione, o meglio crearsi un proprio partito; liquidare prima il D'Azeglio con il Rattazzi, poi liquidare anche lui.

Deputato della destra moderata, Cavour era da qualche tempo che cercava di entrare in un importante ministero per poi dare la scalata allo stesso Governo. Era impaziente di mostrare le sue capacità, che nei discorsi in Parlamento (e sul giornale "Il Risorgimento") manifestava. In ogni intervento metteva bene in risalto che lui aveva frequentato i parlamenti esteri e soprattutto aveva visto come agiva quello inglese a Londra; insisteva sulla necessità di promuovere una politica di movimento, destinata a togliere forze allo "spirito" rivoluzionario.
Inoltre nell'assumere l'incarico di Primo ministro (4 nov. '52) s'impegnò esplicitamente a lasciar cadere la controversa questione del matrimonio civile


Quello "spirito" rivoluzionario che Cavour voleva indebolire, proprio in questo periodo era tornato a diffondersi in Italia con il manifesto programmatico di Mazzini che incoraggiava l'azione rivoluzionaria unitaria repubblicana.
(vedi più avanti il tentativo a Milano).

Cavour faceva parte di quell'aristocrazia arrogante, che addirittura insegnavano ai re cos'erano le tradizioni che dovevano conservare e rispettare. E nel farlo ricordavano quindi ai Re che dovevano solo "regnare ma non governare". Dopo il suo soggiorno e l'esperienza in Inghilterra, Cavour era ancora più convinto; là era il governo a governare, non la monarchia. Negli ultimi anni lo fece capire anche a Vittorio Emanuele, quando il re imparò a considerarlo utile e a valutarlo come uomo prezioso, intelligente; un uomo sicuro per la sopravvivenza della monarchia. E senza i dieci anni di Cavour la dinastia Sabauda corse veramente questo pericolo: di non sopravvivere alle varie tempeste.

" Le cospirazioni - scrive Gaetano Polari - incominciate nel 1850, avevano nel 1851 raggiunto il loro massimo grado di espressione; né bastarono a spegnerle tre anni di ecatombi politiche, immolate dall'Austria ai suoi furenti terrori. Comitati centrali erano a Milano e a Venezia; comitati provinciali a Mantova, a Brescia, a Verona, a Padova, in ogni centro delle province, avvolte in una vasta e fitta rete di affiliazioni. Il governo straniero giaceva destituito d' ogni forza morale in mezzo ai cannoni e alle baionette.... Le ire, le minacce, le carneficine di chi governava, rimanevano impotenti; alla pubblica opinione dava lingua e norma chi reggeva le fila delle associazioni segrete... Le cedole del prestito di Mazzini si diffondevano ovunque. A migliaia si annoveravano gli affiliati. Tipografi e litografi, sotto gli ordini dei Comitati, supplivano all'opera clandestina della stampa nazionale... Né si nascondeva del tutto le armi; e le fila della vasta trama già si propagavano nelle schiere stesse dell'esercito straniero ".

Un incidente fortuito, come ne avvengono in ogni cospirazione, mise in sospetto le autorità di Mantova, proprio al momento in cui i cospiratori trattavano di passare dai consigli ai fatti. Seguendo la trama di filo in filo si arrivò ai capi. La scrittura segreta, incautamente adoperata ad uso estraneo alla congiura, fu decifrata.
II 4 dicembre, dopo un anno di prigionia, dieci degli accusati, già condannati, furono condotti dal castello alla piazza di S. Pietro, ove a cinque di loro si lesse la sentenza di morte: al Tazzoli, allo Scarselli, al De Canal, allo Zambelli, al Poma: gli altri cinque ebbero condanna di dodici anni di galera, dei quali quattro anni ai ferri.
E il 7 dicembre 1852, le fronti alte, gli occhi rivolti alla mesta folla, quei cinque si aggiunsero alla schiera dei martiri, dicendo agli addolorati presenti: "che almeno la nostra morte non sia del tutto inutile".

Riuscirà all'oppressore di trattenere la gloriosa falange a metà del cammino che si era prefissato?
Rispondono le condanne nella stessa Mantova del febbraio 1853 delle quali ventitré di pena capitale, eseguite il 13 marzo sopra Tito Speri di Brescia, Bartolomeo Grazioli arciprete di Revere, e il conte Carlo Montanari di Verona: 36 di galera; al Finzi toccarono anni 18; 32 in contumacia perché i colpiti ebbero tempo di salvarsi, e fra questi Benedetto Cairoli implicato nel processo per alto tradimento; amnistia a favore di 61, perché ormai l'Europa inorridita cominciava a commuoversi a tanti strazi.

