QUARANTACINQUESIMO CAPITOLO

CAPITOLO QUARANTACINQUESIMO
VERSO NAPOLI
Scomparsa di Garibaldi dal Faro. - Motivi del suo allontanarsi chiariti da una lettera di Bertani. - Progetto di una spedizione sul continente dal Golfo degli Aranci. - Il governo sardo la manda a vuoto. - Il Re sconfessa la spedizione di Sicilia e disapprova il passaggio. - Risposta di Garibaldi. - Spedizione di 200 per sorprendere il forte di Torre Cavallo. - Fallito il tentativo, si ritraggono sull' Aspromonte. - Sbarco di Garibaldi a Mileto. - Presa di Reggio. - Defezione dell' esercito borbonico. - Ingresso di Garibaldi a Napoli.

L'assenza del Generale dal Faro durò ben dieci giorni e fu per molto tempo cosa oscura a tutti. Ma l'oscurità è ora chiarita da una lettera di Agostino Bertani a persona amica dal bordo del "Washington", il 12 agosto:

"Ho con me Garibaldi a bordo e con lui navigo al Golfo degli Aranci, per piombare di là inaspettati sullo Stato romano e rimettere la questione italiana sulla sua vera base ed aprire i varchi alla gioventù italiana che verrà a fare di Roma la capitale della nostra Italia.
Ho avuto una felice inspirazione di venire...
Alle 12 e mezza della notte sabato-domenica fummo davanti alla Torre del Faro di Messina. Si cannoneggiava dall'estrema Calabria: un tentativo fatto poche ore prima da 200 uomini sembrava fallito. Scesi di bordo e ascesi alla Torre del Faro, passando in mezzo a varie sentinelle e uomini sdraiati per ogni dove su quella spiaggia sabbiosa, vastissima. Là, in un piccolo spazio, erano distesi sulla nuda terra gli ufficiali d'ordinanza. Il Generale dormiva; ridiscesi e mi coricai con gli altri sulla sabbia; un rialzo della sabbia stessa mi fece da comodissimo guanciale.
All'alba Io spettacolo fu magnifico. Si scorgevano gli accampamenti dei nostri sulla sabbia intorno alla Torre del Faro e nelle vigne adiacenti. Lo Stretto era animato dai vapori napoletani, dai legni mercantili di passaggio, dalle nostre barchette che stentavano le opportunità di abbordaggi dalle coste calabresi che mi immaginava fremere e brulicare di armati, dall'aspetto di Messina che mi si presentava nel suo pomposo anfiteatro, dal cielo azzurro come il mare e dalla fede mia più che mai gagliarda. A quella rin
ghiera ho vissuto mezz'ora di vita patriottica italiana; Garibaldi ha aderito al mio progetto.
Parmi aver sciolto il problema di cui appena osavo immaginare la spiegazione. Egli si decise in un momento a capitanare la spedizione, diede gli ordini al "Washington" immediatamente ed alle otto e mezza eravamo già a bordo".

Lungo il viaggio il Generale parla molto con gli uomini, sulle varie cose e discute il da farsi. Si deve scendere nel Pontificio, negli Abruzzi o a Napoli? Bertani tace non volendo premere sulla sua volontà, sperando però che il piacere di battere Lamoricière abbia ad allettare Garibaldi.
Alle 7 di sera del 6 agosto entrarono nel Golfo degli Aranci. Garibaldi passeggiava agitato e meditabondo; evidentemente propendeva per Napoli.

"Nè io mi opponevo- scrive Bertani - io studiavo la carta d'Italia e vedevo la sua unità compiuta dovunque si sbarcasse con Garibaldi. Ma, ahimé ! giunto nel Golfo degli Aranci mancavano i due vapori, il "Torino" e l'"Amazzone", e si viene a sapere che per ordine del comandante della "Guinara", vapore da guerra sardo, i due vapori erano già partiti per Palermo".

