QUARANTAQUATTRESIMO CAPITOLO

CAPITOLO QUARANTAQUATTRESIMO
IN SICILIA
Cooperazione spontanea dei siciliani alla rivoluzione. - Amore al nuovo governo. - Perché Palermo non fosse pronta all'ingresso dei garibaldini. - Francesco Crispi. - Intrighi degli annessionisti. - Bassezze del La Farina. - Benemerenza della squadra inglese. - Battaglia e vittoria di Milazzo. - L'ambulanza e i feriti.
Opposizione di Cavour al passaggio di Garibaldi sul continente.

L'accordo completo, non mai smentito, fra il governo del Dittatore e i Siciliani era veramente ammirabile, e non trovava esempio che ne' brevi e bei giorni della Repubblica romana. Illimitati e spinti fino all'adorazione eran l' affetto e la devozione, che quei fieri e impetuosi isolani profusero al loro liberatore e agli eroici suoi compagni.
Non si é resa ancora giustizia alla Sicilia per la parte da essa presa nella redenzione dell'Italia. Gli storici contemporanei hanno parole di biasimo proverbialmente severe per quei picciotti che resero vana con le grida, allo spuntar delle prime case di Palermo, la sorpresa ideata da Garibaldi; sorpresa in tutti i casi di riuscita incerta, come stanno a dimostrarlo fatti simili e in Italia e in Francia.

E gli stessi storici esagerano il torto dei Palermitani per essersi trovati addormentati alle tre del mattino, poiché fu lo stesso Garibaldi che decise di fare nel buio i suoi movimenti (*).
(*)
G. C. Abba, in quella piccola gemma intitolata: Noterelle di Uno dei Mille, così spiega quest' apparente indifferenza: "Ma che cosa fanno i Palermitani che non se ne vede in giro?" chiesi ad un popolano che sbucò da una porta armato di daga. -
"Eh! signorino, già tre o quattro volte, la polizia fece rumore e schioppettate, gridando "viva l'Italia ! viva Garibaldi ! E chi era pronto, veniva giù, e i birri lo pigliavano senza misericordia" . - "E ora han paura d'un nuovo tranello?" (p. 139).

La vera storia confermerà il titolo dato loro da Garibaldi di "popolo delle grandi iniziative", ricordando i Vespri, poi il 12 gennaio del 1818, poi il più recente 9 aprile 1860 alla Gancia. - E i Garibaldini stessi, che fecero poi la campagna di Napoli, del Tirolo e dell'Agro romano, devono pure ricordarsi che nella Sicilia le informazioni intorno alle svolte del nemico non mancarono mai ai nostri, mentre quello si trovava sempre ingannato e preso in giro dal popolo, dai preti e dagli stessi briganti. E mentre in altre campagne toccò a tutti qualche giorno di fame e di freddo, in Sicilia dal ricco al povero, dal cittadino all'abitante del contado era una gara a prodigare l'occorrente alle squadre, e ancor più specialmente ai volontari venuti dal continente.
In quanto ai feriti, sia quegli accolti negli ospedali, sia quelli ospitati nelle case private, per unanime attestazione di medici e d'infermieri, erano fatti segno a tutto quanto può escogitare l'amore più operoso e la più squisita cordialità.

Non esitiamo a dire che un anno solo di governo garibaldino avrebbe preservata la Sicilia dalla sommossa del 1863 e dai successivi disordini.
E giustizia vuole che si dica come gran parte del successo della rivoluzione e del buon andamento dei primi tempi sia da attribuirsi a Francesco Crispi, che ben tre volte aveva rischiato la vita andando sull'isola per portarvi istruzioni e armi, o rimanendovi per fabbricare bombe all'Orsini, e tornando poi sul continente a raccogliere armi e denaro, simpatizzando con Farini per averlo favorevole all'impresa.
E fu lui che mantenendo con Palermo un filo elettrico a tutti invisibile, poté per mezzo di questo, nel giorno del massimo scoraggiamento, far rinascere la speranza e decidere la partenza dei Mille.