Le lettere dello Speri dipingono le orribili procedure, raccontando che molti tentarono il suicidio; alcuni vi riuscirono, altri impazzirono.
Giuseppe Finzi, di "pessima condotta politica", sono parole del maresciallo Culoz, fu capocircolo, latore a Mazzini di lettere di grande importanza, del quale recava lettere di risposta al comitato di Mantova.
Alberto Cavalletto ordinava un comitato filiale rivoluzionario a Padova, e mediante acquisto di cartelle dei prestito di Mazzini intendeva raccogliere i mezzi necessari alla insurrezione. Entrambi attivi e ardenti quanto Achille Sacchi, Giovanni Chiassi, Giovanni Acerbi.
E queste condanne e le torture di ogni specie, a cui soccombettero i detenuti di Mantova, durante un anno intero, furono alle altre città del Lombardo-Veneto esempio e sprone. La storia della congiura di Milano conferma, che se il dolore, gli strazi, l'idea della morte, rendono pusillanimi i deboli, ritemprano l'animo dei forti; e forte era il popolo delle non lontane gloriose Cinque Giornate.

Diamo la parola a chi solo poteva narrare per filo e per segno la storia della congiura del 6 marzo 1853:

"Si era formata - scrive MAZZINI - spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852, in Milano, una Fratellanza segreta di popolani, repubblicana di fede e con animo deliberato di preparare l'insurrezione e poi compierla. Non si era rivolta per aiuti e consigli ad abbienti o letterati: non aveva cercato contatto con noi: aveva prima voluto essere forte.
Uomini di popolo erano suoi capi, influente fra tutti, un tintore, Assi di nome, assiduo di cure nell'ordinamento e largo in quell'opera tramite un po' di fortuna che gli era venuta dal lavoro: lo chiamavano il "Ciceruaccio" di Milano. La Fratellanza vi era divisa in nuclei contrassegnati dalle lettere dell'alfabeto: abbracciava ogni ramo di lavoro, con quel senso pratico che é caratteristica di operai e artigiani, si era quasi indisrturbata giovata del facile accesso ai luoghi più vigilati, per raccogliere quante nozioni di fatto potevano, e quindi in un dato momento, compiere una audace impresa.
E nel silenzio, senza che l' esistenza ne fosse minimamente sospettata, non dirò dal nemico, ma dagli altri uomini appartenenti nelle altre classi al simbolo nazionale, aveva raggiunta la cifra di parecchie migliaia di affratellati.

"Allora soltanto l'Associazione, sentendosi forte e ansiosa di fare, cercò contatto con me. Offriva azione immediata, chiedeva istruzioni, direzione, aiuti in armi e denaro.
Scelsi un uomo militare non noto, prudente, avveduto, di abitudini atte a cattivarsi la fiducia dei popolani e a studiarli; e lo mandai a Milano a verificare quelle audaci intenzioni.
Una serie di relazioni che mi venne da lui, confermò tutte le affermazioni degli artigiani milanesi sulle forze e sulla disciplina della Fratellanza. Accolto come capo in contatto continuo coll'Assi e con quanti stavano alla direzione dei nuclei, egli mi giurava che "potevano e volevano".
Quando mi adoprai a raccogliere notizie anche per altre vie mi si confermò punto punto le relazioni dell'inviato.

"La decisione di muoversi non fu mia. Inferociti per i supplizi di Mantova, i più influenti fra i congiurati, raccolti una notte in numero di sessanta a convegno, decretarono sul finire dell'anno, che si "sarebbero mossi" e m'inviarono dichiarazione solenne che, se anche il Comitato Nazionale rifiutasse assenso ed aiuto, piuttosto che soggiacere a uno a uno alle persecuzioni dell'Austria, avrebbero fatto, in ogni modo da sé.
Vivono tuttavia gli uomini che potrebbero, ove io non dicessi il vero, smentirmi.

"Mancavano all'Associazione le armi; mancava il danaro. Di danaro diedi quanto occorreva su quel poco raccolto dal Prestito Nazionale. Ma il contrabbando delle armi era difficilissimo, e se scoperto com'era probabile, avrebbe rivelato il disegno. Riuscii ad introdurre in Milano un certo numero di proiettili di nuova invenzione che non giovarono, giacché le barricate, alla difesa delle quali erano destinati, non furono fatte; ma, quanto ai fucili, risposi che le insurrezioni erano avviamento alla guerra, non guerra; che le armi dovevano - e nelle città potevano - sempre conquistarsi sul nemico; e che per conquistarle bastavano - se vi era animo all'audacia - un pugnale.

