CINQUANTAQUATTRESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTAQUATTRESIMO

MENTANA (ROMA) E NUOVO ARRESTO

Morti e feriti. - I "puritani" vengono. - Casal dei Pazzi. - Si retrocede - A Roma. - La battaglia di Montana. - I chassepots. - Ritirata. - Si ripassa la frontiera - Garibaldi arrestato. - Chiuso al Varignano. - Ritorno a Caprera.

"Principiò alle otto la mesta e muta discesa
da MonteRotondo. Garibaldi cavalcava
in testa della lugubre processione taciturno e solo.
Nessuno parlava; non udivasi che la cadenza di passi lenti,
e il cielo color di piombo formava l' aria appropriata
di questo quadro meritevole del pennello d'Induno
(*).
ALBERTO MARIO.

Il dittatore, solo, a la lugubre schiera
d'avanti ravvolto e tacito cavalcava:
la terra e il cielo squallidi, plumbei, freddi intorno.
Del suo cavallo la pesta udivasi guazzar nel fango:
dietro s'udivano passi in cadenza,
ed i sospiri de' petti eroici ne la notte.
GIOSUÈ CARDUCCI.

(*) Carducci stesso mise in testa
della prima edizione della sua
"Mentana» queste parole di Mario.


Il numero dei morti e dei feriti a Monte Rotondo toccò i 200. I 300 prigionieri fatti da Garibaldi furono mandati alla frontiera. I nostri feriti, non caduti nelle mani degli zuavi, furono trasportati a Monte Rotondo ove giunse pure il maggiore Cipriani, capo medico in quella campagna, il quale li fece condurre tutti alle proprie case.
I feriti papalini furono curati con ogni scrupolo in Monte Rotondo stesso, ove rimasero anche alcuni dei nostri non in stato di poter essere trasportati.

Aspettando di congiungersi con Acerbi e Nicotera, il Generale lasciò un solo battaglione a Monte Rotondo, un altro a Mentana; spedì il Pianciani a Tivoli; il 29 dormì a Castelgiubileo, da dove si diceva volesse entrare in Roma, dopo aver espugnato Monte Mario.
Aveva nominato capo del suo stato maggiore il generale Fabrizi e vicecapo Alberto Mario, che non si staccò mai da lui durante tutta la campagna, se non per portare ordini ai vari corpi. Non vi può esser dubbio che i papalini aspettassero Garibaldi, dato che tutte le porte della via Salaria, di via Nomentana, e le ville al di fuori erano occupate dalle truppe e dall'artiglieria, e il celebre Monte Mario era posto in stato di difesa.

Per la seconda volta i romani si decidevano ad agire; purtroppo si sapeva di Enrico Cairoli e di altri della sua schiera, morti, e di Giovanni ferito gravemente. Per incoraggiarli, Garibaldi faceva accendere nella notte fuochi su tutta la linea e teneva pronte le barche; una persona sicura giunta dal di fuori lo aveva informato che tutto era finito, che non vi era da sperare un moto insurrezionale dentro la città, che le truppe papaline sarebbero avanzate in quello stesso giorno.
I volontari si rifecero baldi e pieni di speranze come nel 1860, non appena udirono la parola "avanti !" e Garibaldi stesso apriva la marcia con lo stato maggiore e alcune guide a cavallo per eseguire una ricognizione; un solo battaglione aveva avuto l'ordine di rimanere a Castelgiubileo, e Menotti si faceva avanti con tutta la sua gente. Giunti a Casa dei Pazzi, trovarono la torre occupata dagli esploratori pontifici, ai quali si andò così vicini che uno di essi ferì una guida e sarebbe stato anche facile colpire Garibaldi.

Visitando poi nel 1870 quei luoghi con mio marito, lo stesso guardiano ci confermò che la torre era allora veramente occupata dai papalini, ma che furono presi da tale sgomento alla vista di Garibaldi, che per il momento si nascosero, e appena riusciro, scapparono al di là del ponte.

Garibaldi giunse a Marcigliana con Agostino Bertani, il quale, benché non prendesse parte ufficiale al servizio sanitario di quella campagna, decise di stabilire in quel luogo un'infermeria, caso mai il combattimento, che sembrava incominciato, continuasse. Frattanto si facevano arrostire capretti e tacchini comperati lungo la strada, perchè anche mancando i feriti, non vi sarebbe stata penuria di affamati.

Raggiunti in seguito i volontari fra il Casal dei Pazzi e villa Cecchina, li vidi tutti starsene con le armi al piede senza rispondere ai papalini che avevano fatto saltare in aria il ponte Salario, già precedentemente minato come il Nomentano.
Volendo il Generale operare soltanto una ricognizione, le truppe erano state scaglionato fra Marcigliana, Casal dei Pazzi, la Cecchina con ordine severissimo di non tirare un colpo.
"Torniamo a Monte Rotondo" mi disse il Generale allorché gli portai il pranzo; e immediatamente ordinò a Fabrizi e a Mario di comandare la marcia; al tramonto i papalini ripassarono il ponte Nomentano ed il Generale fece accendere dei grandi fuochi su tutte le colline, avvisando Mario che prima dell'alba tutte le truppe dovevano essere in marcia per Monte Rotondo. Egli passò la notte con i suoi intorno al fuoco a villa Cecchini. Il dottore ed io rifacemmo a piedi la via fino a Marcigliana; qui giunti, ci accorgemmo presto che i volontari consideravano quest'ultima marcia come il segnale di una ritirata definitiva.