Per provare in che stima il Generale tenesse Crispi, il giorno 1.° luglio comparve nella Gazzetta Ufficiale il seguente:
"Giuseppe Garibaldi, ecc.
Sulla proposizione del segretario delle finanze, uditi i consigli dei segretari di Stato, decreta:
Il signor D. Francesco Crispi é nominato procuratore generale presso la gran Corte dei Conti in luogo di D. Pietro Ventimiglia."

Il signor Crispi rispose per iscritto:
"Generale
Il vostro decreto del 29 giugno col quale mi nominaste procuratore generale della gran Corte dei Conti di Sicilia, non può esser tenuto da me che come un attestato della vostra stima per me, della quale vado orgoglioso. Ma voi lo sapete, Generale; noi non siamo venuti nell'isola per conquistarvi alti posti e magnifici emolumenti. Noi ci siamo venuti per aiutare questo popolo generoso ad infrangere le sue catene, e quindi concorrere con esso alla costituzione dell'Italia una e libera, sospiro dei nostri giovani anni, sola speranza e conforto nei dolori del nostro durissimo esilio.
Permettetemi dunque che io rinunci a così splendido ufficio e che io mi ripeta
Palermo, 1° luglio 1860.
Vostro devotissimo: FRANCESCO CRISPI.

In seguito a questa spontanea rinuncia, Garibaldi nominava allo stesso posto il cav. Filippo Cordova che visse costantemente in Piemonte dal 49 fino all' anno allora in corso e che ritornò in patria dopo la presa di Palermo per cospirare, come si vedrà in seguito.

Nominato segretario dell'interno, Crispi legò il suo nome a leggi e provvedimenti liberalissimi e di una utilità immediata; e come segretario del Dittatore fu sempre ispiratore di atti efficaci alla patria cornune. Quel più o meno d'impopolarità, che egli colse, fu frutto del maggior merito suo; l'essere cioè, prima italiano poi siciliano. Ebbe perciò contro di sé i rabbiosi annessionisti e i non meno appassionati autonomisti.
Anche Guerzoni scrive: "La politica con cui sfatava le speranze e rompeva le trame dei regionali, partito antico e sempre potente nell'Isola, era fin troppo rigidamente unitaria."

Questo ci sembra il più grande elogio per un siciliano di quei tempi.

Questa sua condotta fu approvata così caldamente da Mazzini che i Cavouriani lo accusarono di lavorare per la repubblica. "Sostenete l'indipendenza della Rivoluzione - egli scriveva a Crispi - più che potete; ma se gli autonomisti si agitano, precipitate l'annessione."

Soprattutto Crispi era inviso a Cavour, perché noto amico e collaboratore di Mazzini, e al La Farina (*) per il dispetto di vederselo anteposto nella fiducia dei Palermitani, di cui Crispi, esperto conoscitore, assecondava le aspirazioni, per averli pronti alla liberazione del resto d'Italia.
Onde egli fu assiduo e inflessibile oppositore dell'immediata annessione che i cavouriani s'arrabattavano in mille modi e per ogni via di ottenere; e di qui la guerra accanita, sleale e subdola mossa a Crispi dai cavouriani. La caduta di Crispi e la sostituzione a lui dell'Uomo fatale ebbe per effetto che in vent'anni la Sicilia non ha sentito che i danni e non i benefici dell' unione alla madre patria.