Garibaldi fu assai turbato da quella notizia, fece un volo rapido alla sua Caprera mentre il "Washington" faceva carbone alla Maddalena. Ritorna, trova Pianciani giunto con il suo stato maggiore, cala nella lancia lungo il cordame del bastimento, ordina a Pianciani di veleggiar subito per Palermo, prende 10 mila cartucce dicendo di averne bisogno per fornire la gente che da Trapani vuol mandare al golfo di Squillace, invita Bertani ad andar con me; ma questi, volendo concertare con Nicotera, suggerisce di rivedersi a Palermo.

Garibaldi lascia sperare, ma non promette di riorganizzare la spedizione da Palermo, parte senza dir verbo de' suoi disegni, ma fa capire che con le genti disperse, e quattro giorni perduti, "non c'è da sperar molto da una minestra ricotta".
Intanto il Cavour, per scompigliare la spedizione per mare, fa che Ricasoli ordini a Nicotera di sciogliere il suo corpo e di rimandare i volontari alle loro famiglie (*).
(*) Risulta dai documenti di Nicomede Bianchi che ciò fu fatto in ossequio all'imperatore di Francia, non poco in odio col Bertani, di cui Cavour scrisse a Persano:
" Il governo del Re non fa chiasso, ma non intende con ciò di lasciarsi giocare in tal modo; quindi, dopo la spedizione di Cosenz, già in corso, disporrà che nulla più, per parte sua, vada in Sicilia fino a che non sia del tutto tolta al Bertani ogni sua ingerenza negli invii."
(Diario Privato-Politico-Militare dell'Ammiraglio C. di Persano. Prima Parte, pag. 51).
Intorno alla spedizione, Cavour scrive allo stesso:
"Navi con volontari, dopo formale promessa di portarsi in Sicilia, stanziano da due giorni nel "sorgitore"(?) degli Aranci della Sardegna. Pensiamo intendano sbarcare negli Stati pontifici: questo rovinerebbe ogni cosa. Mandi senz'altro il "Monzambano" in quelle acque, dove troverà il "Tripoli", e dia ordini positivi d'impedire lo sbarco in quelle terre, a qualunque costo. La "Nunziante" partirà questa sera. Se ne avvalga, e metta a fuoco ove abbisogna. Consulti Villamarina; ma nei casi dubbi segua le sue pregiate istruzioni. "
(Diario Privato Politico-.Militare dell'ammiraglio C. di Persano. Parte Seconda, pag. 31).

Nicotera, rifiutandosi, fu imprigionato, poi liberato; una convenzione firmata da lui e da Ricasoli fu violata, ed egli finalmente condusse anche la sua gente a Palermo, dove scrisse a Garibaldi una lettera, dichiarando di ritirarsi con dolore dal campo d'azione e risoluto di non prendere più le armi "finché sul bianco della bandiera tricolore vi siano stemmi di principe".

Soggiunse però cha saprebbe all'uopo offrire il suo braccio alla patria alla stesse condizioni dalla spedizione di Sapri.
Al Faro, Garibaldi ricevette la seguente lettera dal Re:

"Voi sapete che non ho approvato la vostra spedizione, e mi sono sempre tenuto entraneo alla medesima. Ma oggi la difficile posizione in cui si trova l'Italia, mi fa un dovere di mettermi in diretta relazione con Voi.
Nel caso cha il Re di Napoli acconsentisse al completo sgombro della Sicilia, volontariamente rinunziasse ad ogni maniera d'influenza, e personalmente si obbligasse a non esercitare pressioni sui Siciliani, di modo che essi siano perfettamente liberi di eleggersi il Governo che a loro torna più gradito, in questo caso, io credo, sarebbe per noi il più saggio partito, astenersi da ogni ulteriore tentativo contro il Ragno di Napoli. Sa voi siete di diverso parere mi riservo espressamente l'intera libertà d'azione, e mi astengo dal farvi qualsiasi altra osservazione circa i vostri piani".

