CINQUANTACINQUESIMO CAPITOLO

GARIBALDI IN FRANCIA
INTANTO A PORTA PIA...
La guerra franco-germanica. - Le vittorie di Weissemburg e di Worth. - A Roma! A Roma! - Garibaldi e la gioventù italiana muovono al soccorso di Francia. - A Dôle. - Stato precario dei garibaldini. - Gelosie di Gambetta e dei generali francesi. - Entusiasmo delle popolazioni. - Garibaldi improvvisa un esercito nel paese invaso dal nemico. - Sua rigida disciplina. - Rovesci dei francesi nel mese di ottobre. - Garibaldi ad Autun. - Vittorie di Ricciotti a Chatillon, di Garibaldi a Pasques e Prenois. - Tentata sorpresa di Dijon fallita. - Ritorno a Autun. - Vittoria.

"Avvi un eroe in Europa; uno solo.
Non ne conosco due.
Tutta la vita sua è una leggenda.
Siccome ha le maggiori ragioni d'essere
malcontento della Francia
e siccome gli fu rubata Nizza,
e siccome si tirò contro di lui in Aspromonte e a Mentana,
voi indovinate che quest'uomo vola a immolarsi per la Francia.
E quanto modestamente!
Poco monta se lo si mette al posto più oscuro e men degno di lui....
Grand'uomo! sempre più alto della fortuna.
Come la sua sublime piramide,
sale continuamente e s'ingigantisce verso l'avvenire "
MICHELET.

Quand'anche la guerra franco-germanica non fosse stata provocata dal governo imperiale, quand'anche il torto di quest'ultimo non fosse stato così evidente, la maggioranza degli italiani avrebbe ugualmente fatto voti per la sua sconfitta, tanto era diventata intollerabile la jattanza francese e umiliante il predominio del Napoleonide.
Solferino aveva passato la spugna sul ricordo di antiche offese e di quella recente e cocente della spedizione di Roma
del 1849, aveva rimosse diffidenze che parevano invincibili, disarmate ripugnanze credute insormontabili verso Napoleone III.

Ma distrussero questo benefico risultato i fatti che vennero dopo, e tutti i fatti, i maggiori come i minori, perché in ciascheduno c'era una insolenza, o una irrisione, o un inganno, o una ostilità: gli articoli dei giornali come l'incorporazione di Nizza, i discorsi della tribuna come il trattato di settembre, l'imposto disegno di guerra nel 1866, infine come la battaglia di Mentana!!
Di conseguenza, le notizie delle vittorie di Weissemburg e di Worth via via fino a Sédan non suonarono sempre sgradite alle orecchie degl'italiani. Anzi.
Essi godevano per la giusta causa che trionfava, ma ancora più per la superbia francese stremata, indebolita e per l'impero napoleonide infranto; sentivano in certo modo in ogni vittoria
germanica una vendetta italiana, insieme a quella disinteressata compiacenza che si prova per la buona fortuna di un benefattore; di modo che nessuna persona di buona fede aveva dimenticato che la Venezia era pervenuta all'Italia attraverso Sadowa, che la Prussia non aveva chiesto né avuto compensi, né in nessun modo o tempo posato o pesato quale benefattrice.

Il 1° settembre Napoleone III è sconfitto e fatto prigioniero dai prussiani nella battaglia di Sedan. Il 4 settembre il telegrafo annunziava la caduta dell'Impero e che a Parigi si era proclamata il ritorno della Repubblica. E non ci voleva meno di questo pauroso fatto per costringere il costernato governo italiano a scegliere fra la rivoluzione o l'ingresso in Roma.
Questa imposizione fu dovuta alla sinistra italiana che minacciò le dimissioni in massa dei suoi deputati se non si procedeva all'immediata occupazione di Roma. E Garibaldi stesso dichiarava di essere pronto ad accorrere con i suoi volontari in difesa della nuova repubblica francese.

"A Roma! a Roma!"
si gridò coi pugni stretti dalle Alpi al mare.
E dopo più riunioni di ministri, presiedute dal Re, si dovette sottostare alla dura necessità e si decise all'unanimità di occupare Roma, previo un ultimo tentativo di accordo col papa per evitare uno scontro armato.
Il tentativo di accordo era una lettera di Vittorio Emanuele II, inviata tramite il conte Gustavo Ponza di San Martino, con la quale si invitava il papa ad accettare l'occupazione con tutte le dovute assicurazioni e "garanzie necessarie all'indipendenza spirituale della Santa Sede".
Il 10 settembre Pio IX respingeva le trattative con il governo italiano.

Due giorni dopo le truppe passarono il confine.
Ai generali Cadorna, Bixio, Angioletti fu ingiunto di arrestarsi otto miglia lontano da Roma. Ancora si sperava di allontanare dal labbro quel calice amaro. Ma l'imperativo categorico della volontà nazionale rendette inevitabile la continuazione del gran sacrilegio; ma il pio comandante supremo delle forze di terra e di mare ordinò di non gettare nemmeno un grano di spelta contro la città Leonina e di non rispondere al fuoco dei suoi difensori.

 

Difatti sotto porta S. Pancrazio, Bixio rimase esposto per quattro ore ai fulmini delle batterie del Vaticano. Fremeva egli, il vecchio soldato della repubblica romana, ma dovette puntare le sue artiglierie su un più profano obiettivo.

Il cannone italiano alle 10 del mattino del 20 settembre, ruppe le mura aureliane di porta Pia ....

... e l'esercito entrò in Roma, preceduto dalla lettera del Re al Papa, nella quale:
"....l'umilissimo, l'obbedientissimo e il devotissimo figlio del beatissimo padre candidamente confessa che, solo per salvare la propria corona e quella del Papa dalle ultime offese della rivoluzione cosmopolita che gli turbinava alle reni, assumeva la responsabilità dell'ordine nella penisola e della sicurezza della Santa Sede, occupando a tale scopo le posizioni indispensabili; prometteva di restringersi assolutamente ad un'azione conservatrice e tutelare i diritti facilmente conciliabili delle popolazioni romane con l'inviolabilità del sommo pontefice e della sua spirituale autorità e coll'indipendenza della Santa Sede. E finalmente prega Sua Beatitudine di volergli impartire la sua apostolica benedizione."

