TRENTACINQUESIMO CAPITOLO


Il mausoleo dedicato a Garibaldi a New York
l'edificio in stile palladiano racchiude la baracca dove assieme a Meucci abitò Garibaldi

CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

Il tentativo del 6 febbraio provoca l'espulsione di molti esuli italiani dal suolo piemontese. - L'Austria mette il sequestro sui beni degli emigrati. - Proteste del governo sardo. - Risposta di Lord Clarendon al memorandum indirizzato dal ministro Dabormida alle potenze europee. - Accoglienza dei profughi italiani all'estero. - Particolari della vita di Garibaldi in America. - E' eletto capitano di una nave da una società commerciale. Suoi viaggi. Un sogno spaventoso narrato da lui stesso. - La città di Newcastle on Tyne dona a Garibaldi una spada e un telescopio. - Ritorno e vita ritirata di Garibaldi in Nizza. - Le condizioni dei partiti in quel tempo. - Garibaldi non appartenente a nessuno di essi vede di buon occhio la spedizione di Crimea. - Alleanza del governo sardo con la Francia e l'Inghilterra per la spedizione. - Disegno di liberare i prigionieri borbonici. - Lettere inedite di Garibaldi. - Il governo di Piemonte non aveva altra mira che un ingrandimento di territorio.
Manin e la teoria del pugnale.

Alle rappresaglie dell'Austria fece riscontro il cinismo degli esuli aristocratici, il cui organo era l' Opinione. - Per essi i patrioti impiccati erano ribaldi e barabba; innocenti assassinati i croati. Essi additavano all' Austria nuove vittime, incitavano il Piemonte allo cacciata di tutti gli esuli sospetti di non volere aspettare la liberazione d'Italia dall'arbitra mano di Casa Savoia.

Molto più spregevole la condotta di costoro, che non quella del governo, il quale costrettovi dalla diplomazia proscrisse alla rinfusa quanti esuli potevano anche se sospetti partecipi del fallito tentativo. Durissima fu la sorte di tutti costoro, fra i quali il Grioli, fratello dell'ucciso, Sacchi Achille, ancora sofferente per la ferita di Roma, Crispi e altri siciliani, l'ungherese Türr e Winkler e molte centinaia d'italiani di ogni regione che poveri e privi dell'aiuto delle proprie famiglie dovettero errare fra stenti e pericoli.

Più terribile ancora lo stato dei deportati in America. Valsero tuttavia questi provvedimenti per placare l'odio dell' Austria e a richiamarla a più miti propositi.

È quel che il lettore potrà giudicare da se stesso quando avrà saputo che non molto dopo essa mise il sequestro su tutti i beni degli emigrati, comprendendovi pure quelli che avevano ottenuto la cittadinanza sarda. Questa nuova e solenne ingiustizia colpiva uomini notevoli come l' Arese, Martini Enrico, Giuseppe Arconati e altri, che, già membri della Camera, appartenevano alla maggioranza ministeriale.
Vibrate furono le proteste del governo subalpino, e se si può deplorare che non una parola di biasimo aveva pronunciato prima di allora contro le sevizie austriache, bisogna rallegrarsi per il dignitoso linguaggio tenuto in quest'occasione dal ministro degli esteri, il Dabormida.

Difatti il memorandum sardo, scritto da Luigi Cibrario e presentato a tutte le potenze europee, sollevò specialmente in Inghilterra una corrente di simpatie al Piemonte, e porse materia di molto severo giudizio contro l'Austria.
Lord Clarendon le rinfacciò apertamente l'ingiustizia e l'illegalità del decreto. Il governo di S. M., aggiunse, non può ammettere che la salute pubblica di un paese possa servire d'argomento a giustificare atti manifestamente ingiusti, e crede di essere in diritto, senza intromettersi negli affari interni dell'Austria, di manifestare la sua opinione sul contegno di una grande potenza, la quale, verso un'altra potenza relativamente più debole, si era comportata in modo tale da praticare massime che scalzano le fondamenta della società.

La nota, che era diretta al marchese Emanuele d'Azeglio, concludeva confortando il Piemonte a perseverare nella nobile fermezza e dignitosa moderazione, che gli avevano guadagnato la stima universale e il posto che esso occupava nella famiglia degli Stati europei.
Insolito durezza di linguaggio questa dell'Inghilterra verso l'Austria, la quale rispondeva, secondo il costume antico, con la cacciata di 8000 svizzeri dalla Lombardia e minacciando il coraggioso Canton Ticino di ben altre vendette.

Gli italiani residenti all'estero accolsero gli esuli con ogni segno di benevolenza. A Londra nobili cuori, dando vita al comitato degli "amici d'Italia", primi fra tutti la famiglia Ashurst, Taylor, Shaen e Stansfeld, promossero concerti musicali a cui il tenore Mario e la Grisi prestarono opera gratuita.

