TRENTASETTESIMO CAPITOLO


Cavour: il protagonista assoluto

CAPITOLO TRENTASETTESIMO

Napoleone III al Barone di Hubner. - Il grido di dolore. - Matrimonio e patto d'alleanza
Appoggio in Europa alla causa italiana. - Irresoluzione di Napoleone III.
Cavour, La Farina e la Società Nazionale. - I repubblicani favorevoli agli accordi e gli intransigenti. - Bixio e il suo giornale La Nazione. - Mazzini e il Pensiero ed Azione di Londra. - Dichiarazione degli intransigenti. - Lamarmora avverso ai volontari. - Istruzioni segrete della Società Nazionale Italiana. - Armamenti e misure repressive dell'Austria. - Chiamata dei contingenti in Piemonte. - L'accorrere dei volontari. - Garibaldi comandante del corpo dei volontari di Cuneo e Savigliano - ULTIMATUM del Conte Buol. - Risposta di Cavour - Decreti concedenti poteri straordinari al governo del Re nel caso di guerra.


L'anno 1859 fu inaugurato con le significative parole di Napoleone III al barone Hübner, allora ambasciatore austriaco a Parigi: "Je regrette que les relations entre nous soient si mauvaises. Dites cependant à votre souverain que nos sentiments pour lui ne sont pas changés".
Hubner e il Nunzio pontificio furono dolorosamente colpiti. L' ambasciatore sardo telegrafò giubilante a Cavour che disse: "Si vede chiaro che l'imperatore vuole andare avanti".
E il re: "L'anno che incomincia non canzonerà".

A confermare il significato bellicoso delle parole di Napoleone III venne poco dopo il discorso del trono scritto di proprio pugno e pronunciato - discutendo ogni passo con Cavour che lo volle sottoporre a Napoleone - da Vittorio Emanuele il 10 gennaio del 1859 a Palazzo Madama, inaugurando la seconda sessione della VI Legislatura, discorso che merita di essere riportato per intero e fedelmente nella sua sintassi originale:

"Signori senatori, signori deputati, la nuova legislatura, inaugurata un anno fa, non ha fallito alle speranze del paese, alla mia aspettazione. Mediante il suo illuminato e leale concorso noi abbiamo superato le difficoltà della politica interna ed esterna, rendendo così più saldi quei larghi principi di nazionalità e di progresso, sui quali riposano le nostre libere istituzioni.
Proseguendo nella medesima via, porterete quest'anno nuovi miglioramenti nei vari rami della legislazione e della pubblica amministrazione. Nella scorsa sessione vi furono presentati alcuni progetti intorno all'amministrazione della giustizia. Riprendendone l'interrotto esame confido che in questa verrà provveduto al riordinamento della magistratura, alla istituzione delle Corti di Assisi e alla revisione del codice di procedura. Sarete di nuovo chiamati a deliberare intorno alla riforma dell'amministrazione dei comuni e delle province. Il vivissimo desiderio che essa desta vi sarà d'eccitamento a dedicarvi le speciali vostre cure. Vi saranno proposte alcune modificazioni alla legge sulla guardia nazionale, affinché, serbate in tutto le basi di questa nobile istituzione, siano introdotti in essa quei miglioramenti suggeriti dall'esperienza, atti a rendere la sua azione più efficace in tutti i tempi.
La crisi commerciale, da cui non andò immune il nostro paese, e la calamità, che colpì ripetutamente la principale nostra industria, scemarono i proventi dello Stato; ci tolsero di vedere fin d'ora realizzate le concepite speranze di un compiuto pareggio tra le spese e le entrate pubbliche. Ciò non v'impedirà di conciliare, nell'esame del futuro bilancio, i bisogni dello Stato con i principi di severa economia.

" Signori senatori, signori deputati, l'orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Ciò non di meno vi accingerete con la consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dall'esperienza del passato andiamo risoluti incontro all'eventualità dell'avvenire.
Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira.

"Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, "non siamo insensibili al grido di dolore" che da tante parti d'Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidanti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza".

Il discorso fece impressione immensa non soltanto in Piemonte e nell'Italia, ma in tutta Europa.

Alle parole: "grido di dolore", il re venne interrotto con applausi tumultuosi. Piangevano dirottamente gli esuli, si sgomentava il ministro napoletano, godeva il ministro di Francia e in cuor suo quello dell'Inghilterra, rimasero impensieriti quei della Prussia e della Russia. Nessuno più dubitava della imminente guerra. L'indomani venne la notizia ufficiale da Napoli che i condannati politici, Poerio, Settembrini, Spaventa e altri sessanta, erano stati graziati a condizione di andare in America.
Era chiaro che il re di Napoli temeva una guerra del Piemonte alleato
con la Francia contro l'Austria.
Questa potenza invece ricordandosi che nel 1848 alle riforme succedevano le rivoluzioni strinse i freni, chiuse l'Università di Pavia, più tardi quella di Padova, chiamò a Vienna il Duca di Modena, decretò un prestito di cinquanta milioni.

Il giorno 16 gennaio giunse in Torino il principe Napoleone. L'imperatore aveva posto il matrimonio di suo cugino con la figlia del re come patto dell'alleanza. Cavour si dice che era contrario, stimando più utile un parentado con la Prussia, dando la principessa sabauda in sposa al principe di Hohenzollern (Nato da Stefania di Beauharnais, onde farne un re dell'Italia centrale).
(Storia Documentata della Diplomazia europea, per N. Bianchi, vol. VIII, p. 7)

Neppure al re fu gradita la proposta di matrimonio, meno di tutti la sacrificata giovinetta, che però con il coraggio che distingue le donne di casa Savoia si sottomise. Maria Clotilde faceva sacrificio della sua giovinezza per disciplina filiale e patriottismo e il 29 gennaio il matrimonio civile fu stipulato, il 30 seguì la cerimonia religiosa, poi gli sposi partirono per Marsiglia, via Genova.

(da Cronologia - anno 1859)
"Riguardo a questo matrimonio "sacrificale" della Principessina, il Principe d'Assia cosė scrive a sua sorella, l'imperatrice zarina Maria di Russia:  "Povera vittima della politica, il Savoia sacrifica la sua graziosa figliola quindicenne a un uomo come il principe Napoleone, scostumato, disprezzato in Francia da tutte le persone oneste e da tutti deriso, solo per la speranza di poter conquistare con l'aiuto della Francia qualche chilometro quadrato di territorio".
(Lettera di Alessandro D'Assia all'imperatrice Maria di Russia, 30 gennaio 1859 - Docum. Castello di Walchen).

Tre giorni dopo anche NAPOLEONE III inaugurava la sessione legislativa con un importante discorso, in cui fra le altre cose diceva: (lo riprendiamo fedelmente perchè fu diffuso ampiamente dalla "Gazzetta Piemontese" con un opuscolo "Napoléon III et l'Italie"):

"Il governo di Vienna e il mio, lo dico con rammarico, si sono spesso trovati in disaccordo sulle principali questioni ed è stato necessario un grande spirito di conciliazione per poterle risolvere. Per esempio, la ricostituzione dei principati danubiani, non si è compiuto, se non dopo numerose difficoltà che hanno nociuto alla piena soddisfazione dei loro legittimi desideri; e se mi si domandasse quale interesse ha la Francia in quelle lontane regioni, bagnate dal Danubio, io risponderei che l'interesse della Francia è dovunque sia una causa giusta e civilizzatrice da far prevalere. In tale stato di cose non era niente straordinario che la Francia si avvicinasse di più al Piemonte, che era stato così fido durante la guerra, così devoto durante la pace. La felice unione del mio diletto cugino il principe Napoleone con la figlia di Re Vittorio Emanuele non è dunque uno di quei fatti insoliti, in cui bisogna cercare una ragione nascosta, ma è la conseguenza naturale della comunanza degli interessi dei due paesi e dell'amicizia dei due sovrani.

"Da qualche tempo lo Stato dell'Italia e la sua condizione anormale, dove l'ordine non può essere mantenuto se non con le milizie straniere, inquietano giustamente la diplomazia. Questo non è però un motivo sufficiente per credere alla guerra. La chiedano gli uni con tutti i loro voti, senza legittima ragione, si compiacciano gli altri nei loro esagerati timori di mostrare alla Francia i pericoli di una nuova coalizione, io rimarrò incrollabile nella via del diritto, della giustizia e dell'onore nazionale; e il mio governo non si lascerà né trascinare né intimorire, perché la mia politica non sarà mai né provocatrice né pusillanime ....

"La pace, spero, non sarà turbata .... La nazione che mi ha commesso i suoi destini sa che un interesse personale o una meschina ambizione, non dirigeranno mai le mie azioni. Quando si salgono, sostenuti dal voto e dal sentimento popolare, i gradini di un trono, ci innalziamo con la più grave responsabilità, al di sopra dell'infima ragione, dove si agitano volgari interessi, e per primi moventi, come per ultimi giudici si hanno: Dio, la propria coscienza e la posterità".

Nel frattempo tra i due discorsi, il 18 venivano firmati i patti di alleanza già verbalmente convenuti fra Cavour e Napoleone a Plombières (*) per la formazione di un regno dell' Alta Italia di circa undici milioni dalle Alpi all'Adriatico, restando sottinteso che se il nuovo regno dovesse includere anche altre Legazioni, non solo la Savoia ma anche Nizza dovesse essere ceduta alla Francia.

( *) Nel trattato ufficiale del 21 luglio 1858 a Plombières tra Napoleone III e Cavour furono allora gettate le basi dell'alleanza contro l'Austria e si stabiliva che:
-
la Francia sarebbe intervenuta a fianco del Piemonte, solo se l'Austria lo avesse aggredito;
- in caso di vittoria, si sarebbero formati in Italia quattro Stati riuniti in una sola confederazione posta sotto la presidenza onoraria del Papa, ma dominata sostanzialmente dal Piemonte: 
* uno nell'Italia settentrionale con l'annessione al regno di Sardegna del Lombardo-Veneto, dei ducati di Parma e Modena e della restante parte dell'Emilia;
* uno nell'Italia centrale, comprendente la Toscana, le Marche e l'Umbria; 
* un terzo nell'Italia meridionale corrispondente al Regno delle Due Sicilie; 
* un quarto, infine formato, dallo Stato Pontificio con Roma e dintorni.
in compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a Napoleone III il Ducato di Savoia e con la riserva anche la Contea di Nizza.
Appare evidente che un simile trattato non teneva assolutamente conto delle aspirazioni unitarie della maggior parte della popolazione italiana, esso mirava unicamente ad eliminare il predominio austriaco dalla penisola.)

