TRENTASEIESIMO CAPITOLO

CAPITOLO TRENTASEIESIMO

Garibaldi a Foresti. - Convegno fra Garibaldi e Cavour. - Proclama di Voltaggio. - Progetti insurrezionali delle province meridionali. - Corrispondenza di Garibaldi con Cuneo. - Garibaldi aderisce all'Associazione Nazionale di La Farina e di Pallavicino. - Spedizione di Sapri. - Pisacane, Falcone, Nicotera. - Processo di Salerno. - Cospirazione di Genova e di Livorno. - Arresti e sevizie. - Attentato di Orsini. - Effetti di quest'attentato in Francia e in Piemonte. - Cavour perseguita la stampa. - L'Italia del Popolo. - Convegno di Plombières. - Accorta diplomazia del Cavour. - Progetti d'insurrezione nei Ducati. - Corrispondenza di Garibaldi con La Farina. - Garibaldi sostiene la Dittatura militare del re.


Eran trecento
Giovani e forti
E sono morti.

MERCANTINI. Le Spigolatrici di Sapri.

Nel 1856 Felice Foresti (*) , quel degnissimo fra i degni martiri dello Spielberg, ritornò dall'America. Lui in Garibaldi aveva ravvisato quell' Ercole prodotto dallo scalpello di Michelangelo necessario al grande riscatto » (*).

(*) Uno degli uomini più intemerati della rivoluzione, condannato a morte nel 1821, poi al carcere duro fino al 1838, passò in America in quell' anno per ritornarvi dopo il 1849. Fu successivamente eletto professore di belle lettere italiane in cinque collegi e nell' università. Ciò che egli pensava a riguardo delle cose patrie si rileva da un passo di una sua bellissima lettera ad Adriano Lemmi:
« Nuova York, 11 aprile 1852.
« Mio carissimo Adriano,
Nel leggere la tua del 29 febbraio mi pareva di vederti personalmente a conversazione con me - e di udirti nella foga eloquente con cui usi parlare del nostro Pippo - o di cose patrie - o della malaugurata politica che attualmente regge i destini d'Europa. - Non convengo sempre ne' tuoi giudizi - ma apprezzo vivamente i tuoi talenti - la tua concisione - ed ancor più il tuo patriottismo e l'amore esaltato che manifesti per l'esimio Mazzini.
lo non sento per esso queste amore esaltato, ma pure non mi sorpassi nell'amicizia candida e fedele che io gli professai ogni ora. Tu te lo immagini perfetto - io no. - Chi fu plasmato di creta come noi non é - né può essere perfetto. - Tu rispondi ai suoi oracoli amen: magister dixit - io dico magis amica veritas.

"Tu lo reputi quel solo che potrà e dovrà condurre ad effetto la rivoluzione italiana, io al contrario lo riguardai sempre come il Batista eletto per preparare le vie - ma non come il Cristo del grande riscatto. E sai il perché - perché il Cristo dovrà essere uno di quelli Ercoli prodotti dallo scalpello di Michelangelo - e non da quello del Mino da Fiesole.
Mazzini é creazione piuttosto raffaellesca che bonarottiana. Ed ecco uno dei tuoi giudizi - coi quali non concordo di buona fede - del resto dici benissimo: Mazzini é superiore a tutti coloro che per caso o merito rifulsero nel dramma sfortunato del 1848-49. Noi dobbiamo assecondarlo - ed io lo farò sempre e sempre con tutte le potenze dell' anima. Doveva alla nostra amicizia - ed alla mia coscienza le poche parole che ti ho espresse su Pippo. - Voglio sempre mostrarmi quel che sento di essere e non di più. E ti aggiungo che da lungo tempo ho augurato a Mazzini degli amici del mio calibro. Come sono modesto eh !

"L'altro tuo giudizio da cui dissento in parte é quello che pronunci sulle cause della stupenda funestissima elevazione al potere di quel "Domizio", Luigi Napoleone.
Alla corte: i Francesi sono tuttavia quei medesimi che descrisse il nostro Papà Machiavelli e suo compare il grande Alfieri. Ma la genia odierna - non solo è leggera - agendo per impulso momentaneo - ma è senza intima convinzione, senza fede religiosa in un principio politico qualsiasi. Cosa sperare da un popolo che non ha fede - non convinzioni in niente - di niente - per niente?
I più pratici, i così detti Socialisti - quale fede, quale convinzione ebbero ed hanno essi ? Fede in un'organizzazione sociale che accresca il bene materiale - ma codesta fede é spuria - é egoistica - non può ispirare - né grandi concetti - né grandi sentimenti. - Dio sia lodato che i nostri italiani non hanno questa fede gallica - gli Italiani sentono, sentono l'importanza - la bellezza - la convenienza delle dottrine democratiche intemerate - il salus populi suprema lex esto.

" Ma sono stanco di fare il dottore e di sedere a scranna con la mia vista più corta d' una spanna. Scusami tu dunque: tu dolce mio amico - che desidero di cuore alla mia parca mensa di Jersey City. oh ! se ciò si avverasse quanto mi stimerei fortunato !
lo mi credevo giunto al termine di questo pellegrinaggio terreno; e Dio sa con quanta esultanza! Ma - la morte che non é sì infida come altri credono - si accontentò di darmi uno scappellotto - e di avvertirmi che volere o non volere mi approssimo alla fine.
Già mi capisci: sono stato infermo per tre settimane: infiammazione di polmoni: la prima settimana in grave pericolo. Gli Italiani tutti a gara mi hanno dato prove d'affetto spontaneo e quindi sincero: anche quel....
" Ora sto bene" - pare.
..........................................
"La tua lettera lunga ! oh ! questa mia sì che é lunghissima - e bisogna finirla. Il cuore detta le ultime parole. - Sii felice nella e colla tua famiglia! che colpi di cannone e presto ci facciano riabbracciare in Italia! Che tu abbia occasione di venir qui! - che i nostri cuori battano sempre in armonia ! che Pippo sia sempre nostra luce e guida. - E che tu lo abbia in mente spesso.
Ora e sempre, il tuo affezionatissimo amico
FELICE FORESTI"


Giunto in Italia, il Foresti rimase per un po' di tempo incerto se unire i suoi sforzi al partito d'azione, oppure di assecondare Pallavicino e Mann nella formazione del nuovo partito con il programma dalla "Dittatura sabauda". Finalmente si decise per quest'ultima e riuscì a guadagnarvi Garibaldi e il 7 agosto 1856 così scriva a Giorgio Pallavicino, riportando il colloquio avuto con Garibaldi:

- Garibaldi. - Tieni tu un assiduo carteggio col marchese Pallavicino ?
- Foresti. - Ci scriviamo di quando in quando.
- G. - Ma dunque scrivigli, Foresti mio, che io sono importunato e messo continuamente alle strette da molti bravi giovinotti , che pur vorrebbero che io mi mettessi alla loro tasta per incominciare un ardito movimento nazionale.
- F. - Donde vengono costoro ?
- G. - Dall'Italia centrale e dalla Sicilia; parecchi appartengono all'Emigrazione italiana qui stanziata.
F. - Ma che cosa rispondi tu alle loro inchieste insistenti?
G. - Che perseverino nel loro proposito nobile e patriottico; ma in quanto ad attuarlo, é forza che abbiano pazienza ancora un poco. Perché, a dirti il vero, io reputo che sarebbe mal fatto di mettersi in campagna, o sull'Appennino con bande, prima della seguente primavera.
F. - Ma io non comprendo come non si debba poter combattere anche d'inverno. Napoleone ha ripetutamente provato che lo si può fare.
G. - Io ho anche delle ragioni particolari per indugiare fino alla primavera: oggi non posso dirtele, ma te ne dirò una, e forse la principale. Io vedo che dobbiamo fare tesoro delle forze piemontesi regolari e volontarie: quindi la spinta al movimento, almeno indiretta, dovrebbe venirci dal Governo. Ma io non so... non capisco. Mi pare che vi sia una inerzia, un ritegno, un'indifferenza. Infine che cosa fa questo Partito Nazionale?
F. - Davvero non lo so proprio: congetturo che si adoperi per la causa italiana.
G. - Consenziente il Re?
F. - Non lo so.
G. - Ma, santo Iddio, dovremmo pur saperlo ! io offro il mio braccio, la mia vita all'Italia, e per essa alla Corona Sabauda; ma vorrei vedere preparativi, udire assicurazioni d'appoggio, maneggi, movimento, vita.
F. - Lo desidero anch'io, ma non é che un desiderio.
G. - Giorgio Pallavicino e gli altri, che più facilmente avvicinano il Re ed i Ministri, che si diano le mani attorno; che mettano insieme dei mezzi; che non mi lascino così sull'arena.
F. - Sì, te lo prometto.

(Daniele Manin e Giorgio Pallavicino,
Epistolario Politico (1855-1857), per B. E. Maineri.)


Questo dialogo dipinge mirabilmente lo stato d'animo di Garibaldi. Il Foresti, come lui, voleva una certezza che abbandonando il vecchio partito d' azione non sarebbero condannati a rimanere con le mani alla cintola. Benché Foresti diffidasse sempre di Cavour, condusse Garibaldi da lui e così descrive il primo incontro fra quei due uomini su cui d' ora in avanti, amici o nemici, il destino d'Italia in gran parte dipendeva:

" Il nostro Garibaldi era a Torino il 13 corrente, ed io ve lo accompagnai. Cavour l' accolse con modi cortesi e familiari ad un tempo, gli fece sperare molto, e l'autorizzò ad infondere speranza nell' animo altrui. Pare che ci pensi seriamente al grande fatto della redenzione politica della nostra Penisola.... Insomma Garibaldi si congedò dal Ministro come da un amico, che promette e incoraggia un'impresa appena vagheggiata."

Si vede che a Garibaldi quest'incontro fece sulla sua anima grande impressione, giacché pochi giorni dopo dai bagni di Voltaggio indirizzò alla gioventù le seguenti parole:
"Sì, giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compiere il sublime concetto di Dio, emanato nell'anima dei nostri grandi di tutte le epoche: l' unificazione del
gran popolo, che diede al mondo gli Archimedi, gli Scipioni, i Filiberti. A voi, guardiani delle Alpi, viene commessa oggi la sacra missione; non vi é un popolo della Penisola che non vi guardi, e che non palpiti alla vostra guerriera tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia. Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta le case dei vostri fratelli, ha la paura e la morte nell'anima.
Gli Italiani di tutte le contrade sono pronti a riannodarsi al glorioso vessillo, che vi sostiene, ed io, giubilante di compiere il mio voto all' Italia, potrò, Dio ne sia benedetto! darle questo resto di vita".
Dallo Stabilimento Idroterapico dei signori Ansaldo e Romanengo.
GIUSEPPE GARIBALDI

Tutto questo non impediva che Garibaldi non fosse disposto ad assecondare qualsiasi impresa, pur che promettesse qualche probabilità di riuscita, come risulta dalla seguente lettera di Enrico Cosenz a Giorgio Pallavicino:

"Torino, 11 giugno 1856.
Pregiatissimo Signore,
Ecco quanto mi viene assicurato da fonti autorevoli, cioè che la parte meridionale é disposta a muoversi, qualora non fosse affatto deficiente d' armi. Certo, non vi fu mai opportunità migliore di questa, essendovi l'approvazione di tutti i patrioti italiani, a qualsiasi partito politico essi appartengano. Qualora poi si potessero introdurre armi, e, ciò che é meglio, un poderoso numero di armati, non è da dubitarsi che il paese subito non insorgesse. Dal di fuori non si potrebbe iniziare un movimento di qualche importanza senza l'appoggio di una potenza. Ora ci si fa credere che l'Inghilterra lascerebbe fare; ed anzi permetterebbe che la Legione anglo-italiana fosse imbarcata; si sono già iniziate le necessarie pratiche.
Per poter fare tutto ciò, occorrerebbero due vapori; e siccome ne vennero proposti due a buon prezzo, dovremmo prima d' inoltrarci nelle pratiche (di acquisto) , sapere se in tempo utile avremo disponibile una certa somma.

"Garibaldi sarebbe fra i caldi promotori di questa impresa; ha già visitato i due vapori, e li ha trovati adatti allo scopo. Egli si ripromette molto della riuscita, se le cose saranno realmente nelle condizioni suindicate. Io poi vi posso assicurare che tutti quelli che hanno a cuore il nostro paese, non mancheranno di prendere parte a una simile impresa. Oggi non é il caso di parlare di programmi politici, che é pur nel cuore di tutti, ma si é subito per l'indipendenza e l'unificazione della patria nostra".
Enrico Cosenz
(Daniele Manin e Giorgio Pallavicino. "Epistolario Politico, per B. E. Maineri).

