QUARANTATREIESIMO CAPITOLO

CAPITOLO QUARANTATREIESIMO
A PALERMO
Difficoltà di espugnare Palermo armata fortemente all'interno e custodita di fuori dalla flotta, dal Castello e da 16 mila soldati accampati a Monreale e a Parco. - Progetti di Garibaldi per distrarre l'attenzione e le forze del general Bosco. - Stratagemmi riusciti. - Dal convento di Gibilrossa muove all'assalto della città. - Espugnazione del Ponte dell'Ammiraglio. - Morti e feriti. - Entrata. - Proclama di Garibaldi. - Barbarie e ribalderie dei soldati regi. - Espugnazione di Porta Macqueda. - Rinforzo di bavaresi da Napoli. - Breve armistizio chiesto dal Lanza. - Il general Bosco lo viola. - Conferenza di Garibaldi con i generali Letizia e Chretien presso l' ammiraglio inglese. - Il Lanza, visto impossibile di continuare la lotta, ha dal re il permesso di sgombrare e consegnare la città. - Primi atti di Garibaldi dopo la totale liberazione. - Affida ad Alberto Mario la fondazione di un collegio militare.


L'assedio al porto di Palermo
(la cartina in grande nei dettagli, a fondo pagina)

Giunto ad Alcamo il giorno dell'Assunta, fra' Pantaleo convinse Garibaldi ad entrare nella chiesa per ricevere la benedizione; era la prima volta di sicuro che il Nizzardo di propria volontà fece un atto simile; - ma che cosa non avrebbe fatto e sacrificato per il bene dell'Italia!
Fu a Partinico il 18 e di lì a Passo di Renna, da dove contemplò estatico Palermo cinta dall' ineffabile bellezza della sua Conca d'oro, custodita dalle montagne che le fan corona e dalla maestosa abbazia di Monreale.
Come penetrarvi? Ecco il gran pensiero. Tutte le strade conducevano a Palermo, ma quale poteva assicurarne l'entrata?

Il general borbonico Bosco con una colonna mobile di 8000 uomini occupava Monreale, e a Garibaldi non solamente premeva che di qui lui non si muovesse, ma neppure di attirarvi gli altri 8000 borbonici che tenevano il campo a Parco; e questo perché, deciso a non assalire Palermo dal lato occidentale, ma dal meridionale; ma qui quelli di Parco gli impedivano la sua mossa obliqua per Piana dei Greci a Misilmeri.
Importava soprattutto ingannare Bosco intorno a questo suo progetto, anzi fargli sospettare la sua intenzione di congiungersi con le bande di Pilo e di piombare assieme sopra Monreale, e di là sulla capitale. Fa dunque accendere grandi fuochi al di sopra di Monreale in linea concentrica dal monte fino all'abbazia di S. Martino, dove Pilo era già venuto alle mani
con i regii; conduce personalmente una accurata ricognizione fino a Pioppo, poi, visto che Bosco era caduta nella rete tanto da richiamare in fretta i suoi 8000 da Parco, ecco che fa una rapida contromarcia da Pioppo a Renna. E sapendo Pilo attaccato, aveva staccato un drappello di carabinieri genovesi per respingere i regii, ordinando a Pilo di ritirarsi e di stare sulla difensiva: poi distende sottili linee di picciotti su tutti i colli illuminati per far credere al nemico di essere fronteggiato da forze formidabili.

Ecco dunque il generale borbonico e il duce dei Mille a tu per tu: il primo che vuole, con alle spalle le mura de Palermo, impedirgliene l'entrata; il secondo, risoluto di aprirsene il varco senza dargli il gusto di una battaglia.