Ora urgeva la necessità di stuzzicare l'Austria tanto da spingerla a provocare la premeditata guerra. II 14 febbraio 1859 il ministro delle finanze Giovanni Lanza presentò al Parlamento una legge per un prestito di cinquanta milioni, visti gli armamenti sempre crescenti sulle frontiere del Po e del Ticino. E intanto Cavour spedì ai gabinetti europei un dispaccio circolare il 14 febbraio 1859, ove divulgò le sue proteste (*).
(*) "Tre anni sono trascorsi da che nel Congresso di Parigi i plenipotenziari della Sardegna denunciarono le flagranti violazioni austriache ai trattati del 1815. Essi avevano previsto che, dove i rimedi non fossero pronti ed efficaci , la pace europea pericolerebbe. Le irrequietezze d' Italia per un istante si erano attutite, dietro le benevole intenzioni manifestato dalla Francia e dall'Inghilterra. Ma poi avevano ribatito di nuovo, vista l'Austria pur sempre altera e dispotica nella Penisola, ed indefessa inculcatrice ai Principi, amici suoi, di atteggiamenti contrari al bene dei sudditi. Conseguentemente la Sardegna, in mezzo a Governi e a popoli, che vivevano in mala soddisfazione gli uni degli altri, si era trovata esposta ai maggiori pericoli. Pure aveva proceduto con misurato contegno, rivolgendo il proprio credito a fare argine alla piena della rivoluzione. In compenso l'Austria si era data ad accoppiare alle minaccie formidabili armamenti contro il tranquillo Piemonte, e a munire fortilizi in paesi nei quali la legge europea la interdicevano da ogni padronanza. Pertanto il Governo del Re si era trovato nella necessità di provvidero con sollecitudine a mettere al riparo da ogni pericolo l'onore e l'indipendenza del paese. I suoi provvedimenti finanziari straordinari, e il richiamo in Piemonte dei presidi della Savoia e della Sardegna, miravano a difesa e non all' offesa. Da essi la tranquillità dell'Europa riceverebbe poi il vantaggio di veder calmarsi l' effervescente agitazione serpeggiante per l'Italia, col rinascer della fiducia che il Piemonte, spalleggiato dagli alleati che la giustizia della qual causa gli aveva assicurati, era preparato a combattere ogni opera disordinata che la rivoluzione e l'Austria facessero sorger in Italia".
(storia Documentata della Diplomazia europea in Italia per N. Bianchi, Vol. 8, p. 125)

Il dispaccio fu stampato e distribuito per maggiormente irritare l'Austria.
Con molta soddisfazione gli italiani lessero nel Times un articolo, ove, dopo aver detto che l'Austria non troverebbe appoggio in caso di guerra, si dimostrava che non sarebbe neppure fiancheggiata dalla Prussia per difendere i suoi possessi in Italia. Più tardi nella Camera dei Comuni lord Palmerston, parlando delle voci intorno alla guerra, soggiunse che, "se vero era che i trattati garantivano all'Austria il Lombardo Veneto, essi non le davano il diritto di immischiarsi nell'Italia Centrale, nè ad essa, né alla Francia, e che se in Roma ci fosse un governo più sopportabile il popolo lo sopporterebbe", e augurava vedere presto Roma sgombra di truppe straniere.
Lord John Russell soggiungeva desiderare la pace, ma che non la sperava fintanto che l'Austria eccitava gli abusi esistenti nell'Italia centrale e proteggeva i governuccoli che li commettevano.

Nelle difficoltà che incontrarono le trattative diplomatiche non bisogna perdere di vista le proposte fatte a Napoleone da Vincenzo Salvagnoli a Compiégne in nome di molti autorevoli Toscani, e quantunque l'Imperatore non avesse dato risposta affermativa era evidente che egli mirava a conservare intatta l'autonomia della Toscana per suo cugino e a dare a Murat il trono di Napoli. - E poi, dopo che tutti gli accordi erano presi e Cavour aveva fatto il suo piano, Napoleone, per quell'irrosolutezza di carattere che lo distingueva, per l'opposizione fattagli dagli uomini di Stato, che ancora in Francia esistevano, aveva messo come patto che il Piemonte dovesse essere aggredito dall'Austria prima che soldati francesi scendessero in Italia e che in nessun caso l'elemento rivoluzionario entrasse in campo.

Ora come far cascare nella rete una potenza astuta come l'Austria?
E poi come comportarsi coll'elemento rivoluzionario, il quale se non fosse chiamato dal Piemonte ad agire avrebbe agito senza, anzi perfino contro il Piemonte?
Ecco i due quesiti che occupavano la mente di Cavour, e per sciogliere i quali quel ministro aveva bisogno di tutto il suo ingegno e di tutta la sua scaltrezza.
Egli si era fissato in mente di non permettere ad altri se non a casa di Savoia di occupare i Ducati. Quindi, con grande scandalo dei diplomatici ivi residenti, il ducato di Modena fu tenuto in uno stato costante di fermentazione e il console inglese Walton avvertiva il conte di Malmesbury
(Correspondence respecting the affairs of Italy, January io May 1859.) che le persone più rispettabili erano in costante corrispondenza col comitato nazionale residente in Torino, il quale cercava preparare il terreno per l'entrata delle truppe piemontesi, insistendo però sul non fare dimostrazioni politiche fin tanto che quelle non avessero passato il Ticino, nel qual caso parte di esse entrerebbe nello Stato sotto pretesto di mantenere l' ordine.
Poi molte persone si arruolavano nell'esercito piemontese e i soldati del duca disertavano recandosi a Sarzana, dove firmavano un contratto di servire sei mesi, o fino a guerra terminata, erano pagati e mandati per vapore a Genova e di là a Casale, Vercelli e Alessandria. Questa per verità era la tela ordita insieme dal Cavour e dalla Società Nazionale Italiana, che ora agiva e non agiva, ciecamente sottomessa agli ordini dei Conte (*).

(*) Scrive il Massari nel "Conte di Cavour, ricordi biografici": "Il siciliano Giuseppe La Farina che era a capo di un'Associazione politica, che si denominava Società Nazionale Italiana, imitò l'esempio di Manin".
Ebbero quindi inizio le relazioni tra quell' Associazione ed il Conte di Cavour, che sono state poi grandemente esagerate, ma che pure ebbero il loro lato utile.
Ora tutta la corrispondenza fra Cavour e La Farina, Garibaldi, Pallavicini e La Farina prova che Cavour era il vero capo della Società Nazionale Italiana. Citiamo alcuni brani di questa corrispondenza.
(le istruzioni segrete le riportiamo invece a fondo pagina)

Ecco una nota di Cavour in data del 12 febbraio:
"Si desidera l'opinione del signor La Farina sul seguente progetto: Il tempo di agire in Toscana è giunto. Bisogna però per ora evitare non solo una rivoluzione, ma altresì il minimo conflitto fra i liberali ed i soldati.
Bisogna ordinare l'agitazione in modo che l'avvenire rimanga intatto; che si fondi più sopra idee di nazionalità e d'indipendenza che sopra principii di libertà; che sia tale che tutti i liberali, a qualunque frazione appartengono, possano parteciparvi; che i militari possano accettarla senza tradire l'onore militare.
Quindi si dovrebbe chiedere:
Scioglimento di ogni trattato coll'Austria;
Unione del Governo Toscano col Governo Piemontese per promuovere coi mezzi diplomatici, ed in difetto anche colle armi, la causa della riforma delle condizioni d'Italia e dell' indipendenza d'Italia; Procedere prima per via di petizioni, e di dimostrazioni poi.
Torino, 13 febbraio 1859.
Troverà un progetto di regolamento per attivare la nuova legge sulla guardia nazionale. Lo trovo in molto parti difettoso. Lo esamini, e mi metta per iscritto le sue osservazioni.
Ove crede, prepari altro progetto per i corpi volontari.
Quando avrà pronto il suo lavoro, si compiaccia di portarmelo alle ore consuete.
C. CAVOUR

PS. Se avesse alcuna osservazione da fare sulla memoria che Nigra gli ha lasciata, gradirei sentirla prima di adottare definitivamente il progettato programma.
Guerrazzi mi ha scritto la qui compiegata lettera: non posso, né voglio rispondergli, ma desidererei che gli si facesse sapere che non é il caso di pensare a moti incomposti, a governi provvisori, ed altre sciocchezze ad uso '48. Le "difficoltà politiche" si presentano maggiori di quanto si calcolava. Nullameno non mi sgomento, e confido nel trionfo della buona causa. Mi ritorni la lettera di Guerrazzi.
C. CAVOUR.


PS. La prego d'invitare il marchese Pallavicini a scrivere al generale Ulloa, che la sua presenza potrebbe tornare utile molto in Piemonte.
Dica a Cialdini la sua opinione sulla nomina d'Ardoino. Ma non avendo questi, bisogna sceglierne un altro senza indugio.
Cialdini gli parlerà dei fucili. La prego di intendersela con i Milanesi, i quali protestano e giurano essere animati dal più vivo desiderio di concordia e di unione.
C. CAVOUR.

(Epistolario di Giuseppe La Farina, Vol. II).

Ed ora rivolgiamo il pensiero alle migliaia di quei giovani che non ebbero altra mira nella vita che quella di venire alle mani con l'Austria e che senza la fiducia assoluta che riponevano in Garibaldi si sarebbero prestati a quei nuovi tentativi che Mazzini e il partito d'azione stavano organizzando. Dalle lettere di Garibaldi di quel tempo riluce come questi avesse accettato la dittatura di Cavour non solamente, ma come fosse riuscito ad indurre i suoi luogotenenti a fare altrettanto. Così egli scriveva a La Farina in data di...