Ma "Che giova proclamare l'immunità della persona e della residenza del Romano Pontefice -si chiedeva Pio IX - quando il governo non ha la forza di garantire dagli insulti giornalieri cui è esposta la nostra autorità, e dalle offese in mille modi ripetute alla nostra stessa persona?".

L'Italia esultava e delirava per il portentoso avvenimento; vedeva il potere temporale soppresso, l'unità compiuta, stabilito lo Stato.
La maggioranza della democrazia italiana diceva: "Da cosa nasce cosa: se il gran problema non é posto nelle leggi, é posto nelle menti; se non si seppe sciogliere prima di avere Roma, lo si scioglierà dopo averla avuta".

I due uomini più eminenti di questa maggioranza non pronunciarono una sola parola, perché uno (Pio IX) prigioniero a Gaeta, l'altro bloccato a Caprera. Codesto modo di andare a Roma non era conforme al loro ideale, era nondimeno la sorprendente effettuazione, era il trionfo sostanziale del sogno di tanti secoli, dell'idea che un solo uomo fece capace i suoi concittadini di poter tradurre in fatto. Quarant'anni fa (ricordiamo che Jessie scrive nel 1884) i mondani chiamavano Mazzini utopista, pazzo, perché lavorava, scrivendo, cospirando, agitando, al conseguimento di tale fatto. Solamente pochi giovani ci credevano, ma ci credevano !! al punto di morire per esso, come Ruffini e Tola e Vochieri e i Bandiera. E venticinque anni fa Metternich candidamente dichiarava essere l'Italia una "mera espressione geografica", e davanti Rouher lanciò in faccia ad essa il suo tracotante "jamais".

E questa varietà di sensazioni, di impressioni e di pensieri s'impossessarono di tutti quanti avevano cospirato con Mazzini e combattuto con Garibaldi. Donde l'effetto singolare a sentire i soldati dell'esercito regolare reduci dall'assalto di porta Pia che canzonavano chi entrava in Roma dopo di loro per la strada che "essi" soli avevano aperta.

E questo discorso scortese e convinto dei soldati faceva perfetto riscontro alla dura frase dei generali gettata ogni giorno in faccia ai romani: "Noi siamo entrati per la breccia !!!." Che era come voler dire "qui ora comandiamo noi!".
In verità i romani non meritavano l'oltraggiosa frase; i generosi romani con perseveranza aveva speso vite umane, denari e vissuti nel travaglio per 17 anni, mentre quei generali comandati dai politici, con il loro "ingegno" negli stessi 17 anni avevano impedito qualsiasi movimento rivoluzionario.

Ora in fretta e furia il 2 ottobre si sanzionava l' "annessione" al regno sabaudo con il solito "plebiscito".

E il 2 ottobre i romani divisi in colonne di esuli rimpatriati, di negozianti, di scultori, di legisti, di operai, ecc., attraversarono Roma per tutti i versi con facce radianti, eppur serie e solenni, per deporre nell'urna il sì all' unità d'Italia.
(questi i risultati: Su 167.548 cittadini iscritti alle liste elettorali i votanti furono 135.188; i voti favorevoli 133.681. E pur essendoci nelle urne i palesi 1507 voti contrari, mancarono all'appello 33.867 cittadini - Ndr.).
Gli assenti vivevano sulla simonia dei preti e questo significava la rinuncia ai mezzi di sostentamento di almeno ventimila famiglie.

La passione della libertà, che svolgeva tale sacrificio generoso, nobilitava il voto e avrebbe anche dovuto suscitare un senso d'alto rispetto nei generali di Vittorio Emanuele; tanto più che essi avrebbero dovuto considerare che come Sadowa liberò la Venezia, Sedan liberò Roma.
Questo era il pensiero dominante dei votanti del Sì; e in molti c' era un arcano senso di gratitudine verso i Prussiani per avere, pur senza intenzione, vendicato i caduti di San Pancrazio e di Mentana. Donde per essi fu dolorosa sorpresa quando seppero che Garibaldi era sbarcato a Marsiglia "per dare alla Francia" (Repubblicana - e non a Napoleone), secondo il detto suo, quanto restava di lui, troppo recenti erano le offese e gli insulti dei generali e soldati napoleonidi in Roma, degli agenti del basso impero, in Parigi; troppo vivamente avevano soffiato dentro i vecchi e mai spenti sdegni perché i Garibaldini potessero sentirsi in grado di ravvisare o riconoscere tutta la magnanimità dell'atto di Garibaldi che fu certamente il più magnanimo della sua vita; tanto più ch'egli non dimenticava mai nulla!

S'impensierì seriamente l' opinione pubblica in tutta l'Italia di questo intervento di Garibaldi, presagendo che sarebbe perito nell'ineguale conflitto, e non approvò quella risoluzione perché lo vedeva obbligato a combattere a fianco di De-Charette e dei suoi zuavi.

GIUSEPPE MAZZINI, appena uscito di prigione a Palermo con l'amnistia, non volle andare a Roma, anzi fu costretto a sostare in città perchè non era per niente in buona salute. Andò poi a Genova, più canuto e più triste che mai, con la fede incrollabile nel trionfo finale dei suoi principi; ma afflitto che solo il fatto materiale dell'entrata in Roma ciò bastasse agli italiani.