In America i deportati destarono sdegno e pietà, dove rendevano onorato il nome italiano l'Avezzana, Foresti e parecchi altri, e più recentemente Garibaldi. Di Garibaldi il Foresti scriveva a Cuneo nel 1852: "Garibaldi è fra noi fino dall'agosto scorso, caro a tutti e stimatissimo anche dagli americani. Speranza di cose nuove in Italia alleggerisce il peso del comune esilio.
Un gran turbine minaccia l'Europa. La democrazia sventola il suo stendardo con ardimento: speriamo!"

Trascorsero assai mesti per il nostro eroe i primi anni del suo esilio in America. Confortato soltanto dall'affetto degli amici e specialmente dalle cure fraterne di Antonio Meucci, Garibaldi trovò onorato lavoro nella sua manifattura di candele di sego (*).

(*) Ecco alcuni interessanti particolari che Adolfo Rossi (Corrispondenza di New-York alla Lega della Democrazia, 2 agosto 1882) raccolse dalla bocca stessa del Meucci, ospite del generale in quei tempi:

"Egli abitava una stanzuccia, illuminata da due piccole finestre al nord e al sud. Da quando il generale partì non fu più toccata: si trova nello stato identico di vent'anni fa. Contiene un letto di ferro, un portacatino pure di ferro, tre seggiole, un tavolino ed una toilette di legno con sopra un gioco di dama ed uno stipo ornato di semplici ma leggiadri lavori di paglia a colori svariati, sul quale sta un teschio di cera. Due piccoli specchi pendono dalle nude pareti: dinanzi ad essi Garibaldi tormentava sovente con la forbice la sua barba bionda. Non ci sono altri mobili. Ma c'è distesa sul letto una camicia che fa battere il cuore ad ogni italiano che la vede, la camicia rossa che Garibaldi indossò durante la campagna di Roma del 1849 e che lasciò per memoria alla signora Meticci.

"È di tela, con colletto e polsini verdi orlati di bianco, con bottoni ordinari di vetro. Presenta i colori nazionali e porta ancora tracce del sudore di colui che dell'indipendenza nazionale fu il più gran fattore. Al signor Meucci il generale donò un magnifico pugnaletto, religiosamente conservato nel suo astuccio di velluto. Questo pugnale gli ornava il fianco a Montevideo: il manico ed il fodero di metallo color bronzo sono finemente cesellati, e l'impugnatura è artisticamente formata con un piccolo gruppo rappresentante Mazeppa inseguito dai cani.

"Quando Garibaldi sbarcava in New-York era povero, possedeva soltanto il vestito che indossava Meucci, che da poco tempo era venuto a stabilirsi sulla costa Atlantica dopo avere dimorato parecchi anni nell'America del Sud dove conobbe Garibaldi, lo invitò in casa. Garibaldi accettò l'ospitalità.
E in quella modesta casetta, la vita libera, la cordialità della famiglia Meucci e le visite degli esuli suoi patrioti, versarono un po' di balsamo sul suo cuore lacerato dalla memoria dell'adorata Anita e dei tentativi falliti. Quante notti egli deve aver vegliato in quella piccola stanza, in solitarie meditazioni ! Come deve aver provato sdegno su quel lettuccio pensando alla patria schiava, ai vani conati del 48 e 49, alla ritirata da Roma, all' Austria, alla Francia, al sangue sparso!

"In Staten-Island Garibaldi era serio, malinconico, di poche parole. Incapace di adattarsi all'oziosa vita che conducevano tanti esuli, lo tormentava la febbre del moto e del lavoro. Certe mattine partiva col fucile in spalla, con un po' di pane e formaggio nel carniere, s'internava nei boschi circostanti e non rincasava che alla sera tardi, quand'era stanco e carico di selvaggina.
Un giorno solo tornò senza aver sparato lo schioppo: - Ma non venne con le mani vuote. Cara signora Ester, disse alla moglie del signor Meucci deponendole in grembo una candida bestiola: Ho trovato questa giovane lepre intirizzita dal freddo. La giovane lepre era una gattina, l'Eva della razza felina in casa Meucci.
Andato un giorno a caccia fuori di stagione senza saperlo, fu arrestato e rilasciato poi libero per l'intervento degli amici. Ritornato a casa, qualcheduno si lagnò in sua presenza delle leggi americane, ma egli osservò che gli americani fanno le leggi che tornano comode a loro, senza pensare ai forestieri; che l'Italia, divenuta nazione, farebbe lo stesso, e che ognuno é tenuto a rispettare le leggi del paese in cui si trova.

"Certi altri giorni s'imbarcava sopra un grazioso battello a vela latina che Meucci aveva comperato, dipinto in bianco, rosso e verde, e battezzato Ugo Bassi in memoria del sacerdote martire. Garibaldi, marinaio nato, lo faceva volare sulle onde come un gabbiano e passava in mare delle giornate intere e delle notti serene pescando. Quando non andava né alla caccia, né alla pesca, Garibaldi, per non stare ozioso, voleva assolutamente aiutare il signor Menci, e lavorò prima nella fabbricazione dei salami e più tardi in quella delle candele steariche.