(*) Tutto l'Epistolario del La Farina, cui con così malintesa amicizia ha raccolto e pubblicato Ausonio Franchi, è scritto con la penna intinta nel fiele. Vi si legge, per esempio:
"Fra i governanti il più sgradito è Crispi, che non gode alcuna reputazione nel paese, e che ha dato prove di mirabile incapacità. - Raffaele è persona sospetta e invisa: Ugdulena e Pisani chiaramente inetti. Il governo quindi è accampato in terreno nemico. Alla sua durata non v' è alcuno che creda, e della sua autorità si ride.
In questo stato di cose tutti gli sguardi si sono diretti sopra di me; a cominciare dalle persone appartenenti all'alta aristocrazia, Mirto, Butera, Cesari, San Marco, Cerda, Torremuzza, ecc., fino ai capi, del popolo minuto, tutti vengono da me per chiedere consiglio e direzione. Se passo per le vie, mi si fa festosa accoglienza e ai governanti nessuno saluta. Molti capi della forza armata, gli stessi questori di Palermo si mettono a mia disposizione. La mia casa è sempre affollata di gente, come un ministero. "Si vorrebbe la convocazione immediata dell'Assemblea per votare l'annessione ed ordinare il suffragio universale!"
(La Farina a Cavour, 10 giugno 1860).

Il signor Guerzoni, che pur chiana La Farina "un cospiratore arrabbiato e pericoloso", scrive come segue:
"Se la pena era meritata, il modo aveva offeso. I confini della incolpata tutela erano stati inutilmente violati; le dure necessità della guerra con un brutale oltraggio superfluamente inasprite. L'articolo del Giornale Ufficiale di Palermo, col quale il bando del La Farina era annunciato assieme a quello di due spioni corsi, fu una selvaggia rappresaglia, un lusso grossolano di durezza."
(Guerzoni, vol. II, pag. 130).


Sentiamo pure ciò che scrive il Persano il 5 luglio:
"Interrogati (i due individui) e visto l' insistenza loro nell' affermare che erano qui venuti di concerto col nostro ministro a Napoli, non trovo altro espediente, per appurare il fatto, che di mandarli là sul "Monzambano" alfine di provare l'identità della persona e pigliar lingua dal ministro. - Ordino conseguentemente.... Fu latore il comandante di quel R. legno di una mia lettera particolareggiata al marchese di Villamarina sull' oggetto in discorso."
(Diario. Parte I, pag. 58-59).

E il giorno 7 :
"E' arrivato il Monzambano da Napoli, e si riconosce che i due individui di cui avevo preso sospetto "sono veramente allo stipendio della nostra polizia segreta". - Mancandomi ogni avvertimento in proposito non potevo procedere diversamente da quello che ho fatto, e non me ne rimprovero punto, benchè mi rincresce l'errore in cui incorsi: ma non avrei certo adoperato prudentemente se, così alla cieca, avessi prestato fede a parole che avevano tutta l'impronta del falso.
Scrivo al generale Garibaldi il mio sbaglio sul conto di quei due che, a mia instigazione, aveva fatti arrestare, e lo prego di lasciarli in libertà, chè li avrei mandati a Genova. Egli subito mi risponde che se voleva averli al mio bordo avrebbe ordinato vi fossero subito condotti; diversamente li avrebbe fatti partire senz'altro, mentre si davano l'aria di essere venuti per proteggerlo, e che egli non voleva tali protettori."

(Diario. Parte I, pag. 60-61).

Volle il caso che i due Côrsi e La Farina fossero da Garibaldi sfrattati lo stesso giorno, e la Gazzetta Ufficiale narrava il fatto. Garibaldi, richiesto da Persano, caro amico del La Farina di obbligare la Gazzelta Ufficiale a ritirare l'articolo, rispose recisamente: No!
(Diario. Parte I, pag. 73).

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Il giorno 7 luglio, l' ammiraglio Mundy lasciò le acque di Palermo per ripetere le sue gesta in quelle di Napoli (*).
(*) Gli inglesi, più ancora che gli italiani, hanno un debito di riconoscenza verso l'ammiraglio Mundy il console britannico a Palermo per il loro contegno durante il bombardamento; contegno che avrà cancellato in parte dalla memoria dei siciliani antichi tradimenti e antichi inganni. Il vecchio Goodroni, fervente campione di libertà, nell'occasione in cui dovette accompagnare l' ammiraglio presso il generale Lanza allo scopo di impedire, se fosse possibile, il bombardamento, rispose sdegnato al Maniscalco (il quale imprudentemente gli domandava se non paresse anche a lui giusto l'annichilamento di una popolazione, che insorgeva contro le autorità costituite) meravigliarsi fosse posto a lui tale quesito; ed aggiungeva, di non essere esitante nel dichiarare che un popolo oppresso aveva ineluttabile diritto di armarsi e combattere i suoi oppressori! - Lanza, irritato, insistette perché l'ammiraglio smentisse le parole del console; ma egli: "La risposta del console -disse - fu provocata dalla domanda indiscreta del direttore di Polizia".