Egli rifuggiva da ogni ovazione; l'Italia non fiatò quando fu trattenuto in carcere; e le feste che gli facevano per la sua liberazione grazie all'amnistia gli sembrava ironia amara: e lo rattristava la risoluzione di Garibaldi di andare in Francia portando con se il fiore della gioventù, così necessaria, secondo lui, in patria per impedire che questa cadesse in piena balia del governo.
Mazzini all'inizio nulla si riprometteva dall'esito della guerra francese, né credeva nella durata di una repubblica proclamata come un ripiego; in questa generosa, ma dal suo punto di vista incauta impresa, ravvisava una nuova prova della nessuna fiducia degl'italiani in sé stessi, una nuova prova che tutto si aspettavano dalla Francia, da una generazione scettica, materialista, corrotta da venti anni di servitù, la quale volentieri pagava un governo e un esercito per guadagnarsi gloria e fama all'estero, standosene essa a casa gaudente ad aumentare il tesoro della prosperità interna.

Mazzini però accettava il fatto compiuto; disse e scrisse a tutti:
"Giacché andate, rendetevi degni del nome italiano; io non vi do consigli; non domandatemi istruzioni; a guerra finita parleremo. Se la guerra durerà abbastanza da guadagnarvi la gratitudine della Francia, sono certo che Garibaldi si ricorderà di Nizza e scriverà un'altra pagina nel volume immortale della sua vita."
Iniziò da ogni parte il pellegrinaggio dei giovani verso la Francia. Il loro concorso per altro fu poco numeroso perché costoso il viaggio e ancora più perché la polizia italiana in ogni senso e in ogni luogo li impediva e li arrestava. A Genova dove molti reduci delle antiche campagne si ritrovarono, si tenne consiglio. Ondeggiarono tra il dolore di non partecipate alla sorte del loro capitano e l'invincibile ripugnanza di combattere al fianco dei maneggiatori dei micidiali chassepots.

Costretta dai doveri di corrispondente per giornali americani e inglesi, io (Jessie) passai le Alpi con molto malincuore. La neve copriva di un piede di altezza le rotaie della ferrovia Fell, per cui l'avanzarsi era lento, lentissimo. Durante la salita non nevicava, e il sole coloriva le cime delle maestose montagne con la tinta della rosa alpina, e il verde nelle tiepide valli lontane, e dove fiocco di neve non cadde, brillava come smeraldo incastonato in argento.
L'Italia bellissima sempre vi strazia colla sua bellezza quando le dite addio. E il dover cambiare il dolce Sì per il cicaleccio francese di certo non modifica il dolore.
Giunta a Saint-Michel impossibile trovare notizie precise sulla guerra, tanto meno sapere dove fosse il quartier generale di Garibaldi. Chi disse Dijon, altri Besançon, altri Lyou.

Finalmente seppi che si trovava a Dole capoluogo della Giura, e giuntavi, per un istante, mi potevo illudere essere ancora possibili i briosi giorni del sessanta; solamente le fogge dei soldati erano più pittoresche e i dialetti ancora più diversi; franco-tiratori, di cui ogni compagnia aveva riunito capricciosamente gente differente: italiani, spagnoli, polacchi, egiziani, greci che presentavano un quadro di costumi più che militare di paesani; i mobili (una specie di fanteria di volontari), chi in fusiforme, chi in sabot, chi in blouse come capitavano, dai campi o dalle fucine. Alloggiavano tutti nei conventi dei cappuccini, dei cordiglieri, delle clarisse, delle orsoline, delle annunciades celestes, ecc., con poca soddisfazione degli ospiti.

Garibaldi aveva già fatto la sua quotidiana ricognizione nei dintorni di Amanges.
Tra i molti conoscenti che incontrai, uno mi presentò un ufficiale di Menotti nell'atto di partire dentro una carrozza scoperta, e con quella mi posi in viaggio. Pioveva dirottamente, soffiava un rigido vento del nord e arrivai. Una casupola mi fu additata quale residenza del quartier generale. Attraversando la cucina, entrai in una camera dove cenavano gli ufficiali addetti al quartier generale, che mi diedero quel benvenuto che si riceve solamente da antichi compagni di guerra, quando si incontrano in paese straniero. C' era Canzio fra gli altri, che per non mancare all'impresa ebbe l' animo di lasciare l'Italia senza attendere la nascita del nuovo figliolo, che sua moglie poi gli annunziò per telegrafo 12 giorni dopo la partenza; c' era Castellazzo che, appena uscito dalle galere del papa dove fu messo per avere partecipato alla preparazione della campagna del sessantasette, non seppe pure lui, così affranto dai patimenti, trattenersi dal seguire Garibaldi in quel nuovo cimento.

Il dialetto genovese predominava nella comitiva, la quale si dilettava al canto delle canzoni di Beranger, che usciva dal voluminoso petto del padrone di casa. Li salutai tutti con riconoscenza, ma con l'occhio fisso sull'uscio da cui si affacciava Basso, segno certo della presenza di Garibaldi. E infatti comparve in quel punto il Generale stesso, che io non aveva più visto dal giorno che mi mandò per lo scambio di prigionieri da Monte Rotondo a Roma.

I dispiaceri e i sempre crescenti malanni derivati dalla ferita di Aspromonte avevano lasciato la loro impronta su quel corpo di ferro; ma la fisionomia era sempre serena e raggiante: l'amorevolezza della sua accoglienza mi toccò profondamente: "Ah ! questa volta - disse - non vi aspettavo. "
E intanto che io accanto a un bellissimo fuoco placavo il lungo digiuno con pane, formaggio e frutta secca, dividendo la sua modesta cena, lui mi domandava notizie, uno per uno, dei suoi vecchi commilitoni, ansioso di conoscere se lo avrebbero raggiunto; ma, eccettuati rarissimi casi, decise di non premere sulla loro volontà se non con l'esempio.
Io gli dissi che molti sarebbero venuti se le precauzioni del governo non avessero consentito il passaggio ai soli facoltosi, e se le notizie spedite dal campo in Italia fossero state meno scoraggianti.
"Ah! - fece Garibaldi con malizia - é difficile governare la famiglia dei corrispondenti. Del resto non ci basta l'animo di magnificare troppo la nostra posizione per attirare a noi chi non si sente più spinto dall' amore del principio. Così poco si compenetrò il governo dei nostri intenti disinteressati che io dopo il primo colloquio con il signor Gambetta scrissi a costui un biglietto dicendogli che, convinto della inutilità di rimanere in Francia, sarei tornato a Caprera. Ciò non gli piacque; e d'altra parte l'affettuosa accoglienza del popolo infelice mi decise a non andarmene, e di fare quel molto o poco in favor suo che dai casi e dai voleri di chi governa verrà consentito."