"Un giorno, dissossando alcuno ossa di bue, il coltello scivolatogli, gli troncò un pezzo di dito che cadde e si confisse insieme con l'altra carne: - Non cercatelo, disse sorridendo agli astanti, renderà il salame repubblicano! -
E' falso che Garibaldi abbia mai lavorato in New-York come operaio salariato. La casa di Meucci, in Staten Island, era visitata come un santuario da tutti gli esuli italiani che sbarcavano in New-York. Garibaldi però non posava da eroe né da oracolo dinanzi a nessuno, era buono, dolce, un eccellente compagnone, il quale ogni volta che si accorgeva di possedere due camicie ne regalava una a chi non ne aveva nemmeno una o non poteva cambiare quella che indossava.

"Lo andavano spesso a trovare il maggiore Bevi, Righini, Oregoni, il generale Avezzana, Foresti, Pastacaldi, Filopanti, Minelli, il colonnello Forbes, Marinelli ed altri illustri valorosi. Fra gli americani che avevano simpatie per la causa italiana, era assiduo John Anderson. Chi avesse stenografato i colloqui di quei patrioti, le parole generose, gli audaci progetti e le vive speranze che esponeva Garibaldi, avrebbe adornato di alcune pagine immortali la storia d'Italia.

"Qualche volta ridevano e dimenticando le disillusioni del passato e le incertezze dell'avvenire, passavano delle serate liete, talora discorrendo di scienze fisiche, matematiche e di lingua inglese, studi a cui Garibaldi dedicava molte ore ogni giorno. Ma più di tutto, Meucci e i pochi vecchi qui ancora residenti, ricordano commossi il buon cuore e la generosità del generale. La signora Meucci aveva un bel rifornirgli I'armadio di biancheria ! Il primo povero italiano che si presentava, chiedendo qualche aiuto, gliela portava via.

" Di denari non se ne parla. Sparivano come per incantesimo appena gli erano entrati in tasca Una volta un armatore che doveva affidargli il comando di una nave, gli spedì settecento dollari. Cosa fa Garibaldi? Manda subito a chiamare, senza perdere un minuto, gli esuli più bisognosi, depone sulla tavola la somma, ne fa tanti mucchi quanti erano i presenti, eccettuato se stesso, e li distribuisce loro.
E in quell'epoca possedeva due camicie soltanto: - "Vedete, diceva, l'uomo nasce senza camicia: io che ne possiedo due posso ben regalarne una" .
Ecco Garibaldi ! "

Ebbe in seguito da una Società Italo-Americana il comando di un bastimento destinato al commercio con l'America centrale, ma giunto a Panama, colpito di febbre perniciosa, dovette rimanere a terra e senza le cure amorose e intelligenti di Giovanni Basso molto probabilmente qui avrebbe lasciato la vita. A Panama rivide con gran piacere il Carpanetti, che, per averlo ospitato in Tangeri, dovette abbandonare il posto di console, e con lui sul San Giorgio partì per Lima, dove Don Pedro de Negri, ricco genovese, gli offrì il comando di un bastimento carico di grani e d'argento. Tre mesi durò il viaggio, durante il quale fa molto impressionato da un sogno, che egli stesso raccontò, e che può essere aggiunto alla raccolta dei presentimenti poi avverati (Citato da G. Guerzoni, Vita di Garibaldi, da un manoscritto inedito, che egli ebbe fra le mani. Vol. I, Capitolo VI, pag. 398).

"Solo una volta (scrive Garibaldi stesso), io provo raccapriccio nel rammentarmene. Sull' immenso Oceano Pacifico, tra il Continente americano e l'asiatico, con la "Carmen", avemmo una specie di tifone, non formidabile, come quelli che si sperimentano sulle coste della China, ma abbastanza forte per farci stare parte della giornata, 19 marzo 1852, con le gabbie basse - e dico tifone, perchè il vento fece il giro della bussola, segno caratteristico del tifone, ed il mare si agitò terribilmente, come quando si scatena un grande temporale.
Io ero ammalato di reumatismi, e mi trovavo nel pieno della tempesta addormentato nel mio camerino sopra coperta.
Nel sonno io ero trasportato nella mia terra natale; ma invece di trovarvi quell'aria di Paradiso che ero abituato di trovare a Nizza dove tutto mi sorrideva, tutto mi sembrava tetro come un' atmosfera di cimitero; tra una folla di donne che io scorgeva in lontananza, in aria dimessa e mesta, mi sembrò di scorgere una barca - e quelle donne, quantunque muovessero lentamente, avanzavano però verso di me. Io con un fatale presentimento feci uno sforzo per avvicinarmi al convoglio funebre, e non potei muovermi, avevo una montagna sullo stomaco. La comitiva però giunse al lato del mio giaciglio, vi depose la bara e si dileguò.
Sudato come per una fatica, avevo inutilmente cercato di sorreggermi sulle braccia. Ero sotto la terribile influenza di un incubo - e quando iniziai a muovermi, a sentire accanto a me la fredda salma di un cadavere, ed a riconoscere il santo volto di mia Madre, io mi sono destato; ma l'impressione di una mano ghiacciata era rimasta sulla mia mano.
Il cupo ruggito della tempesta ed i lamenti della povera Carmen spietatamente sbattuta contro terra, non poterono dileguare interamente i terribili effetti del mio sogno.
In quel giorno ed in quell' ora certamente io ero rimasto privo della mia genitrice, dell'ottima delle madri"

(*) Singolare coincidenza! Nella stessa notte del 19 marzo 1852 la madre di Garibaldi morì. I lembi della coltre funerea furono tenuti da quattro proscritti della democrazia europea, un francese, un italiano, un polacco, un russo. Tutti i membri della emigrazione francese che si trovavano a Nizza facevano parte del convoglio, incedendo in mezzo a loro dodici dame. La popolazione nizzarda prese viva parte in questa imponente cerimonia, Immenso il concorso di popolo, nessun discorso pronunciato).