Caprera, 8 gennaio 185.9.
Carissimo Amico,
Io v'ho veramente fatto bersaglio ad importunità senza fine , e vi ho diretto mezzo mondo: compatitemi, e comandatemi a vostra volta quando l'occasione si presenti. Circa l'organizzazione convenuta, io la lascio interamente a voi, e vedrete fin dove vuol giungere il nostro amico C. (Cavour). Solamente voglio farvi osservare che dovendo promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene di cominciare con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve. Per ciò vi combinerete e darete ordini. Medici e chiunque dei miei hanno ordine di non fare senza consultarvi. Lo stesso ho raccomandato a quelli di dentro.
Vogliatemi bene e comandatemi.
Vostro GIUSEPPE GARIBALDI ».

(Epistolario di Giuseppe La Farina).
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L'opuscolo "Napoléon III et l'Italie" (che abbiamo già letto sopra) con il discorso di Napoleone III, dimostrando le intenzioni del governo francese verso l'Italia, fece impressione grandissima in tutta l'Europa

Splendido fu poi il discorso di Cavour il giorno 9 febbraio intorno alla politica nazionale del Piemonte e più splendido ancora quello che pronunciò al Senato il 17 dello stesso mese durante la discussione in Palazzo Madama sul prestito dei 50 milioni. Benché la possibilità e forse neanche la desiderabilità di un'Italia indipendente e libera dalle Alpi al Lilibeo non fosse ancora balenata alla mente del grande Piemontese, ogni italiano che lesse le sue parole diceva nel cuor suo: "Cosa fatta capo ha"... "oggi la Lombardia, poi Venezia, poi Toscana, Napoli, Sicilia, Roma".
Fu una frenesia di entusiasmo uguale a quella del 1848 e, salvo i pochi esuli che con Mazzini diffidavano e deprecavano l'alleanza con l'uomo del Due dicembre tutti acclamarono duce Vittorio Emanuele.

(*) Mazzini sapeva tutto e così (in parte profeticamente) scriveva:
"Quali sarebbero per l'Italia le conseguenze d' una guerra, impresa con disegno simile e sotto auspici simili ?
La lega e la vittoria dei due "Tsar" trascinerebbero con sé il riparto fra i due,- per conquista o influenza, di quasi tutta l'Europa, e l'abolizione di ogni libertà, di ogni indipendenza dei piccoli Stati. Alla questione di libertà verrebbe sostituita, allettamento ai popoli e agli umori di razza, la questione di territorio. Rinascerebbe, per mezzo secolo, il Medio Evo. Solamente, invece del Papa e dell'Imperatore, starebbero al sommo dell' edificio lo Tsar del Nord e dell'Est e lo Tsar del Sud e dell'Ovest d'Europa. Ma quanto all'Italia - giacché il retrocedere dell'intera Europa al Medio Evo é impossibile - le conseguenze di una guerra combattuta sulle nostre terre e capitanata dal Bonaparte sarebbero:
- L'impianto della dinastia di Murat nel Sud della Penisola; compenso naturale ai pericoli e ai sacrifici della guerra e disegno vagheggiato in tutti questi ultimi anni da Luigi Bonaparte
- Lo smembramento dell'attuale Regno di Napoli in due: la Sicilia, avversa dichiaratamente al Murratismo, avida di sottrarsi, non all' Italia, ma alla dominazione di Napoli , e aiutata dall'Inghilterra che non può concedere alla Francia di stabilirvisi, diventerebbe feudo d'una o d'altra famiglia principesca, inglese, o germanica:
- L' impossibilità di ogni libera sovranità nelle province che muterebbero padrone: ogni libertà concessa dal Bonaparte o dai suoi all'Italia ferirebbe mortalmente l'orgoglio francese; chi é tiranno in casa propria non può dare, senza suicidio, istituzioni libere ad altri
- Una pace subita, rovinosa, fatale agli insorti a mezzo la guerra, un Campoformio che darebbe alle vendette nemiche le più tra le province sommosse: non appena Luigi Napoleone avrebbe conquistato l'intento nel Sud, egli, temendo una guerra prolungata dei popoli, accetterebbe la prima proposta dell'Austria e i desideri pacifici dell' altre Potenze e costringerebbero il monarca Sardo a desistere concedendogli una zona di terreno qualunque a seconda dei casi.
E ABBANDONEREBBE TRADITE LE PROVINCIE VENETE E PARTE DELLE LOMBARDE
- E finalmente, prezzo dell'ingrandimento territoriale, l'abolizione della libertà piemontese: la nuova dinastia mal potrebbe impiantarsi, senza libere istituzioni, al Sud di fronte ai liberi o semi-liberi Stati Sardi, né i pretoriani dell'Impero potrebbero, senza pericoli di propaganda o d'esempio, attraversare terre italiane rette a forma costituzionale"
.
(G. MAZZINI, Pensiero ed Azione. 15 Dicembre 1858.)

Ecco come il dottor Agostino Bertani, allora il più stimato degli amici di Garibaldi, narra la storia di quei giorni:
"Un bel giorno di gennaio 1859, entra Garibaldi nel mio studio; e stendendomi le braccia, giubilante in viso e con voce commossa mi dice: - Questa volta facciamo davvero; vengo soddisfatto d'alti luoghi; ho facoltà d'avvisare gli amici tutti che si tengano pronti; dobbiamo essere tutti uniti, se da noi dobbiamo fare l'Italia; e quindi conto anche su di voi e sull'opera vostra. - Gli risposi, stringendogli affettuosamente la mano : - Ma, e i francesi? - Egli mi replicò: - Quanti più saremo noi, di tanti meno abbisogneremo. - Poi mi narrò degli altri colloqui avuti, delle speranze sue, della sua fede illimitata, dell'armamento nazionale e di altre splendide cose. Per quell'anima generosa e semplice, l'annuncio che si mirava alla grande impresa, equivalse alla certezza che si volessero pari i mezzi ed efficaci.
Ero, già stanco dei tanti vaghi e vani progetti degli anni addietro, e confidando nelle parole udite, e che egli tenne come pegni di vasti propositi e fermi, e più che mai sicuro dell'ardore e del potere della nazione in armi, egli s'abbandonò alla speranza per tanti anni ingannata. E già immaginava battaglioni di cittadini, moventi con impeto irresistibile, e l'Italia principalmente per mani nostre redenta. E ripeteva: - Dobbiamo essere uniti tutti e armati, se vogliamo far da noi. -
Quante volte la più salda convinzione, nutrita da dura esperienza e da ragione austera, vien d'improvviso abbagliata da un annuncio seduttore! È allora che noi, antichi patrioti italiani, sempre come gli innamorati, a dispetto nostro, scendiamo a immediati accordi; perdiamo i propositi lentamente maturati nella tribolazione; e lieti della sperata concordia, condoniamo volentieri le patite ingiurie e gli inganni. E purché ci si conceda una buona guerra, e le armi si apprestino contro l'eterno nemico, immemori e ciechi, sempre accorriamo nelle prime file.
Tutto fu dunque obliato; e all'appello, nuova e franca fu la fiducia dei perseguitati di pochi mesi addietro nei medesimi persecutori. È questa la fisiologia del patriota italiano, la quale é oramai divenuta una teoria di governo. Un uomo politico, uscito testé di scena, diceva due mesi prima ad un astutissimo ministro del 1848. - E chi mai sogna a far l'Italia adesso? Sfogato questo fermento, bisogna accontentarci di ciò che si potrà acquistare. A cosa fatta, vi saranno lamenti e recriminazioni; ma si terranno in freno gli illusi nostri, e ancor più gli emigrati; e aspetteremo per dieci anni una nuova occasione; e allora saremo un'altra volta amici tutti, fratelli tutti; e i primi che accorreranno a chiederci armi e offrirci la vita, saranno i bastonati dei dieci anni trascorsi. -
Garibaldi trovò unanimi tutti i suoi compagni d' armi. - Quando saremo tutti soldati, un giorno o l'altro combatteremo anche per la libertà; ma intanto siamo soldati. - Così fummo. E così saremo »

(I Cacciatori delle Alpi, del dott. Agostino Bertani).

E Bixio, che, tornato a Genova da un lungo viaggio, fervido repubblicano e fin allora devoto mazziniano, che aveva sottoscritto ugualmente per i cento cannoni di Alessandria e per i diecimila fucili, divenne al pari di Garibaldi partigiano frenetico della dittatura regia. Egli fondò a Genova un giornale chiamato prima il San Giorgio, poi La Nazione, ambedue ispirati dalla stessa idea "
(La Vita di Nino Bixio, narrata da Giuseppe Guerzoni.).

"Pigli il Piemonte la dittatura dell'impresa nazionale, riannodi intorno a sé tutte le forze d'Italia, intimi guerra allo straniero, e ci avrà con lui.
Se il governo attuale, per condur bene e robustamente la guerra, sente il bisogno della dittatura, se la prenda. La prima e suprema questione é quella di esistere; per questo se l'Italia in quattro mesi non é capace di armare 600 mila soldati e farli combattere noi siamo perduti per sempre. Se un uomo di genio é finalmente al governo, lo faccia arditamente; il paese é con lui. Accetti tutti, ma armi la nazione e prontamente.
"Chi vuole e chi non vuole" che l'Italia compri col suo sangue la sua indipendenza dallo straniero. Durerà tanto più quanto più avrà costato".

E poi ancora:
"Anche noi accettiamo la temporanea dittatura militare del Piemonte, purché si faccia qualche cosa di serio e per tutta la Nazione. - Ostinarsi a voler aprire la campagna con un'armata di 75 mila uomini (e oggi nei fatti non sono che 40 mila!), senza riserva, é insensato; affidarsi interamente all'armata francese é un suicidarsi; e noi, se siamo convinti che non si debba creare impacci al governo, siamo anche convinti che il governo deve condursi in modo da non suscitarne. Il nostro programma nella parte militare é facile ad applicarsi da qualunque governo: - fateci soldati, e siatene il capitano - ma fate!
Crede il Piccolo Corriere che il governo faccia abbastanza? Aspettiamo che ci si risponda chiaramente".