Quando il bombardamento minacciò la casa stessa del console e l'ammiraglio spedì un canotto per trarlo in salvo a bordo, il vecchio si rifiutò decisamente. "Sono quarant'anni - disse - che vivo in mezzo agli italiani e i sentimenti della mia nazione pur essi non sono ignoti. Non temo nulla e rimango" .
Del resto il suo tatto e la sua fermezza furono oggetto a tutti di ammirazione. Senza far nulla che potesse compromettere la bandiera a lui affidata, non nascose però al Lanza il ribrezzo che la sua condotta gli destava. Avendo ottenuto grazia per la vita di sei nobili imprigionati, ai quali prometteva pure il Lanza di rendere la libertà a patto che l' inglese si rendesse mallevadore della loro buona condotta:
"No, no! - esclamò, - le parole buona condotta hanno un significato per i prigioneri, un altro pur il generale".

Uno sguardo alla carta (nel capitolo precedente) dimostra il contegno conservato dalla squadra britannica, e mette in evidenza, specialmente se si confronta con quello della sarda, le intenzioni benevoli dell'ammiraglio, il quale tenne un vapore così vicino al molo, che riusciva facile a un buon nuotatore di raggiungerlo in caso di bisogno
((( Nel suo Diario Persano scrive: "Ancorò unitamente al "Carlo Alberto" nella gran rada di Palermo. Mi rimproverò di non essermi avvicinato di più al paese. Le vie di mezzo sono sempre riprensibili. La squadra inglese comandata dal contrammiraglio Mundy e ancorata vicinissimo al lido e copre la città. Eguale posizione avrei dovuto prendere io. - Mi prometto bene per l'avvenire, alfine di recare una efficace cooperazione alla causa italiana, di sempre avvicinarmi a terra più di ogni altro legno; ove abbia, nelle presenti vertenze, a trovarmi in condizioni e luoghi, che riguardino le medesime".
Ed è innegabile che Persano aveva per Garibaldi delle buone intenzioni, tant'è vero che quando egli visitava la squadra sarda, Persano lo salutava con 19 tiri, riconoscendolo così de facto sovrano dell'isola. Ma mentre Persano proponeva, Cavour disponeva e a Napoli, come a Palermo, la squadra sarda si tenne sempre in lontananza.
))))

Tutto questo fu noto a Garibaldi, che non perdeva occasione per attestare all'ammiraglio la sua stima e riconoscenza. E quando lasciò Napoli per Caprera, vedendo l'"Annibale" discese dal "Washington" per dare a Mundy un ultimo addio. Così in Inghilterra, al teatro di gala, avendo Garibaldi visto l'ammiraglio nel palco, volle andare di persona a visitarlo.
Appena seppe che l'"Annibale" ebbe ordine di salpare per Napoli, ecco la lettera che gli scrisse di proprio pugno:

"Palermo, 7 luglio, 1860
Ammiraglio,
Voi partite!... e nel vedervi allontanare un sentimento di mesta gratitudine penetra ogni creatura nata in questa terra.
Voi non avete rivolte le terribili vostre batterie ai servili bombardatori di Palermo; voi non avete mandato i vostri valorosi marinari, benché ne avessero molta voglia, alla difesa della città pericolante!...
Il vostro dovere di soldato, e le tristi leggi della politica ve lo vietarono... Ma voi, - uomo buono e generoso, - ci avete largheggiato di simpatia e d'affetto....
Avete serrato il vostro naviglio al lembo marittimo della città, dimostrando di riprovare la strage inumana, e pronto ad accogliere quelle famiglie che l'incendio e la distruzione potevano spingere verso di voi....
Grazie, Ammiraglio !... Grazie del vostro magnanimo procedere!... Grazie in nome di Palermo, della Sicilia, dell'Italia intera !...
La partenza dell'"Annibale" é da questa Capitale sentita come quella di un amico ben caro.
Che la provvidenza protegga sempre il nobile legno, la cara comitiva ed il venerando... generoso marinaio che la capitana !
Con vero affetto, Vostro
G. GARIBALDI"

E molti anni dopo, anzi precisamente quando uscì il Diario politico-militare dell'ammiraglio Persano, Garibaldi in una lunga lettera al Movimento chiarì la condotta differente tenuta dagli ammiragli inglese, americano e sardo, ricordando con amarezza, che mentre quello americano gli fu largo di ogni cosa necessaria al compimento della sua missione, il secondo in comando, d'Asti, gli rifiutò un po' di polvere, rimandando da bordo con poco gentili maniere il messo da Garibaldi spedito a chiederla.

Il giorno 18 luglio, il Generale accettò dal suo successore l' invito di una colazione a bordo del bastimento, e da quella colazione non tornò più a Palermo, perché qui ricevette l'annunzio che Medici era fortemente attaccato da Bosco a Milazzo. Sopraggiungendo allora fortunatamente il legno a vapore con la colonna condotta da Clemente Corte, trattenuto fin allora prigioniero a Gaeta, Garibaldi su quello a grande velocità corse verso Milazzo e discese il 19 con 1000 uomini a Patti. Si affrettò tutto solo a Santa Lucia e salì sul campanile per conoscere la situazione dei combattenti.

Medici aveva già sostenuto un forte scontro. Bosco aveva promesso ai messinesi che sarebbe ritornato a Messina sul cavallo del Medici. E muovendo da Milazzo, egli incontrò fiera resistenza ad Archi, da parte di centosessanta garibaldini, che lui voleva assalire con ben ottocento dei suoi. Invece dieci perdettero la vita sul campo, e gli altri ripiegarono a Limeri, dove Garibaldi raggiunse la brigata Medici, alla quale dichiarò di aver essa bene meritato un grazie dalla patria.

A Santa Lucia Garibaldi aveva già ideato il suo piano d' attacco. Mandò Malenchini ad occupare il piccolo villaggio di S. Pietro ed a spingersi a sinistra fino a Santa Papina sul mare, ove si proponeva di adescare il nemico per investirlo quindi dal centro e dalla destra, affidata a Simonetta e a Medici. All'estrema destra campeggiava terribile il maggiore Migliavacca, e più in là ancora Nicola Fabrizi vigilava sul possibile arrivo di nuovi nemici da Messina. Bosco, con la base a Milazzo, comandava 5 mila uomini; Garibaldi, compreso il migliaio di Patti guidato da Cosenz, e che doveva formare la riserva, aveva ai suoi ordini 3500 volontari.

Bosco si proponeva di chiudere a Garibaldi la ritirata a Barcellona, sua base; mentre Garibaldi, di chiuderre a Bosco, la via di Messina.
Bosco sospingeva la maggior parte delle sue forze contro la sinistra nemica, ché, se rotta e sbaragliata, Garibaldi sarebbe così uscito dal suo rifugio.
Ma Garibaldi come abbian detto, lo aspettava.
I regi erano favoriti dalla bontà delle loro posizioni; mentre i garibaldini, che combattevano da un luogo più basso, circondati dai canneti, dalla boscaglia e da un labirinto di siepi di fichi d'india, non vedevano il nemico. Il fuoco dei pezzi colpiva il loro centro, perfino il punto stesso dove il Generale dal tetto di una capanna dirigeva i movimenti.
Verso le 11 la lotta, cominciata alla cinque, aumentò d'intensità; il più terribilmente impegnato era il Malenchini cha tenne saldo la sua posizione con gloriosa ostinazione, ma dovette alla fine arretrare.