Saputo a Hong-Kong che il socio del De Negri era partito per Canton, qui raggiuntolo, Garibaldi ebbe istruzioni di vendere il carico ad Amoy, ove fece buoni affari. Qui poi con nuovo carico se ne ritornò a Lima.
Parlava poco di questi tempi per lui mesti ed insulsi, poiché nulla riusci a fare per la patria sua; egli ricordava però con particolare compiacenza questo aneddoto. Presente ad un pranzo d'addio dato in suo onore dai compatrioti di Lima, vi era un francese, che dopo aver parlato lungamente dell'assedio di Roma, con la solita jattanza della sua razza concluse: "Faut convenir au moins, Général, que nous avons combattu en braves."
"Je n'en sais rien, monsieur, puisque je n'ai jamais vu qui vos derriéres" rispose seccamente Garibaldi.

Ripartito per Nuova York con l'incarico avuto dal De Negri di assumere il comando del Commonwealth, fu testimonio egli stesso dello sdegno della cittadinanza americana condiviso dai tedeschi qui residenti, per la recente deportazione degli esuli italiani, sdegno che aumentò quando si riseppero i maltrattamenti inflitti su quei miseri perfino lungo il viaggio.
Fu convocato un comizio presieduto dal Foresti per dare in forma solenne il benvenuto ai compatrioti nella terra della libertà. E visto che il governo piemontese aveva fatto precedere questi infelici dalle più atroci calunnie, raccolte e divulgate dall' Eco di New-York, fu nominato un comitato di cittadini americani, inglesi e italiani nelle persone di Dwight-Hagg, del colonnello Forbes, già ufficiale di Garibaldi, e di Foresti stesso, allo scopo d'informarsi della causa dell' esilio di ciascheduno e per fare rapporto alla "Società degli amici della Libertà civile e religiosa" onde trovare impiego e provvedere lavoro per i più bisognosi.

Invitato Garibaldi a prendere parte come vicepresidente ad una grande riunione fissata per il 22 settembre, egli rispose:
Nuova York, 14 settembre 1853.
"Poiché parto oggi per Boston, temo di non poter essere qui di ritorno al 22; conseguentemente, mi vedo costretto a declinare l'onore che vi compiacete di farmi.
Applaudo però con tutto il cuore alla dimostrazione proposta, onde approvare la condotta del bravo e generoso Ingraham. Io sono sicuro chi egli non è stato che l'interprete dei sentimenti di questo grande popolo, il quale è oggi il solo, ma intrepido baluardo contro il dispotismo dell'Europa.
Sento la più profonda gratitudine per l'onore che mi avete conferito e sono con considerazione, ecc.
GIUSEPPE GARIBALDI.

Nell'aprile 1854, giunse a Newcastle on Tyne, dove da Joseph Cowen e dagli operai della città, cui ogni atto e fatti dell'eroe era già noto per bocca di Mazzini, ricevette grandi e cordiali accoglienze. Rifiutando però qualsiasi dimostrazioni pubblica, gli Amici della libertà europea vollero fargli un regalo con una sottoscrizione pubblica di non più di dieci centesimi per firma. In poco tempo fu raggranellata una vistosa somma, e l'11 aprile a bordo del proprio bastimento, gli furono consegnati un spada e un telescopio con l'iscrizione: "Al generale Garibaldi dal popolo di Tynside gli Amici della libertà europea. - Newcastle on Tyne, aprile 1854. »

Nella lettera di ringraziamento il Generale scrisse:
"Nato ed educato nella causa dell'umanità, il mio cuoreè interamente donato alla libertà, alla libertà universale, ora e sempre. L'Inghilterra è una nazione grandi e potente. Indipendente da tutti, all' avanguardia del progresso, nemica al dispotismo, unico asilo dell'esule, amica degli oppressi. Il Vostro governo ha dato all'autocrazia uno scacco, agli austriaci una lezione.
I despoti d'Europa sono per conseguenza contro di voi. Se mai in qualsiasi circostanza il mio braccio può esservi utile, sarò lieto di sguainare la bella spada donatami".