Bixio non adulava però il Re o Cavour, come faceva ogni giorno La Farina nel Piccolo Corriere. Il "se no no" era sempre la parola d'ordine. - Quando però il governo chiamava la leva e metteva l'esercito sul piede di guerra, pure lui Bixio inneggiava al provvidenziale decreto:

"Non possiamo che applaudire a questa misura. Diremo sempre al governo avanti ! avanti !
La Nazione italiana si é affidata nelle vostre mani, o Governo del Re di Sardegna l'unico mezzo per dimostrare ben fondata la confidenza é di muoversi, é di avanzare avanti ! avanti !
Avete voi bisogno di denaro? L'ultimo prestito vi fece palese che non avete che da domandare; il paese vi accorda più di quanto non chiedete. Avete bisogno di uomini? Le continue emigrazioni dalle varie parti d'Italia vi fanno palese che di uomini non vi sarà difetto, per poco che l'accoglienza immediata e successiva non valga a disanimarli. I volontari, anche nel nostro Stato, non aspettano che un organizzatore per accorrere sotto le bandiere italiane: sta a voi, o Governo, di utilizzare tutti questi elementi; ma non possiamo evitare dal gridarvi: avanti! avanti!
Qualunque sia per essere l'esito della lotta cui vi incitiamo a prepararvi, non s'abbia, perdio! almeno a rimproverare a chicchessia che poteva fare e non fece".

Finalmente Cavour riuscì a superare gli inveterati pregiudizi e le ripugnanze di quel diritto ma angusto spirito del Lamarmora, il quale affermava doversi distrarre (usare) ben 20 mila uomini di truppe regolari per vigilare i volontari : opinione che lui aveva in comune con la vecchia mentalità degli ufficiali dell'esercito piemontese. E il 20 marzo egli chiamò Garibaldi da Caprera a Torino ove ebbe luogo un lungo e confidenziale colloquio con il re.
Già con Cavour si erano combinate le istruzioni segrete da diramarsi dalla Società Nazionale Italiana ai sotto comitati ( Vedi come detto già sopra, a fondo pagina, il testo), e quando Garibaldi ritornava a Genova, raccolse tutti
suoi fidi, Bertani , Sacchi , Medici , Bixio e comunicava loro la lieta novella che a lui era dato l'incarico di formare un corpo dì volontari da agire accanto all'esercito degli alleati, assecondare le insurrezioni a tempo debito, sempre sottomesso agli ordini del comando in capo.

Grande giubilo nel cuore di tutti. E per dimostrare a Cavour come i repubblicani di ieri erano oggi con la monarchia, Nino Bixio propose l'invio di una deputazione a Torino e andò di persona con Gerolamo Remorino e l' avv. Brusco per assicurare il grande ministro del concorso di tutti e della sottomissione di tutti.

Saputosi tutto questo a Londra, si accese una fiera polemica fra il "Pensiero ed Azione" (* 1 ) e "La Nazione" (* 2 ) (vedi a fondo pagina i due rispettivi testi).

Nel primo fu stampata la dichiarazione dei "puritani", nella seconda la dichiarazione fu riprodotta con un' energica risposta di Bixio, concordi tutti gli amici suoi in Genova.

Persistendo così di alleare la democrazia alla monarchia, Cavour sciolse anche la terza parte del problema. Con la chiamata dei contingenti fece montare l'Austria su tutte le furie, e, mentre si trattava in un Congresso europeo per definire le vertenze fra essa e il Piemonte, fu proclamato pubblicamente l'incarico dato a Garibaldi, e anche l'impresa assunta dal generale Cialdini dell'organizzazione del corpo, onde l'Austria perdette addirittura la testa.

Essendo morto a Roma il conte Emilio Dandolo, uno dei pochi superstiti degli ufficiali di Manara e fratello dell'Enrico Dandolo, le dimostrazioni fatte a Milano per i suoi funerali furono imponenti. Ne seguirono molti arresti di quanti non riuscirono a passare le frontiere. L'effettivo delle genti austriache in Italia fu portato da 50.000 a 180.000 uomini, tutti concentrati ai confini. Il materiale di artiglieria spedito a Piacenza, i grossi cannoni giunti a Verona e a Milano, l'equipaggio di assedio riunito a Pavia; tutto dimostrava l'intenzione di assediare le piazzaforti del Piemonte.

- All'estero come all'interno il prestito sardo fu coperto con rapidità. A Londra gli esuli napoletani furono accolti con entusiasmo. Appena chiamati in Piemonte i contingenti, una sottoscrizione per sussidiare le loro famiglie assunse le proporzioni di un pronunciamento nazionale. - Abilissima la nota di Cavour al marchese D' Azeglio, che rendeva l'Austria responsabile di tutta l'agitazione destata in Italia e dimostrava che quella potenza aveva violato il territorio a Gravellone.
Notevole fu il manifesto del sindaco di Torino, onde ogni cittadino atto a portare le armi era eccitato ad accorrere fra i volontari (*).
(*) "Chiamati alla difesa dell' indipendenza o dell' onore della patria, accorrono frettolosi i contingenti alle loro bandiere; all'invito di concorrere volontariamente a questo sacro dovere, risponderete voi pure in modo degno di voi e del fattovi appello.
Vittorio Amedeo II, a chi minacciava di opprimere il Piemonte col numero de' nemici, rispondeva: "Batterò la terra col piede e ne usciranno eserciti di combattenti" .
Vittorio Emanuele Il, a chi intende conculcare ed avvilire questa stessa terra, potrà pur anche dire: - "I di lei figli non hanno degenerato, l'ho battuta col piede, e soldati e militi sortirono da ogni di lei parte a propugnare l'onore, l'indipendenza, la libertà." - (Cronaca italiana).

Il dado era gettato.
E a dissipare ogni ombra di dubbio, Garibaldi fu chiamato di nuovo da Caprera, e le sue parole ai suoi antichi commilitoni e alla gioventù ebbero una risposta che vinse le aspettative anche dei più fiduciosi.
Varcando di soppiatto il Po e il Ticino, attraversando gli Appennini, accorsero in Piemonte migliaia di lombardi, di veneti, di toscani e di romagnoli. E si può dire che, in quelle province ancora sotto il giogo austriaco, se vi era ancora un giovane sano e robusto non poteva camminare per le vie di una città, senza farsi fischiare dai vecchi e soprattutto deridere dalle donne. - Madri, padri, promesse spose assalirono il ministro della guerra e Garibaldi di iscrivere i loro cari sui ruoli; genitori come la Cairoli, il Sanseverino, il Belgioioso, il Bonomi condussero chi tre chi quattro figli allo stesso tempo.

Fu deciso che nell'esercito non si scrivessero che quei giovani i quali per età e per requisiti fisici fossero contemplati dai regolamenti. Eppure novemila volontari, che non avevano tutti questi requisiti, furono arruolati nei reggimenti piemontesi; gli altri, gli scarti, spediti a Cuneo, per essere ordinati in corpo speciale.
E ancora una volta Lamarmora protestò, rafforzando la sua opposizione con quella manifestata dall'imperatore Napoleone, contro le (perchè indisciplinate) bande dei volontari. Ma Cavour non cedette e il 17 marzo si leggeva il seguente decreto:

"Visti gli articoli 4 e 6 del Reale Decreto del 17 marzo 1859, sulla proposizione del maggior generale Cialdini, abbiamo incaricato e incarichiamo il signor Garibaldi Giuseppe delle funzioni di maggior generale comandante del corpo dei Cacciatori delle Alpi, con l'autorità e competenze stabilite dal precitato Reale Decreto, con che presti il dovuto giuramento. - Il presidente del Consiglio dei ministri C. CAVOUR"

E allo stesso tempo scriveva privatamente al generale:
"Il governo confida che l'esperienza e l'abilità del capo che destina a questo corpo, e l'energica disciplina che egli seppe ovunque mantenere nell'esercizio del comando, suppliranno all'incompleta istruzione militare ed al difetto di coesione che accompagnano i corpi di nuova formazione, per quanto grande sia la buona volontà dei singoli membri che li compongono, e che potrà rendere all'evenienza utili servizi all'esercito del quale sarà un aggregato".

A cui Garibaldi rispose:
"Il Governo del Re con tale onorevole prova di fiducia ha guadagnato la mia riconoscenza, ed io sarò fortunato, se con la mia condotta potrò corrispondere alla volontà che io nutro di ben servire il Re e la patria".

II 7 aprile Garibaldi, recatosi a Cuneo e a Savigliano, assunse il comando in persona e fu decretato che il corpo dei Cacciatori delle Alpi facesse parte dell'esercito sardo sotto gli ordini del ministro della guerra.
A tutta prima si parlava di tre reggimenti, ma non erano reggimenti contando ciascuno soltanto due battaglioni. - Gli ufficiali erano scelti fra i superstiti di Roma, Venezia e delle guerre lombarde, alcuni erano dimissionari dell'esercito sardo.

Conceduta a Garibaldi libera la scelta degli ufficiali, egli chiamò al comando del primo reggimento Enrico Cosenz che alla difesa di Venezia si era tanto segnalato e che poi ebbe il grado di tenente colonnello; del secondo, Medici, difensore a Roma nel '48 del Vascello, tenente colonnello anch'egli; del terzo, il colonnello Arduino, soldato ed esule del '33 -
Nominava capi battaglioni Sacchi e Marochetti, ambedue con lui tornati da Montevideo, compagni a Roma e nella famosa ritirata; Bixio e Quintini Capi compagnie. Narciso Bronzetti, Carlo De Cristoforis, Carlo Gorini, Alfieri, Giovanni Chiassi, Benedetto Cairoli, Ferrari, Susini, Millelire, Landi, Fanti, Airoldi. - Francesco Simonetti capitanava cinquanta guide a cavallo, tutti montati a proprie spese. Antonio Mosto, un numero uguale di carabinieri genovesi, armati delle proprie carabine.