Pilo, respinti i regii con l' aiuto del drappello genovese, si attenne scrupolosamente alle istruzioni ricevute, ritirandosi poco distante da S. Martino a Vallecorta. Egli aveva appena scritto il dispaccio a Garibaldi e una lettera alla donna del suo cuore: "Stasera mi congiungo con Garibaldi se le palle mi rispettano", quando una palla lo colse proprio in fronte, e quel cuore di fanciulla, quell'anima di eroe aumentò le gesta de' martiri pionieri che dai Bandiera a Pisacane tracciarono la via crucis della redenzione italiana.
Come a Mosé gli arrise la vesta di Pisgale della terra promessa; più avventuroso di Pisacane, Pilo morì con la certezza della vittoria.

La notte tra il 21 e il 22, nulla di nuovo. Raddoppiate i fuochi sui colli, Garibaldi ordina alle squadre di ritirarsi verso Partinico e di attirare il nemico all'ovest dell'isola. Bosco per la seconda volta cadde nella rete; si getta sulle squadre in fuga con due colonne, mentre Garibaldi conduce le sue gente piombando su Parco ove giunge la mattina del 23 senza cannoni e con una compagnia di meno, tanto era aspra la via corsa in quelle tenebre sotto una continua pioggia!

Il Generale serenamente manda i contadini in cerca degli uomini e dei cannoni smarriti, e tutto giunge per mezzogiorno. Gli esploratore regi avvertono Bosco che gli italiani e Garibaldi sono schierati in ordine di battaglia dietro i picciotti in cima alle colline.
Bosco, risoluto di farveli scendere, li attacca e i picciotti si ritraggono su Partenico e Calatafimi. Qui giunto, ode che Parco é occupata; ma si consola ritenendo gli occupatori essere solo un corpo isolato! Però ritorna con 8000 nomini e si convince che mentre lui tratteneva Garibaldi alla sua destra, questi gli si era formidabilmente accampato sulla sinistra.
Altro ché fuga!

Affrettate su Parco le rimanente schiere di Monreale, Bosco mandò a Palermo richiesta di rinforzi, ripromettendosi con 10.000 uomini riuniti di schiacciare l'audace - avvolgendolo di fronte per ricacciarlo a Parco, da Peana dei Greci alle spalle, - e con le truppe fresche di Palermo lì seppellirlo.

Garibaldi gli legge nella sua mente e sorride: leva il campo, spinge i fidi genovesi oltre, pare per arrestare la mossa dei regi: discende dal monte Calvario e accelera il passo verso Piana dei Greci e vi arriva 20 minuti prima dei regi, trattenute da un centinaio di combattenti condotti da Mosto che là perde il suo diletto fratello Carlo, mentre Messori con poche guide trattiene la destra della cima del monte.

Ecco Bosco davanti Peana con 10.000 uomini divisi in tre corpi, mentre Garibaldi l'aspetta serenissimo e certo del fatto suo.
Intanto, annottando, questi comandò al colonnello Orsini di ritirarsi a Corleone con i quattro cannoni, i carri, i bagagli ed i chiassosi picciotti, spargendo in gran disordine lungo la via scarpe, sacchi, ecc., quale segno di una precipitosa fuga.

Orsini esegue il movimento con abilità, ora tenendo testa, ora andando indietro. Coperto da Orsini e invisibile a Bosco, Garibaldi con i Mille si getta sulla sinistra, e attraverso foreste, e giù per valli, e su per i colli giunge a Marineo, guidato questa volta da esperti del luogo.
La notte dal 24 al 25 concede ai suoi il tanto necessario riposo al bosco del Pinnetto; ove sente tuonare a sud-ovest il cannone, e capisce che Orsini é impegnato con il nemico. -
Bosco con le precauzioni inspirategli dal santo timore di Garibaldi perseguita Orsini, convinto di aver di fronte il grosso del nemico.
Garibaldi, giunto a Marineo, graziosa città sulla cima di un monte, decide di procedere fino a Misilmeri. E mentre una parte dei borbonici é sicura d'inseguirlo verso Calatafimi, e un'altra parte verso Corleone, ecco Garibaldi al convento di Gibilrossa, dove, richiesto per la prima volta il parere de' suoi luogotenenti, si decise di scendere all'assalto di Palermo durante la stessa notte.
Ordinò le truppe e disse: "O domani a Palermo, o morti!".