Questo perchè era stato diffuso in quel giorno fra i volontari il proclama del Re in cui Garibaldi veniva qualificato ribelle, e si era pure fatta correre la voce che i francesi erano sbarcati a Civitavecchia. Ebbe luogo una scena desolante: pur così ottimisti il mattino, essi gettarono via i fucili esclamando "questo é un secondo esodo del Tirolo!"
Chi annunziava che la truppa regolare era venuta a cacciarli, e chi affermava impossibile l'impresa con i francesi a Civitavecchia. Allorchè uscimmo all'alba dalla Marcigliana vedemmo tutto all'intorno i campi sparsi di armi abbandonate dai disertori, e che il dottore fece raccogliere e mettere sopra un carro. Indi raggiungemmo il Generale, che passava di là in quel momento. Mario, che era restato ultimo ed era salito sopra un'altura per seguir con lo sguardo gli ultimi battaglioni che sfilavano, vide, all'alzarsi del sole, il cannone del nemico sopra il ponte e udì rimbombare alcuni colpi. Entrato poi il nemico nella villa Cecchini e al Casal dei Pazzi, fece pure prigionieri alcuni genovesi.

Le diserzioni continuarono per tre giorni; triste vicenda di cui non é un mistero la causa. Un volontario della ex legione romana che era stato a Castelgiubileo mi narrò che in mezzo ai volontari pullulava quell'elemento disfattista di cui parla Fabrizi nel suo rapporto, quell' elemento che di diserzioni faceva propaganda anche con l' esempio, e che era formato di emissari del governo.

Tornati a Monte Rotondo con Garibaldi, lo stato maggiore si accinse frettoloso ad un lavoro di organizzazione. Sapendosi che il nuovo Ministero aveva dato ordine di sospendere ogni soccorso al confine di Passo Corese, fu decisa la marcia per Tivoli onde aspettar qui Nicotera. Ma questi subì sventuratamente le torture paurose della guerra civile, prestando ascolto agli agenti provocatori Antinori e Bennati, lasciandosi pure ingannare da Orsini e affidandogli il comando per ritirarsi a Napoli.

Non parliamo poi di quanti discorsi corsero sui fatti del giorno. Si sapeva che le truppe regolari erano entrate da vari punti nel territorio pontificio, e di ciò parlava più di ogni altra cosa chi era mosso dalla speranza che si avviassero a Roma prima dell' entrata dei francesi, anziché dal timore che volessero prevenire un conflitto fra questi ed i volontari.
Con quanta gioia questi ultimi avrebbero messo il piede nella città eterna anche in coda all'esercito, e quanto volontieri Garibaldi ne avrebbe dato l'esempio!

Il sabato mattina il Generale, che dimorava nel palazzo Piombino, mi domandò se ci fossero prigionieri notevoli fra i papalini; avendogli io nominato il capitano Quatrebras ed altri ufficiali, mi dette l'incarico di andare a Roma per ottenere il cadavere di Enrico, e per ricondurre Giovanni ferito facendone il cambio con i prigionieri.
Canzio mi preparò le carte necessarie, e mio marito, cui non piaceva troppo che io intraprendessi quel viaggio, si fece dare per me da Ricciotti due guide. Io richiamai dall'ospedale un caporale degli zuavi ferito leggermente ed in una carrozza procurata da Terni mi avviai verso mezzogiorno per via Nomentana. Lo zuavo ebbe gli occhi bendati fino agli ultimi avamposti, e quando ci avvicinammo al monticello che precede il ponte vidi i suoi occhi sfavillare di gioia. "I francesi ?" domandai. "Sì" rispose.
Le guide mi imbarazzavano e tentai di persuaderle a ritornare indietro, ma per la consegna avuta, non si piegarono, e si andò avanti.

Al ponte Nomentano ci fu ordinato di fermarci. Io dissi d'essere incaricata di una missione al generale Kanzler e di non potere consegnare alcune lettere che a lui; l'ufficiale, che mi aveva impedito di procedere, ed era proprio un francese, il capitano Simon, mi rimise con lettera al generale de Pailly, trattenendo prigionieri le due guide al ponte. Ma io insistetti sempre per vedere il generale Kanzler e finalmente fui condotta a lui. Non dimenticherò mai lo squallido aspetto della città, le facce sgomentate in cui mi imbattevo, le truppe disseminate dovunque in evidente attesa di una sortita. Voci francesi risuonavano da ogni parte con prepotenza di chi parla da padrone.

Il generale Kanzler, dopo avere appreso dallo zuavo che i suoi feriti erano ben trattati, si mostrò interessato della proposta di uno scambio, mi diede una lettera per il cardinale Antonelli, e mi assicurò che il cadavere di Enrico Cairoli ed il ferito suo fratello sarebbero di buon grado cambiati con il Quatrebras, a lui e ai suoi molto caro.
Ma appena la mia carrozza si mosse, vi saltò dentro un ufficiale che mi tolse di mano la lettera per il cardinale e se n'andò con essa lasciandomi sotto buona guardia di francesi, un dei quali non so se per dileggio o in tutta serietà mi mostrò e mi spiegò il nuovo micidiale fucile "chassepots".

Dopo lunghissima attesa l'ufficiale fu di ritorno e mi disse che io ero prigioniera. Non opposi alcuna osservazione chiedendo soltanto di essere condotta dal Kanzler, come infatti avvenne. Giunta alla sua presenza, avendomi egli chiesto dove io volessi essere ospitata, risposi che ogni luogo mi era indifferente purché i custodi non fossero francesi. E mi si mandò all'albergo di Roma con una scorta di papalini.
Non vorrei mai ricordare quella notte, né il giorno seguente. Ero agitata pensando che i francesi stavano uscendo dalle porte di Roma, e che i nostri non potevano esserne preventivamente avvertiti. Nulla potevo fare, nemmeno in mezzo alla confusione, grandissima di cui mi vedevo circondata, e per la quale avevano dimenticato di cambiare la mia guardia; cosicché, strano a dirsi, io fui costretta di dare gli ordini opportuni all'albergatore e ne ebbi in cambio che di tratto in tratto i miei custodi mi recavano le notizie che essi potevano qui e là raccogliere.