Capo dello stato maggiore fu il maggiore Carrano, che si era distinto a Venezia e che poi divenne lo storico della campagna. - Capo del quartiere generale fu il Cenni, valoroso soldato di Roma.
Il dottore Agostino Bertani accettò l'incarico di organizzare e guidare l'ambulanza e al suo appello rispose il fiore fiore dei medici chirurghi della Lombardia, che con lui come soldati chirurghi fecero l'intera campagna (*).

(*) Così scrive il capomedico dei volontari nel 1859 intorno alle ambulanze nel Politecnico, fascicolo XLV; scritto che tanto piacque a Cattaneo, ma non fu continuato. Avendomi gentilmente concesso le note e i documenti per gli altri articoli, me ne servo largamente per la guerra del 1859:
"Il servizio medico non é mai il più pregiato e curato dagli ardenti uomini di guerra, più solleciti ad ammazzare e farsi ammazzare, e più affidanti nella fortuna che intenti a provvedere e riparare gli inevitabili danni.
Il generale Cialdini, stabilito l' ordinamento per battaglioni come nei bersaglieri, aveva stabilito che ogni battaglione avesse un medico, e che un medico di reggimento facesse da capo. Ma poi conveniva con me egli stesso che ciò fosse insufficiente al servizio di un corpo interamente staccato. Però il ministero pensava che i medici si trovano dappertutto; e che in Lombardia ve n'erano a dovizia. Garibaldi e Medici mi sollecitavano a presentare un progetto, e lo feci; ma frattanto il generale Cialdini fu chiamato al comando di una divisione; Garibaldi non ebbe più il consueto intercessore. Pertanto l'ordinamento ministeriale era sospeso; o il nostro era ancora ignoto all'autorità che doveva acconsentirlo.
Gli eventi stringevano. Il giorno 24 aprile, Garibaldi mi chiama d'urgenza da Genova a Torino e mi dice: - Niente é ancora deciso per il servizio medico; ma noi siamo ben decisi; non è vero? Voi siete il nostro medico in capo; il vostro progetto é il mio; procurerò in ogni modo di farlo adottare; ma intanto sappiate che dobbiamo fra poco partire, - io risposi "Generale, il vostro personale sanitario é fin da oggi a completo; nominati o no, noi siamo con voi; il resto verrà. - A voi dunque, rispose Garibaldi con la sua generosa fiducia, affido d'ora innanzi ogni cura per il servizio sanitario, dandovi piena e libera autorità, perché il meglio si faccia; e vi prometto che, disposto ad assecondare ogni vostra richiesta, non metterò mai mano nelle cose vostre. - E tenne parola.
Allora sentii tutto il peso del mio dovere; ma sentii anche tutta la libertà d'azione e lo sprono della fiducia concessa, la quale raddoppia le forze. Aveva ottimi aiuti intorno a me, e col buon volere di tutti, col buon accordo, con la disciplina, ogni cosa camminò con soddisfazione del generale e dei combattenti.
In Torino aveva fatto chiedere al Consiglio superiore di sanità militare, del quale altamente apprezzo il capo, e personalmente conosco e stimo alcuni membri, se avesse ordini, o se si assumesse ingerenza nel servizio medico dei Cacciatori delle Alpi. Mi fu risposto che, questo essendo un corpo eccezionalmente costituito, quell'ufficio non intendeva ingerirsene, né aveva comandi in proposito. - Però non ebbi relazione alcuna; né potei sperarne aiuto o consiglio.
Io non durai fatica a cercare medici sperimentati o giovani di bella speranza o valenti operatori; vennero essi ad offrire la loro opera: Pietro Maestri di Milano, già distinto nelle scienze mediche e statistiche, mi aveva sollecitato a chiamarlo da Parigi, benché vi avesse una carriera considerata e vantaggiosa. - G. B. Prandina, pure di Milano, già chirurgo volontario dell'esercito sardo nel 1848 e 49, si era pure offerto a lasciare la clientela che aveva in Chiavari e vicinanze. - Maurilio Marozzi, di Pavia, già chirurgo prediletto del battaglione milanese nell'assedio di Venezia, e ora stabilito a Genova nel sobborgo di San Pier d'Arena, era venuto con me. - Luigi Gemelli, uno dei migliori operanti in Milano, lasciato l'impiego e i clienti, mi aveva pure raggiunto. - Pietro Ripari, di Cremona, già medico della legione Garibaldi in Roma, rimasto poi là e tenuto dai preti in duro carcere per sette anni, poi rifugiato in Londra, ora cresciuti gli anni, ma non domata la tempra dell'animo, era tornato per ripigliare la faticosa vita del campo. - Achille Sacchi, di Mantova, che ancor giovinetto fu così gravemente ferito a Roma nel braccio destro che durò dieci anni a guarirne, rimanendo tuttavia storpio, cacciato di Piemonte nel febbraio 1853 perché, sebbene in quello stato, si accingeva ad accorrere armato in Lombardia, minacciato di nuova espulsione nel 1857, sposo e padre da pochi mesi e unico figlio, lasciava la vedova madre, la sposa, il bambino, gli studi, veniva con me, con il solo patto di restar sempre presso di me ed aver il minor grado nella gerarchia medica. Ed esso ed altri vollero aver trattamento di semplici soldati. Dietro questi uomini già provati, molti giovani accorsero d' oltre la frontiera. - Il dottor C. Brambilla, di Milano, quando erano già cominciate le ostilità, attraversò a piedi, con tre giorni di pericolosa marcia, quella parte di Piemonte che il nemico aveva occupata, e non chiamato raggiungeva i Cacciatori delle Alpi, pronto egualmente ad esser medico e soldato. - I dottori Jessera e Musetti mi si fecero a fianco il giorno del combattimento di Varese, fuggendo in quella da Milano, dove gli Austriaci tentavano costringere i medici a prestar loro servizio; e lavoravano con me quel medesimo giorno e poi, senza nomina, né stipendio, compensati solo dalle privazioni e fatiche.
Molti altri giovani medici si erano iscritti soldati in Savigliano e Cuneo; di farmacisti si poteva fare un intero plotone. Ed erano disposti a tutto, ad arruolarsi nel servizio medico regolare; ad esser sott'ufficiali, pur prestando servizio medico; a rimaner soldati, medici o non medici; soltanto che potessero trovarsi nel corpo di Garibaldi. Con gente simile, il servizio era facilmente assicurato. -
E così potei presentare al generale il mio quadro ben completo, sebbene non avesse la sanzione del ministro; e poco importava oramai che questa presto o tardi arrivasse".


Ma facciamo un passo indietro.
Cavour alla fine di marzo si recò a Parigi, e, ritornato a Torino il 1° aprile, vi fu accolto con entusiasmo insolito. Il 17 l' arciduca Massimiliano partì da Milano con tutto il personale della sua casa, consegnando la città al municipio.
Il giorno 23 aprile l'inviato austriaco, presentato dal ministro plenipotenziario di Prussia al conte Cavour, consegnava l' ULTIMATUM del conte Buol, domandando il disarmo e il licenziamento dei volontari entro tre giorni. Il rifiuto equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra.

Riportiamo qui l'intera Lettera Ultimatum dell' Austria
del Conte Buol al Conte Cavour
( con risposta )

"Vienna, 19 aprile 1859.

Signor Conte,
Il Governo imperiale, come Vostra Eccellenza conosce, si è affrettato a consentire alla proposta del Gabinetto di Pietroburgo per riunire un Congresso delle cinque Potenze onde cercare di appianare le complicazioni sorte in Italia. Convinti tuttavia dell’impossibilità d’intavolare (con qualche probabilità di successo) deliberazioni pacifiche in mezzo al rumore di armi e preparativi di guerra, che continuano in un paese limitrofo, noi abbiamo domandato, che l’armata sarda fosse ridotta sul piede di pace, e congedasse i corpi franchi, o volontari italiani, come condizione preliminare alla riunione del Congresso.
Il Governo inglese trovò questa condizione così giusta, e così uniforme alle esigenze della situazione, che non esitò punto ad appropriarsela, dichiarandosi pronta ad insistere, d’unita alla Francia, per il disarmamento immediato della Sardegna, ed offrirle in ricambio, contro ogni attacco da parte nostra, una garanzia collettiva, alla quale, come ben s’intende, l’Austria avrebbe fatto onore.

"Il Gabinetto di Torino, sembra aver risposto con rifiuto all’invito di mettere la sua armata sul piede di pace, ed accettare la garanzia collettiva promessale. Tanto più questo rifiuto ci rincresce profondamente, in quanto che, se il Governo sardo avesse consentito a questo attestato di sentimenti pacifici che gli si era chiesto, noi l’avremmo accolto come un primo sintomo della sua intenzione di concorrere da parte sua al miglioramento delle relazioni sventuratamente così tese tra i due paesi da qualche anno.
In questo caso, ci sarebbe stato permesso di dare col traslocamento delle milizie imperiali stanziate nel regno Lombardo-Veneto, una prova maggiore, che esse non sono state ivi raccolte per fini aggressivi contro la Sardegna. La nostra speranza, essendo stata delusa, l’Imperatore mio augusto padrone, si è degnato ordinarmi di tentare direttamente uno sforzo supremo per fare che il Governo di Sua Maestà sarda abbia a recedere nella decisione nella quale sembra essersi impigliato. Tale è lo scopo di questa lettera.

"Io ho l’onore di pregare di volerne prendere il contenuto nella più seria considerazione, e farmi sapere se il Governo reale consenta si o nò a mettere, senza indugio, la sua armata sul piede di pace, e licenziare i volontari italiani. Il porgitore della presente, al quale vi compiacerete dare risposta, ha ordine tenersi all’uopo a sua disposizione per 3 giorni. Scaduto questo termine, se non riceve risposta, ovvero, se questa non fosse soddisfacente, la responsabilità delle gravi conseguenze che trascinerebbe questo rifiuto, ricadrebbe interamente sul Governo di Sua Maestà sarda. Dopo avere esauriti invano tutti i mezzi concilianti per procurare ai suoi popoli la garanzia della pace, sulla quale l’Imperatore è nel diritto d’insistere, Sua Maestà dovrà, con suo grande rammarico, ricorrere alla forza delle armi per ottenerla.