A cui risposa Garibaldi:
"Sire!
A Vostra Maestà é nota l'alta stima e l'amore che Vi porto; ma la presente condizione in Italia non mi concede di ubbidirvi, coma sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, ad onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell'Italia.
Permettetemi quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto al mio assunto liberando i popoli da un giogo abborrito, deporrò la mia spada ai Vostri piedi, e Vi ubbidirò fino alla fine deai miei giorni.
G. GARIBALDI ".

La costa dalla Calabria arano vigilata dalla navi borboniche. Come metterci piade senza navi da contrapporre alla nemiche?
Garibaldi non possedeva che il Tukery e a tale scopo era esso un mezzo troppo carente. Il mezzo più spiccio e più risolutivo era, in mancanza di navi, un passaggio clandestino di notte nel luogo più stretto del canale di Messina, la sorpresa dal forte di Torre Cavallo, il quale avrebbe incrociato i suoi fuochi con quelli di Torre del Faro.
Impedito pertanto l' andirivieni delle navi nemiche, sotto la tutela delle batterie sorelle, il trasporto dei volontari in Calabria era assicurato. Vi si risolse tanto più volentieri il Generale in quanto che Benedetto Musolino si assunse di intendersela con i sergenti di guarnigione del forte di Torre Cavallo. Andò, tornò, a assicurò il Generale dalla defezione ordita.

A quel punto Garibaldi gli affidò il comando di duecento fra soldati ad ufficiali, dei più scelti, e imbarcatili la notte dell' 8 agosto sopra 72 barchette, questi sguizzarono in Calabria sotto il naso dalla navi borboniche ancorata a poca distanza.
Preso il forte, un colpo di cannone sarebbe stato il segnale della buona fortuna dell'impresa. Ma le intelligenze non c'erano; i duecento sbarcati, divisi in due corpi, s'incontrarono in pattuglie. Si fece fuoco e la sorpresa fallì, né fu possibile l'assalto, tanto più che gli sbarcati ebbero sentore che un battaglione di borbonici stava per arrivare dai forti litoranei per il cambio delle guarnigioni .
I duecento si ripararono sopra Aspromonte; lo stato maggiore volle affidato il comando a Missori.
Quattrocento calabresi il giorno dopo vi si aggiunsero, ausiliari preziosi. Ed essi tennero il campo durante dodici giorni, e operarono fino al punto di attirare ben cinque mila borbonici sulle proprie tracce, ora assalendoli a Bagnara, ora irrompendo a Pedavoli, ora accennando a Torre Cavallo, fin che incalzati iniziarono a ritirarsi verso la punta dello stivale, accampandosi sulla cima del villaggio di S. Lorenzo, ove fecero proclamare dagli eletti del Comune il governo dittatoriale di Garibaldi.
Ma il 19 agosto ricevettero il seguente conciso biglietto da Melito:

"Venite !"
GARIBALDI"

Durante l'assenza del Generale, Bixio aveva preparato tutto per l'imbarco; e giunto il 18, pigiati 3500 uomini nel "Franklin" e nel "Torino", Garibaldi sul primo, Bixio sul secondo, partono la sera alle 9,40, e scendono a Mileto alle 5 1/2 del giorno seguente.
Bixio lascia arenare il "Torino"; Garibaldi scende sano e salvo e conduce tutta la sua gente a prender posizione. Nel pomeriggio due vapori regi bombardano e incendiano il "Torino": il 20 Garibaldi s'incammina verso Reggio e vi giunge la mattina del 21. Qui scesero i coraggiosi, che con Bezzi, Egisto e Mario erano giunti a Mileto per fare provviste. Il generale li accolse a braccia aperte e occupato nella notte Reggio, la mattina con Bixio, Canzio, Bezzi, Mario e con soli quaranta uomini, andato ad esaminare il Castello, trovò che le alture erano occupate da tutto il corpo del Generale Briganti, cha sperava di prendere i garibaldini dal retro e buttarli in mare.