La offese infierivano su tutta la linea. Migliavacca, all'estrema destra, era attaccato di fianco, enon riuscì a rintuzzare nè a mettere in fuga gli assalitori se non con gravissima perdite.
Malenchini fu risospinto fino a S. Pietro ma con soddisfazione di Garibaldi, il quale immediatamente ordinò alla riserva guidata da Cosenz di accorrere in suo aiuto, alla brigata Gaeta di assalire dal centro, e a Medici di sfondare il nemico a destra.

Il nemico scompiglia con le artiglierie la brigata Dunn e le scaglia contro mandando allo sbaraglio uno squadrone di cavalli. La brigata, composta di siciliani, trova un insperabile schermo dalla siepi di fichi d'India parallele alla strada.
Nel frattempo Garibaldi, con la guida e i carabinieri genovesi piano piano attraversando i canneti, con una abile mossa di fianco giunge accanto al pazzo cha aveva recato così tanto danno ai suoi sulla via di Linieri e se ne impossessa.
Lo squadrone, reduce dalla carica, saettato e quasi distrutto dai caricati, mentre con i pochi resti si precipitava verso Milazzo, riceve da Missori l'intimazione di arrendersi. Il capitano si getta con la sciabola sopra Garibaldi, ma questi più lesto di lui gli taglia la gola; Missori a bruciapelo ne atterra altri due; Stratella, ferito nel 1849, ne uccida un quarto nell'atto che questi stava per colpire pure lui Garibaldi; gli altri a quel punto gettarono la armi e si diedero prigionieri.

Malenchini, rinfrescato dalla riserva, ripiglia l'offensiva e gli riesce di arrestare i borbonici irruenti. In quel mentre ormeggiava a ponente di Milazzo la fregata "Tukery", Garibaldi ne approfitta par assicurarsi sul vero stato della battaglia.
Salito sull'albero di trinchetto scorge una nuova colonna che a passo accelerato accorreva in rinforzo a quelli bloccati da Malenchini; Garibaldi la fulmina e la sgomina con un cannone di 60.
Ritorna subito fra' suoi e postosi alla testa della sua ricostituita sinistra, piomba irresistibile sulla destra borbonica, mentre Medici irrompe dalla parte opposta. E così il nemico, attaccato da due lati, é ricacciato dentro Milazzo cha giace alla base di una piccola penisola.

Nello stesso tempo la "Tukery" sbarcava alla spalle dal forte di Milazzo, secondo la prescrizione di Garibaldi, la truppa cha aveva a bordo. Bosco tempesta gli assalitori con la mitraglia. Migliavacca, cha aveva combattuto coma un Ettore durante sei ore, e aveva il battaglione ridotto a metà, con la spada nuda irrompeva sul ponte, ma qui trafitto cadde e morì glorioso.
La artiglieria borboniche e da campo facevano strazio dei garibaldini. Ciò nonostante essi, come un anello di ferro, stringevano il nemico con degli asserragliamenti, vietandogli l'uscita.
Garibaldi mandò tre distaccamenti al Molo, sul Mulino a S. Leucio, e così trascorsa la notte.

Il giorno dopo, venuta in porto la "Città di Aberdeen", Garibaldi vi salì a bordo, e di là con i cannoni attaccò il forte, dove Bosco con tutti i suoi si era ritirato:
"Ciò che non facciamo noi, farà il digiuno" disse il Generale, guardando quell'imponente fortezza, cinta di doppia muraglia, guarnita con 40 pezzi di artiglieria, a difatti, nonostante l'arrivo dalla squadra nemica, il forte si arrese.