"Nella speranza, che il riscontro da me aspettato, sia conforme ai nostri voti, tendenti al mantenimento della pace, colgo questa occasione, signor Conte, per reiterarle le assicurazioni dalla più distinta considerazione.

Buol
Vienna, 19 aprile 1859.


Per Cavour, quel giorno fu uno dei più felici della sua vita. Diede convegno agli inviati per il 25 aprile, quindi telegrafò a Parigi il testo dell'ultimatum, chiedendo all'Imperatore l'invio immediato di almeno cinquantamila uomini, e rispose a Buol come si doveva.

CAVOUR consegnò agli inviati austriaci una lettera per il conte Buol, nella quale giustificando la condotta del Regno di Sardegna, lasciava all'Austria la responsabilità delle sue azioni. Consegnata la risposta negativa, il grande statista, andando incontro agli amici che aspettavano in anticamera, disse:
"Alea jacta est. Abbiamo fatto della storia ! ".

Ed ecco il testo:

" Torino, 26 aprile 1859
Signor Conte,
Il Barone Kellersperg mi ha consegnato, ai 23 corrente, alle 5 e ½ di sera, la lettera che Vostra Eccellenza mi ha fatto l’onore di diriggermi, per dirmi, a nome del Governo imperiale, di rispondere con un si, o con un nò, all’invito fattoci di ridurre l’armata sul pié di pace, e di sciogliere i corpi formati di volontari italiani; aggiungendo, che, se a capo di tre giorni V. E. non ricevesse risposta, o se questa non fosse soddisfacente in tutto, S. M. l’Imperatore d’Austria era deciso ricorrere alle armi per imporci con la forza le misure che formano oggetto della sua comunicazione.
— La questione del disarmamento della Sardegna, che costituisce il fondo della domanda, che V. E. mi dirige, ha formato l’oggetto di numerose negoziazioni tra le grandi Potenze e il Governo di Sua Maestà. Queste negoziazioni mettono capo a una proposta formulata dall’Inghilterra, alla quale hanno aderito la Francia, la Prussia e la Russia. La Sardegna, con uno spirito di conciliazione, l’ha acettata senza riserva, né secondi fini. Poiché V. E. non può ignorare né la proposta d’Inghilterra, né la risposta della Sardegna; così io nulla saprei aggiungere per far conoscere le intenzioni del Governo del Re, in quanto alle difficoltà che si opponevano alla riunione del Congresso.

"La condotta della Sardegna in questa circostanza è stata apprezzata dall’Europa. Quali che possano essere le conseguenze da derivarne, il Re, mio augusto Signore, è convinto che la responsabilità ne ricadrà su coloro che sono stati i primi ad armare, che hanno rifiutato le proposte formulate da una grande Potenza e riconosciute come giuste e ragionevoli dalle altre; e che intanto vi sostituiscono una minacciosa intimazione.

"Colgo questa occasione per reiterarle, signor Conte, le assicuranze della mia più distinta considerazione.
CAVOUR
[Annuaire des Deux Mondes, 1859, pag. 974]


Già lo stesso giorno 25 il Senato e la Camera aveva già votato quasi all'unanimità (110 voti favorevoli, 24 contrari e 2 astenuti) il disegno di legge per la concessione dei poteri straordinari al governo del Re, e il giorno stesso fu pubblicato il seguente decreto:

"Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato;
Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Art. 1.° In caso di guerra coll'Imperatore d'Austria, e durante la medesima, il Re sarà investito di tutti i poteri legislativi ed esecutivi, e potrà sotto la responsabilità ministeriale, fare per decreti reali tutti gli atti necessari alla difesa della patria e delle nostre istituzioni.
Art. 2.° Rimanendo intangibili le istituzioni costituzionali, il Governo del Re avrà la facoltà di emanare disposizioni per limitare provvisoriamente, durante la guerra, la libertà della stampa e la libertà individuale.
Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella Raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Dato a Torino il 25 aprile 1859.
VITTORIO EMANUELE - CONTE CAMILLO CAVOUR

Inizia così la II Guerra d'Indipendenza Italiana !
E indubbiamente in Austria non ci si aspettava un secco NO.

Infatti, scaduto il termine del 27 aprile, i soldati austriaci, comandati da GYULAI, avrebbero dovuto varcare immediatamente il Ticino. Ma gli ordini dati al maresciallo da Vienna non erano stati molto chiari.

Infatti la parte militare fu eseguita con esitazione e malavoglia. Inoltre, Gyulai ricevette l'ordine di "non procedere all'attacco, ma aspettare istruzioni telegrafiche da altissimo loco" perfino "nel caso in cui, trascorso il termine di tre giorni fosse arrivata una risposta negativa". Gyulai trova tutto ciò sgradevole da ogni punto di vista, e dichiara "di non riuscire a spiegarsi tale inaudita leggerezza e superficialità degli alti diplomatici" e aggiunse "Se uno di noi facesse il servizio in questo modo lo si dovrebbe radiare dai quadri"
(Lettera di Gyulai ad Alessandro d'Assia, copia della lettera nel suo diario, in data 27 aprile 1858 - Archivio castello di Walchen).

Gyulai è convinto che la Prussia pianti in asso l'Austria. Intanto l'esercito austriaco in Italia aspetta in silenzio. Anzi, apprende, da una lettera autografa secca del sovrano- che l'Arciduca Massimiliano, è stato silurato e va ad assumere il comando della flotta.
In queste condizioni, Gyulai trascura di fare l'unica cosa giusta che dovrebbe fare un generale: prevenire il collegamento dei Piemontesi con i Francesi (che stanno entrando in Italia) e battere i primi isolatamente per poi affrontare i secondi. Esita, perde tempo, e perde tutte le occasioni che gli si presentano.
Quando finalmente si decide di agire, il 30 aprile, sul Ticino. Poi dopo Magenta (4 giugno), da Vienna gli giunge il seguente telegramma "Dato lo stato attuale delle nostre cose, abbandonare Milano, ritirarsi verso l'Adda, il teatro di guerra meglio indicato è…sul Mincio".
I comandanti delle singole unità sono furenti, Gyulai lo sa e si lamenta con l'Assia.
Inizia lo scarica barile; Benedeck inveisce contro chi comanda questa campagna; e chi la comanda inveisce contro Vienna.
Anche il principe D'Assia annota nel suo diario il 1° maggio: "Chi ci capisce qualche cosa è bravo". (ib.)

Mentre Francesco Giuseppe continua ad aspettare che la Prussia si decida ad intervenire ("spero che forse la Germania e quella miserabile sconcia Prussia vengano, almeno all'ultimo momento in nostro aiuto" (lettera di F.G. alla madre Sofia, Verona 16 giugno 1859 - F. Schnurer - Briefe Kaiseran seine Mutter -Lettere di F.G. alla madre - 1838-1872 - pag, 214).

Con la Russia che resta in disparte, assiste alla guerra e non muove un dito; e la zarina
(sorella di Alessandro. D'Assia che opera in Italia con Gyulai) dà sfogo al suo odio per Francesco Giuseppe, "quello che si felicitò per primo la presa di Sebastopoli; è lontano dal cuore dello zar; ed è impensabile come appunto lo è, tale bassezza in un carattere nobile come il suo" .
(Lettera di Maria di Russia al fratello Alessandro D'Assia - 28 maggio 1859 - op. cit.)
Non poteva che finire per l'Austria come finì.

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(* 1 ) (* 2) - Riportiamo questi due documenti perché riassumono mirabilmente il modo di pensare e di agire dei repubblicani sì o no intransigenti di quell'epoca:
il primo è del mazziniano "Pensiero e Azione"
quello che segue la contestazione in "La Nazione"


(* 1 ) "Pensiero ed Azione"