Sfilavano intanto sotto la finestra convogli di morti e di feriti, tutti zuavi e papalini, nessun garibaldino; d'onde io avevo un grande conforto per la certezza della vittoria dei nostri. Ma a qual prezzo si otteneva? Chi sarebbe stato fra i morti? chi fra i feriti? Tale era il supplizio a cui mi sentivo in preda che credetti d'impazzire. Passò la notte senza nuovi incidenti. Solo le notizie della disfatta francese mi confermarono i miei custodi. Ma l'illusione doveva durar poco; verso le 11 antimeridiane il generale Zatti si presentò annunziandomi che io era libera di tornare alla frontiera e che i garibaldini erano distrutti, Garibaldi fuggito, lo stato maggiore parte ferito, parte ucciso, parte prigioniero.

Sebbene io non volessi prestargli fede e mi appariva evidente l'esagerazione delle sue parole, il sangue mi si gelò nelle vene; del resto I'annunzio della mia liberazione non mi permetteva di mettere in dubbio che i nostri fossero perdenti.
Ricordai al generale la promessa fatta di Kanzler: "E la mantengo - egli disse - benché i prigionieri nostri e vostri siano già nelle nostre mani." Mi riaffermò quindi che il cadavere di Enrico Cairoli sarebbe stato restituito alla madre; e mi concesse di visitare l'ospedale dove vidi il fratello Giovanni ferito, fermamente incredulo di una sconfitta di Garibaldi, contento di sé, più contento per la povera madre sua che avrebbe potuto piangere sulla tomba del suo diletto Enrico.

Uscii finalmente di Roma, impaziente angustiata, seguita dallo zuavo che mi era di scorta. Ma presso alla porta dovetti arrestarmi per lasciare il passo allo stato maggiore di Kanzler, e a più di 50 carrozze in cui erano adagiati i nostri feriti. Quale momento d'angoscia! avrei voluto vederli tutti per poter sapere chi c'era chi non c'era. Lo zuavo mi tratteneva in tono supplichevole: "Non discendete per carità, se i feriti si muovono, i nostri tirano."
Purtroppo aveva ragione; chiusi gli occhi, non parlai più, né più mi voltai indietro. Ma poco prima di Monte Rotondo altri cadaveri mi fecero saltar giù dalla carrozza; li esaminai tutti. Erano volti ignoti; corsi pertanto all'ospedale ove si trovava il Quatrebras. Era egli circondato da ufficiali zuavi e francesi; mi si mostrò cortesissimo, e lo udii narrare ai commilitoni che lo si era trattato bene.
Vidi qui pure un ufficiale di marina che sembrava aver assistito alla battaglia "en amateur", e che affermava di aver visto quattro ufficiali sempre alla testa dei volontari. La descrizione udita non permetteva di dubitarne, erano Fabrizi, Guerzoni, Canzio e mio marito Alberto Mario.
Volli visitare Mentana, e ne ebbi il permesso; entrando nella chiesa, che é addossata al castello, vidi il dottor Basetti. Era deputato al Parlamento, ultimo e pietoso amico dei morti, e dei moribondi; mi descrisse, come poteva, la battaglia; a Mentana i nostri avevano resistito tutto il mattino, e Bertani era rimasto presso i feriti; ed insistendo i francesi di volerli condurre a Roma, egli li aveva medicati, poi collocati nelle carrozze, nelle quali io li aveva visti; solo e a piedi era quindi ritornato alla frontiera, pregando Basetti di rimanere con quei pochi morenti, che non era possibile trasportare. Questa fu la seconda campagna in cui i medici stettero nel maggior dei pericoli, e fino all'ultimo istante, per compiere il pietoso ufficio.

E si noti che, nel 1866 come nel 1867 il corpo sanitario non era protetto dalla Convenzione di Ginevra della croce rossa. Ripassata anch'io la frontiera, incontrai il dottor Bertani, Cipriani , ed altri amici; e da essi appresi i particolari della catastrofe che udii poi in tutta la sua ampiezza da mio marito, rimasto sempre a fianco del Generale. Quali desolanti particolari !
La marcia da Monte Rotondo per Tivoli indetta per la mezzanotte non poté cominciare che a mezzogiorno a causa del ritardo dell' arrivo delle scarpe. Il castello di Monte Rotondo guarda la strada che dalla piazza conduce sulla via Nomentana, a Mentana e di là a Roma. Mentana é così infossata al fondo della valle che nemmeno dall'alto del castello di Monte Rotondo la si vede; anche le case rimangono nascoste, e si scorge solo un convento, ed a sinistra, sopra una collinetta, una villa isolata, che é la villa Santucci. Più in discesa, sempre sulla sinistra, si erge una chiesa detta il Conventino; verso la strada sono disseminate altre casupole.

Il castello di Mentana giace all'estrema destra uscendo dalla città; in faccia ad esso alcune macchie d'alberi di querce e vigneti; i ruderi della torre dei Marini che é una rovina detta Remorino; più verso Roma un monte scoperto, detto Monte d'Oro; di là da Mentana, a sinistra, verso la congiunzione della strada che mette a Tivoli, ridenti colline incoronate di villaggi che portano i nomi di Monte S. Angelo in Capoccia, Palombara, Monte Lupa, Monte Porzi, e più sotto Monticello della Croce.
Garibaldi mandò, ad occupare questi villaggi il colonnello Paggi con mille uomini; ordinò che nella notte fossero spedite pattuglie verso il ponte Salario, e verso il ponte Nomentano, per tenerlo avvertito dei movimenti dei papalini.