Garibaldi mise in posizione Bezzi e i suoi, e ritornò a Reggio per prendere i rinforzi. I borbonici aprirono il fuoco sull'istante: i garibaldini di Bezzi risposero, ma molti caddero morti o feriti. Tutto sembrava perduto, quand'ecco ritornare Garibaldi, Basso e Canzio con due compagnia.
"Alla baionetta", gridò il Generale. Per un istante nessuno si mosse; poi vedendo che Garibaldi in persona si lanciava, Canzio velocemente lo preveniva e, seguito da Bezzi, Basso e altri audaci, corse addosso agli attoniti borbonici, che fuggirono in disordine senza più tirare.

Garibaldi ne fu così contento che nominò Bezzi capitano sul campo.
Segue la capitolazione del forte sulla spiaggia. Garibaldi é in possesso delle alture. Intanto arriva tutta la colonna con Missori. Ad Alberto Mario é affidata la presa del forte sopra la città con l'ordine cautissimo di accostarvisi. Insinuatisi vicinissimo al forte, i suoi tiratori colpiscono molti artiglieri sui pezzi.
Alle 4 il forte sopra la città si arrese; i prigionieri, le truppe di presidio uscirono con armi, bagagli, onori militari, escluse le artiglierie, gli animali da sella e da tiro.
Così caddero in mano di Garibaldi 30 pezzi, 500 fucili e molti cavalli. Non un momento di tregua questi concedeva al nemico; ma si attardava a decidere per le Calabria la lotta in Monteleone, ove stava il maresciallo Viale col suo quartiere generale. La divisione Cosenz sbarcava a Bagnara e qui cadde di palla borbonica La Flotte, grave perdita per Garibaldi, che lo amava molto e lo stimava, come risulta dal seguente Ordine del giorno:

"Noi abbiamo perduto la Flotte. Gli appellativi di prode, di onesto, di vero democratico, sono impotenti a ritrarre tutto l'eroismo di quell' impareggiabile. La Flotte, figlio della Francia, é uno di quegli esseri privilegiati cui un solo paese non ha il diritto di appropriarsi. No! La Flotte appartiene all' umanità intera, poiché qui per lui era la patria dove il popolo sofferente si sollevava per la libertà. La Flotte, morto per l'Italia, ha come battuto per essa come avrebbe combattuto per la Francia. Quest'uomo illustre è un legame prezioso per la fratellanza dei popoli che l'avvenire dell'umanità si propone. Morto nelle file dei Cacciatori delle Alpi, egli era - come molti suoi prodi concittadini - il rappresentante della generosa nazione, che si può arrestare un istante, ma che è destinata dalla Provvidenza a procedere come avanguardia dei popoli e dell'incivilimento del mondo".
Da quel momento in poi la compagnia francese prese il nome di "compagnia La Flotte".

E così Garibaldi, padrone di Reggio, con Cosenz padrone delle posizioni tra Scilla e Bagnara, era in grado di imporre i suoi patti al generale Melendez, cioè di costrinegerlo a deporre le armi. Novemila soldati a S. Giovanni e undicimila della divisione Ghio, a Soveria, successivamente, circondati dalle schiere di Garibaldi, cedettero armi, pezzi, cavalli in cambio della libertà. Queste truppe fraternizzarono poi con i volontari.
E ritornando alle loro case, i soldati fomentavano e accrescevano l'insurrezione che si diffondeva ora nella Basilicata, nel Cosentino, nella Capitanata, in Terra di Lavoro, e negli Abruzzi; e contro di essa nulla poterono i generali borbonici Caldarelli e Flores. Cosicchè, dall' 8 agosto al 27, 40.000 soldati sparirono dall'esercito del re borbonico come per incanto.