Affidò a Tückory le guide; tenendo con se Missori, lasciò a La Masa i suoi 2000 picciotti, e a Santanna altri 600. Pose Bixio alla testa del primo battaglione, Carini del secondo; poi col suo piccolo stato maggiore per i tortuosi sentieri detti dei "Ciaculli" arrivò sulla strada militare.
Quindi mosse in tre colonne il piccolo esercito, egli a capo di quella del centro, le altre due parallele lungo i campi. Ordini rigorosi aveva dato di procedere lentamente e in silenzio, non volendo giungere a Palermo se non all'alba.

Da persone fidate giunte da Palermo Garibaldi ebbe i più minimi particolari intorno alle forze nemiche in città dislocate, e seppe che al ponte dell'Ammiraglio si trovavano gli avamposti; che Porta Termini era barricata e occupata da un forte nerbo di uomini; e dietro di essa un altro grosso distaccamento; altra barricata a porta S. Antonio, fornita di due pezzi di artiglieria posti in modo da poter spazzare tutta la strada, che la congiunge con porta Termini: mentre la riserva, era a Fiera Vecchia.

Alle due dopo mezzanotte la colonna partì da Gibilrossa coll'avanguardia, le guide e sessanta dei Mille con sei siciliani, indi 2000 picciotti sotto La Masa; Bixio col primo battaglione di 300; Garibaldi con il suo stato maggiore; Carini con il secondo battaglione di 350; Sant'Anna con altri 500 picciotti.

L'ordine di Garibaldi a Tuckory fu di sorprendere il posto di sostegno al ponte dell'Ammiraglio in silenzio; e lui di fatto ci sarebbe riuscito senza colpo ferire precipitandosi d'improvviso sul nemico, se le grida dei picciotti che al primo apparire delle prime case presero a urlare Viva l'Italia! Viva Garibaldi! e a tirar fucilate, non avessero allertato i Borbonici, ai quali, fatta una scarica a bruciapelo, vennero subito in aiuto i rinforzi di porta Termini.
I picciotti si scompigliano gettandosi a destra e a sinistra nei giardini; onde Tückory e i suoi 60 restano soli contro 1500! Bixio vola in aiuto col suo battaglione, Türr conduce quello di Carini, mandato da Garibaldi con fra' Pantaleo a rimettere ordine fra le squadre, ed entrambi si precipitano sul ponte, ove caddero gravemente feriti Tuckory e i due fratelli Cairoli. Benedetto e Enrico; Canzio e i tre siciliani, Giuseppe, Lasquillio, Rocco la Russa, Pietro Inscritto.

Nullo a cavallo e a bandiera spiegata salta per il primo la barricata, seguito da Bixio, Damiani, Dezza, Menotti, Mosto, Bezzi, Manci, Tranquillini: la barricata é presa. Tutti i Mille e alcuni palermitani irrompono sui posti borbonici, penetrando fino a Fiera Vecchia, ove disperdono le riserve, e vi si stabiliscono. - Intanto Carini e Fuxa hanno riordinate le squadre a destra, Turr e Sirtori a sinistra per impedire che il nemico possa piombare da porta Sant' Antonio.

Garibaldi é a Palermo alle 6 antimeridiane circondato dai regii, é vero, ma ben risoluto a non più lasciarsene sloggiare. Manda i palermitani del suo seguito a suonare le campane a stormo e incarica Acerbi della costruzione delle barricate. Appena i cittadini sentono la chiamata delle campane, ecco che scendono in strada e dalle finestre piovono mobilie e materassi; e dalle scuderie si prelevano carrozze e carri, e le barricate sorgono come per incanto, tanto da far dire a Missori e altri milanesi: Sembrano tornate le cinque giornate.