"Ma, - ripigliai io avida di esatte notizie, sopra un tema tanto discusso - ma, Generale, che comando avete? siete capitano di tutti i corpi franchi di Francia o dell'esercito dei Vosgi ? "
"Non sono né l'uno né l'altro - rispose - giacché vi sono corpi franchi presso tutti gli eserciti, e vi sono parecchi comandanti in quello dei Vosgi. Sono soldato della repubblica, e ciò vi basti."

Ed io - guardando a quell'uomo ai cui piedi vidi prostrarsi i popoli che lui liberò, a quell' uomo davanti al quale le più fiere teste della mia fiera Inghilterra si scoprirono in riverente ammirazione, lì in quell' umile stanza, superiore all'ambiguo ufficio assegnatogli, al nessun riguardo usatogli, a lui che anche solo come capitano non poteva avere rivali in tutta la Francia, inteso unicamente a spiare e sorprendere il minuto e il modo di farsi valere a pro di un popolo che pativa e lottava per la libertà - sentii rifluirmi sulle labbra quei versi di Beranger:

Je connais le sécret de ses modestes vertus,
Bras, tête et ceour tout était peuple en lui.

E di fatto Garibaldi fu più grande allora, che non sulle vittoriose sponde del Volturno o sulle trionfate altezze di Monte Rotondo.
Ma se questa sublime indifferenza alle più legittime esigenze personali esaltava l'aspetto
estetico del carattere di Garibaldi, non diminuiva l'ansietà intorno al vero stato dei garibaldini in Francia, nè si acquietarono i dubbi intorno alla probabilità della buona fortuna in una impresa che né il genio del capitano, né la buona volontà di quelli, potevano assicurare senza la sincera cooperazione e il completo sostegno delle forze vive e dei poteri costituiti del paese. Che tutto ciò abbia fatto difetto a Garibaldi fin da principio, appare così in evidenza quanto difficilmente si spiega.

Nel mese di ottobre la situazione della Francia era discesa così in basso che al patriottismo intelligente e disinteressato l'arrivo di Garibaldi doveva parere una insperata benignità della sorte. Con Sedan l'esercito regolare francese, per numero e per efficienza troppo impari alla stima in cui lo tenevano Francia ed Europa, scomparve.
Ed era appunto in così simile emergenza che Garibaldi si trovò sulla via di Gambetta, come, se la Provvidenza di re Guglielmo avesse ceduto al capriccio di sorridere un poco anche alla Francia. E appunto nel maneggio di masse indisciplinato Garibaldi giganteggia su tutti di molto. Il suo occhio cade per istinto su quell'uomo nei ranghi atto a guidare i compagni, su quella posizione dove i soldati anche meno abili e meno coraggiosi possono diventare utili con minore loro pericolo. L'arte sua speciale era produrre i massimi risultati con minimi mezzi, e coli' esempio e colla fiducia in sé saper convincere gli altri di non aver bisogno di ciò che manca.

Ammesso che l'intensa gelosia, e se si vuole usare più dolce linguaggio, la permalosa suscettibilità dei generali francesi ponesse Gambetta nell'impossibilità di nominare Garibaldi generalissimo, non poteva lui in colloqui privati fare tesoro della sua esperienza, ispirarsi al genio militare di quest'uomo, non è abituato a vantarsi di nulla e che non tradisce mai un segreto a lui confidato ?...
Non poteva dargli il comando di almeno uno di quei vantati eserciti con una zona d'azione dove mostrare la propria virtù? Né mancava occasione al trasferimento di un simile comando.

Proprio il giorno dell'arrivo di Gambetta, il corpo principale dell'esercito della Loira, il quale consisteva in 100.000 uomini con 300 artiglierie, fu sconfitto dal generale von der Tann alla testa di 35.000 suoi uomini, e di conseguenza Orleans si arrendeva immediatamente.
Se si fosse affidato a Garibaldi il comando di questo esercito, egli con tanta superiorità di forze avrebbe ben presto tolto di mezzo il Tann e sarebbe volato a dare una mano agli eserciti di Parigi.
Che ciò fosse sicuro lo dimostrò il generale Aurelles de Paladine quando il 9 novembre, ripresa Orleans, mise in gravissimo repentaglio il generale von der Tann, ma non seppe poi muovere tutte le sue forze, non seppe impedire al nemico il ritorno, non seppe approfittare del suo felice quarto d'ora.

Garibaldi, senza ombra di dubbio, avrebbe saputo cosa fare!

Oppure non poteva Gambetta affidargli il comando dell'esercito dei Vosgi, destituendo Cambriels, che si era messo a fuggire davanti al nemico?
Non poteva mandarlo con le forze a quel punto disponibili fra quelle storiche montagne, le quali correndo parallele al Reno per quaranta miglia racchiudono l'Alsazia, oggi perduta?
Non solamente i giornali francesi, ma anche i belgi, con linguaggio molto simile, descrivevano l'ardore degli abitanti per rinnovare la difesa del 1793. Garibaldi là avvalendosi delle grandi opportunità naturali e dei franchi-tiratori, avrebbe conservate quelle Termopili, coronate quelle altezze, rotte o guardate le numerose strade che le solcano, impedito che gli assedianti di Metz e di Parigi traessero d'oltre Reno rifornimenti di armi e di munizioni, e agguerrendo e rinforzando la sua schiera avrebbe forse appoggiato le sortite da Metz.