NOTA:
"Dopo lo sbarco dei Mille, Garibaldi aveva promesso la restituzione dei terreni demaniali ed una sorta di riforma agraria, cosa che poi, non fu fatta. Tutto si è complicato, perché, a questo sottofondo di guerra sociale che è stato l’incubatore di lungo periodo a questa rivolta, si aggiunsero altri fatti politici. L’estromissione forzata dei Borboni ha naturalmente accelerato notevolmente gli episodi reazionari. Il fenomeno quindi è più complesso di come potrebbe essere schematizzato a prima vista definendo i briganti come fautori sic et simpliciter dei Borbone contro gli invasori piemontesi .
Dieci anni di autentica rivolta contadina hanno provocato migliaia di morti e danni tremendi. Questo lungo periodo di brigantaggio non fu dovuto esclusivamente al fatto politico immediato, ossia all’invasione piemontese, che pure ebbe un suo peso notevole, quanto ad una lotta politica all’interno della società meridionale che trovò sviluppo nell’invasione stessa. Le borghesie locali sostanzialmente erano in continua guerra fra loro per i posti più importanti, perché essere sindaco di un paese o comandante della guardia nazionale o segretario del paese permetteva di avere posizioni di comando, in tramite questo potere, ottenere il famoso possesso della terra. Queste cariche erano molto ambite. Quando si innesca il meccanismo dell’invasione, perché di invasione piemontese si trattò, queste borghesie si dividono al loro interno: una parteggia, fittiziamente, per i Borbone, una parteggia, fittiziamente, per i Savoia. La posta in gioco è il potere politico. Di volta in volta queste borghesie si sono appoggiate all’una o all’altra fazione secondo le convenienze momentane e hanno foraggiato il brigantaggio come arma di pressione rivolta contro gli avversari locali di sempre."
"E’ vero che i piemontesi hanno una enorme responsabilità in questo frangente, tramutatosi per i loro metodi spregiudicati, quando non addirittura criminali (massacri, incendi di paesi, fucilazioni sommarie, etc) in una drammatica situazione di sottosviluppo “coloniale”, ma queste colpe le hanno anche i borbonici, perché hanno sfruttato la popolazione e l’hanno mandata allo sbaraglio per ottenere dei fini politici che difficilmente avrebbero potuto ottenere in altri modi. Soprattutto, c’è l’hanno le classi politiche locali, in particolare la borghesia meridionale, che ha giocato molte parti in commedia, incitati i cosiddetti “ briganti”, li ha sfruttati e, al termine del gioco, se li è venduti. E’ una storia amara."
(Paolo Zanetov, intervistato da Giovanna Canzano - 21-2-2007)

A Napoli esisteva un Comitato dell'ordine cavouriano, e un Comitato d'azione inspirato da Mazzini e da Bertani. Al primo fu ingiunto di non agire se non al momento opportuno, giacché incredibilmente si protrassero a lungo le trattative fra Torino e la corte di Napoli.
Il Re sgomentato dallo sbarco di Garibaldi il 1° settembre, mandò un suo messo per offrirgli in Soveria 50.000 soldati, parte dell'annata e 15 milioni di franchi per guerreggiare contro il papa nelle Marche, o cacciare l'Austria dalla Venezia.

Garibaldi sorrideva dell'offerta, e di quel volersi far onor del sole di luglio. Avevano allora capitolato Ghio e Melendez, e il generale Caldarelli aveva proposto al Comitato di Cosenza di mettersi con tutta la sua gente ai suoi ordini. Insomma in dieci giorni il dittatore aveva disperso quattro divisioni, liberato una ventina di città e di fortezze, e si era aperta la via da Palermo a Napoli!
E proprio a Napoli il 5 settembre il Borbone lasciò la città per Gaeta, e il giorno 7, precedendo in carrozza i suoi volontari, Garibaldi entrò nella capitale del regno con soli 10 seguaci sotto il cannone di S. Elmo e in mezzo a 14 mila soldati di guarnigione borbonica.
Descrivere l'ingresso di Garibaldi in Napoli, chi lo potrebbe? In tutto il popolo ci fu uno scoppio di ammirazione, un fremito di amore, un delirio di gioia. Cinquecentomila napoletani erano liberi; e il liberatore stava in mezzo a loro ! L'intera popolazione si era riversata nelle strade, e fortunati quelli che potevano avvicinarsi al palazzo d'Angri, dimora del Generale, che non volle andare al Palazzo Reale!