"Quei buoni popolani mi intesero e dissotterrate non so da dove circa cento pistole, arrugginite le più inservibili, si diedero per il resto felicemente a raccogliere pugnali o a temprare grossi lunghi chiodi da barca, dove i pugnali mancavano.
Non vi é cosa alcuna che nell'insorgere d'una città non possa compiersi; soltanto é necessario, purché le sorprese riescano, che siano tenute gelosamente segrete ai più, tra quelli stessi che devono compierle e siano eseguite a puntino e a tocco d'orologio.

"Fu architettato un numero di attacchi-sorprese che dovevano dare Milano, senza grave lotta, in mano agli insorti. Le caserme, i corpi di guardia, il fortino, il Castello dovevano alla stessa ora, anzi allo stesso minuto, essere assaliti nello stesso tempo, invaderli, quando sprovvisti quasi di difensori, da squadre, apprestate a pochi passi, di uomini armati di armi corte e ignari essi medesimi, dai capi fuori, dell'operazione da compiersi, fino al momento in cui sarebbero stati raccolti al convegno.
Da quella generale sorpresa dovevano uscire nello stesso tempo la disfatta della soldatesca e l'armarsi dei popolani. I luoghi occupati dal nemico erano stati minutamente studiati, nell'interno e all'eterno, dal capo militare preposto all' ordinamento e, sotto la sua direzione, dai capi chiamati a guidare all'azione le squadre.

"Si era scelto per l'insurrezione il 6 febbraio 1853, giorno detto del giovedì grasso e in cui i sollazzi carnevaleschi chiamano in piazza, senza altri sospetti, tutto quanto il popolo di Milano. Alle due pomeridiane circa, i soldati ricevevano la loro paga e si disperdevano per la città e nelle taverne a bere, giocare e ballare. Contro i piccoli nuclei rimasti a guardia nei diversi luoghi, l'assalto avrebbe avuto luogo alle ore cinque pm.

"Se le truppe nemiche assegnate ai vari quartieri fossero state avvertite dell'attacco e quindi messe sulla difensiva; il moto sarebbe stato, senza grave sconcerto, senza agitazione visibile, procastinato a tempi più opportuni.

"I tre punti più importanti erano il palazzo dove risiedeva il Comando Generale, il locale della cosiddetta Grande Guardia, e il Castello.
Nel primo, custodito da soli venticinque uomini, si raccoglievano a pranzo, appunto alle cinque pomeridiane, Governatore, Generali, ufficiali componenti lo stato maggiore e altri: la sorpresa relativamente facile, in quel palazzo, bastava a interrompere ogni unità di ordini e cacciare nell'anarchia la difesa.
Cento e più risoluti popolani dovevano impadronirsene; erano stati affidati a un tale che era noto sotto il nome di Fanfulla, nel 1848 ufficiale nei lancieri di Garibaldi, ritenuto prode da tutta Milano.

"Il secondo - la Grande Guardia - dove vi erano 120 uomini con 3 ufficiali e 2 obici carichi collocati davanti al portone, presentava più gravi difficoltà; ma il punto aveva per l'insurrezione una importanza strategica, e si era scelto come punto di concentramento per gli insorti di una larga sezione della città: il popolano - non ricordo il nome e me ne duole, ma trafficava carbone e teneva bottega - scelto per impadronirsene con i suoi uomini, doveva, riuscendo, rafforzarsi, chiudendo ogni ingresso e lasciando aperto a metà quello soltanto dove vi erano gli obici destinati a proteggerlo.

"Infine il Castello; questo era punto naturale di concentramento del nemico, minaccia temuta più del dovere dalla città, e racchiudeva, oltre quelli usati dal presidio, altri 12.000 fucili: la sorpresa era dunque cosa vitale per noi e si era accertata in modo da non ammettere, se ignaro il Governo, un' ombra di dubbio: diciotto uomini, scelti fra i più audaci e comandati dal capo dell'ordinamento, dovevano avventarsi improvvisamente con il pugnale alla mano sui diciotto soldati messi a custodia della prima corte; e, a un segnale dato, due squadre di popolani, di circa trecento uomini, comandate una dall'Assi, l'altra da un falegname capo di bottega, il cui nome mi é ignoto, dovevano irrompere di corsa da tutti i luoghi dove, in vicinanza del Castello, i capi li avrebbero, poco prima appostati.