« AGLI ITALIANI, DICHIARAZIONE.
"I sottoscritti (firma in calce) appartenenti tutti, indipendentemente da qualunque associazione ordinata, alla Fede Repubblicana, credono debito loro verso sé stessi e verso i loro fratelli di dichiarare pubblicamente la via che essi, e i loro amici, collocati dove ogni pubblicità é vietata, hanno fermo in animo di seguire nella crisi che sovrasta oggi all'Italia.
Lo credono debito loro tanto più sacro quanto più vedono, con dolore profondo, una frazione di uomini appartenenti alla stessa fede sviarsi, per illusioni onorevoli in sé, ma provato funeste, dalla via diritta e dalla bandiera: lo credono tanto più urgente quanto più, per male interpretazioni o per calunnie che disonorano la causa Italiana, i repubblicani corrono rischio di vedere travisate le loro intenzioni o esagerate le loro esigenze.
Nella supposizione più che probabile che una guerra s'apparecchi in Italia fra l'Austria da un lato, la Monarchia Piemontese e la Francia Imperiale dall'altro, i sottoscritti, Convinti:
- Che i popoli non si rigenerano e non si fanno Nazioni con la menzogna, ma con i Principii, con l'adorazione profonda del Vero e con la coscienza, coraggiosamente manifestata, del Diritto:
- Che l'Unità e la Libertà di un popolo oppresso e smembrato non si ottengono per concessione o per dono altrui, ma si conquistano con le opere attive e col sacrificio dei credenti in esse:
- Che una nazionalità non può fondarsi con le armi straniere, ma solamente con le battaglie degli uomini chiamati a comporla e rappresentarla:
- Che al disopra di ogni tattica, al disopra di ogni utile concerto, sta l'eterna inviolabile Moralità, sta il dovere assoluto di non tradire la fede nel Giusto e nel Vero, fondamento di ogni buona impresa e pegno della vittoria:
- Che rinunziando al principio morale sorgente del Diritto, un Partito uccide in sé l'avvenire, perde ogni titolo alla fiducia del popolo al quale appartiene e scade nell'opinione delle Nazioni alle quali deve allearsi.
Convinti
- Che senza Unità non vi é Patria.
- Che senza Sovranità Nazionale non vi é Nazione.
- Che senza Libertà, libertà vera e per tutti, non vi é Indipendenza.
- Che la Patria degli Italiani abbraccia quanto terreno si stende dal cerchio delle Alpi alle ultime spiagge della Sicilia.
- Che la Sovranità Nazionale consiste nella libera scelta, per voto dei cittadini, delle istituzioni che devono dar forma all'intima vita della Nazione.
- Che l'Indipendenza di un popolo non vive sicura nella mal fida, cupida e disonorevole protezione d'una tirannide straniera, ma nella virtù di quel Popolo, nella coscienza della propria forza e nell'alleanza fraterna dei Popoli che lo circondano.
- Che se un Popolo può, senza nuocere al suo Diritto, soggiacere per un tempo, non rassegnato e fremente, a una prepotenza di circostanze avverse, non può, senza restringere o indebolire davanti alle Nazioni quel suo Diritto, levarsi in armi con un programma dimezzato o diverso.
- Che se esso deve e può giovarsi, tacitamente e senza approvazione propria, di ogni mutamento impostogli, per movere innanzi d'un passo verso I' intento Nazionale, non può, senza danno, colpa e vergogna, sorgere a manifestazione solenne di sacrifici e battaglie con una bandiera che smembri quel sacro intento Convinti da ultimo, e in conseguenza di questi principii.
- Che ogni guerra nella quale gli Italiani combatterebbero in nome dell'Indipendenza separata dalla Libertà, non condurrebbe che a delusioni tremende e al subentrare di nuovi padroni agli antichi.
- Che ogni guerra nella quale gl'Italiani s'illuderebbero conquistare Libertà e Indipendenza sotto gli auspici o grazie l'alleanza di L. N. Bonaparte sarebbe colpa ad un tempo e follia: follia perché L. N. Bonaparte non può, senza suicidio, impiantare in Italia colle armi la libertà che egli affogava nel sangue in Francia: colpa perché l'alleanza col Dispotismo rinnega i principii che fanno giusta e santa la Causa d'Italia, rompe i vincoli di fratellanza coi popoli che facevano della Causa d'Italia una Causa Europea, e trascina la bandiera della Nazione dall' altezza di un "Diritto al fango" di un "egoismo" locale: colpa, e gravissima, perché L. N. Bonaparte, mirando a riconquistare in Francia l'opinione che gli cresce avversa ogni giorno più e ad affascinare colla gloria e gli acquisti territoriali e menti vogliose di libertà,
non disegna di scendere in Italia fuorché per acquistarvi compensi di terreno agli aiuti, impiantarvi un ramo della dinastia, e verificare l'idea napoleonica che il Mediterraneo deve essere un "lago" francese.
- Che tra i combattenti per la Patria Italiana e L. N. bonaparte sta, protesta incancellabile, eterna, il sangue di Roma.
- Che dove al grido di fuori gli Austriaci ! non sia sostituito il grido di fuori gli stranieri, la guerra non é né può riuscire Nazionale
- Che la guerra non può, se aggiogata all'alleanza e ai disegni di L. N. Bonaparte, avere per fine o risultanza l'Unità d'Italia, esosa alle di lui mire ambiziose e da lui dichiarata impossibile.
- Che il levarsi a insurrezione e guerra per una sola frazione d'Italia lasciando le altre frazioni alla tirannide, al mal governo e allo smembramento, sarebbe un tradire onore. Patria, giuramenti e avvenire ad un tempo.
- Che un'alleanza della Monarchia Piemontese con L. N. Bonaparte produrrebbe inevitabilmente una coalizione Europea contro la Causa patrocinata, per fini di conquista, da lui, e che la sola probabilità d'alleanza siffatta ha già rapito all'Italia gran parte del favore che l'Europa intera le dava:
Dichiarano:
- Che se la guerra Italiana s'iniziasse diretta e padroneggiata da L. N. Bonaparte o alleata con lui, essi s'asterrebbero, deplorando, dal parteciparvi.
- Che, in quanto riguarda la Monarchia Piemontese, la questione dell' oggi non é per essi questione di Repubblica, ma di Unità e Sovranità Nazionale:
- Che, serbandosi diritto di voto e di pacifico apostolato, essi pronti oggi, come sempre furono a sacrificare il trionfo immediato della loro fede individuale al bene e all' opinione dei più, seguirebbero sull' arena la Monarchia Piemontese e promuoverebbero con tutti i loro sforzi il buon esito della guerra, purché tendente in modo esplicito all'Unità Nazionale Italiana:
- Che, partecipi tutti in passato, con le opere, con il consiglio, o con il braccio, nella guerra Italiana contro il dominio usurpato sulle loro terre dall'Austria, dovunque si combatterà per liberarle, essi pure combatteranno; ma che traditi nel 1848 sul terreno, accettato allora solennemente, che oggi ripropongono, hanno diritto di mantenersi indipendenti nella loro condotta, e non assumersi obblighi fuorché col paese fino a che non abbiano pegno non dubbio della condotta governativa.
- Che anche ottenuto pegno siffatto e accettata quindi da essi la guerra che la Monarchia inizierebbe, essi protesterebbero contro ogni proposta di Dittatura regia come negazione della vita del paese alla quale toglierebbe ogni via di manifestarsi, pericolosa per il dispotismo che essa può preparare, funesta alla guerra che non può vincersi senza chiamare in atto con l'entusiasmo collettivo, con la stampa, con le associazioni, con i discorsi pubblici, tutte le forze della Nazione.
- Che Italiani e credenti nella Libertà Nazionale come in diritto inalienabile e mezzo unico di costituire, senza tirannide di una parte sull'altra, la Patria, essi guardano con amore al Piemonte come a nobilissima provincia d'Italia chiamata da circostanze propizie a una gloriosa iniziativa, salutano con fiducia il suo popolo come popolo di fratelli ; ma che parrebbe ad essi di far oltraggio al Piemonte stesso se essi potessero mai accettarlo come Padrone; e che quindi non ad esso, ma al popolo d' Italia intero, emancipato il paese, spetta di statuire legalmente e liberamente intorno alle sorti della Nazione.
- Che abborrendo egualmente dall'Austriaco in Lombardia, da ogni altro straniero armato in Roma e su qualunque altro punto d'Italia, amando d'uno stesso amore l'Italiano di Sicilia e l'Italiano delle terre Alpine, essi vogliono ed anelano guerra; bensì non guerra di schiavi; non guerra di medio-evo contro un nemico straniero a pro di un altro, non guerra per una sola frazione d'Italia, non guerra per un mero ingrandimenti dinastico, ma guerra di liberi, guerra di tutti per tutti , guerra in nome di un Principio Nazionale riconosciuto sacro in Europa, guerra di Popolo che, fedele alla tradizione dei suoi Grandi d'intelletto e dei suoi Martiri, vuole conquistarsi una Patria, una Bandiera, un Patto Sociale comune.

"Queste cose dichiarano, profondamente convinti che ogni guerra non iniziata per questo fine, non avviata su questi principii , condurrebbe l' Italia a sacrifici di sangue inutili e tornerebbe in disfatte e vergogne. Profondamente compresi d'un senso d' immensa e solenne responsabilità, che pesa, nella crisi presente, sugli Italiani, essi proclamano ai loro fratelli in nome dei morti per essi, in nome dei tremendi insegnamenti dati ad essi dal passato, in nome dell'avvenire, la necessità di stringersi intorno i principii contenuti nella presente Dichiarazione: - la necessità di iniziare popolarmente la lotta in nome e per conto della Nazione;
- la necessità, se mai l'iniziativa venisse d' altrove, d' imporre agli iniziatori, con una manifestazione universale, il programma della Nazione, e di sostituire ad ogni altro grido l' unico grido di:
Viva l'Italia ! Viva la Patria Una ! Viva la Sovranità Nazionale !
Ascoltati o no, essi sanno d'adempiere, con questa Dichiarazione, ad uno dei più sacri doveri che spettino ad uomini e ad Italiani.
Londra, 28 febbraio 1859."
(Pensiero ed Azione, 1° marzo 1859)

I firmatari erano i seguenti : Chiarini M. - Biagini Alessandro. - Saffi Aurelio. - Palestini Leopoldo. - Campanella Federico. - Libertini Giuseppe. - Montecchi Mattia. - Agneni Eugenio. - Quadrio Maurizio. - Crispi Francesco. - Mario Alberto. - Bonetti Enrico. - Rossi Nicola. - Guastalla Enrico. - Mazzini Giuseppe. - Barella Pietro. - Caselli D. - Samorino Dionigio. - San Giorgi Pasquale. - Zanoni Domenico. - Melandri Vincenzo. - Lama Domenico. - Ridaelli R. - Angeloni Giuseppe. - Vezzali Antonio. Conforti Giovanni. - Bendi Achille. - Vai Celestino. - Mosto Antonio. - Pilo Rosalino. - Bernieri Cesare. - Caraccio Andrea. - Giussani Gioachino. - B. Bellini Pietro. - Regalini A. - Fassola Giov. - Bianchini Antonio. - Zanchini Nicola. - Merighi Cesare. - Bareggi Luigi. - Pepino Giuseppe. - Caraccio Michele. - Pretelli Achille. - Valeriani Enrico. - Bortolotti Raffaele. - Bertone Carlo. - Mageri Giovanni. - Bezzi Angelo. - Bolgia Andrea Cicetta. - Piazzi P.. - Murianelli Domenico - Nadali Pietro. - Giussani Giuseppe. - Geninozzi Giacomo. - Pini Antonio. - Poroni Luigi. - Blassi Guido. - Cicognani Lino. - Colognese Giuseppe. - Murray Edoardo. - Muschialli Giuseppe. - Caraccio Giovanni. - Chierici Enrico. - Massarenti Gaetano. - Bortolotti Angelo. - Tomasini E. - Cellini Terenzio. - Buonacuore Cristoforo.

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(* 2)
Segue la risposta pubblicata nella Nazione:

"Riportiamo anche oggi la tanto sospirata chiamata dei contingenti. Non sappiamo precisamente e rigorosamente a cifre quante saranno le forze che in virtù di questa chiamata formeranno la nostra armata; né, sapendolo, lo vorremmo dire; però sappiamo abbastanza di certo, che lo Stato nostro può far di più e assai di più.
Scongiuriamo il Governo a imprenderne la militare organizzazione senza darsi fastidio di quanti inconvenienti possa mai altri vedervi, e senza preoccuparsi troppo timidamente del dare le armi a chi le meschine passioni politiche o le mal celate gelosie raffigura ed ingrandisce, come partito eventualmente o mascheratamente avverso.