Avendo espugnato più tardi il Quadrivio e il palazzo dell'Arcivescovado, Garibaldi piantò il suo quartier generale al Palazzo Pretorio, da dove emanò il seguente proclama in nome d'Italia e Vittorio Emanuele.

" Siciliani,
Il generale Garibaldi Dittatore a nome di S. M. Vittorio Emanuele Re d' Italia, essendo entrato in Palermo stamattina 27 maggio, ed avendo occupata tutta la città, rimanendo le truppe napoletane chiuse nelle caserme, e nel forte di Castellamare, chiama alle armi tutti i comuni dell'Isola, perché corrano nella metropoli al compimento della vittoria.
Dato in Palermo, oggi 27 maggio.
GIUSEPPE GARIBALDI. "

Audacia senza pari! Erano in 750 i superstiti dei Mille con 3000 picciotti contro 20.000 borbonici, forti di nove fregate, di arsenali, di artiglierie, con due fortezze formidabili, e caserme, le vie di mare e di terra libere per ricevere rinforzi e viveri e soccorsi d'ogni maniera. Il generale borbonico Lanza, pauroso, inetto e imbelle, non seppe di meglio che raddoppiare gli ordini ai bombardatori: ordini eseguiti zelantemente dal capitano Flores dell' "Ercole" (*); fiaccamente dal capitano Cossovich del "Partenope"; con indefessa alacrità dal comandante del "Castellamare". Atroce spettacolo per le navi straniere ancorate nel porto!
(*) Scrive il retro-ammiraglio inglese Mundy nell'interessante libro intitolato L'Annibale a Palermo e Napoli:
"I vapori borbonici di guerra costruiti nell' Inghilterra e armati con cannoni rigati aprirono fuoco nutrito e efficace. Il capitano Flores dell'Ercole fu fra tutti gli altri notevole nell'attacco e per il modo perfetto con cui manovrava il suo bastimento. - Girando pochi metri dalla prora dell'"Annibale", egli scaricava tutti i cannoni ad un tempo e alternativamente dalle sue fiancate su Toledo, infilando tutta quella magnifica contrada di Palermo che corre dalla marina al palazzo in linea diretta per quasi un miglio.
E appena il suo vapore deviava dal tiro, egli virava di bordo ripetendo il suo giro sotto la prora dell'"Annibale" vomitando fuoco sopra i suoi compatrioti, finchè l'oscurità mise fine a quello strazio spietato. (L'Annibale, p. 115).
Fui colpito invece dalla differente maniera di procedere del "Partenope", dove l'ufficiale di comando non diresse mai il suo fuoco sulla città. Sicchè quanto lui (il capitano Cassovich) venne a bordo a domandare un colloquio, lo ricevetti con una cordialità che non avrei potuto offrire al capitano Flores" (Idem, p. 117).

Palermo solcata dalle fiamme (nell'immagine di apertura) avvolta da denso fumo e densissima polvere è minacciata di estrema rovina. Ma né i liberati, né i liberatori vi badano, benché in quel giorno 2000 bombe e 3000 palle e razzi incendiari cadessero e si accertassero ufficialmente 537 cadaveri di non combattenti. - E frattanto i soldati del pio bombardatore rovinano la cattedrale, saccheggiano palazzi, l'Arcivescovo, Badia Nuova, rubando perfino i cibori e sperperando le ostie consacrate. Donne e fanciulli stuprati; vecchi e infermi trucidati negli ospedali: a ogni maniera di ribalderie s'abbandonarono quelle belve in forma umana.