Eppure Gambetta conosceva tutti i particolari; la sera del 12 ottobre il prefetto dei Vosgi aveva telegrafato che Epinal era stata invasa di sorpresa; e il 13, che il corpo prussiano procedente da Strasburgo a Luneville si era impossessato della gola di Bourgonce, da cui Cambriels con 10.000 soldati si ritirava velocemente fino a Lure e a Besançon; che il paese conseguentemente rimaneva aperto, tranne i luoghi fortificati; che Vesoul e Gray erano minacciati; e lo erano Dijon e Lione.

Invece di tutto ciò Gambetta scriveva al fuggiasco Cambriels di permettere a Garibaldi di venire ad accordarsi con lui.
E Garibaldi senza una parola di lagnanza accettò l'umile posizione. Andò a Bésançon, a Belfort in cerca di Cambriels, sempre accolto con entusiasmo dalle popolazioni; poi si stabili a Dole fissando ad Amanges il quartier generale, dove formò i quadri, e si accinse, secondo il detto del Comitato di Lione, a "improvvisare un esercito in un paese invaso dal nemico".

Egli nominò il valoroso polacco Bossak generale della prima brigata composta di un reggimento di mobili, di un battaglione di franchi-tiratori e di una compagnia del genio. Nominò Mari al comando della seconda brigata in formazione a Marsiglia, e Menotti al comando della terza brigata che consisteva in un reggimento pure questo di mobili e i pochi italiani riuniti a Chambery.

Ma erano quattro-cinquemila uomini male equipaggiati e male armati. Davvero la posizione di Garibaldi durante gli ultimi giorni di ottobre fu molto più precaria di quanto coloro che lo avvicinavano immaginassero. Dopo l'occupazione di Épinal il 12, di Vesoul il 18, senza opposizione il generale Werder con l' 11.° corpo d' armata, composto di badesi e prussiani e una divisione di cavalleria, si accampò fra la Saoue e l' Oignon, minacciando Dole, Auxonne e Dijon da Gray, suo centro d'operazione.

Fu impressione generale che Werder mirasse a Lione, onde questa città ne fu atterrita e pensò a subito alle difese e sollecitò Garibaldi con frequenti delegazioni per indurlo a raccogliersi sotto le sue mura. Ma egli comprese meglio gli stratagemmi e gl'intendimenti del nemico avendo visto chiaro che il momentaneo scopo di Werder si riduceva a coprire l'Alsazia e la Lorena e conservare intere le comunicazioni con la Germania e a tenere separate da Parigi e dalla Loira le truppe francesi del sud-est.

Lione si difendeva sul Doubs, e bisognava che il nemico diventasse padrone del Giura, prima di poter pensare a Belfort.
Durante il tempo in cui Garibaldi rimase in questo dipartimento non ci fu sasso non smosso da lui per mettere il dipartimento in stato di difesa.
Visitò ogni punto di persona, ogni istruzione la scrisse di suo pugno. Ma erano incredibili le difficoltà.
Egli mantenne poi la più rigida disciplina fra i suoi e avvertito una notte che un battaglione nell' andare agli avamposti mormorava perché male armati, capitò sull' alba a Dole, cambiò il maggiore del battaglione insubordinato, rimandò ai depositi un centinaio di quei soldati che l'ascoltavano e fece una romanzina agli altri che "se intendevano accettare i fatti tali e quali e sostenere il nome e l'onore italiano ad ogni costo, egli era pronto a dividere con essi fatiche e privazioni; e che se non intendevano, accennò loro col dito la strada del ritorno".

Il metodo piuttosto sommario di risolvere tutte le questioni che sorgevano fra le sue genti italiane, il Generale lo seguì invariabilmente durante la campagna. Il generale Frapolli e i colonnelli Bordone e Lobbia, capi del suo stato maggiore in diversi tempi, avevano ciascuno i propri partigiani e ovviamente anche i propri avversari. Garibaldi, che aven ben fisso in mente in quale modo era meglio utilizzarli tutti e tre, non si lasciò smuovere da una linea, né dall'opposizione, né dalle proteste dei suoi più diletti ufficiali. Egli comprese tutta la responsabilità assunta davanti alla Francia ed all'Italia e sentì che a tale scopo appena bastavano il suo genio e la sua energia.
La propria fama militare e quella dei suoi volontari italiani formavano la posta di questo gioco. La sua massima vigilanza dunque era l'obbedienza assoluta dei suoi potevano salvarlo da un insuccesso, che avrebbe rallegrato ben altri... oltre i prussiani.

La serie dei rovesci, che coronò il mese di ottobre per i francesi, rendeva sempre più pericolosa la situazione dell'esercito nel Giura.
Schelestadt il 24 si era arresa, Metz il 28; Dijon fu occupata il 30; e da Gray e da Vesoul i prussiani avanzavano su Genlis, Collonges e Auxonne. La resa di Metz aveva liberati 200 mila soldati, 75 mila dei quali dovevano collaborare con Werder per la espugnazione dei forti dell'est.
Togliersi di mezzo il piccolo esercito schierato fra l' Oignon e il Doubs per investire senza molestie Belfort doveva evidentemente costituire il principale obiettivo di quei vittoriosi.

Il 10 dicembre Garibaldi ebbe ordine di trasferirsi a Autun. Giuntovi, comandò a suo figlio Ricciotti, capo di un corpo di franchi-tiratori, una ricognizione da Autunn a Chatillon sur Seine per sorprendervi i prussiani su una delle grandi vie che immettono dall'Alsazia a Parigi. - Scrisse di suo pugno minutissime istruzioni, che il figlio diligentemente osservava. Correva a Solieu, a Semur, a Montbard, a Coulmier le Sec; qui, avvertito che quindicimila tedeschi muovevano verso Montbard, si precipitò a Chatillon e giuntovi prima dell' alba assaltò in due colonne il nemico che qui pernottava. La lotta durò appena due ore - i tedeschi ebbero 130 morti, fra essi tre ufficiali; molti feriti e i franchi-tiratori catturarono 167 prigionieri dei quali 7 ufficiali, 82 cavalli, la posta e quattro carri di munizioni, poi riprendendo la via del ritorno s'incontrarono ancora con alcuni gruppetti di nemici sbaragliandoli. Garibaldi, contento del figlio, lo promosse maggiore.