Giunse a Genova con un carico di carbone, e trovandosi in possesso di una certa somma, non ebbe cuore di allontanarsi nuovamente dalla patria e dai figli; onde, ritiratosi a Nizza, lo vediamo qui condurre una vita semplice e riservata.
Le condizioni dei partiti erano totalmente mutate. La stella del Piemonte ascendeva; quella dei repubblicani, per il moto del sei febbraio, per lo scioglimento, dopo la prigionia del Petroni, del comitato repubblicano di Roma, e per l' ultimo tentativo della Lunigiana, impallidiva.
Tuttavia il ritorno di Garibaldi li aveva rianimati nella speranza di averlo capitano in futuri tentativi, e misero in giro una sottoscrizione per dedicargli una medaglia d'oro. Ma egli non se ne dette per inteso, e, avvenuto il fatto di Parma, persuaso che il suo nome fosse servito come vessillo, stampò nell'Italia del Popolo la seguente lettera:

"Siccome dal mio arrivo in Italia, or sono due volte che io odo il mio nome mischiato a dei movimenti insurrezionali - che io non approvo, - credo mio dovere pubblicamente manifestarlo, e prevenire la gioventù nostra, sempre pronta ad affrontare pericoli per la redenzione della patria, di non lasciarsi così facilmente trascinare dalle fallaci insinuazioni di uomini ingannati od ingannatori, che spingendola a dei tentativi intempestivi, rovinano, e screditano la nostra causa
Genova, 4 agosto 1854.
G. GARIBALDI".

(Italia del Popolo, 7 agosto 1854.)


Seguirono proteste e recriminazioni che non avrebbero avuto seguito, senza l'inserzione nell'Italia del Popolo di una lunga requisitoria del Generale Roselli contro Garibaldi per i fatti di Velletri. Il Roselli accusava il Generale
"... subordinato di avere abbandonato il posto e la gente che gli era stata affidata - e continuava - Un tal delitto fu certamente più peggiore di quello commesso dal generale Ramorino in Piemonte; e alle persone, le quali asseriscono, che anche se il generale Ramorino avesse osservato la disciplina non sarebbe stata impedita la catastrofe di Novara a causa dei difetti delle disposizioni del duce supremo (Czarnowski), io esorto a considerare se fu invece in virtù delle supreme disposizioni, che i romani non s'ebbero lacrimevole sconfitta a Velletri, allorchè fu nel loro esercito la disciplina tanto orrendamente inculcata".

A queste parole dettate dal livore e dall'invidia, Garibaldi disdegnò a rispondere, ed ebbe ragione. Torto aveva invece di incolpare Mazzini, che, mentre cercava di averlo duce dei moti rivoluzionari, fieramente rimproverava i suoi seguaci per le parole irritanti o poco rispettose verso l'uomo che egli giudicava indispensabile all'italico risorgimento.

Che l'aiutare questo fosse unica idea di Garibaldi, ogni detto e scritto suo lo prova. Il 23 gennaio 1855 egli scrisse a Cuneo, ritornato a Montevideo:

(*) Lettera inedita della Raccolta Zunini.

«Io pure non godo buona salute e vorrei prima di essere affranto impiegare quel che mi resta a pro di questa terra infelice. Chi sa? Tu sai che io non dispero mai, e mi sembra che la rigenerazione possa ottenersi da circostanze non previste, e più presto che non si speri.
Gli elementi di successo esistono nella nostra nazione. Ora non sono preparati né organizzati, ma chi più dei nostri possiede la dote di spontaneità nell'azione? Così avessimo lo steadiness degli Inglesi. Mi accarezza il cenno che mi fai di rivederti presto e ne sono contento per me, che ti son fratello, e per l'Italia, che abbisogna dei tuoi pari sempre e massime ora in cui potremmo procedere presto sulla via d' azione, spinti dalle esistenti vertenze europee."

E mentre tutto il partito democratico dell'Europa biasimava la spedizione della Crimea, Kossuth, Mazzini, Manin, Brofferio deprecando altamente l'entrare in scena del Piemonte, alleato dell'Austria; Garibaldi vedeva di buon occhio un esercito con la divisa italiana e lo sventolare del vessillo tricolore sopra i campi di battaglia (*).

(*) Già fin dal 1853 erano apparsi i primi sintomi di gravi complicazioni in Oriente, ove l'invadente potenza moscovita veniva man mano colorendo il disegno di secolari ambizioni, e minacciando quello, che, con parola diplomatica, si chiamava "equilibrio europeo". Inghilterra e Francia si diedero la mano e il 12 aprile 1854 segnarono il trattato che consacrava la loro alleanza e definiva il fine di essa, che era quello di ristabilire la pace fra la Russia e la Turchia su basi tali da garantire l'Europa da nuove complicazioni per l'avvenire.

L'iniziativa di questa guerra presa da quelle due massime nazioni occidentali ci guida a comprendere come entrambe avessero grandi interessi da tutelare in Oriente, e non si deve tacere, che questo evento era, per "l'uomo del 2 dicembre", un'opportuna occasione di distrarre l'opinione nazionale francese dal recente colpo di Stato, cui avrebbe fatto dimenticare o plaudire con lo splendore di probabili vittorie.
Ma non dissimulavano le potenze alleate l'importanza e le difficoltà dell'impresa, alla cui riuscita stimavano non sufficienti le loro forze e bisognava ad ogni modo assicurare almeno la neutralità delle altre. Di qui quella lunga serie di negoziazioni, di dispacci, di note fra i gabinetti di Londra, Parigi, Torino, Vienna, che durarono fino al 21 aprile 1855, giorno in cui 15.000 soldati piemontesi partirono per la Crimea.