I soldati ottennero gli onori delle armi. Furono ceduti a Garibaldi i cavalli e i cannoni, due cavalli del general Bosco, e buona parte di muli. Lo sgombro durò tutto il giorno 24 e fino alle 11 del dì successivo; quando vi fu spiegata la bandiera italiana, Garibaldi regalò a Medici uno dei due cavalli di Bosco
(1) I messinesi avevano regalato al colonnello Medici un magnifico cavallo. Bosco, millantatore, giurava di tornare a Messina, inforcando quel cavallo. Garibaldi, saputo il vanto, si prese poi il gusto di regalare a Medici il cavallo di Bosco invertendo così le parti.).
In quell'occasione scrisse a Bertani la seguente lettera, di cui qui diamo il facsimile...


"Milazzo, 25 luglio 1860.
Caro Bertani,
a Siamo padroni di Milazzo e del Castello: questo acquisto ci costò assai feriti, ed in ogni caso di questi - voi siete sempre il mio primo pensiero.
In Milazzo mi sembra di aver un piede in Calabria, bisogna però esser forti e quindi non vi stancate di mandarci uomini e fucili.
I vapori diretti in Sicilia, dopo d'aver avvicinato la costa, in qualunque punto possono venire a sbarcare la gente qui in Milazzo. Addio, qualunque debito contratto per noi lo pagheremo religiosamente. Vostro
G. GARIBALDI.


L'ambulanza, non chiamata da Garibaldi nell'atto di partire da Palermo, non poté giungere sul campo che al momento della resa. -
Pur tuttavia fu sul campo in tempo. Le case, le chiese, le capanne riboccavano di feriti. Abbiamo pigliato possesso di un convento un po' fuori, di Milazzo. Uno degli immensi corridoi era popolato di carabinieri genovesi, fra i quali i cinque compagni di Pisacane orribilmente mutilati. Il dottor Cesare Stradivari che era capo, e Albanese, abilissimo chirurgo, non si risparmiarono per salvarli tutti; una santa donna milanese, la signora Bignami, poi moglie dell'Albanese, non si allontanò mai da quella sala. Santandrea, che si compiaceva specialmente che i mazziniani, come egli appellava sé stesso, e i reduci di Favignana si fossero così valorosamente comportati, peggiorava sempre; biasimava fortemente la condotta di Nicotera, altro reduce di Favignana, perché si era rifiutato di combattere sotto la bandiera che portava, lo stemma di Savoia, e morì balbettando:
"Chi per la patria muore
Vissuto è assai !".

La mattina dopo della resa, Garibaldi, impose ad Alberto Mario di ritornare a Palermo per provvedere l'Istituto militare d'un vicedirettore, con affabile malignità ci presentò l'ammiraglio Persano, il quale cortesemente si offrì di condurlo a Palermo a bordo della sua fregata; ma altrettanto cortesemente fu l'offerta rifiutata.
Allora Garibaldi disse all'ammiraglio e a noi: "Andiamo a visitare il forte."
Fu uno spettacolo orrendo uomini e cavalli morti e insepolti, e moribondi non soccorsi: il regime dei Borboni aveva per effetto di estinguere i sentimenti di umanità in tutti i cuori.
Garibaldi, provvedendovi da solo, si pigliò lo spasso di cogliere con il laccio, come era abituato a fare nelle pianure americane, i cavalli che correvano qua e là forsennatamente.

Persano lo guardava con occhio di compiacenza. Certo egli era penetrato dell'ingiustizia dei sospetti di Cavour, potendolo li avrebbe dissipati. Ma dopo lo sfratto del La Farina, capo degli intriganti, altri succedevano a costui nello stesso ufficio speditivi da Cavour; la qual cosa oltremodo irritava il magnanimo guerriero.
Quella poco onorevole perseveranza lo aveva in ultimo stancato, sì che un giorno disse:
"Che si piglino pur l'isola, purché io possa gettarmi in Calabria."
Però non lo trattenne la persuasione che, ceduta l'isola, gli sarebbe stata interdetta la prosecuzione dell'impresa.

Si diede dunque tutto intero ai preparativi per risolvere lo spinoso problema del passaggio in Calabria.