Nel suo ordine del giorno ingiunse a Menotti di muovere la sua colonna a sinistra sulla via di Tivoli; di appostare delle vedette sulle alture con avanguardia a 2000 passi, ed una retroguardia per altri compiti, con ordine rigoroso di non lasciare dietro di sé né uomini, né carri, né bagagli; comandò infine all'artiglieria di marciare nel centro.
Il comandante Menotti, eseguendo le prescrizioni del padre, narra Alberto Mario, testimonio e attore durante tutta la battaglia, mosse un' ora prima della marcia il battaglione Stallo, 1° dei bersaglieri, con le guide e l'ingegnere Viviani di stato maggiore, e gli comandò, oltrepassata Mentana, di spiegare fiancheggiatori sulla destra della strada per coprire il passaggio del corpo, e di resistere fino agli estremi se assalito.
Ma nemmeno il valoroso Stallo obbedì rigorosamente. Seguivano lo Stallo e formavano l'avanguardia a mezz'ora d'intervallo il battaglione Burlando, 2.° bersaglieri, ed il battaglione Missori, 3.° con i settanta eletti livornesi guidati da Mayer.
Sotto le ali di questa avanguardia muovevano le quattro migliaia con passi spensierati verso Mentana.

Gli alleati verso l'ora pomeridiana s'imbatterono nel battaglione Stallo che occupava le macchie a lato della strada, e, di sopra, la Vigna Santucci. Le truppe pontificie avevano sollecitato l'onore delle prime offese. Tre compagnie di zuavi col maggiore Lambilly aprirono il fuoco a cui rapidamente parteciparono tutto il reggimento ed il battaglione dei carabinieri esteri o due compagnie della legione romana.
Garibaldi in quell'ora si avvicinava a Mentana e gli cavalcavano a lato Fabrizi, Canzio, e Mario. Una guida sopraggiunse annunziatrice dell'attacco. Il Generale comandò a Mario di andare a prendere posizione, mentre lui corse sul luogo a briglia sciolta e stese sulla destra della strada il battaglione Burlando, il battaglione Missori con i 70 livornesi, e ordinò al colonnello Valzania di occupare con il 7.° del maggiore Sabatini, con l'8° del Marani, con il 9° dell'Antongina il colle a destra di Mentana, poiché di qui imperversava l'ira nemica.

Il comandante Menotti aveva già rinforzato la posizione di Vigna Santucci, con il battaglione Ciotti, pronto a Mentana, che formava il centro della linea. Seconda linea di centro, la seconda e la sesta colonna, dentro Mentana; i sopraggiunti battaglioni 21°, 22°, 23° la linea di sinistra. La colonna Cantoni, alla riserva dietro Mentana. Tali i provvedimenti del Generale.

Il maggiore Guerzoni, visto mancare il tempo e la possibilità di occupare fortemente le alture davanti a Mentana, suggerì al Generale di difendere le posizioni più favorevoli fra Mentana e Monte Rotondo. Garibaldi rispose, narra Guerzoni stesso: "Udite quel che ne dice Menotti e se le posizioni davanti sono tenibili."
Menotti assicurò "che davanti stava benissimo."
Il Generale pertanto si affrettò sulla fronte del combattimento cercando qualcuno per riconoscere il nemico, poi ascese col suo seguito alla vigna Santucci a sinistra della strada. Per appoggiare la mossa offensiva degli zuavi, dice il generale De Failly,"ed impedire che il nemico.. girasse loro sui fianchi, il generale Polhés mandò alla loro destra tre compagnie del 2.° cacciatori, un battaglione del 2.° di linea , e alla sinistra un battaglione del 29.° e un cannone. - Il 1° di linea prese posizione sopra un poggio a 800 metri da Mentana e tirò contro il paese con altri due pezzi.

Però i francesi entrarono subito in azione, ed a causa della grande somiglianza delle divise con gli Antiboini al campo garibaldino nemmeno si sospettò della loro presenza. Lo si riseppe soltanto a Firenze. Se Garibaldi avesse potuto capacitarsi che essi, i commilitoni di Solferino, a Roma sarebbero marciati con i pontifici, allora ... o avrebbe sciolto il corpo dei volontari o non avrebbe permesso al figlio gli indugi per attendere le calzature dei volontari.

Accondiscese ai voti del figlio, perché, ad ogni modo, sapeva di bastare contro i soldati di Pio IX. Ma vedendosi a fronte i francesi, si sarebbe visto rivivere in lui il vincitore del 30 aprile 1849.
Tali congetture prendono autorità da una sua lettera al Quinet.
L'abbandono funesto di Monte Porzi e di Monte Lupari, la negligenza ingiustificabile del maggiore Ciotti e le insignificanti esplorazioni dei fiancheggiatori del maggiore Stallo, onde il suo battaglione in un cortissimo spazio precedeva la brigata, permisero al nemico di cogliere all'improvviso i garibaldini in marcia e di attaccarli vigorosamente e obliquamente.

Gli zuavi ed i carabinieri esteri e due compagnie della legione si gettarono nelle macchie a destra della strada e sulla strada, ma ebbero così feroci accoglienze dal battaglione di Stallo, che il capitano de Veaux cadde morto tra i primi, e così rapidamente venivano investendoli da vigna Santucci a sinistra altre compagnie del battaglione stesso e il battaglione Ciotti e in sulla destra Burlando, Missori, Mayer, e il Valzania, da obbligare il generale Polhés ad avanzarsi rapidamente per coprirne le ali minacciate.

"I garibaldini - scrive Kanzler - molestavano con una nutritissima moschetteria la colonna del nostro fianco sinistro".