"I pochi soldati rimasti, dispersi nei cameroni, inermi e colti alla sprovvista, non avrebbero di certo potuto resistere a quella invasione.
I fucili di deposito nei magazzini sarebbero stati nostri, in un batter d'occhio; i due armaioli, che di tempo in tempo li ripulivano e li riattavano, erano nostri uomini, avevano le chiavi dei magazzini e dovevano in quel giorno, sotto un pretesto qualunque tenerli aperti perché l'operazione non incontrasse il minimo ostacolo; ed essi si attennero alla promessa.
Il capo stesso, sprezzante di ogni rischio, si introdusse, un'ora prima dell'ora prestabilita all'insorgere nella piazza interna del Castello e li vide al lavoro. Riuscito il colpo, un colpo di cannone e la bandiera tricolori innalzata dovevano essere il segnale agli insorti per accorrere ed armarsi.

"Mentre si sarebbero compiute quelle sorprese, duecento giovani dovevano correre a due e a tre le strade della città e cogliere soldati e ufficiali che, avvertiti dal rumori, avrebbero, uscendo dalle taverne, dai caffé, dalle abitazioni, tentato di raggiungere isolati i vari punti assaliti.

"Era un Vespro; ma gli scribacchini moderati ci accusarono di avere preparato armi non buone. Ma chi, da Dante a noi, non aveva registrato fra le glorie italiane il Vespro di Sicilia?
Chi, fra gli ipocriti ai quali alludo, non avrebbe acclamato al tentativo dei popolani lombardi, se coronato dalla vittoria? A emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arma - se lunga o breve non conta - é santa; e se l'arbitrio di uomini, chiamati a proteggere l'usurpazione di terre non loro si giovano delle armi infami del patibolo, non lascia ai cittadini altro ferro che quello delle loro croci, allora benedetto sia chi, per salvare la libertà dei corpi e dell'anima, usa e aguzza ad offesa quel ferro !

"A tutto si era pensato, a tutto si era, come meglio si poteva, provveduto. Ottanta terrazzane erano presenti, forniti di picconi, pali di ferro e pali per innalzare barricate, qualora si prolungasse per incidenti non previsti la lotta.

"L'impresario dell'illuminazione a gas era nostro e ci si era con lui accordato affinchè l'illuminazione, occorrendo, non avesse luogo oppure ritardato. Si erano allertati, e in parte con buon esito, gli Ungheresi che facevano parte del presidio: un ex ufficiale inviato da Kossuth, allora in pieno accordo con me, aveva assecondato il lavoro e conquistato a noi un ufficiale di cavalleria; e molti ufficiali inferiori, degli acquartierati in San Francesco, avevano dato solenne promessa di unirsi ai nostri nell'azione, appena avrebbero ottenuto un primo successo. Klapka si era recato, nei primi dei febbraio, da Ginevra a Lugano per entrare e assumere il comando di suoi compatrioti il secondo giorno.

"Costretti dall'assoluta necessità del segreto sulla natura dell'azione che doveva tentarsi e certi di non poter evitare, in un vasto lavoro, inchieste e inquisizioni pericolose, ci eravamo, con le altre città lombarde, limitati a far presagire, in un tempo non remoto, eventi supremi e a raccomandare si preparassero ad approfittarne e ad agire.
Soltanto con i giovani universitari della vicina Pavia eravamo andati più oltre e si era convenuto che ai segnali di fuochi che si sarebbero innalzati dalla punta del Duomo, muovessero rapidi alla volta di Milano; e, nel frattempo, io avevo preparato fucili sul Po, affidando la direzione di ogni cosa riguardanti quel punto all' Acerbi, prode e devoto esule mantovano.

"Per le altre città tenevamo pronti corrieri a cavallo, che avrebbero recato l'annunzio del fatto e chiamato i più prossimi ad affrettarsi in nostro aiuto, tanto da avere, per la fine del 7, un forte gruppo di armati, capace di resistere a ogni tentativo di Austriaci, che volessero dalle vicinanze operare contro Milano. Noncuranti del mortale pericolo, Aurelio Saffi uomo d'indole nobilissimo per intelletto e per cuore e rimasto dal 1849 in poi "amico mio e non della ventura", si era recato, fra gli Austriaci in Bologna, per animare a preparativi quella valente città e le Romagne.