L'indomani 28, tutti gli orrori del giorno antecedente si rinnovarono. Garibaldi, comprese che il vantaggio era per i Napoletani agire con le forze unite, quindi per dividerli prese d'assalto porta Macqueda (nell'immagine sopra) dividendo così in due l'esercito borbonico e isolando quello del sud da quello del nord.
Ad impedire poi che il Lanza, stanziato nel Palazzo Reale, potesse più oltre indicare con segnali al comandante della flotta le posizioni da colpire, che fino allora erano principalmente quelle del Palazzo Pretorio, Garibaldi fece ricorso ad uno stratagemma semplice ma altrettanto efficace. La strada che congiungeva il Palazzo Reale con la marina correva diritta: facili dunque le comunicazioni, come facile anche impedirle. E furono rotte con un grande telone, formato d'un sipario da teatro e di molti drappi di chiese, e steso di fronte da una ad altra casa delle più alte della contrada.

Questo semplice espediente colpì in tale maniera la fantasia dei borbonici, che stimavano seriamente Garibaldi protetto dal demonio. E visto che mentre tutto il quartiere intorno al Palazzo era distrutto da grosse bombe, mentre due sole eran cadute nel Palazzo stesso e poche nella piazza, Garibaldi, additando con lo scudiscio le schegge e le palle, disse sorridente al popolo: "Vedete che non sono per me !"

E non dovevano essere per lui, giacché quello scudiscio taumaturgo gli era stato dato da Santa Rosalia patrona della città e antenata del Generale, come stava ad attestarlo il casato di Sinibaldi della Santa, tramutatosi col volger degli anni in quello di Garibaldi. Così favoleggiava quel popolo dalla fervida fantasia; e il mito dura ancora.

Il 29 giunsero su due vapori i Bavaresi spediti come rinforzi borbonici da Napoli, onde il generale Lanza sospese a mezzogiorno il bombardamento per mandare due generali a conferire col. l'ammiraglio inglese a Lord de Hannibal e per ottenere che questi gli prestasse la bandiera inglese come protezione. Cosa rifiutata dall'ammiraglio, che acconsentiva soltanto di ricevere i generali, sempre che Garibaldi permettesse loro di passare le linee.

Capito il latino, il Lanza indirizzava una lettera umilissima con l'intestazione così scritta:
"Da Generale Lanza
a Sua Eccellenza Generale Garibaldi
Iimploro una conferenza e il passo libero per due generali dal Palazzo Reale alla Sanità."

Il pirata e il filibustiere, che era qui diventato ad un tratto Eccellenza, acconsente a patto che si faccia cessare immediatamente il fuoco, e l'ordine fu trasmesso ad entrambe le parti.
Se non che, entrati a porta Termini Von Mechel e Bosco reduci da Corleone, furiosi di essere stati delusi per ben tre volte da Garibaldi, senza badare a chi loro diceva dell'armistizio, fecero far fuoco a destra e a sinistra. Onde giunti Carini e Sirtori a porta Termini, il primo subì una ferita gravissima, il secondo una leggera.

Il general Bosco pochi giorni prima nell'uscir di Palermo aveva promesso di non rimettervi piede se non con su una picca la testa mozzata del brigante, ed ora invece tanto si disse e si fece da indurlo a presentarsi a Garibaldi, che sapeva di quella sua macabra vantata promessa.
Dopo lunga conferenza nel Palazzo Municipale, il Generale lo condusse ad una finestra che guardava sulla piazza, allora gremita di popolo esultante, e con urlo formidabile gridò al Bosco: "Piglia, pigliala ora la testa di Garibaldi!" .

Smorto come cadavere, Bosco si ritirò dal balcone, né più pensò a violare l'armistizio. Quell'armistizio fu intanto una vera fortuna per i liberatori perché al nemico, con 8000 uomini freschi e i Garibaldini affranti dalle fatiche, sarebbe stata forse facile una vittoria, almeno per il momento.
Garibaldi, approfittando di quel grande entusiasmo, disse al popolo che se tutti non si prestassero per erigere e difendere le barricate e fortificare la città, egli, terminato il tempo dell'armistizio, non risponderebbe più dell'esito.