Che Garibaldi sperasse nella riuscita della spedizione progettata da Cosenz, risulta dallo sue lettere private di questo tempo (Raccolta Zunini, lettere inedite).
A Cuneo scriveva:

"Nizza, 13 aprile 1856.
Mio caro Cuneo,
Ho la tua del 31 gennaio e te ne ringrazio. Il colonnello Olivieri è partito, dunque, con la Legione Agricola per colonizzare quella bella parte dell'America. Io accompagno col mio voto sincero, lui e la sua gente. Olivieri è un prode: e ci mancherà quando gli italiani volessero, o fossero stanchi di bastonate - ma per ora non mi sembrano tante.
Non devo illuderti. Il nostro popolo é, credo, in quest'epoca più adatto che molti altro per operare qualcosa di grande - in senso nostro. - Ma non abbastanza. Gli uomini che tu trovi disponibili ad agire, sono quelli che non hanno pane, degli altri pochi o nessuno. Il secolo é più che mai per il tanto per cento, e dai disperati di fuori non vi é chi ha voglia di muoversi.
Queste sono verità - dette con amarezza , ma sono verità.... Io non posso dirti nulla su ciò che avverrà. L'Italia marcia all'unificazione nazionale; questo é un fatto incontrastabile. L'opinione dei più é capitanata dal Piemonte; io, e, credo, altri - preferiamo non far nulla piuttosto di far male.

"I più terribili avversari nostri - i preti - sono potentissimi - e lo sono perché fanno capo a Parigi, dove, comunque sia, fatalmente regge il dominatore della situazione Europea. Io poi, ti son sempre fratello, e benché cominciano ad esser le vele sdrucite, non mancherò alla chiamata se non quando sepolto o legato. -
Io lo ripeto - Italia sarà Italia una! e se retta da chi sia degno di calzarla - ancor quella dei tempi andati. - Io spero di vederla grande e l'Idolo, che - bambino - io posi sul mio cuore, e non ne uscirà giammai.
Ho fatto acquisto d'un po' di terra nell'isola di Caprera, e di un cutter; quando vieni in Europa domanda del mio ritiro - e se vieni, divideremo il pane....
Addio di cuore tuo GIUSEPPE GARIBALDI .

Genova, 7 giugno 1856.
" .... Ora all'Italia! se non m'inganno, noi siamo alla vigilia di grandi cose, - Nel nostro paese si ode un qualcosa, che, io credo precursore infallibile - tanto più certo perchè si agita nel silenzio, ma unanime e con una certa coscienza della vittoria, che io non ti so spiegare, ma che presagisco.
Ovunque sulla fisionomia dei cittadini, dei militi, scorgi la confidenza. - Il fraternizzare delle due classi non é più nell'ombra ma allo scoperto - la stretta di mano di non far fallire l'opera è tacita, è in faccia al mondo. Qui in questa parte d'Italia la fiducia di pugnare uno contro tanti é piuttosto generale - nelle altre senza congiura senza comitati tutto è pronto e si temeno soltanto delle sollevazioni precoci.
Sì! fratello, noi daremo questo resto di vita alla nostra terra. Il sogno di tanti anni sta per farsi reale, e pugneremo degnamente.
Partecipa ai buoni le nostre speranze - scrivi ad Olivieri, Suzini Angelo; e quanti dei valorosi nostri Legionari esistono siano avvertiti. Loro non devono precipitare nulla ma aspettare le prime mosse, che verranno, mi sembra, dall'alto, e che noi asseconderemo. -

"Qui vi é gente abbastanza per cominciare, e per sostenere sino alla venuta di quelli di fuori. - La secolare e mortale questione con l'Austria e con il Papa, noi la risolveremo come si deve.
L'esercito sardo é oggi ad un punto d'entusiasmo veramente sublime. Addio fratello, il sempre tuo
G. GARIBALDI.

Purtroppo il progetto di spedizione di Cosenz, non si è potuta neppure colorire neppure di una radiosa giornata; poi la tragica fine di Bentivegna (*) tolsero a Garibaldi ogni fede sui tentativi di qualsiasi partito se non appoggiato da un forte esercito e da mezzi pecuniari e da una forte base d'azione.
(*) Nel 1856, 22 novembre, il giovane barone Francesco Bentivegna di Corleone ex deputato al Parlamento siciliano nel 1848, e incolpato nel 1853 di sedizione nel corso dei moti di Milano tentò di nuovo con duecento armati di sollevare la popolazione di Mezzojuso, e di là giungere a Villa Prati, a Cuninna, a Ventimiglia nel distretto di Termini. Non sembrava una difficile impresa togliere le armi dei pochi gendarmi e delle guardie urbane e provvedere agli insorti con le casse del fisco, ma, con poche eccezioni, le popolazioni non risposero; il solo Francesco Guarneri con una piccola banda sorprese la città di Cefalù aprendo le carceri ai prigionieri politici e fra essi lo Spinuzza. - Ma presto le Compagnie d'Armi dispersero le due bande e i capi per tradimento dei fratelli Milone caddero in mano ai regi. Bentivegna, condotto a Palermo e condannato a morte per giudizio sommario, fu fucilato il 23 dicembre in Mezzojuso. - Così lo Spinuzza a Cefalù.


Garibaldi con la seguente lettera al Pallavicino aveva aderito pubblicamente al programma dell'Associazione Nazionale.

(Il contenuto del programma lo riportiamo a fondo pagina)

"Pregiatissimo amico,
Io imparai a stimarvi ed amarvi dal nostro Foresti, e dalle vicende dell'onorevole vostra vita. Le idee che voi manifestate sono le mie, e vi fo padrone quindi della mia firma per la dichiarazione vostra.
Vogliate contraccambiare con i miei affettuosi saluti Manin, Ulloa e La Farina, che io vado superbo di accompagnare in qualunque manifestazione pubblica. Sono di cuore, vostro
GIUSEPPE GARIBALDI.

Questa adesione di Garibaldi al partito monarchico scemava le forze al partito d'azione, ma non per questo i suoi capi perdettero animo, anzi raddoppiarono la propria energia per scuotere gli italiani dall'inerzia e dalla fiducia crescente nel Piemonte che ad essi sembrava immeritata.
Carlo Pisacane, prode come abbiamo visto a Roma e impensierito degli intrighi dei Murattiani, si decise sulla necessità di iniziare l'insurrezione nel Napoletano, alzando la bandiera dell' Unità.
Dissenziente dal Mazzini sulla questione religiosa e anche sulla sociale, tuttavia quei due patrioti erano d'accordo sulla necessità di agire. - Già nel 1856 Mazzini si era recato di nascosto in Genova, dove fu promossa una sottoscrizione per 10.000 fucili da destinarsi alla prima provincia d'Italia che insorgesse, e ancora in quell'anno ebbe luogo un moto nel Carrarese, che fallì.
La Farina allora era anche caldo fautore di insurre
zione e scriveva a Giuseppe Oddo a Malta nell'aprile 1856:
"Io sono stato finora contrario ad ogni movimento, nella convinzione che i tempi non erano opportuni. Ora però sono persuaso che se noi lasceremo passare quest'anno, faremo un grande errore; perché da qui ad un anno chi sa quali mutamenti potranno seguire nella politica europea. Animo dunque e rimettiamoci all'opera con fede e con zelo"

E poi nel novembre dello stesso anno a Vincenzo Cianciolo:
"Venga il tempo del fare, ed allora tutti gli uomini che vogliono fare davvero, saranno concordi. Animo dunque e pensate che la salute d'Italia può dipendere dai primi cinquanta generosi, che osino levare la bandiera della rivoluzione".