I pontifici in tal modo fiancheggiati dai francesi con rinnovato coraggio proseguivano nelle offese e in ultimo espugnarono le varie macchie e la strada. Le compagnie di Stallo, raccoltesi dentro il recinto di vigna Santucci, si prepararono a nuova resistenza, ma anche questa importante posizione fu presa con gravi perdite dei nostri dal nemico. Il maggiore Stallo vi ebbe traforate ambedue le gambe da una palla. I garibaldini sopraffatti e sanguinolenti si riversarono sulla seconda linea di avanguardia di Burlando e di Missori.
Garibaldi dalle finestre di vigna Santucci aveva già intuito la divisione del nemico e volle impegnare con una finta la destra ed il centro nostro, di sboccare con le sue maggiori forze sulla sinistra circondarla, riuscendo per la stradella la Fornace al Conventino, dietro Mentana, e aveva spiccato quindi il maggiore Canzio, provvedendo che qui vi fosse moltiplicata l' opposizione e Mentana asserragliata alla meglio.
L'avanzarsi di ben settemila alleati protetti dal fulminare di dieci pezzi di artiglieria, molto ben appostati su zone dominatrici, e l'indietreggiare di tutta la prima fronte dei nostri, produssero una confusione inenarrabile.

I battaglioni si rovesciarono sui battaglioni e si mescolarono insieme irreparabilmente in masse disarticolate; i soldati e gli ufficiali non si riconoscevano più; il campo pareva avviluppato dal turbine; chi gridava, chi combatteva, chi fuggiva, chi si strappava i capelli, chi si nascondeva, tutti comandavano, nessuno ubbediva.
In quell' ora tremenda, lo stato maggiore generale, il vecchio Fabrizi, Guerzoni, Giovagnoli, Adamoli, Canzio, Mario, Bezzi e tutti i capi di corpo e in generale l'ufficialità si lanciarono in prima schiera, affrontando come in un carosello il nemico irruente, e attirando sulla loro orme manipoli di soldati fra i più valenti e contrapponendo qualche diga alla foga dei vincitori, ottennero così di rallentarne la tempesta da vigna Cignognetti, dai Pagliai, dalle prime case di Mentana, dalla cascina della Madonna del Conventino, che i nemici fulminavano da monte Croce.
Ma in ultimo sia vigna Cignognetti e sia i Pagliai si dovettero abbandonare, retrocedendo dietro a Mentana rimasta in mano dei nostri.

In tanto disastro della prima linea e in tanto sbigottimento, era necessario risolvere il problema di predisporre - sotto il fuoco di truppe superiori e imbaldanzite dal buon successo - la colonna di marcia in ordine di battaglia.
Garibaldi, fatti trasportare i due cannoni sul colle dietro Mentana, all'oliveto del signor Pasqui, ne diresse di persona il fuoco. I due pezzi colpirono con così tanta precisione e con tanta strage i nemici che ne trattennero l'impeto e furono costretti a riordinarsi. Garibaldi aveva fatto assegnamento sull'effetto portentoso di questa sosta, di questi minuti di respiro. E infatti, elettrizzata dai comandanti, tutta l' informe moltitudine garibaldina fu prontamente schierata in battaglia, con gli ufficiali in testa.

Garibaldi sceso raggiante dall'oliveto, comandò una carica generale alla baionetta. Suonarono la carica tutte le trombe, e quei volontari, poco prima sgominati e fuggenti, traboccarono compatti con una tale furia sul nemico, che questi non riuscirono a lungo a sostenerne l'impeto. Di modo che i francesi e i pontifici furono travolti nella medesima rovina dai Pagliai, dove i feriti supplicando a mani giunte gli irruenti, gridavano: "e suis blessé, ne me tuez pas, ne me tuez pas." Proprio loro che trucidavano i nostri feriti !

Il colonnello Menotti scrive con verità nella sua relazione: "Posso assicurare francamente con orgoglio che poche volte vecchi soldati, al comando di attaccare alla baionetta, si lanciarono con tanto valore ed entusiasmo."
Il maggiore Guerzoni esclamò sulla prima fronte dei vittoriosi: "la giornata é nostra. ".
E per assicurare la sperata vittoria, Mario eseguì un movimento sull' estrema sinistra per avviluppare il nemico sul fianco destro, occupò la collina di S. Sulpizio che era alle spalle del nemico e condusse più a destra un altro battaglione per mantenere le comunicazioni con il corpo principale, e intanto il Generalo mandò il valoroso genovese Pasqua ad ordinare al Paggi di piombare da S. Angelo in Monticelli alle spalle dei nemici sconfitti in prima linea, come risulta dalle confessioni degli stessi generali papalini e francesi Kanzler e De Failly.

Ancora per tre ore durava con alterna fortuna l'accanita lotta. Ma Paggi con i suoi mille non si vide mai e neppure il colonnello Pianciani; e sì che bastava l'arrivo di questi, muovendosi da sinistra a destra, gettati da destra a sinistra, per avviluppare gli alleati in un cerchio di ferro e portare al colmo l'ardore dei garibaldini già entusiasmati dalla riuscita della carica a baionetta.
E invece dei soccorsi garibaldini, vennero i francesi di seconda linea in sostegno della prima, disfatta, e dopo un quarto d'ora di sosta, cominciò quel combattimento accanito descritto dal generale De Failly, fra le truppe fresche condotte dal colonnello Frémont e l'intera linea dei garibaldini.

"Come in tutta la giornata (scrive ancora Mario) la mira del nemico perseverò nello sfondare la nostra sinistra, con l'intendimento manifesto di chiudere a tutto il corpo garibaldino la ritirata su Monte Rotondo, di catturare Garibaldi e di portarlo prigiorniero come Giugurta in Roma, trionfando.