Per ben 10 ore durò quella frenesia. Garibaldi, già immerso nelle gravi cure di Stato, era ripetutamente costretto ad affacciarsi alla finestra per accontentare la folla inebriata, insaziabile nell'ammirare e udire il suono della sua voce. Verso le 8, quando le grida e la tumultuosa gioia furono al colmo, fra' Pantaleo comparve dal balcone, dicendo che il Generale, stanco, si era coricato e dormiva.
Un silenzio perfetto seguì al clamore. "Oo padre dorme..." mormoravano sotto voce l' uno all' altro, e le migliaia con calma si dispersero alzando in aria il dito indice, accompagnato da un quasi muto grido: "Viva l'Italia una! una! una!".

Ma in realtà, nonostante il clamore e l'entusiasmo, non c'erano idee politiche precise. Fra gli stessi garibaldini, chi sognava Garibaldi come nuove Re, chi una specie di dittatura popolare senza Parlamento. E chi come il Bertani parlavano della dittatura di Garibaldi, con il segreto scopo di arrivare alla Costituente e poi alla Repubblica.
Le truppe borboniche si ritirano sul Volturno. Mentre le navi da guerra e quelle mercantili nel porto sono requisite.

(( da Cronologia - anno 1860)
A questo punto Cavour anche se voleva iniziare un dialogo con Garibaldi, non gli era più possibile. Bisognava ricorrere al Re che continuava a mantenere ottimi rapporti con il Generale. Il pericolo, Cavour lo presentò al Re in mille modi il giorno dopo l'entrata a Napoli di Garibaldi, l'8 SETTEMBRE.  Il Conte (è la terza volta) e il Farini, presentano le loro dimissioni al Re; "per evitare il pericolo di un conflitto politico gravissimo". Non  vogliono essere gli involontari responsabili.
Rivelano al re che Persano  da Napoli comunicava di aver saputo dagli ambienti garibaldini precise intenzioni ostili alla monarchia. E che le intenzione  di Garibaldi di marciare su Roma avevano un preciso obiettivo, unirsi a Mazzini. E che a Genova Agostino Bertani, del Partito d'azione  con l'appoggio di Mazzini, aveva già raccolto circa 9000 uomini armati  pronti a salpare per invadere lo Stato Pontificio. Se questo incontro-unione  avveniva, il partito rivoluzionario avrebbe guadagnato una forza irresistibile e incontenibile sulla pubblica opinione. Conseguenze: una intempestiva guerra, con la Francia e l'Austria che non sarebbero rimaste a guardare. Insomma un dramma per l'Italia e la stessa monarchia; uno scenario fosco (ma ha dimenticato Cavour  l'Inghilterra, la Russia e la Prussia, che per altri motivi di calcolo politico non dispiace proprio questo "dramma").
Occorreva dunque dissuadere Garibaldi. Il Re si convinse; non accettò le dimissioni perché non voleva modificazioni nella politica e neppure dentro il ministero;  prese la decisione di resistere alle pretese di Garibaldi; infine risoluto  promise di intervenire immediatamente: "...dovessi anche salire a cavallo".

Poi scrisse affettuosamente a Garibaldi; si rallegrava del suo arrivo a Napoli, si congratulava di quanto aveva fatto per la causa comune, gli ricordava il biglietto con le precise  istruzioni inviatogli in precedenza; che le truppe per ricongiungersi con le sue erano già state inviate pronte ad occupare le Marche e l'Umbria; MA... che questi avvenimenti avevano allarmato le potenze di tutta Europa, e che vi era il serio pericolo di essere attaccati dall'Austria, oltre che dalla Francia; quindi conveniva, ed era necessario che l'azione militare avesse una sola direzione "...di non fare nessuna spedizione od attacco senza l'ordine mio".
Il Re ritornava ad affermare la sua autorità assoluta.
Garibaldi gli risponderà l'11, dandogli appuntamento a Roma per essere incoronato Re d'Italia, e nello stesso tempo lo esorta a liberarsi di Cavour e di tutti coloro che stanno ostacolando la sua spedizione. ))))

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