E < Carlo Pisacane, intendendosi con i patrioti riuniti in associazioni segrete a Genova, preparava la spedizione di Sapri. Tutti convennero sull'opportunità di iniziare la rivoluzione nazionale nel Napoletano. Molti, e fra essi il Saffi, dissentivano sul modo della cooperazione di Genova.
Nel maggio 1857 Mazzini ritornò a Genova, dove fu combinato che Pisacane con parte dei congiurati dovesse impossessarsi del vapore postale della compagnia Rubattino, che faceva i viaggi fra Genova e l'isola della Sardegna, mentre altri su barca a vela con fucili e munizioni l'avrebbero atteso a Portofino. Pronti a seguirli poi erano altri mille uomini con fucili e 50.000 lire raccolte da Mazzini, per le spese della spedizione.

Passato il 10 giugno, il battello sorpreso da cattivo tempo fu obbligato a gettare i fucili nel mare, e Carlo Pisacane per non lasciare sgomentare gli amici e aderenti di Napoli, si decise di recarvisi da solo.
"Partì - scrive Mazzini - e vi giunse, rimase tre giorni in Napoli e tornò a Genova. Tornò lieto, convinto, anelante d'azione, come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano nascosto le gravi difficoltà, che rendevano ardua la riscossa; avevano invano ripetuto che, indugiando, si sarebbero potute appianare.
Ma, al di là delle obiezioni pratiche, egli aveva visto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani, ci sentiva che uno splendido fatto, un trionfo sarebbero stati più assai potenti, che non protratti e pericolosi preparativi, e mi scongiurò di rifare la tela per il 25, giorno di partenza del "Cagliari". Fui convinto e diedi opera ai preparativi, benché il tempo fosse così limitato che io disperavo quasi di condurli a termine."

"Però si riuscì, tanta era la buona volontà dei capi e dei seguaci. Oltre il Pisacane, primeggiava fra i più risoluti Giovanni Nicotera ardito calabrese, ferito a Roma, fidanzato alla figlia di Carlo Poerio, che abbandonando le sue speranze, i suoi agi a Torino e ogni sua cosa vendeva per non essere a carico del partito. Altro fra i primi Giovanni Falcone, calabrese anch'esso, soldato, cospiratore, esule, che con Fabrizi a Malta, aveva contribuito in gran parte a preparare il moto. Tre più stupendi tipi non si potrebbero immaginare. - Carlo Pisacane, biondo, dagli occhi azzurri e dolcissimi quando riposavano sulla sua Silvia, figlia unica e adorata, o folgoreggianti quando si riflettevano sui maneggi e sui bassi intrighi del partito moderato, che nulla faceva per osteggiare ed impedire l'azione; raffigurava uno di quegli antichi eroi più da leggende che da storia. Sulla sua spaziosa fronte errava un non so che di mesto e di rassegnato che sembrava, già ascriverlo a quel gruppo immortale dei fratelli Bandiera e dei Moro, martiri volontari, cuori consacrati alla morte.
Gli altri due dai capelli nerissimi, dal viso bronzino, dagli occhi neri e fiammeggianti di energia, di speranza, di vigore, di salute e di gioventù, sembravano pregustare già il trionfo e la gloria che l'Italia per loro redenta avrebbe infallibilmente tributato alla loro nativa Calabria.

"Gli altri, operai per la maggior parte, che o morirono nell' impresa, o dalle carceri del Borbone passarono ad altri e più fortunati campi di battaglia, erano tipi anch'essi nobilissimi del popolare italiano, modesti, intelligenti, laboriosi, anteponendo la patria al benessere e alla famiglia stessa. Tutti devoti a Mazzini ubbidivano con cieca ed intera fiducia a Pisacane, che il grande maestro aveva loro indicato e designato come duce di quella gloriosa impresa (*).

(*) Il testamento di Pisacane, che egli ci consegnò un'istante prima di partire perché venisse trasmesso alla stampa italiana e straniera, é un documento importante che sarà apprezzato dalla gioventù dell'avvenire. Ne diamo gli estratti seguenti:
"Nel momento di avventurarmi in una impresa così rischiosa voglio manifestare al paese la mia opinione per combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire i vinti.
I miei principii politici sono sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi, tutti più o meno, fondati sull'idea monarchica e dispotica che prevale nella nazione, esso é l'avvenire inevitabile e prossimo dell'Italia e fors'anche dell'Europa intera.
Il socialismo, di cui parlo, può definirsi in queste due parole: libertà e associazione. Questa opinione fu da me sviluppata in due volumi, che ho composto, frutto di quasi sei anni di studi, ai quali per mancanza di tempo non ho potuto dedicare le ultime cure che richiedevano, lo stile e la dizione. Se qualcuno fra i miei amici volesse surrogarmi e pubblicare questi due volumi, io gliene sarei riconoscentissimo.

" Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell' industria, tutto ciò che sviluppa e facilita il commercio, é da una legge fatale destinato ad impoverire le masse fino a che il riparto dei benefici sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li accumulano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non essere altro che decadenza.
Se tali pretesi miglioramenti si considerano come un progresso, questo sarà nel senso di aumentare la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione.

" Io sono convinto che l'Italia sarà grande per la libertà o sarà schiava: io sono convinto che i rimedi temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento dell' Italia, non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il più piccolo sacrificio per cambiare un ministero o per ottenere una costituzione, neppure per scacciare gli austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al regno di Sardegna.
A mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d'Austria sono precisamente la stessa cosa. Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte é più nocivo all'Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II.

"Io credo fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo come lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione d'Italia sarebbe a quest'ora già compiuta.
Questa opinione pronunciatissima deriva in me dalla profonda mia convinzione di essere la propagazione della chimerica idea e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero finchè sarà istruito, ma sarà ben presto istruito quando sarà libero.