«In questa generale alzata di scudi delle truppe fresche francesi e delle pontificie appena ripresisi dallo sbigottimento e serrate nel centro, avvennero le "meraviglie" dei "chassepots" che additò all'Europa il De Failly: dodici spari al minuto!!
Alla destra Valzania, e il drappello livornese del capitano Mayer, al centro in Mentana dal castello il battaglione Burlando, dalle case e dalle barricate altri mille, che qui si erano riparati, dopo l'infortunio della prima ora, fronteggiavano vantaggiosamente il nemico, al quale aggiunsero contro l'estrema destra le tre compagnie, duce il maggiore Troussures, invano distaccate il mattino dal Kanzler per accennare a Monte Rotondo e minacciarci l'ultima retroguardia.
Il Troussures, voltata la schiena alla via Salaria, obiettivo impostogli, ripiegò verso la sinistra degli alleati, parendogli la loro compagnia più contenta del proprio isolamento.

« A causa della rinnovata battaglia, il capitano Pasqua fu richiamato dalla sua i ineseguibile missione dal colonnello Paggi.
Garibaldi, sicuro alla destra e al centro e a Monte Rotondo, nonostante ripetuti messaggi che quest'ultimo fosse in pericolo, converge tutta la sua attenzione sulla sinistra.
Si affrettò egli stesso, sempre seguito dal prode Canzio, al centro della posizione tenuta dal Valzania per battere con uno dei due cannoni di fianco i francesi che procedevano sulla sinistra. Bruciate in pochi minuti le residue cariche, Garibaldi ricomparve verso il poggio de' Pagliai per sospingere il maggior nerbo dei suoi contro il nemico, il quale, tempestando, avanzava da Villa Santucci che ai nostri non era riusciti di riprendere.

"In queste supremo cimento i suoi uffiziali gli si segnalarono sotto i suoi occhi con disperate prove di coraggio. Fabrizi, Menotti, Guerzoni, Cella, Bezzi, Frigesy, Elia, Tanara, Pietro Perla, Missori, Cantoni e altri contrapponevano attacco ad attacco, e quando il valore dei soldati era annichilito dalla schiacciante superiorità degli alleati, o dall'esaurimento delle forza, o dalle consumate munizioni, o dalla tirannia dell'impossibile, rimanevano soli, combattevano soli.
Ma ben presto li raggiungevano altri soldati, i più intrepidi.
All'estrema sinistra, Nisi e Ravelli, ai quali s'aggiunse il 10° del maggiore Nodari in sostegno, bersaglio aperto del colonnello Frémont, ne frenavano con fermo coraggio la sua discesa da S. Sulpizio. E in quest'ora terribile capitò il colonnello Menotti. Una granata gettataci dal fianco diritto ci avvisò che la sinistra indietreggiava, lui vi accorse velocissimo, tentò pure un nuovo impeto ma inutile. A nulla approdò l'eroismo di codesta battaglia di ufficiali.

"Fu giocoforza retrocedere sotto un ombrello di fuoco dei chassepots e delle artiglierie, che seminavano di cadaveri e di piagati la campagna.
Eppure ancora si combattè, ultimo simulacro di resistenza, dal piazzale della chiesa, dai muriccioli. Forse più ostinate prove avrebbero con evidente sconfitta mutata la ritirata in fuga, però i difensori di Mentana ebbero ordine di andare indietro e raccogliersi a Monte Rotondo, ma, indugiandovisi, mancò loro il modo di obbedire, essendo circondati dal nemico.
Lo tentarono invano appena calata la notte. Il sottotenente De Aspra di Belluno con un drappello de' più arditi provò a saggiare la via di Monte Rotondo su ordine del comandante Maggiolo; ma vi ebbe un'accoglienze a suon di carabinate.

"Il colonnello Valzania, alla destra, protrasse la difesa, ma minacciato di fianco radunò in fretta i resti del 7° e dell'8° e col 9° intero ripiegò, su Monte Rotondo, sottraendosi al movimento aggirante del nemico. Il capitano Mappelli, dei Mille, si ritrasse in tempo dall'estrema destra con la 9a compagnia del battaglione Rovighi. I resti della compagnia Battista dello stesso battaglione, tagliati fuori, abilmente sfuggirono alla vista del vincitore.
Anche all'estrema sinistra furono inutili le prodezze del battaglione Nisi, il quale dovette addossarsi al battaglione Ravelli, ed entrambi a quello Nodari; e furono retroguardia nella ritirata, e la loro audace marcia su S. Sulpizio ebbe risultati decisivi, avendo previsto la mossa strategica del Frémont, intesa a tagliarci tutti da Monte Rotondo.
Il generale Lante di Montefeltro, alla comparsa della seconda linea francese, e accortosi pure lui della manovra sulla nostra sinistra, vi spinse quanti gli vennero sottomano a Monte Rotondo, assumendo alle 2 e 3/4 il comando della riserva, e contribuì a tenere in scacco il nemico.

I tre battaglioni della estrema sinistra, ricacciati dalle pendici di S.Sulpizio, indietreggiavano ultimi verso Monte Rotondo. E mentre i cacciatori del 2° battaglione li caricavano ripetute volte e le artiglierie li tempestavano, il 1° di linea, poggiando, dice de Failly, verso l'estrema sinistra dei garibaldini per minacciare la loro linea di ritirata, eseguì subito sui garibaldini, addossati in disordine sull'erta che porta a Monte Rotondo, un fuoco a volontà che seminò morte e principalmente lo scoraggiamento" (Garibaldi, per Alberto Mario).