Da Messina, 30 luglio 1560, Garibaldi scrisse:

"Caro Bertani,
Io spero poter passare sul continente prima del 15.
Fate ogni sforzo per mandarmi fucili qui a Messina o Torre di Faro prima di quell'epoca. Circa alle operazioni negli Stati pontifici e napoletani, spingete a tutta oltranza. Vostro
G. GARIBALDI.

Nessun dubbio dunque sul pieno accordo con lui, anzi sul suo desiderio ardente di spuntarla. Se non che il Governo in maggio aveva disperso il piccolo corpo capitanato da Zambianchi, il quale da allora era trattenuto in carcere, e così pure fu arrestato il Giordani, il quale aveva dato tre cannoni ad Orbetello. Ma ben altro affare era arrestare o disperdere ottomila uomini con 10 bastimenti a loro disposizione. Non potendo far uso della forza, si fece ricorso all'inganno; perché a Cavour non garbava affatto che tale spedizione fosse condotta sotto gli auspici di Garibaldi; e ad assecondarlo nei suoi disegni si prestarono Farini e Ricasoli.

Il Farini andò a Genova, e, in un incontro col Bertani, gli diede garanzia che il Governo era dello stesso avviso del partito d'azione intorno alla liberazione delle province romane, ma che per riguardi diplomatici esso non poteva permettere che da Genova gli ottomila veleggiassero diritti per il luogo designato; ma che invece dovessero ad uno ad uno i vapori convenire nel Golfo degli Aranci sulle coste della Sardegna, poi toccare Sicilia, liberi allora di andare dove volevano.

Ricasoli avvolse in reti sottili con i suoi soavi accenti toscani Nicotera e Mazzini, i quali dirigevano l'organizzazione della brigata a Castelpucci, anzi promise ripetutamente che se anche Cavour vi si fosse opposto, egli si sarebbe rotto con lui e avrebbe sostenuta la spedizione.
Bertani firmava una convenzione con Farini: poi con un vapore corse in Sicilia, per ottenere che personalmente Garibaldi assumesse il comando della spedizione. Questi intanto aveva ordinato al Faro il primo sbarco. Io (Jiessie) ero a Milazzo alla cura dei feriti, quando ricevetti da mio marito (Alberto Mario) l'avviso che la sera stessa egli sarebbe partito da Messina.

Volo a Messina e giuntavi dopo l'imbrunire, con non poche difficoltà, attraverso il campo dei volontari sdraiati sulla sabbia, arrivo al Faro e non vi trovo Garibaldi. Chi diceva che egli era già in Calabria, altri che ne stava preparando il passaggio; finalmente incontro una persona cortese che mi conduce a lui a bordo del "Washington", e mentre salivo sul ponte si sente tuonare il cannone dall' opposta sponda.
La sua faccia si annuvolò; egli mi stese la mano dicendomi: "Ho spedito Alberto ove più arde il pericolo, e temo che l'impresa sia fallita."
Io seppi poi che egli aveva lanciato 200 giovani scelti ad uno ad uno sotto Musolino all'altra sponda dello Stretto per impossessarsi con un colpo di mano del forte. - Udendo tuonare il cannone del forte, Garibaldi comprese che il colpo di mano era andato a vuoto. A vuoto per la sorpresa, ma non per l'impresa, come si vedrà in seguito.

"State con noi - mi disse - fra poco passeremo".

Ma dovendo consegnare i miei feriti di Milazzo ad altre mani, fui costretta a tornarmene indietro, e vi arrivai il giorno seguente. Il vecchio Stradivari, che avea il suo unico figlio nella spedizione, stava aspettandomi, e appena mi vide dall'alto del convento, brandì trionfalmente una carta: era un telegramma che così diceva: "Alberto sta bene."

L' aveva scritto Garibaldi.
Io fui gratissima al Generale per così gentile premura in mezzo a tanti suoi pensieri. Ricomparsa poi la mattina dopo al Faro, Garibaldi non c' era più.

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