"La sola cosa, che può fare un cittadino per essere utile al suo paese, é di attendere pazientemente il giorno in cui potrà cooperare ad una rivoluzione materiale: le cospirazioni, i complotti, i tentativi d'insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti, per mezzo dei quali l'Italia s' incammina verso il suo scopo, l'unità. L'intervento della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto più efficace che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro paese e del mondo intero.

" Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione dev'esser fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese é composto di individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla con la cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve farsi dal paese e siccome io sono parte infinitesimale del paese, così ho io pure la mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l'adempisse, la rivoluzione sarebbe fitta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché immensa.

"Si può non essere d'accordo sulla forma di una cospirazione, sul luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba compiersi, ma non essere d'accordo sul principio é un'assurdità, un'ipocrisia, un modo di velare il più basso egoismo.
Io stimo colui, che approva la cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non sento che disprezzo per coloro, che non solo vogliono far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel maledire gli uomini di azione.
Secondo i miei principii, avrei creduto mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano su di un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine.

"lo non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificar sé stessi, di essere il salvatore della patria. No: ma io sono convinto che nel mezzogiorno dell' Italia la rivoluzione morale esiste; che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed é perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione, che deve dare quell' impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato ulteriore, io crederò di aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco".

Che addio fu quello !!! - con che angoscia si seguiva il vapore, che portava con sé tante preziose vite, tanto eroismo, tante speranze! E intanto Genova si preparava per seguire il moto impadronendosi dei materiali di guerra e con ciò assecondare l'insurrezione di Napoli. Così Livorno, dove Maurizio Quadrio e Giuseppe Civinini erano andati per dirigerlo. - Ma in Genova fra i cospiratori c'era il Giuda; e il segreto così gelosamente conservato fu rivelato all' ultimo momento. - Le truppe consegnate nelle caserme, la Darsena e i posti importanti occupati dimostrarono a Mazzini che per quella notte (29) non era possibile tentare nulla e conveniva si aspettassero le notizie da Napoli.

L'ordine di sospendere giunse ovunque, fuorché al lontano Forte del Diamante, dove una sentinella fu uccisa e il forte preso. Le prime notizie della spedizione erano buone. Pisacane e i suoi erano riusciti a liberare i prigionieri dall'isola di Ponza e con essi a procedere fino a Padula - e a sbarcarvi.
Ma qui, ahimé ! i telegrammi spediti con gergo commerciale ai cospiratori di Napoli non erano giunti in tempo per avvertire i vari capi nelle città e paesi vicini affinché si recassero nell'ora e sul luogo dello sbarco, sicché i nostri, fino a quel momento trionfanti, si credettero abbandonati, e, come sempre in queste terribili contingenze, balenò negli animi di tutti la scoraggiante idea del tradimento.

Risoluti però a spendere eroicamente la vita, riordinarono la schiera immortale; e preceduto dal tricolorato vessillo Pisacane procedette verso Padula. Qui assaliti da 2000 uomini, tra cacciatori, gendarmi e guardie urbane, i nostri lottarono da eroi, uno contro dieci, e riuscirono a tenere in scacco gli assalitori, ritirandosi verso sera sui monti. - Qui ancora sperarono organizzare una valida resistenza fin quando i patrioti, avvisati, venissero loro in aiuto; ma le guardie urbane, avendo disseminata con malvagia arte la voce che erano una banda di briganti e di malfattori fuggiti dalle galere, tutta la popolazione rurale armata di scuri, di mazze e di forche, guidata dai gendarmi li raggiunsero, e fu uno scempio, una strage che non ha riscontro se non nelle guerre vandeane.

Intanto Pisacane, mantenendo sempre la sua calma e il suo freddo coraggio, cercava di persuadere quei forsennati della realtà delle cose. "Dalli! dalli! fu la furibonda risposta - e mentre per ordine del generale Ghio 35 prigionieri fatti a Padula vennero fucilati subito, altri furono trucidati a Sanza e fra questi Pisacane e Giovanni Falcone, mutilati in una così orrenda maniera, che i loro corpi non poterono distinguersi l'uno dall'altro, quantunque così diversi. Nicotera, ferito gravemente alla testa e al polso, fu lasciato per morto al margine di un fiumicello, poi riconosciuto vivo, legato, incatenato con i superstiti compagni di sventura tradotto a Salerno e gettato in un orrido carcere fra le più schifose immondezze. - E qui giacquero quegli infelici tutto il tempo del processo, processo che meritò al governo del Borbone la qualifica di "negazione di Dio".

Se Pisacane, Falcone e i loro seguaci mostrarono all'Italia come per l'Italia essi avevano saputo morire, < GIOVANNI NICOTERA con il suo contegno durante il processo diede chiaro esempio del nobile vivere, sfidando oltraggi, patimenti di ogni sorta e una fine più atroce di quella dei caduti di Padula e di Sanza.
Nicotera addossò a sé stesso e ai morti capi della spedizione tutta intera la responsabilità degli avvenimenti, dimostrando come essi appena usciti dal porto di Genova costringessero con le armi in mano il capitano a cedere il comando del legno, e, pure con violenza, intimassero al Danesi di assumere il comando del vapore, perchè pratico di cose marine.
Lo stesso dicasi per i macchinisti inglesi, ai quali con minaccia di fucilazione immediata veniva intimato di dirigersi a tutto vapore prima sull'isola di Ponza, poi a Sapri. In questo modo scagionò in grandissima parte pure i rilasciati di Ponza, mostrandoli costretti più che volonterosi a seguire coloro che li avevano liberati.

Mirabile, e quasi inaudito, fu poi il contegno del Nicotera nel lungo svolgersi della pubblica udienza e si rammenta ancora come audacemente, protestando contro le ingiurie fatte dal procuratore del Borbone contro i suoi compagni morti, rispondendo a quegli insulti getto al provocatore un calamaio in faccia.

Né meno fiera e dignitosa fu da parte sua la protesta con la quale rispondeva ai suoi interrogatorii che si erano voluti alterare e mutilare nel pubblico procedimento; protesta, che impeditagli di leggere nella pubblica udienza della corte criminale di Salerno, fu però stampata in tutti i giornali dei Piemonte.

E mentre pendevano i processi di Salerno, di Genova e di Livorno, le bombe dall'Orsini scagliate contro l'imperatore (*) fecero tremare l'uomo del Due dicembre, che pur condannando a morte e uccidendo l'Orsini ed il Pieri, suo complice, fin da quel momento pensò fosse nell'interesse della propria conservazione e del mantenimento dell'usurpato potere il soddisfare quei principii di nazionalità che ogni giorno si facevano sempre più palesi.