L'atteggiamento che avrebbe preso l'Austria in tale impresa poteva essere condizione di buona o cattiva riuscita: premeva quindi sommamente di averla alleata o almeno neutrale. Ed essa, dopo aver lungamente tentennato, dopo aver fatto intendere che la sua partecipazione alla guerra non poteva avvenire senza che prima si fosse messo il Piemonte in stato da non poterla minacciare alle spalle (e il Radetsky proponeva addirittura l'occupazione delle fortezze d'Alessandria), si decise il 2 dicembre 1854 a non impegnarsi all'ostilità, quantunque accennasse d'accostarsi alle potenze occidentali.

Questo stato di cose delineava la politica da seguire del governo di Vittorio Emanuele in tale occasione. I biografi del Cavour arrivati a questo punto della sua vita s'ingegnano a dimostrare come il disegno della compartecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea fosse tutta sua opera e una trovata della sua mente.
L' iniziativa venne da Napoleone. Già fin dai primi giorni del 1854 un inviato del Gabinetto di Parigi, il Brenier, era giunto a Torino per scandagliare l'animo del re e dei suoi ministri, ma senza risultato. Allora una dichiarazione pubblicata nel diario governativo francese provocò uno scambio di note, nelle quali Drouyn de Lhuys antivedendo delle eventualità, solleticando speranze, veniva, senza parerlo, e questa volta con qualche effetto, consigliando il Piemonte ad entrare decisamente nella lega. Un suo dispaccio al Villamarina finiva:
".... il
Piemonte potrà fare i suoi calcoli per vedere se gli conviene prestarci un concorso attivo, onde avere il suo voto e la sua parte di compenso nell'assetto definitivo delle cose. Se l'Austria ci vien meno, tanto peggio e per essa: la Sardegna avrà un'occasione favorevole per riprendere una buona rivincita".
(Nicomede Bianchi -- Storia della Diplomazia Italiana, vol. V )

Difatti la neutralità equivaleva a un isolamento utile solo all'Austria, che mirava a rendere il Piemonte malvisto e in sospetto a tutta l'Europa. E di più si sapeva di una convenzione segreta con la Francia, per cui 60.000 soldati di questa avrebbero attraversato l'Italia settentrionale per dare aiuto ai tedeschi in caso che questi dovessero impegnare una lotta sul Danubio. Ora era facile prevedere le probabili conseguenze di questo avvenimento.

Il 10 gennaio 1855 la notizia che l' alleanza del Piemonte con la Francia e l'Inghilterra era firmata, fece dire a un diplomatico inglese: "C'est un coup de pistolet à l' oreille de l' Autriche".
I 15.000 soldati salpati da Genova il 21, arrivarono a Balaclava il 9 del mese successivo. Ne era generale in capo Alfonso La Marmora. I limiti di questa storia non ci consentono di estenderci sulle vicende di quella campagna, cui sulle prime non parve troppo propizia la fortuna, essendo l'esercito alleato decimato dal colera e rimasto vittima del morbo anche Alessandro La Marmora.

Le truppe sarde il 16 agosto alla Cernaia e nella grande giornata della espugnazione di Sebastopoli attestarono in faccia al mondo il valore italiano. "I piemontesi hanno combattuto valorosissimamente", annunziavano i telegrammi francesi e inglesi. E fu lode meritata. Dopo l'espugnazione di Malakoff e la conseguente caduta di Sebastopoli, avvenuta l'8 settembre, le ostilità sospese non furono più riprese, poiché Austria e Prussia e Francia, contro Inghilterra e Piemonte, presero a favorire l'idea della pace e del congresso. Il quale, apertosi in Parigi il 25 febbraio, si occupò l'8 aprile delle cose italiane, sulle quali seppe abilmente il Cavour richiamare l'attenzione dei plenipotenziari.

La politica e i risultati pratici di quest'atto del Governo piemontese si sono fatti manifesti dalle parole pronunziate alla Camera subalpina il 6 maggio 1856 da Cavour, che ha il merito di aver trattato gli affari e prima e dopo il Congresso con molta abilità diplomatica.
"La via che abbiamo seguita in questi ultimi anni ci ha condotti ad un gran passo: per la prima volta nella storia nostra la questione italiana é stata portata e discussa davanti ad un Congresso europeo, con l'intenzione altamente manifesta di arrecare alle piaghe d'Italia un qualche rimedio, col dichiarare le simpatie che sentivano per essa le grandi nazioni".