A una deputazione, che venne per chiedere di capitanare i piemontesi, egli rispose: "Io di piemontesi non ne ho che due, e ve li darò quando ne avranno bisogno le vostre donne."
I due a cui alludeva avevano ciascheduno più di 60 anni. L' indomani, 1° giugno, Garibaldi, accompagnato da Crispi, nominato segretario di Stato, dal figlio Menotti e da Missori, si recò a bordo del "Hannibal" mentre vi giungevano pure i Generali borbonici Letizia e Chretien.
Data a Garibaldi la precedenza e ricevuti gli altri con i saluti d'onore dovuti al grado di ciascuno, furono condotti al camerino dell'ammiraglio, ove il generale Letizia, protestando contro la presenza dei capitani della squadra americana, francese e sarda, invitati dall'ammiraglio inglese, disse di essere venuto a negoziare con questo e non con Garibaldi in persona.

L' ammiraglio per tutta risposta disse di offrire il suo vascello come terreno neutro, e che non intendeva in qualsiasi modo sostituirsi a Garibaldi, cui erano dovuti tutti i riguardi e gli onori di un generale dell' esercito sardo.
Inghiottito questo amaro boccone, Letizia lesse ad alta voce gli articoli già preparati. Ai primi quattro Garibaldi acconsente. Il quinto proponeva che la municipalità redigesse e indirizzasse a S. M. il Re delle due Sicilia una petizione, in cui vi venissero esposti i veri desideri della città.

"No! - tuonò Garibaldi con voce vibrata - il tempo per le petizioni umili al Re e a chicchessia é passato e poi non c'é più municipio. - La municipalité c'est moi !".

Letizia protestava, e Garibaldi fulminandolo per il tradimento perpetrato con il far fuoco mentre sventolava la bandiera bianca; tradimento che era costato la vita al colonnello Carini e ad altri prodi, si disponeva a ritirarsi, quando con stupore di tutti, il generale umilmente ritirava il quinto articolo, mentre il sesto, che proponeva che le truppe potessero approvvigionarsi dal Castello, fu accettato.

Ritornato a terra, Garibaldi dal Palazzo Municipale disse al popolo, formicolante sulla piazza, d' avere ricusato patti disonorevoli in nome di Palermo. Il popolo, toccato nel suo debole e accesissimo di entusiasmo, gridò:
"Piuttosto la morte! Viva l'Italia una!"
A ciò Garibaldi rispose"
"Bravi! - e soggiunse che ognuno si preparasse alla lotta perchè - la tregua durerà sole 24 ore".

E il popolo vi si affrettò. In un baleno furono rizzati asserragliamenti, trasformate le case in piccoli fortini, sotto la direzione dei Garibaldini. In ultimo il re borbonico rifiutò la proposta di una convenzione trasmessagli dal Lanza, e comandò ai suoi di proseguire le ostilità fino agli estremi. Ma il Lanza si trovava ridotto a tale mal partito, anche a causa delle diserzioni e dei calmati spiriti dei suoi soldati, giudicando impossibile la continuazione della battaglia, chiese in aiuto Letizia al re.

E il giorno 5 tornò col permesso di sgombrare Palermo, di imbarcare il corpo del suo esercito e di consegnare i forti. Risibile era l'armamento delle truppe che avevano saputo ridurre in tale critica situazione il re di Napoli e i suoi orgogliosi generali. Quando si trattò di andare a prendere in consegna l'esercito borbonico per imbarcarlo, vennero incaricati, per ogni consegna di reggimento, 4 ufficiali scelti per lo più tra le guide, che l'accompagnassero all'imbarco.
La sciabola era un'arma di pochi fortunati: ne erano armati solo cinque in tutto un corpo. Onde accadeva che questi erano obbligati a prestarla ora all'uno, ora all'altro, in specie quando occorreva andare al Comando del Generale in capo dei regi a portare ordini, o per accompagnare gli ufficiali borbonici al generale Garibaldi. Pertanto gli esecutori di questi ordini bisognava che prima si mettessero in giro per requisire le sciabole !