" Il paese é, quanto importa, unanime nel volere quello che il Governo ha fatto credere alla Nazione Italiana, ed esplicitamente ha dichiarato a noi per bocca di chi può governare i provocati eventi, di voler fare ad ogni costo; parato ad ogni sacrificio. Che se vi é pericolo di dissidio, non può farsi serio, che quando il Governo o arrestato da uomini di piccole vedute, o incerto nel lanciarsi nella guerra con tutti i mezzi, accennasse a misure meno energiche ed al disotto però della volontà della Nazione e della salvezza nelle sue circostanze supreme.
Se noi non vinciamo questa volta, passeranno chi sa quanti anni ancora attraversa al martirio di delusioni e di sangue, ed alla irrisione dell'Europa, prima che si possa intraprendere il difficile cammino che porta alle Alpi passando per Verona.

" Noi, senza nulla rinunciare per l'avvenire, senza farci schiavi di nulla, come già dicemmo, siamo disposti ad accordare un'importanza molto secondaria a tutte le altre questioni, perché noi crediamo di raggiungere questo scopo anche per la strada sulla quale ci siamo messi, e su cui persevereremo.
Abbiamo l'altro ieri riportato dal giornale repubblicano Pensiero ed Azione la sua dichiarazione, espressamente per far atto di giustizia, riconoscendo in tutti ed ammettendo volentieri negli antichi nostri amici politici il diritto di dire e discutere il loro modo di vedere nelle attuali condizioni italiane; né riportammo quell'atto importante per farvi adesione, come taluno per avventura ha creduto potere sospettare; questo modo indiretto e per sbieco non essendo né del carattere nostro, né stando con le nostre formali dichiarazioni.

" Noi rispettiamo gli uomini che dettarono quell' atto come quelli sotto gli ordini dei quali abbiamo combattuto contro, stranieri invasori: noi c'inchiniamo dinanzi a patrioti di quella tempra, però se noi indipendenti e fidenti persistiamo nella nostra via, incoraggiata dal voto di molti, noi lo diciamo franco ed aperto. Per quanto possa essere diversa la strada che percorrono questi antichi amici, non mai una parola uscirà dalla nostra bocca che suoni offesa contro essi. Che se vedono e giudicano diversamente da noi, e contro noi, amano come noi amiamo l'Italia, e lo hanno generosamente provato.

" Non é dunque da chi ami l'Italia, da chi la vuol libera da stranieri, da chi vuol la Nazione unita e forte, che il Governo del Piemonte possa aver fastidio di sorta, quando energicamente voglia raggiungere la meta da tutti desiderata. Non ne avrà dunque mai quando largamente e seriamente organizzi tutte le forze vive che sono in Italia alla sua portata. L'intervento straniero, se non si può accettare volentieri da principio da uomini di convinzione, é cosa che viene con l'approfondire la questione militare, e presto o tardi tutti comprendono che a vincere l'Austria non bastiamo per ora da soli, impediti certo dall' appigliarci a certi mezzi che la sola disperazione consiglia ai popoli.

" Oggi, per esempio, noi non sappiamo vedere come uomini d'alta intelligenza non comprendano che il solo Governo del Piemonte non potrebbe che tenersi sulla difensiva e difensiva negativa. Dire al Governo: smantellate Alessandria e Casale, rinchiudetevi a Genova con tutto l' esercito, e date la mano alla rivoluzione, spingetela fino alla ferocia, per poi sbucar fuori con l'esercito, che, ingrossato, si rovescerà sul Po a battaglia finale... é domandar l'impossibile.

" Ma si dice: Napoleone si muove padrone per sue vedute di conquista, e voi sarete schiavi. Noi diciamo invece: armiamoci tutti, e appoggiati all'esercito con il Re alla testa, battiamoci uniti con qualunque alleato ci venga in aiuto, il resto lo dirà l'avvenire. Quello che i nostri amici dimenticano é che battendoci con l'Austria possiamo essere vinti che bisognerebbe riordinarci. Come lo faremo col solo Piemonte davanti a 200 mila Austriaci vincitori ben appostati sull'Adige, con le comunicazioni e vie ferrate sicure?
Quando la Francia non fosse qui trascinata a combattere per propri interessi, sarebbe una nostra necessità; e ben fece chi seppe, giovandosi delle condizioni attuali europee, procurarsela ed avvincere così ai nostri destini quella potente e bellicosa Nazione, che sta dietro l'uomo che ora la comanda.

"Una sola cosa ci dava fastidio fin qui, ed era il disarmo del paese. Noi non comprendiamo alleanza fra deboli e forti; - fra deboli e forti non vi é che servo e padrone. E per questa stessa ragione diciamo al Governo: Voi avete un esercito valoroso, e sta bene; ma non dovete tralasciare di ordinare tutte le forze che avete alla vostra portata in Italia. Da tutti i combattenti del 1848 e 49 potete avere dei buoni quadri entro cui rinchiudere e i volontari che accorrono, e tutti gli elementi che una leva suppletiva nello Stato vi può dare. Sono 27 mila uomini che sono esentati dall' esercito annualmente: non tutti saranno buoni, ma una buona metà saranno sempre qualche cosa, e questo per un solo anno.

"Tutto deve tacere davanti a questa lotta per la nostra esistenza e per il nostro onore. L'Austria non si é tenuta fin qui in diverso modo. Sono 144 milioni all'anno che l'Austria succhia dal Lombardo-Veneto per tenerla schiava, e 120 mila soldati che ci strappa e li tiene in questo momento a fare i suoi birri nei lontani paesi della monarchia. Vogliano fare noi, per rivendicarci ad indipendenza, meno di quanto sa fare l'Austria per tenerci soggetti?"

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SOCIETÀ NAZIONALE ITALIANA
INDIPENDENZA UNIFICAZIONE

(Istruzioni segrete)

"Nelle stato attuale delle cose italiane la Presidenza crede suo dovere di diramare le seguenti segrete istruzioni:
1° - Incominciate le ostilità tra il Piemonte e l'Austria, voi insorgerete al grido di Viva l' Italia e a Vittorio Emanuele: Fuori gli Austriaci !
2.° - Se l' insurrezione sarà impossibile nella vostra città, i giovani adatti alle armi usciranno e si recheranno nella città vicina, dove l'insurrezione sia già riuscita, o abbia probabilità di riuscire. Tra le varie città vicine, preferirete quella che é più prossima al Piemonte, dove debbono far capo tutte le forze italiane.
3.° - Farete ogni sforzo per vincere e disordinare l'esercito austriaco, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, abbattendo i telegrafi, incendiando i depositi di vestiari, vettovaglie, foraggi, tenendo in ostaggio cortese gli alti personaggi al servizio del nemico e le loro famiglie.
4.° - Non sarete mai i primi a tirare contro i soldati italiani o ungheresi (oggi agli ordini degli austriaci); anzi adoprerete con essi tutti i mezzi per indurli a seguire la nostra bandiera, ed accoglierete come fratelli coloro i quali cederanno alle vostre esortazioni.
5.° - Le truppe regolari che abbracceranno la causa nazionale, verranno subito inviate in Piemonte.
6.° - Dove l' insurrezione trionfi, la persona che più gode la stima e fiducia pubblica assumerà il comando militare e civile con il titolo di Commissario Provvisorio per il re Vittorio Emanuele e lo terrà fintanto che non giunga un apposito Commissario spedito dal Governo piemontese.
7.° - Il Commissario Provvisorio dichiarerà aboliti i dazi, che potrebbero esistere sul pane, sul frumento e sulla macinatura, i testatici, le tasse di famiglia, ed in generale tutti gli aggravi che non esistono negli Stati Sardi.
8.° - Conscriverà nella ragione di 70 per mille di popolazione i giovani dai 18 ai 25 anni, e riceverà come volontarii quelli dai 26 ai 35 anni che volessero prendere le armi in favore della indipendenza nazionale; ed i coscritti e i volontari manderà subito in Piemonte.
9.° - Nominerà un Consiglio di guerra permanente per giudicare e punire entro 24 ore tutti gli attentati contro la causa nazionale e contro la vita e le proprietà dei pacifici cittadini. Non userà alcun riguardo né a grado né a ceto. Nessuno potrà essere condannato dal Consiglio di guerre per fatti politici anteriori alle insurrezione.
10.°- Non permetterà la fondazione di circoli e giornali politici, ma pubblicherà un bollettino ufficiale dei fatti che importa recare alla conoscenza del pubblico.
11.° - Toglierà d'ufficio tutti gl'impiegati e magistrati avversi al nuovo ordine di cose; procedendo però con molte oculatezza e prudenza, e sempre in vie provvisoria.
12.° - Manterrà la più severa ed inesorabile disciplina nello milizie, applicando ad esse, qualunque sia la loro origine, le disposizioni delle leggi militari in tempo di guerra. Sarà inesorabile con i disertori, e darà ordini severi in proposito e tutti i suoi dipendenti.
13.° - Manderà al re Vittorio Emanuele uno stato preciso delle armi, munizioni, denari del pubblico che si troveranno nelle città o province, ed attenderà i suoi ordini in proposito.
14.° - Farà occorrendo requisizioni di denari, cavalli, carri, barche, vino, ecc., rilasciandone sempre la corrispondente ricevuta; ma punirà colle pene le più severe chi si attentasse di fare simili requisizioni senza evidente necessità, e senza suo espresso mandato.
15.° - Sino a che il caso previsto nel 1.° articolo di queste istruzioni non si avvererà, voi userete tutti i mezzi che sono in poter vostro per manifestare l'avversione che sente l'Italia contro la dominazione austriaca, ed i governi infeudati all' Austria, il suo amore per l'indipendenza, la fiducia che ripone nella Casa di Savoia e nel Governo piemontese; ma farete di tutto per evitare conflitti e moti intempestivi ed isolati.
Per il Presidente
Torino, 1.° Marzo 1859.
Il vicepresidente ,
GIUSEPPE GARIBALDI.
Il segretario,
GIUSEPPE LA FARINA.

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