Dabormida, ministro degli affari esteri, diede le sue dimissioni poiché non volle firmare il trattato di alleanza prima che l'Austria non avesse promesso di levare il sequestro dai beni degli emigrati. Allora Cavour assunse il portafoglio, e spinse efficacemente le negoziazioni.
Garibaldi perciò cominciò a concepire per lui alta stima. Leggeva i giornali avidamente, e quando seppe che dopo lunga lotta il trattato fu approvato dalla Camera dei deputati (101 voti favorevoli e 60 contrari e nel Senato con 63 voti contro 27), pensò fra sé e sé: Cosa fatta capo ha, e le notizie che giunsero della bravura delle truppe lo colmarono di gioia e di orgoglio.

Avendo fatto in quell'anno la conoscenza personale del Generale a Nizza, fu intavolata fra noi una corrispondenza, da cui emerge che egli non solamente contava gli istanti per rimettersi di nuovo in azione in pro della patria, ma che egli non era di alcun partito, deciso soltanto di agire con chi primo gli avesse offerto mezzi d'azione.
Si trattava una volta di tentare la liberazione di Ripari, suo medico durante la campagna di Roma, e che, rimasto con i suoi feriti, era stato arrestato e condotto a S. Michele. Egli subito rispose "pronto".

Era sempre schivo di farsi iniziatore di sottoscrizioni all' estero a pro dell' Italia, pur sapendo che senza denaro nulla si fa. Consigliato ad avvalersi della crescente simpatia che la guerra della Crimea aveva risvegliato nell'Inghilterra per avere i mezzi pronti all'occasione.
"Io ho sott'occhio - scrive - la vostra lettera in risposta alla mia in cui vi parlavo dell'infelice Ciceruacchio, e quest'ultima del 23 agosto. Io non ho subito risposto alla vostra perché non mi sono sentito capace di rispondere all'interpellanza vostra: "Avez-vous besoin d' argent pour le pays?".
Ma questa é faccenda delicata: noi ne abbiamo bisogno, sicuro; ma non so se io possa assumere la responsabilità di chiedere denaro al pubblico inglese per la liberazione del mio paese.
"L'alte (imprese) non temo e l'umili non sprezzo", dice il Tasso. Io mi sento l'anima fervida come nei primi bollori giovanili, e spero di provare allo scopo che non vi é impresa per alta che sia la quale mi spaventa.
Molte delle province italiane mi assicurano che il mio nome suona bene dovunque e ch'io posso tentare ogni cosa: io mi sento nell'anima mia capacissimo di non esser corrotto, e di procedere a pro del mio paese tanto probamente quanto si possa; però non mi sembra di potere domandare denaro in mio nome per il mio paese, senza incorrere verso taluni nella taccia di presuntuoso e di voler capitanare ove non sono abbastanza esplicitamente chiamato.

"Nondimeno non tarderà il momento in cui spero assumere responsabilità più decisa, trattandosi di fare fatti e non parole; - io potrò dirvi allora: unite elementi e noi li adopereremo degnamente, daremo delle bastonature a dovere. Mi sembra l'Italia vicina a sciogliere il secolare problema e noi contiamo molto suo bravo amico nostro d'Albione".

In novembre 1855 (apprendendo la morte del fratello Felice) scrisse:
"J' ai eu le malheur de perdre mon frére Felice dans ces derniers jours. - Il était resté environ quinze mois à Paris, pour effectuer une opération chirurgicale qui n' est pas réussie, il était arrivé ici épuisé - enfin une complication fiévreuse l'a accablé le 13 du courant. - Nous avons quelques belles journées ici, aprés une série de journées pluvieuses. - Les étrangers sont trés-nombreux cet hiver. J'habite a la maison paternelle au port, qu'habitait mon pauvre frére - j' ai quitté le Lazzaretto avec regret mais j'y irais me promener tous les jours".


Lo scoglio di Caprera - in fondo sulla destra.... la casa di Garibaldi (vedi sotto)

Questo fratello gli lasciò un piccolo patrimonio, e aggiuntivi i suoi risparmi comprò metà dello scoglio di Caprera e nel gennaio 1856 fece un viaggio in Inghilterra con triplice scopo: visitare suo figlio; combinare con Panizzi un disegno studiato con il dottor Bertani e con Sir James Hudson, allora ambasciatore a Torino, per la liberazione di Settembrini, di Poerio e di Spaventa dall'ergastolo di S. Stefano; comperarsi un piccolo cutter con cui trasportare materiale edile da Genova a Caprera per costruirvi una piccola casetta poco lontano dallo scoglio che domina il mare.

Avendo dichiarato agli amici di esser pronto a capitanare la spedizione, appena organizzata, egli non se ne diede più pensiero; e questo meravigliava il Panizzi. Non così il Bertani, che ne aveva assunto l'ordinamento e mostrava di conoscere l'uomo scrivendo da Genova il 30 marzo 1856:
"Garibaldi era qui ieri l'altro, e partì per Nizza. Nulla perdetti non parlando ulteriormente con lui, egli é l'uomo d'azione per eccellenza; ma non uomo di trattative o di progetti. A lui basterà dire: siamo pronti, disponete, o tutt'al più chiedergli il giudizio sul battello. Ora siamo al buon punto".