Autun, Dole, Dijon formano un triangolo scaleno il cui vertice é Dijon. Volendo espugnare Dijon, Garibaldi il 23 dicembre fissò il quartier generale ad Arnas le Duc, chiamandovi le brigate Bossak e Ricciotti e Delpéche, tenendo sotto i suoi ordini immediati la brigata Menotti, la compagnia dei carabinieri genovesi, le due batterie di artiglieria e la cavalleria. - Giunto a Lantenaz e sapendo Bossak impegnato con i prussiani usciti da Plombiéres, Garibaldi volle impadronirsi dei villaggi di Pasques e di Prenois, villaggi costruiti sull' altopiano della collina ai piede della quale sta Lantenaz.

I prussiani erano già padroni di Pasques e avanzavano verso Prenois con le batterie collocate sulle rovine di un castello. - La tromba di Garibaldi suonava la marcia avanti, e avanti a passo di carica tutta la legione Tanara. Ci furono scariche dell'artiglieria prussiana, e i saluti furono ricambiati con pronta cortesia senza che per un momento la lunga catena fosse scomposta.
"Alla baionetta - incitava la tromba di Garibaldi, mentre da una parte Canzio alla testa dei "chasseurs d'Afrique" fece una carica stupenda; Tanara con parte dei suoi e qualche franco-tiratore- si lanciarono sul villaggio, molti saltando un muro, altri aggirandolo.
Il fuoco dei prussiani si fece indiavolato, ma non seppero resistere all'impetuosa carica e i garibaldini ebbero la soddisfazione fino allora non ancora gustata di vederli in piena ritirata.
La catena si ricompose giacché si vedeva il nemico correre verso la strada maestra che conduce a Dijon protetta dalla propria artiglieria che non cessava mai di far fuoco. E fu qui ucciso Galli di Parma e feriti Biechi e Luigi dell'Isola, che il bravo Musini amputava lì per lì sul campo, e poi un buon prete, Dalley, sulle proprie spalle lo trasportava alla propria casa.

Vista da un luogo posto in alto, quella battaglia era uno spettacolo superbo. Garibaldi, raggiante, in primissima linea, dirigeva il combattimento nei minimi particolari.
Da Prenois come un vertice si dipartono due vie che intersecano la strada da Dijon a Parigi e tra queste due punte giace Darois sopra una collina. Il nemico moltiplicando gli sforzi, con un più intenso fuoco e con grande perizia riuscì a salvare dagli irruenti assalitori le sue artiglierie, riparò per un momento a Darois, poi prese la strada verso la Val de Suzon.
Garibaldi giunse così Darois abbandonata. Qui sostò anche la truppa, affamata e fradicia, ma circondandolo di acclamazioni, gli gridava pure con eccitazione: "A Dijon!" e lui rispose: "Ebbene a Dijon !".

L'avanguardia consisteva in una compagnia dei carabinieri genovesi e una delle legioni di Tanara, poi si mandavano avanti i mobili; si calcolava di fare una sorpresa; ma precisamente alle sette quando tutti quanti camminavano incassati nelle fosse che fiancheggiano la strada maestra, ecco da una via collaterale il "wer da" (chi va là?) e subito una scarica di moschetteria dei prussiani in rispopsta alla Marsigliese, che i mobili avevano iniziato a cantare nonostante gli ordini severi di mantenrsi in silenzio.

I Genovesi e i soldati di Aiuti cadono come mosche (lì per lì la compagnia della legione Tanara, comandata dal capitano Aiuti, ebbe 18 tra morti e feriti; i carabinieri genovesi trentacinque), nondimeno i compagni si lanciarono sui nemici alla baionetta e giunto Tanara alla testa dei suoi, finalmente si sloggiano i prussiani da un viale di olmi presso un castello, dove subito si stabilisce un'ambulanza e si trasportano i primi feriti. - Ritornata con carri e con i contadini dal Sindaco per prenderne altri, ecco i mobili in piena fuga che correvano come uno stormo di gallinacci urtando e rovesciando altri soldati, pestando i feriti, rotolando sopra i morti, e gridi e pianti che si mescolavano alle bestemmie degli italiani dette in ogni dialetto della penisola.
E si sentiva l' en avant dei franchi-tiratori e le bestemmie di Tanara, e i sacrrr... di Erba e le ostie venete piovevano a riempire tutti i calici dell'orbe cattolico, e a forza di calci di fucili, delle forche dei contadini e dei gran pugni si riesce a liberare i poveri feriti da quella marmaglia e a trasportarli al sicuro.
E così avanti e indietro dal castello alla strada fino alle due dopo mezzanotte, senza avere una notizia sicura. Chi diceva che Garibaldi era entrato in Dijon e che soli mobili si erano dati alla fuga; chi insistendo nel dire che tutta l' armata si era ritirata a Lantenaz.

E purtroppo questi ultimi avevano ragione e all'alba fu deciso di retrocedere; sulla strada s'inciampò in casseruole, graticole, treppiedi, vettovaglie e chassepots, e di questi ultimi di cui erano armati i mobili ne raccogliemmo 150, ma fra essi non c' era un solo "spencer rifle", né una sola carabina com' erano armati gli italiani !