"Mentre per estrema necessità, Garibaldi con i suoi si ritirava a Monte Rotondo con i valorosi, che secondo Kauzler avevano sostenuto e respinto ogni attacco, una parte di essi rimase tagliata fuori a Mentana ove erano già raccolti tutti i feriti sotto la cura di Bertani, che qui stava a custodirli. Questo fatto lo ignorava Garibaldi, come ignoravano la sua ritirata e certamente i cadaveri che io vidi stesi sul dorso, sopra le colline che da Mentana portano a Monte Rotondo erano di quei volonterosi che accettarono il difficile incarico di portare notizie da Mentana a Monte Rotondo.
Non interamente esatto il vanto del generale De Failly che scriveva:
"Tutte le truppe passarono la notte sul campo di battaglia, lasciando i loro posti avanzati a mezzo tiro da Mentana, e pronte a ricominciare l'attacco all'alba".
Sul campo di battaglia, ma meno Mentana!!!

"Inoltre, se pensiamo che gli eserciti francesi e papalini riuniti a fine della sera, vittoriosi, e padroni di tutte le alture, non osarono impossessarsi di Mentana e dei suoi difensori, preferendo invece dormire all'aria aperta, si riconosce giusta la frase di Mario: "ingloriosa notte."

A Mario diamogli ancora la parola, perchè testimonio oculare.

"La via, che porta a Monte Rotondo, prosegue per un terzo di chilometro prima di arrivarvi, fra due alture: quella di sinistra si porta ai Cappuccini; su quella di destra sorge una casetta. Garibaldi, disceso da Monte Rotondo, si recò a cavallo in questo punto della via; al giungervi dell'ultima schiera, comandò di presidiare i Cappuccini e la casetta. Nessuno gli obbediva; ogni forza era ormai indebolita, ogni volontà spenta.
Garibaldi, sul campo di Mentana, dopo la vittoria, all'affacciarsi della seconda linea che riprendeva la battaglia, accortosi della esitazione, urlava inutilmente: "sedetevi e vincerete!".

"Livido, fremente, e piuttosto angosciato, proruppe: "Ah non ricoscete più dunque il vostro generale?"
A queste parole si ridestarono gli spiriti dei più valorosi, i quali all'alba della mattina dopo salirono sulle due sommità indicate, naturali fortini di Monte Rotondo. Con una certa difficoltà munirono di difensori gli altri punti d'importanza nel cerchio esterno. Monte Rotondo fu rapidamente e saldamente sbarrato. Erano le cinque.
Il Generale montò sulla terrazza della torre Piombino ad esaminarvi le mosse nemiche. Il nemico comparve lontanissimo e piuttosto scarso, poi si ritrasse su a Mentana. Il Generale, risoluto fino agli estremi sbaragli, preparò le ostilità del giorno seguente.

I più valorosi tra gli ufficiali superiori, che si coprirono di gloria, rifugiatisi lassù, affidarono al generale Fabrizi lo scabrosissimo ufficio di parlare a Garibaldi di una ritirata su Passo Corese. Il quale poco prima, parlando con qualche ansietà proprio del Fabrizi non ancora ritornato, esclamò: "Oggi Fabrizi fu magnifico!".
Con parole che potessero rimuoverlo dal pensiero di una vana resistenza, Fabrizi gli ricordò la causa prima del cammino fatto a ritroso da Monte Rotondo per difetto di munizioni.
"Molti soldati, - poi aggiunse, - non hanno una sola cartuccia e pochissime ne hanno gli altri, donde l'abbattimento morale, e la certezza di un disastro. Questa, o Generale, è la condizione dei più arditi dei vostri ufficiali; sempre pronti però ai vostri comandi. Considerate, Generale, che, perduta oggi inesorabilmente Roma, obiettivo dell'impresa, quand'anche noi riforniti d' ogni cosa necessaria, ogni eroico sforzo sortirebbe un esito infruttuoso."

"Garibaldi tacque. Gli si gelava il sangue a tale consiglio. Tutti rimasero sospesi in attesa. Dopo una lunga pausa, voltandosi verso Fabrizi: "Ordinate la ritirata verso Passo Corese per le ore otto".
Erano le sei. Garibaldi vi si risolse perché non sospettò minimamente che i tagliati fuori di Mentana non fossero già prigionieri, o circondati dalle maggiori forze del nemico. E tanto meno lo avrebbe sospettato se fosse stata a lui nota la presenza dei francesi. Difatti più tardi scriveva a Quinet:
"Io non avrei mai creduto che i soldati di Solferino sarebbero venuti a combattere i fratelli che avevano con il loro sangue liberati, e questa credenza mi valse una disfatta. - Ma che i nostri amici di Francia e del mondo vivano sicuri. "Nous récommencerons la besogne."

"Alle otto cominciò dunque la mesta e muta discesa da Monte Rotondo.
Non fu facile fare abbandonare alla colonna Porta S. Rocco, essendo l'intero corpo uscito da una piccola apertura praticatavi. Qui si potè, grazie ai volontari genovesi, parte tratta, parte alzata di peso, farne uscire la carrozza del Generale. Ma egli non volle servirsene. Cavalcava in testa della lugubre processione, taciturno e solo. Nessuno parlava; non si udiva che la cadenza degli zoccoli dei cavalli, e il cielo color piombo formava l'aria appropriata di questo quadro meritevole del pennello d'Induno "
(Garibaldi, per Alberto Mario,)

Avvicinandosi al confine, con uno sguardo pensieroso sul reggimento di fanteria del colonnello Caravà, già suo ufficiale, che lo accolse con rispetto e con affetto di figlio, fremeva nel saperlo desideroso di combattere, e avrebbe dato dieci volte la vita per guidarlo, nucleo ravvivatore dei suoi volontari contro il nemico, e rifare vittoriosamente la via di Roma.
Il dolore che traspariva dalla sua anima altera parve addolcito quando disse a Caravà: "colonnello, fummo vinti, ma assicurate i fratelli dell' esercito che l'onore delle armi italiane non ne sofferse."