"Purtroppo fu un fallimento"

"Perché fallì il tentativo? Perché dopo tanti preparativi non uscì se non una breve sommossa !
Non mancò il popolo dei congiurati; mancarono al popolo i capi. Il segreto, cosa mirabile davvero se si pensa ai tanti che ne erano più o meno partecipi, era stato gelosamente conservato.
Il Governo ignorava ogni cosa: avvertito da qualcuno dei pericoli che sovrastavano, ma abituato a cercarli nelle classi agiate e a disprezzare il popolo come incapace d'iniziativa, aveva spiato attentamente le prime, e non vedendovi indizio di ostili disegni, si era rassicurato.
Il 6 febbraio, distribuite le paghe, i soldati si erano, come al solito, dispersi per la città, lasciando pressochè vuoti e indifesi i luoghi contro i quali dovevano operarsi le sorprese.

"Ma il Fanfulla partì subito, né si arrestò se non a Stradella: l' Assi sparì; altri capi lo imitarono: le squadre, non convocate e lasciate senza nuovi capi da chi non sapeva la diserzione dei primi, non si recarono ai luoghi di convegno: altre che si tenevano all'erta, non udendo alcun assalto al Castello, assalto al quale - e fu nostro errore - si erano subordinate parecchie sorprese, pensarono al tradimento o al cambiamento di piani e si sciolsero.

"Un solo fatto importante, l'occupazione della Grande Guardia, trovò capo e popolani esecutori fedeli, e riuscì; ma ligi alle istruzioni che indicavano quel punto, come luogo di concentramento, gli occupanti, lieti di trovarsi armati e ansiosi di azione, abbandonarono dopo breve tempo il luogo per correre nelle vie a caccia di isolati austriaci.

"Questi e i giovani armati di solo pugnale, operando in modo indipendenti contro il nemico, tuttavia bastarono a incutere sugli austriaci un vero terrore, che non cessò se non sulla sera. Contro tutte le forze, spiegate allora dal Comando generale, quel pugno di popolani, abbandonati da tutti, tentò difendersi asserragliandosi presso Porta Romana, nelle case e facendo fuoco dalle finestre; ma, e soprattutto per difetto di munizioni, fu costretto, dopo un'ora di combattimento, a disperdersi.
Perirono nel conflitto circa centocinquanta soldati nemici e due ufficiali superiori assaliti nel caffè della Scala".
(Giuseppe Mazzini)

L'ordinatore militare del moto, cercato in ogni parte, riuscì a sottrarsi. Egli vive tuttora in Assisi. E mi é caro ricordarlo agli italiani, in queste pagina il nome, E. Brizi, nome di un modesto, operoso, intrepido soldato della Democrazia Nazionale.

Perirono per mano del carnefice, condannati da una Commissione militare, poco dopo il tentativo miseramente fallito, Scannini Alessandro; Taddei Siro; Bigatti Eligio; Faccioli Cesare; Canevari Pietro; Piazza Luigi; Piazza Camillo; Silva Alessandro; Broggini Bonaventura; Cavallotti Antonio; Diotti Benedetto; Monti Giuseppe; Saporiti Gerolamo; Galimberti Angelo; Bissi Angelo; Colla Pietro.
Perirono da intrepidi: degni seguaci del già ricordato Antonio Sciesa.

Di altri condannati alla forca, sei ebbero la pena di morte commutata in quella di arresto in fortezza con ferri, per 15 o 10 anni; dieci in quella dei lavori forzati con ferri pesanti; quattro in quella di arresto in fortezza per 10, 8, 5 anni. Uno, in quella dei lavori forzati a vita con ferri pesanti; altri otto a pene diverse, varianti da 20 anni di lavori forzati con ferri pesanti, a due anni di arresto in fortezza con ferri.
Pochi giorni dopo, altri quarantatré furono condannati ai lavori forzati con i ferri, o all'arresto in fortezza con i ferri.

Eroici vinti!
Fortunati i morti ai quali fu risparmiata la tempesta di accuse, di rimproveri e di villane calunnie che si addensò sui superstiti, e specialmente sul capo di colui, la vita del quale fu un lungo, ininterrotto martirio, cui pose fine solo la morte.

Oggi la storia di quell'epoca si giudica più correttamente: e si é finito coll'intendere che se nessuno avesse tentato un'impresa senza certezza di successo, l'Italia avrebbe davvero meritato il nome di terra dei morti, datole da Lamartine.

Ingiuste le accuse lanciate allora contro chi fece o tentava di fare: ingiusto oggi mormorare la parola traditore alludendo a chi partecipava, come a chi si asteneva da quel moto.

Il segreto, cosa mirabile davvero, se si pensi ai tanti che ne erano più o meno partecipi, era stato gelosamente conservato. Il Governo ignorava ogni cosa.
Sicché se nulla fu tradito, traditori non vi furono, né potevano esservi.

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