Ma la fuga vergognosa dei mobili costrinse tutto il corpo a retrocedere dopo 14 ore di cammino, di combattimento e di vittoria! (*)
(*) Un corrispondente del Daily News a Tours scrisse: "Incontrai un ufficiale di stato maggiore di Garibaldi francese (il capitano Farey), presente all' audace tentativo di prendere Dijon notte tempo, egli mi disse con le lagrime agli occhi - sono vissuto per vedere gl'italiani combattere bene, e i francesi fuggire. Senza la stupidaggine dei mobili c' erano tutte le probabilità del buon esito dell' impresa. Questo ufficiale mi parla con la più alta considerazione di Menotti e della sua brigata. "
E quando finalmente si entrava in Dijon tutti ad una voce ci descrivevano lo sgomento dei tedeschi la notte dell' attacco di Garibaldi e raccontavano che appena essi conobbero che gli avamposti erano impegnati corsero alle armi, uscirono di città, obbligarono gli abitanti a chiudersi in casa, a spegnere i lumi e spedirono tutto il materiale sulla strada di Grey. Rimasti in armi tutta la notte, solamente al mattino rientrò in città la brigata Degenfeld, mentre usciva la brigata Galtz, che si appostò fra Talant e Fontaine.

Invano Garibaldi, fattosi terribile, tentò di trattenere quella spaventata fiumana. Nè Menotti, né Ricciotti, né Canzio, Tanara, Rossetto e altri audaci, riuscirono a far meglio. Da Chauzy a Darois, Prenois, Pasques, Lantenay, Sombernon e Commarin dove palle prussiane annunciarono che il nemico inseguiva, fuggirono sempre.
Rifugiatosi con tutte le sue genti a Loizerolle, Garibaldi non pensò a ritirarsene che quando ebbe avviso di una marcia di fianco di un'altra colonna nemica a Labussiére. Con l'usata abilità egli si sottrasse al movimento convergente delle due colonne, riuscendo a ripararsi a Châteauneuf. Qui vi collocò la brigata Menotti, e prevedendo che i prussiani gli avrebbero reso a Autun la visita di Dijon, egli li precedette per Bligny e Épinac, per riceverli convenevolmente.

Veramente, considerato che il generale Cremer accampava a Beaune con quindicimila uomini, non era troppa presunzione supporre che questi avrebbe attaccato il nemico all'ala sinistra.
Ma non accadde nulla di tutto ciò.
Una colonna prussiana senza ostacoli si defilò su Arnay-le-Duc. Ricciotti, avvisatone, spedì l'artiglieria e un gruppo di mobili riordinati a Autnn.
Ma rcciotti non aveva sottomano che trecento uomini; stese una compagnia sulla prima fronte, per dar tempo all'artiglieria di preparsi e dopo una serie di fucilate si ritrasse in buon ordine a Corresse; asserragliò la città e qui passò la notte e il mattino continuò la sua ritirata sopra Autun, dove Menotti lo precedette con la sua brigata.

Garibaldi, che vi giunse a mezzodì del 30, visitò i vari gruppi, scrisse di proprio pugno le minute istruzioni per ogni corpo in caso di attacco, terminando con l'ordine alla gendarmeria di occupare tutte le strade esterne per arrestare i fuggiaschi. Nella terribile serietà della sua faccia si leggeva che in Autun l'armata dei Vosgi avrebbe o respinti i prussiani o perita.

Il giorno seguente partì con Canzio per le abituali ricognizioni; distribuì lui stesso sui luoghi le truppe a S.Jean, a S.Pierre, a S. Martin; collocò l'artiglieria al piccolo seminario e ordinò agli italiani di occupare la piazza della cattedrale. Salito sulla cima del colle ove si ammirano ancora gli avanzi del tempio di Giano, vide con stupore una colonna prussiana avanzarsi su S.Martin e piantare una batteria sullo stesso ridotto ove lui aveva messo il colonnello Chenet con i guerillas francesi d'Orient. Il nobile colonnello, che riponeva nella prudenza la miglior parte del valore, si era rifugiato con tutta la sua schiera a Creuzot senza avvisarne anima viva.

Non é il caso di aggiungere che nessun contadino si diede la pena di annunciare l'approssimarsi del nemico, e senza il vigile occhio di Garibaldi avremmo fatto la morte del topo. In un attimo lui riparò al gravissimo guaio; ordinò all'artiglieria di cominciare il fuoco, e ai suoi migliori ufficiali di condurre di persona i mobili all'attacco.
Il nemico procedeva alle offese per due vie, dal nord al nord-est di Antun: la colonna di destra per S.Martin, la colonna di sinistra per S. Simphorien. Il piccolo seminario formava il centro della nostra difesa garibaldina, e di lì la nostra artiglieria ruppe la strategia degli assalitori, smontando parecchi dei loro pezzi, che erano quindici in batteria, e agevolando ai fanti l'avanzarsi alla bersagliera.

L'artiglieria pagò l'alto servizio reso con sei morti e con trentasei orrendamente feriti. La frase iperbolica delle "membra sparse" in questo caso fu letteralmente vera.
La fanteria, sostenendo la lotta dalle due e mezzo pomeridiane fino a notte, obbligò il nemico ad abbandonare le sue posizioni, che erano a circa due chilometri dalla città, e dormì su quelle. Questa volta i mobiles ed i mobilisés si segnalarono in questa giornata per il loro valore e figurarono nell'ordine del giorno con i carabinieri genovesi e con i franchi-tiratori della quarta brigata; e ci figurarono due dei loro capitani: Verdez, particolarmente addetto alla missione telegrafica, e Guide, il quale fu promosso al grado di maggiore.

Tutti i soldati d'ordinanza erano fuggiti sul carro del bagaglio fino a Creuzot. L'ambulanza generale, che durante tutta la campagna aveva brillato per la sua assenza, era infatti fuggita con tutti i suoi materiali.
Mutato cammino, ci dirigemmo alla piazza della cattedrale ove stavano schierate le due legioni italiane. Queste fremevano di rimanere qui con l'arma al piede. Ma Garibaldi temeva che i prussiani da S. Simphorien tentassero di irrompere sulla strada di Creuzot e per difendersi da questa sorpresa provvide alla difesa della stessa collocandovi due legioni.
Verso le ore cinque i prussiani erano in ritirata; e poco dopo sceso sulla strada, Garibaldi esultava. Sul suo volto lampeggiava il riso della vittoria:
"Sono in piena fuga - disse - ci diedero poca pena".