(*) I FATTI: Mentre l'imperatore e l'imperatrice Eugenia si recavano al teatro dell'Opera, furono gettate contro la carrozza imperiale tre bombe che, scoppiate con gran fragore, uccisero due lancieri della scorta e ferirono circa una cinquantina di persone, ma lasciarono quasi illesi i sovrani, solo una lieve ferita alla guancia destra dell'imperatore.
Autori dell'attentato erano FELICE ORSINI, il PIERI, il RUDIO e il GOMEZ, i quali si erano proposti di sopprimere "l'uomo del 2 dicembre", l'uomo che aveva ordinato la spedizione francese contro la Repubblica romana, il nemico della libertà e, come loro credevano ed erano convinti, nemico dell'indipendenza italiana.

L'attentato commosse l'Europa ed irritò la Francia; furono espulsi molti stranieri, specialmente italiani. Il gabinetto francese inoltre chiese ed ottenne dai governi dell'Inghilterra, della Svizzera e del Belgio provvedimenti contro gli eccessi della stampa e degli emigrati politici e invitò il governo sardo a voler prendere provvedimenti ancora più energici.
Il Cavour fece alcuni arresti, ordinò alcune espulsioni, sequestrò alcuni giornali, ma, resistendo alle pressanti e minacciose sollecitazioni del Walewsky, si rifiutò di eccedere nelle misure. Promise alcune modificazioni alla legge sulla stampa, dichiarò che si sarebbe adoperato ad impedire che il Piemonte diventasse la fucina delle cospirazioni, ma nel medesimo tempo - e qui fu abile- richiamò l'attenzione sulle condizioni degli altri Stati d'Italia e sostenne che "… se si voleva sanare la piaga del fuoruscitismo politico occorreva impedire ai pessimi governi della penisola di spargere tanti esuli per il mondo".

La condanna a morte di questi due Italiani fece profonda impressione nella stessa Francia. - Essi morirono da eroi: Pieri cantando "Mourir pour la patrie", Orsini gridando "Vive la republique universelle, Vive la France, Vive l'Italie".
(Il testamento stesso di Orsini ha contribuito non poco a far sì che gli Italiani vincessero il loro ribrezzo e sanzionassero l'alleanza franco-sarda).

Quarantamila persone occuparono la piazza e le strade vicine alla prigione della Roquette; tre file di fanteria, artiglieria, cavalleria circondavano il palco; duemila agenti di polizia, molti travestiti, tennero il popolo lontano dal palco, tutto il resto della guarnigione era in armi consegnata nelle caserme e tutte le truppe nei dintorni preparate.

"La voce forte, profonda, chiara senza tradire il minimo tremito o la minima agitazione - scrive un corrispondente dell'Unione - con cui Orsini ha pronunciato le sue ultime parole, ha destato un fremito in quell'uditorio e commosso gli spettatori lontani che l'hanno udito. Il popolo si è ritirato in silenzio e raccolto. Ed in quel giorno i proprietari degli opifici osservarono che i loro operai non cantarono una sola strofa, non fecero un solo jeu de mots, non mossero le labbra.
Fu giorno di lutto per gli operai di Parigi. E vi è ancora di più. La fioritura del castagno delle Tuileries il 20 marzo é il miracolo di San Gennaro del popolo di Parigi. Ora questo popolo dice che quest'anno il castagno non fiorirà all'epoca ordinaria, a causa dell'esecuzione.
Orsini e Pieri sono già nello stato di leggenda in mezzo alla plebe parigina. Se questa non è l'apoteosi del regicidio, noi non sappiamo che nome darle.

"Ad ogni modo, questo desiderio universale di veder salva la vita di coloro che attentarono alla vita del principe, questa curiosità profonda, intensa, attiva; questa ammirazione unanime per i colpevoli, quest'assoluzione generale, quando il partito governativo condannava a ragione, e in nome della legge, se non é la santificazione dell'attentato del 14 gennaio, é la condanna, la più larga e l'odio il più radicale contro il personaggio che di quell'attentato fu scopo. Pianori passò inavvertito. Quale passo ha fatto dunque la decadenza del secondo impero dall'attentato di Pianori a quello di Orsini!"

Possediamo il volume originale di Guerrazzi del 1861 ( vedi in pagina di apertura )
che oltre varie lettere contiene appunto quella dell'Orsini all'Imperatore francese
e la pagina con l'ultimo atto del supplizio

Questa lettera di Orsini fu letta in udienza alle assise della Senna da JULES FAURE, difensore dell'Orsini e fu stampata nel "Moniteur", giornale ufficiale, insieme con la difesa dello stesso Faure, che aveva gran simpatia per l'Italia. Questo fatto fece credere a molti che Napoleone III fosse disposto a clemenza verso i rei, e in verità l'imperatore non era alieno dal graziare l'Orsini e il Pieri, condannati a morte, ma la ragione di Stato vinse i sentimenti di generosità e i due italiani il 13 marzo del 1858, andarono al supplizio.

Due giorni prima di salire il patibolo, una seconda lettera, che merita di essere riferita, aveva scritto Felice Orsini a Napoleone III: (ma alcuni dicono apocrifa - quindi strumentale - concordata tra l'imperatore e Cavour, per suscitare commozione ma anche appoggi all'alleanza)
"L'avere la Maestà Vostra imperiale permesso che la mia lettera scrittale l'11 febbraio p.p. sia resa di pubblica ragione mentre è un argomento chiaro della sua generosità mi dimostra che i voti espressi a favore della mia patria trovano eco nel Suo cuore; e per me, quantunque vicino a morire, non è al certo di piccolo conforto il vedere come la Maestà Vostra Imperiale sia mossa da veraci sensi italiani. Fra poche ore io non sarò più; però prima di dare l'ultimo respiro vitale voglio che si sappia, e lo dichiaro con quella franchezza e coraggio che sino ad oggi non ebbi mai smentito, che l'assassinio sotto qualunque veste si ammanti non entra nei miei principi, benché per un fatale errore mentale io mi sia lasciato condurre ad organizzare l'attentato del 14 gennaio. No, l'assassinio politico non fu il mio sistema; e io combattei esponendo la stessa mia vita, tanto con gli scritti quanto con i fatti pubblici, allorché una missione governativa mi poneva in caso di farlo. E i miei compatrioti anziché riporre fiducia nel sistema dell'assassinio, lungi da loro il respingerlo, e sappiano per la voce stessa di un patriota che muore, che la loro redenzione si deve conquistare con l'abnegazione, con la costante unità di sforzi e di sacrifici, e con l'esercizio della virtù; doti che già germogliano nella parte giovane dei miei connazionali, doti che solo varranno a fare l'Italia libera, indipendente e degna di quella gloria onde i nostri avi la illustrarono. Muoio, ma mentre lo faccio con calma e dignità, voglio che la mia memoria non rimanga macchiata da alcun misfatto. Quanto alle vittime del 14 gennaio offro il mio sangue in sacrificio, e prego gli italiani che diventati un giorno indipendenti offrano un degno compenso a tutti coloro che ne soffrirono danno. Permetta da ultimo la Maestà Vostra Imperiale che le domandi grazia della vita, non già per me, ma sebbene per i miei complici che furono con me condannati a morte".