Da Mentana nessuna notizia, perchè i valorosi che per 24 ore avevano difeso il villaggio ed il castello circondato da una cerchia di chassepots , avevano avuti i loro messi uccisi. I papalini ed i francesi ingrossavano. Di Acerbi, nessuna notizia. Venne Crispi durante la notte con la notizia che il Governo obbediva puramente e semplicemente agli ordini emanati da Parigi, ed egli pure dimostrò l'impossibilità di ogni ulteriore resistenza.

"Torno dunque a Caprera!... " disse il Generale; e indirizzò il seguente ordine del giorno agli italiani:

"L'intervento imperiale e regio sul territorio romano tolse alla nostra missione la sua meta - la liberazione di Roma. - In conseguenza noi ci disponevamo oggi ad allontanarci dal teatro della guerra, appoggiandoci agli Appennini; ma l'esercito pontificio, interamente libero della guardia di Roma e con tutte le sue forze riunite, ci attraversò il passo. Noi fummo obbligati di combatterlo, e considerando le condizioni nostre, non si troverà strano di poter annunciare un nuovo trionfo. I pontifici si ritirarono dalla battaglia con grandissime perdite, e noi ne avemmo delle considerevoli; ma ci manterremo spettatori della soluzione che l'esercito italiano ed il francese daranno al problema romano, e in caso che questa soluzione non avvenga conforme al voto della nazione, il paese troverà in sè stesso nuove forze per riprendere l'iniziativa e sciogliere la vitale questione."

Ad uno ad uno i volontari dovettero consegnare le armi all'ufficiale italiano che comandava il posto e che le riceveva in silenzio, con gli occhi pieni di lagrime per il gravoso compito; molti dei soldati piangevano pure loro dirottamente. Essi non avrebbero seguito l' esempio che Cialdini diede in un altro giorno verso il ferito di Aspromonte. Erano le 6 ant. , quando il convoglio speciale partì per Firenze, trasportando Garibaldi accompagnato da Crispi.

A Perugia la stazione era occupata militarmente, ad Arezzo salirono sul convoglio i carabinieri; la stazione di Figline era occupata pure essa dai carabinieri e dai bersaglieri. Qui salì nella carrozza del Generale il luogotenente colonnello Camosso, che facendo scenderne tutti gli ufficiali e lo stesso Crispi, avvertì il Generaie con modi rispettosi, ma risoluti, che aveva il doloroso compito di arrestarlo. Il Generale scese dalla carrozza e domandò:
- "Dov'è il mandato regolare dell'arresto?"
- "Ho l'ordine di arrestarla" rispose il colonnello.
- "Ed io rifiuto di arrendermi se non alla violenza. Io sono deputato al Parlamento; fui generale della Repgbblica Romana; delegato dell'assemblea costituente a rappresentarla; su quel territorio ho combattuto contro il papa; ed al confine del Regno d' Italia io deposi le armi. Nessun atto ostile ho commesso contro questo Stato, perciò voi non avendomi colto in flagrante reato, violate la legge - non mi arrendo - fate il vostro peggio."

I figli di Garibaldi, Mario e gli altri impugnarono i revolver facendo cerchio al Generale che si era seduto nella stanza d'aspetto.
Crispi polemizzava contro il Camosso e telegrafava a Gualterio ministro dell'interno, stigmatizzando l'inqualificabile arresto.
Gualterio, anzichè rispondere a Crispi, ordinò al Camosso l'arresto ad ogni costo. Saputosi questo, Canzio e tutti gli altri puntarono i revolver contro carabinieri e bersaglieri, che vista questa resistenza si sbandarono.
Garibaldi, sulla cui faccia il focoso sdegno aveva dato luogo ad un sorriso carezzevole per tutti i suoi, disse loro:
"Non spargete sangue italiano per me; ve lo proibisco"
ed al Camosso: "Usate la forza."

Invano Camosso lo pregò di arrendersi.
"Non mi faccio complice della vostra illegalità" disse il Generale.
Allora Camosso ordinò ai carabinieri di trasportarlo in carrozza; il che essi lo fecero prendendolo uno sotto le ascelle, e l'altro dai piedi. Egli non fece nulla, e come un corpo morto quelli lo stesero nella carrozza.
Appena giunto al Varignano, scrisse al ministro degli Stati Uniti la lettera seguente:

Il solo Canzio e Basso riuscirono ad accompagnarlo al Varignano, dove ogni giorno il Governo apriva nuove trattative perché Garibaldi desse la sua parola di non muoversi da Caprera, oppure di viaggiare per un anno a bordo di un vapore da guerra dello Stato; ovvero visitare le Piramidi, ecc., ecc.
"Che Piramidi d'Egitto!" Garibaldi rispondeva. "Io intendo tornare a Caprera libero, come un deputato ed un generale dell'esercito italiano, com'è il diritto di chi non ha mai violate le leggi dello Stato."
Ai giudici che si presentarono al Generale per fare l'istruttoria, gentilmente egli mostrò la porta consigliandoli di andare a Nizza a prendere informazioni sul suo nome, cognome e antecedenti.

Informato da Crispi dell' avviato processo, Garibaldi diede l'incarico allo stesso Crispi di difenderlo, promettendo di farsi trovare a Caprera fino al 1° marzo 1868, "giacchè - soggiungeva - spedizioni nell'inverno non si fanno".

Il giorno 26 fu messo in libertà. Gli uffiziali dei carabinieri e dei bersaglieri giunsero in gran tenuta ad accomiatarsi dal Generale; tutta la guarnigione sotto le armi gli rese gli onori.
Il giorno 27 Garibaldi ritornò alla sua Caprera per non lasciarla più fino al giorno in cui volle offrire tutto ciò che restava di lui alla Francia oppressa ed invasa.

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E proprio di questa guerra ora accenneremo
nel prossimo capitolo

CINQUANTACINQUESIMO CAPITOLO >

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