Negli ultimi cinque giorni Garibaldi non ebbe posa; cavalcando lunghe ore, viaggiando di notte, organizzando e dirigendo ogni cosa di persona, smentì le ciance dei suoi detrattori, i quali lo dipingevano decrepito ed infermo e obbligato di lasciare ai suoi figli la maggior parte delle operazioni militari.
Gli abitanti di Autun fecero egregiamente il loro dovere in quel giorno. Il sotto-prefetto diede il buon esempio mescolandosi, armato di carabina, fra i combattenti. Le botteghe rimasero aperte, e uomini e donne accorrevano a medicare i feriti sotto il fuoco.

I prussiani piantarono una nuova batteria in un luogo più lontano da quello perduto, e di qui per ben due ore ci lanciarono numerosi proiettili, ma piuttosto innocui.

Garibaldi era già soddisfatto di smontare i loro pezzi e, memore di Dijon, non ordinò un secondo assalto di notte. Si riseppe il mattino dopo dai contadini che i prussiani, accerchiati dal nostro fuoco, in tutta fretta trasportarono l'artiglieria, riempirono venti carri di feriti, obbligarono gli abitanti dei villaggi a seppellire più di cento morti.
L'indomani il general Cremer li aggredì di fianco fra Saint-Sabine, Châteauneuf e Neuilly e li ricacciò nella valletta dell' Ouche.

Il mese di dicembre trascorse monotono. Garibaldi si dedicò interamente a disciplinare e consolidare i suoi uomini, mandando nelle province agenti a far incetta di armi e di vestiti, e ad onore degli abitanti sia detto qui che, toccati dalla compassione per la nudità dei garibaldini, inviarono denari e indumenti, e lardo e patate e mitragliatrici, sopperendo essi alla negligenza del governo.
La ferrea volontà del capo e la buona disposizione di tutti posero l'esercito dei Vosgi, nel dicembre, in condizione discreta per numero, per materiale e per ordinamento.
In dicembre non si ebbero operazioni militari, c'erano allarmi continui nei primi giorni, e ciò serviva a tenere all'erta i soldati.
Fu ripetuto che i prussiani avessero in mente d'impadronirsi dei colossali stabilimenti di Creuzot, credo per porli nell'impossibilità di far concorrenza ai loro e a quelli dell'Alsazia. Ma dovevano intendersela con Garibaldi, il quale si prefisse come particolare obiettivo la protezione di questo raro, anzi unico di tal genere, tesoro nazionale .
La sua presenza calmò gli spiriti. Furono risarcite le ferrovie, fu posto mano a fabbricare chassepots e mitragliatrici, e gli operai bollenti d'entusiasmo per Garibaldi si offersero o di rimanere alla fabbrica delle armi o di entrare come franchi-tiratori nell'esercito dei Vosgi, purché aggregati alla brigata di uno dei suoi figli.
Il giorno 16, il ministro della guerra ordinò, con un telegramma, di partire immediatamente per i Vosgi; mentre Cremer e Bressoles avrebbero operato per Dijon.

Il mattino del 17 dicembre, quando ogni cosa era pronta, giunse un telegramma contraddittorio; ma il giorno dopo Cremer mandò urgente richiesta di soccorsi immediati, trovandosi seriamente impegnato a Nuits.
E si giunse a Chagny dove il capo-stazione porse a Garibaldi un pacco di telegrammi, onde il generale esclamò: "Cattivo segno!".
Li spediva Cremer annunziando di aver deciso di abbandonare Baume e di riparare a Chagny, dove faceva assegnamento sull'esercito di Garibaldi.
"Potete alloggiare le mie genti?" chiese il Generale al sindaco.
"Impossibile"
"E nutrirli?"
"Dubito"

Allora, volgendosi a Canzio:
"Telegrafate a Lobbia di sospendere ogni movimento e al generale Cremer annunciandogli che ricolloco le mie truppe al loro posto."

Malgrado i ripetuti disastri, la Francia, oltre il presidio di Parigi, vantava una netta superiorità in armi, sulla fine di dicembre 450.000 uomini con 800 cannoni. 150.000 dei quali con 300 cannoni obbedivano a Chanzy ed erano i resti degli eserciti della Loira e dell'ovest. Bourbaki a Bourges e Nevers ne comandava 120.000. Nuovi rinforzi riceveva Faidherbe al nord e l'esercito dell'est campeggiava nella Franca Contea contro Werder.
Invece di tentare il congiungimento di questi corpi con uno sforzo erculeo contro gli assedianti di Parigi, deliberarono di attaccare le truppe che investivano Belfort , fortezza
protettrice del sud della Francia.
Però Bourbaki si staccò da Bourges con 90.000 uomini, ai quali doveva unirsi parte dell'esercito dell'est per sbloccare Belfort.

Quando Garibaldi ebbe il primo sentore di tale piano, sentì per la prima volta vacillare la propria fede nella vittoria dei francesi. Sua l'opinione che l'impresa era un ...
- errore da cima a fondo:
- errore perché di quanta gente si staccava dalla Loira, di altrettanta il nemico rinforzava le linee che stringevano la capitale;
- errore perché lasciava isolato Chanzy contro il principe Federico, che Bourbaki avrebbe invece dovuto assalire, e contro il duca di Meclemburgo;
- errore perché prima che Bourbaki, con la solita lentezza francese, si fosse avvicinato a Belfort, Werder avrebbe spediti rinforzi;
- errore soprattutto, secondo lui, perché muovendo su un suolo ghiacciato e sotto una incessante dicembrina nevicata le giovani truppe, nuove ai disagi, queste sarebbero state affrante dalle fatiche e dagli stenti prima ancora di cominciare i combattimenti.

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Con tutti questi errori e in questa ormai critica situazione
si affrontarono le tre battaglie di Dijon.

CINQUANTASEIESIMO CAPITOLO >

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