La seconda lettera dell'Orsini, dietro sollecitazioni venute da Parigi, fu stampata il 31 marzo del 1858 dalla "Gazzetta piemontese", giornale ufficiale sardo

l'esecuzione


Di fatto, quell'esecuzione aggiunse l'impopolarità di Napoleone. E così a Napoli le condanne della corte di Salerno, mentre il Piemonte perdette non poco della sua riacquistata popolarità, non per le condanne inflitte a coloro che presero parte alla sorpresa del Diamante o all'attentato contro l'arsenale, ma per i modi assurdi e calunniosi che furono condotti i procedimenti contro patrioti incolpati e soprattutto poi per gli odiosi provvedimenti di sfratti e di esilio a danno dei più illustri cittadini d'Italia, specialmente napoletani e siciliani, che non soltanto non assecondarono il tentativo, ma apertamente lo avevano disapprovato.

Cavour, che anche prima di Plombiéres era molto dentro nei pensieri e nei disegni di Napoleone ed era deciso di accontentarlo in tutto, dietro formale richiesta dell'imperatore, propose leggi eccezionali contro la stampa e in un discorso virulento contro l'intero mazziniano Partito d'Azione, lo calunniò di ogni cosa, e accusandolo dei più nefandi delitti, disse nella seduta del 16 aprile:
"Le leggi sono ogni giorno apertamente violate dalla pervicace insistenza di un Giornale (l'Italia del Popolo) che ha lo scopo evidente di rovesciare le nostre istituzioni, e di promuovere la rivoluzione, non solo negli altri Stati d'Italia, ma anche nel nostro. Ciò é un'offesa continua alle leggi, uno sconcio che non si può lasciar sussistere.
E' perciò che il Ministero domanda al Parlamento di protestare altamente contro quelle dottrine dei settari. Il secondo motivo da cui il Governo fu mosso é la certezza che i settari non vogliono solo attentare alla vita dei sovrani stranieri, ma anche a quella del nostro re".

Calunnia indegna, ma che giunse al suo scopo, cioè di staccare sempre più le moltitudini dal partito d'azione. Il giornale "l'Italia del Popolo" fu "ucciso" dal Fisco che lo sequestrò 50 volte fra il febbraio e l'agosto del 1858; in più venne usato il carcere preventivo per i responsabili del giornale.
Una volta - contemporaneamente - in prigione ce ne furono quattro dell'anzidetto giornale. I giurati li assolsero sempre; ma il famigerato Cotta, fregandosi le mani andava dicendo: "Assolvano pure, ma nemmeno Domine Dio può far sì che essi la prigione non abbiano sofferto".

L'ultimo sequestro avvenne per la stupenda lettera di Mazzini a Cavour e allora, visto che il direttore Savi era in prigione condannato a dieci anni di galera, Maurizio Quadrio e Civinini condannati a vivere nascosti e tutti gli altri scrittori in esilio, fu deciso di stampare invece a Londra il Pensiero e Azione, periodico diretto da Mazzini in persona dove scrivevano anche quelli che non erano d'accordo con lui, se non nel punto fondamentale della cacciata dello straniero.

Questa caduta del giornale a Genova suonò molto gradita all' orecchio di Napoleone che nel giugno aveva già invitato Cavour ad un convegno segreto a Plombiéres.
Qui fu abbozzata soltanto l'alleanza offensiva e difensiva tra la Francia e il Piemonte, l'imperatore impegnandosi di aiutare Vittorio Emanuele a cacciare l'Austria dall'Italia in cambio della provincia di Savoia e con l'obbligo per parte del governo piemontese di impedire qualsiasi moto rivoluzionario.
Fu lasciata in forse la questione di Nizza; nè si parlò ancora del matrimonio fra il dissoluto principe Napoleone e la giovanissima e tenerissima figlia del re, ma Cavour promise di ingraziarsi per quanto fosse possibile lo Czar della Russia. Cavour, ritornato in Italia, si mise in contatto attivo con la (monarchica) Società Nazionale di cui era presidente Pallavicino, vicepresidente Garibaldi, fautore attivo La Farina, il quale scrisse da Torino al dottore Bolognini di Lerici:
" Sono nel dovere di comunicare a codesto comitato che noi speriamo con fiducia di essere nel caso di dovere agire nella prossima primavera".

Bolognini infatti, aveva ottenuto da Cavour l'approvazione di un progetto di un piano d'insurrezione per la primavera del 59.
Venne poi la concessione del governo piemontese al governo russo di stabilire nel Mediterraneo una stazione navale; il che dispiacque molto all'Inghilterra, a cui però furono date sufficienti spiegazioni per placarla. Tutto fu fatto per ingraziarsi anche la Prussia e in questo modo isolare l'Austria in Europa.
Nel dicembre del 1858, per mezzo di La Farina, Cavour fece chiamare Garibaldi da Caprera.
Egli giunse a Torino il 20, e il 22 era già di ritorno a Caprera, da dove le sue lettere agli amici in Italia e all'estero dipingono l' intensa sua gioia e l'intera sua fiducia nel governo piemontese.
Insurrezioni nei Ducati, cominciando da Massa e Carrara; volontari capitanati da Garibaldi stesso, uscendo da Lerici e Sarzana, sosterrebbero l'insurrezione, mentre in Genova i migliori fra la Guardia nazionale dovevano esser organizzati come nucleo di un corpo di volontari da agire pari passo coll'esercito.
Garibaldi sostenne la Dittatura regia e raccomandava a tutti cieca e assoluta fiducia in Cavour e nel Re.
Ecco cosa lui scrive a Giuseppe La Farina dopo l'incontro con Cavour:

"21 dicembre 1858.
Carissimo amico,
Dovendo partire domani per Caprera, ho incaricato Medici dell' organizzazione delle compagnie di bersaglieri della guardia nazionale, di cui conferimmo col ministro. Certamente la cosa passerà la nostra speranze ed io spero di formare con ciò un potente corpo ausiliare con l'esercito. Bisogna dunque mandare a Genova i fondi necessari, e si procederà immediatamente a formarlo.
L'idea del ministro di accogliere i Lombardi della presente leva avrà un effetto stupendo. Io credo che riguardo all' armamento nostro - conservando tutta la segretezza di cui sono suscettibili le circostanze - si deve fare s
u maggior scala possibile, e non esser da meno questa volta dello slancio infallibile e gigante delle popolazioni.
Le notizie che io ho dalle differenti province sono stupende! tutti vogliono la dittatura militare, che voi mi avete predicato; le rivalità, i partiti spariscono; e potete arditamente assicurare il nostro amico (il conte di Cavour) che egli è onnipotente, e che deve manomettere (sic) qualunque straordinario provvedimento con la certezza dell'assentimento universale. Oh ! questa volta, per Dio, la vinceremo!.
- Scrivete dunque a Giacomo Medici, e provvedete. - Io parto, e spero mi chiamerete presto. - Vi ho disturbato e vi disturberò sovente, ma, spero, scuserete l vostro fratello per la vita.
GIUSEPPE GARIBALDI
Un saluto al nostro bravo Pallavicino.
P.S, - Io credo necessario, darsi l'ordine della formazione d'una compagnia di bersaglieri inviato a tutti i corpi dello Stato.

Il giorno dopo...

Genova, 22 dicembre 1858.
Carissimo Amico,
Parto oggi alle 9, ed in caso che le circostanze ci precipitino all'azione (ciò che non sarebbe impossibile), mandatemi un vapore. Chiunque dei proprietari di vapori in Genova può dare un vapore per l'oggetto, in caso non si potesse mandare un vapore da guerra.
Gli elementi rivoluzionari sono tutti con noi: é bene che Cavour se ne persuada, in caso non lo fosse pienamente, che vi sia fiducia illimitata. Credo pure necessario che il Re sia alla testa dell'esercito, e lasciar dire quelli che lo tacciano di incapacità.
Ciò farà tacere le gelosie e le ciarle, che disgraziatamente fanno uno degli attributi di noi italiani. Egli sa oggi di chi si deve attorniare. La dittatura militare é nel convincimento di tutti: dunque, per Dio! che sia senza limite. Io ho raccomandato in Lombardia, in Toscana: ma non movimenti intempestivi a qualunque costo.
La venuta delle leve nello Stato nostro, e quella degli studenti di Pavia é un fatto che voi potrete ingigantire a vostro piacimento. Io ho raccomandato che ve ne avvertano. Vi prego tanto di scusarmi su quanto vi ho detto. Io non ho certamente la pretesa di consigliarvi, ma di dirvi francamente la mia opinione.
Addio, comandate il vostro GIUSEPPE GARIBALDI".

(Queste due lettere sono estratte dall'Epistolario di Giuseppe La Farina, raccolto da Ausonlo Franchi. Milano, Treves.).

E le sue lettere private dell'anno stesso dimostrano la stessa fiducia.
Ecco come scriveva a G.B. Cuneo che da Montevideo lo incitava invece a tornare a Montevideo:
"Caprera, 1 luglio 1858.
".... Circa la missione tua ti rispondo brevemente - che non vado. - Sai bene quanto cara mi é la causa del governo che sorregge il paese - e tale causa la considero oggi italiana. Io non farei certamente condizioni se mi trovassi nello stato di recarmi tra a voi, ma non posso e non potrei dirtene il motivo se non a voce".


E quattro mesi dopo...

"Caprera, 27 novembre 1858.
" .... Io poi, fratello, mi sono dato interamente all' agricoltura e vango dalla mattina alla sera, ed ho trovato (guarda che bello!) che per quei tali dolori che tu mi hai conosciuto - non vi é miglior bagno che quello di zappa. Nelle due linee ad Angelo qui annesse, con un certificato per lui, tu vedrai delle speranze di Redenzione e sono fondate.
Spero poterti dire di più tra poco. - Se la sorte ti conducesse verso la patria ricordati che qui vi é il tuo fratello di cuore
GIUSEPPE GARIBALDI

Un mese dopo...

"Caprera, 25 dicembre 1858.
Fratello Cuneo,
Si tratta veramente di fare sul serio e sono veramente dolente che tu ti trovi così lontano. Io credo infallibile un movimento in Italia, e con una imponenza come non si vide da venti secoli. Non ti dico altro, e lo vedrai dal procedere delle notizie. Non ti dico neppure vieni, nè a spingire a venire chi ama l'Italia, perchè nelle cose umane si vede fallire sovente quelle che certissime parevano. Sì, fratello ! io ringrazio la Provvidenza - d'offrirmi ancora l'occasione di servire il mio paese. - Io potrò ancora marciare alla testa dei nostri giovani e l'anima me la sento più robusta che mai! Se non ti dico di venire, posso dirti almeno di prepararti e far preparare chiunque abbia un cuore italiano. Io sono pieno di fiducia su futuri avvenimenti.
L'Italia sarà degna delle sue glorie passate! E gigante come il suo passato sarà lo scuotersi de' prossimi giorni.

GIUSEPPE GARIBALDI

E così l'anno 1858 si chiudeva fra le speranze dei liberi e le sempre crescenti sofferenze dei patrioti, che languivano nelle carceri di Napoli e del Piemonte.
Ecco le sentenze di Salerno:
7, Nicotera, Gagliani, Santandrea, Giordano, Valletta, La Sala, e De-Martino furono condannati a morte, due all' ergastolo, nove a 30 anni di ferri, 52 a 25 anni, Buonuomo a 8 anni di fortezza, 80 ad un aumento di punizione e ad essere confinati per il rimanente della loro prima sentenza, 48 alla prigionia, 2 all' esilio correzionale e 56 di ritornare all'isola di Ponza a disposizione della polizia.
Sulle accuse di "ladronecci" che pesavano su loro, la Corte con la formula di: "consta che non", assolvette Nicotera e i 16 stranieri a lui associati, e per gli altri con la formola: "non consta", decise che tali accuse non erano provate. Questa sola accusa era quella che fosse di peso agli insorti, e un tale verdetto diede loro piena soddisfazione.
Appena letta la sentenza, il procuratore generale aprì e lesse un plico ufficiale che annunziava che l'esecuzione dei sette condannati a morte era sospesa.

Fra i prigionieri politici di Salerno furono sottoposti al "cavalletto": Anselmo Esposito, Giuseppe Magno, Giuseppe Olivieri, Salvatore Depadova, Giuseppe Tangrese, Giuseppe Riggione.

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