Il primo atto di Garibaldi fu di liberare i sei patriotti imprigionati nel forte di Castellamare: il principe Pignatelli, il barone Riso, il principe Niscemi, il principe di Giardinelli, il marchese di S. Giovanni, ed il padre Ottavio Lanza. Scrisse quindi al dottor Agostino Bertani la seguente lettera, che qui riportiamo in autografo:


L'entusiasmo suscitato in tutta Italia da questa notizia trascese ogni limite; i giovani e anche gli adolescenti da tutti i luoghi cercavano di accorrere in Sicilia. Bertani, con la massima energia e rapidità, istituì Comitati di provvedimento in ogni città, ponendoli in comunicazione diretta con il Comitato centrale e con la cassa centrale in Genova, e qui affluivano i volontari per essere imbarcati. Ecco a tal proposito una seconda lettera del Generale al Bertani:


Medici, che dipendeva interamente da Cavour, sentendo che questi si opponeva ad una spedizione nell'Italia centrale, assunse il comando della seconda spedizione di 4000 uomini.
Garibaldi venne incontro a Medici fino ad Alcamo, né mai dimenticherò la sua cordiale accoglienza a mio marito (Alberto Mario) e a me (Jessie).
Cavour, dubitando di lui, con la più insigne ingiustizia, aveva inondata Palermo di agenti
suoi, duce La Farina; che cercò di diminuire anzi minare l'autorità di Garibaldi e promuovere l'immediata annessione dell'isola al regno di Sardegna. Ma Garibaldi furioso vi si oppose con vigore. Ben sapeva che accondiscendendovi, si sarebbe intromessa la diplomazia per impedire forse la liberazione della restante isola e certamente il passaggio sul continente.

Un giorno al suo padiglione al Palazzo Reale ci disse ridendo:
"Il conte di Cavour vi ha fatto l' onore di volervi consegnati dalle mie mani all'ammiraglio Persano per essere trasportati a Genova. Io per non essergli scortese gli ho rimandato il suo amico La Farina."

E difatti Garibaldi per decreto aveva scacciato La Farina, che troppo lo annoiava con le sue insidiose manovre annessioniste.
Chi non vide Garibaldi a Palermo perdette l'occasione di conoscerlo nel momento più felice della sua vita. Tutto gli sorrideva: la vittoria, il sole e le belle Palermitane; egli era raggiante, affabile.
Esponendo le sue idee intorno al modo di governare un popolo, si capiva come nelle sue mani quei derelitti isolani sarebbero divenuti un popolo prospero, dignitoso, non essendo essi al disotto di nessuno per intelligenza e patriottismo.
Garibaldi si occupava con pensiero costante dei fanciulli popolani, vispi, nudi e idolatri di "Gallibardo", e un giorno domandò ad Alberto Mario se volesse egli assumersi di fondare un collegio militare a spese dello Stato, capace di 6000 ragazzi.
Alberto accettò a patto di dipendere da lui solamente per i mezzi e l'organizzazione. E il completo impianto in un mese di quell'Istituto, che egli denominò Istituto Militare Garibaldi, chiarì come i governi in generale impediscano più che non sollecitino il bene di una nazione.

Quanto complicazioni, quante lungaggini oggi, per riuscire al più piccolo intento, mentre Garibaldi in un attimo improvvisò il suo esercito dividendolo in tre colonne; la prima delle quali lo inviò a Milazzo sotto Medici; la seconda al centro dell'isola, fra Caltanissetta e Catania sotto Turr; la terza a Girgenti sotto Bixio.
Nel frattempo veniva istruendo a Palermo nuove brigate e nuove riserve. In quindici giorni il piccolo esercito era allestito in tutte le sue parti costitutive, dalle uniformi all'ambulanza, ai trasporti. Vero é che i volontari mandati successivamente da Bertani avevano ordinamenti meno imperfetti, ma per gli isolani tutto era da farsi, e a tutto il necessario si provvedeva; in quanto Garibaldi inculcava che il soldato ha pochi bisogni quando sia compreso della sua missione. E con questi criteri sorse come per incanto l'Istituto. Egli scrisse il seguente ordine:

"Palermo, 24 giugno 1860.
Comando in capo dell'esercito nazionale,
Il signor Alberto Mario é da me autorizzato ed incaricato dell'organizzazione del Collegio Militare.
A tale oggetto gli saranno somministrati i mezzi necessari.
GIUSEPPE GARIBALDI."

La mattina dopo l'Ospizio dei trovatelli, con la rendita di 17 mila ducati, fu trasformato in istituto militare, e i trovatelli trasformati subito in piccoli alunni-soldati.
Il direttore affidò il primo battaglione di oltre mille adolescenti al maggior Rodi, uno dei reduci di Montevideo, il quale anche se aveva certe inflessioni di voce di selvaggi, amava quei ragazzi, - ch'egli chiamava piccoli diavoli, - con la tenerezza di una madre, e ne era riamato talmente che in poco tempo essi acquistarono negli esercizi militari la perizia di vecchi soldati.

In quel mese il Collegio fu debitamente provvisto di maestri per ogni ramo d'insegnamento. Furono subito ordinati due battaglioni con ufficiali dei Mille e con sergenti e caporali dei più esperti fra i volontari provenienti dall'Alta Italia, i quali accorrevano ad offrirsi al direttore, compresi della grande importanza della istituzione.


Alla fine del mese i due battaglioni diventarono la meraviglia e la gioia dei parenti e del popolo. Garibaldi li visitava ogni mattina o al campo di S. Pellegrino o all'Istituto, e prometteva loro ben presto di condurli alla guerra.

Una sola cosa rattristò il Generale, e fu la necessità di acconsentire all'arresto e al processo davanti ad una corte marziale di uno dei suoi ufficiali dei Mille, che fu condannato e subì la pena di 10 anni di galera, per malversazioni di denaro.

Anche agli ospedali dei feriti le visite del Generale erano frequenti. Sembrava che la sua presenza guarisse più che l'arte dei medici. Mai di certo ho visto morire così pochi feriti come in quella guerra.
Un giorno Mario presentò al Generale i superstiti della spedizione di Pisacane, appena liberati dalla galera di Favignana. Essi espressero il semplice desiderio di arruolarsi sotto Garibaldi.
Egli vedendo quei cinque individui laceri, pallidi, con il segno di lunghi patimenti sul viso, si commosse visibilmente stringendo la mano di ciascheduno:
"Ecco
- proruppe - lo specchio della vita umana; noi, favoriti dalla fortuna e vincitori, abitiamo i palazzo reali; questi bravi, perché vinti, furono alloggiati a Favignana, eppure la causa e l'audacia erano le stesse".

Gli fece osservare Alberto Mario che il tempo allora non era così propizio, né il capo era così popolare; egli rispose:
"I primi onori a Pisacane; lui e questi bravi furono i nostri pionieri".
Poi rivolgendosi a quegli infelici:
"Che cosa posso fare per voi? - domandò.
"Chiedere al maggiore Mosto di accettarci nel corpo dei carabinieri, Generale" rispose uno di loro.

Quegli uomini erano ridotti in cenci! Ma rivisti poi alla sera, non mi sembravano più gli stessi uomini; il sorriso di Garibaldi, e il suo non lesinato omaggio al loro capo adorato, li aveva trasformati; ogni ruga causata dalla prigione pareva sparita; questi sepolti vivi fino a poche ore prima, si sentivano resuscitati per riconsacrarsi alla patria.
E vi si riconsacrarono in modo degno di loro. A Milazzo ne trovai poi cinque feriti. E il Santandrea non lasciò il letto che per il cimitero.


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