Ma purtroppo il vapore comperato in Inghilterra naufragò, perdendo tutto l'equipaggio, e così andò perduta gran parte delle lire 30,000 sottoscritte dagli amici inglesi e bisognò ritornare da capo. E da capo si misero il Panizzi e Bertani, e questa volta fu deciso che questi dovesse accompagnare Garibaldi. Tutto era di nuovo preparato e pronto, quando fu offerto ai prigionieri di andare in America; il Settembrini stesso fece sospendere il tentativo.

Quattro anni più tardi, mentre quegli ex-prigionieri borbonici sostenevano nella Camera subalpina la cessione di Nizza (la sua Nizza) alla Francia, Garibaldi seduto accanto a Bertani, gli disse con sarcastico sorriso:
"Eppure per liberare quelle persone eravamo pronti ad arrischiare la nostra vita".
Garibaldi non dimenticava mai nulla!

In quello stesso anno fuggì dal castello di Mantova Felice Orsini e con Paolo Fabrizi si cercava di combinare un trattato di alleanza fra Mazzini, Kossuth e altri capi della democrazia. Garibaldi ad una mia lettera così rispondeva:
"Genova, 3 febbraio 1856.
Se io fossi sicuro d'esser seguito da un numero ragguardevole presentandomi con una bandiera sulla scena d'azione del mio paese e soltanto con piccola probabilità di successo - dubitereste voi ch'io mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell'idea di tutta la vita, benché mi si presentasse, per compenso , il martirio il più atroce! - Voi mi conoscete male pensando il contrario. - Io vi dirò con orgoglio che posso stare a fianco dei più caldi patrioti italiani e con la coscienza di non spacciarvi una millanteria. La mia vita é lì per l'Italia, ed il paradiso delle mie credenze - é cinger un ferro per essa. Benessere, moglie, figli non valsero a trattenermi - e nulla mi tratterrà - quando si tratti della santa causa. Vi dirò di più: che qualunque dei movimenti diretti dal Mazzini - da me non approvati, - avrebbe avuto un seguace di più - se mi
fossi trovato nell'occasione di aggregarmi. Se non mi lancio a capitanare un movimento - é perché non vedo probabilità di riuscita e voi dovete intuire dalla mia vita passata che io devo intendermi abbastanza di imprese rischiose.

" Una parola sul Piemonte. In Piemonte vi é un esercito di quarantamila uomini, ed un re ambizioso: quelli sono elementi d'iniziativa e di successo, a cui crede oggi la maggioranza degli italiani.
D'altra parte se il Piemonte tentenna e si fa minore della missione a cui lo crediamo chiamato - noi lo rinnegheremo. Che altri si accingano pure alla santa guerra - anche temerariamente - ma non con insurrezioni da ridere - e voi troverete il vostro fratello sui i campi di battaglia. - Combattete - io sono con voi - ma io non dirò agl'italiani - Sorgete! per fare ridere la canaglia. - Vous ai je parlé franchement ? -
Io sarò a Genova fra qualche giorno, passerò a Nizza e tornerò in Sardegna verso la fine del mese, Ovunque comandate al vostro fratello
G. GARIBALDI ».

Intanto Cavour al congresso di Parigi appoggiandosi ai costanti tentativi degli oppressi contro gli oppressori, picchiava all'orecchio d'Europa con la formula:
"Riforme o Rivoluzioni".
In Inghilterra tanto lui che Massimo d'Azeglio, che accompagnarono il Re, ebbero lieta accoglienza, mentre in Francia, da Luigi Napoleone, Cavour apprese che questi meditava presto o tardi la guerra contro l'Austria.

Più in là non andavano ancora le aspirazioni di Cavour e non s'ingannava Giorgio Pallavicino quando scrisse a Manin:
"Nessuna cosa é tanto in uggia all'attuale ministero quanto l'unità d'Italia. Cavour e compagnia s'ingegnano d'innalzare il municipio piemontese a potenza nazionale; ma non vogliono la nazione, perché la nazione assorbirebbe il municipio. Perciò la stampa ministeriale persiste nel suo silenzio in ordine alla "questione italiana". Voler
l'Italia, secondo il Farini e il Massari, é massiccia ignoranza e solenne follia".

E difatti, é provato che Cavour non vedeva di malocchio gli intrighi Murattiani che, incredibile a dirsi, erano favoriti dal Sartori, dal Saliceti, da Lizabe Buffoni e altri ex unitari, non escluso il toscano Giuseppe Montanelli.
- Ad Aix di Provenza il principe Murat tenne convegno segreto con i suoi partigiani; Cavour lo riseppe, ma a lui premeva soltanto di scoprire il pensiero segreto di Luigi Napoleone, che naturalmente non avrebbe visto di malocchio un figlio di Gioacchino sul trono di Napoli.
Ma il tentare questa impresa con speranza di esito fortunato, si riservava, per le complicazioni politiche, che non sarebbero mancate di far nascere, dopo che la guerra all'Austria fosse almeno dichiarata.

Manin intanto occupava la stampa inglese e francese con le sue lettere contro la "teoria del pugnale", dimenticando d'intestarle col - Messieurs les Assassins Austriaci Borbonici e Parmensi: - omissione fattagli notare da Mazzini.

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