CINQUANTASEIESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTASEIESIMO

DA DIJON AL RITORNO IN ITALIA
Prima della battaglia. - Preparativi. - Il 20 gennaio. - Prima giornata. - Morte di Giorgio Imbriani. - Vittoria. - Ordine del giorno di Garibaldi. - Seconda giornata. - Terza giornata. - Vittoria finale. - Presa della bandiera prussiana. - Morte di Adamo Ferraris. - Armistizio. - Ci si dimentica di avvertire Garibaldi che lui ne è escluso. - Garibaldi eletto rappresentante all'Assemblea Nazionale da tre dipartimenti e dalla città di Parigi. - Dà la sua dimissione da deputato e da generale. - L'Assemblea gli rifiuta la parola. - Ritorna in Italia.

Bella sarà la storia dei nobili cuori italiani, che fecero tanti sforzi per seguire l'eroe. Né il mare, né l'orrore delle Alpi in pieno inverno li tratteneva. E quale inverno ! il più terribile.
Durante una bufera nevosa, era la fine di novembre, uno di questi gagliardi non ha voluto fermarsi: Attraverso l'orribile diluvio di stazione in stazione, ostinatamente egli saliva. Il rovinar della valanga non arrestava i suoi passi. Egli saliva, opponendo ai geli che lo intorpidivano la fiamma del suo giovane cuore. Tutto irto di ghiaccioli, quando arrivò alla cima, più non era che un cristallo. La burrasca era finita, l'uomo lo era pure. Era finito, irrigidito, nel punto, là, donde già si vede la Francia. E là fu ritrovato. Nulla era su lui. Nessuna carta che dicesse chi fosse. Tutti i giornali ne parlarono, ma non poterono dire il suo nome. Il suo nome? Io lo rivelo. Colui che con sì gran cuore, in codesto universale abbandono della Francia, si era slanciato verso di lei, si chiamava.... ITALIA...
MICHELET.


Avvertito il giorno, 18 che il nemico s'ingrossava a Is-sur-Tille, Garibaldi ordinò una accurata ricognizione per l'alba del 19 poi partì il mattino da Dijon con la 5a, 4a, 3a e 1a brigata; Canzio con la 5a infilando la strada principale mirò a Til Châtel. Sennonché a Norges la Ville Piseppe 10 mila prussiani occupavano Savigny, altri 10 mila erano a Epagny, e altri tenevano Germaux. Però Canzio ricevette l'ordine di occupare Norges la Ville e difenderla.

Ricciotti distese i suoi franchi-tiratori nel bosco di Norges, e Menotti a sinistra per la strada di Savigny e Epagny si accampò a Massigny.

I dragoni non indugiarono a farsi vivi. Canzio si impegnò di convincerli a combattere, ma quelli non ci pensavano nemmeno per quel giorno. Di modo che ci rimase fino all'imbrunire con l'arma al piede quando fu richiamato a Dijon, minacciato dal lato della Val-de-Suzon.

Persuaso di essere presto assalito, Garibaldi stette in attesa se i 30.000 prussiani l'avrebbero attaccato dalle strade di Langres e d'Is-sur-Tille al nord-est della città, o dalla strada di Parigi, o da quella di Plombières. Perciò si preparava a difendersi ovunque. Piantava una batteria grossa a Ferme de Pouilly al settentrione; faceva guardare tutte le strade da corpi di mobilizzati tenuti a vista dalla brigata Canzio e da Ricciotti con i suoi franchi tiratori.
Da Plombières a Pont de Pany altri mobilizzati di Pelissier, due battaglioni di mobili a Plombières, un battaglione dei franchi tiratori da Oran a Verray. A Talant la brigata Menotti, a Fontaine la brigata Bossak, altri battaglioni di mobili a Bellaire, con la sua altura era protetta da una batteria.

Durante la notte del 20, saputo che il nemico ingrossava a S. Seine, tutte le brigate erano tenute con le armi al piede, essendo segnalato il nemico vicino a Lantenay, Prenois, Paques, Darois e Daix, campi di battaglia dell'infausto 26 dicembre. Difatti a Verray e a S. Seine ci furono dei piccoli combattimenti ed all'alba del 21 tutte le alture che fronteggiano Talant e Fontaine erano occupate dai nemici.
Garibaldi, alle 9, usciva di città, correva velocemente a Talant, e in un attimo da qui come da Fontaine le sue batterie lanciarono granate in risposta alla tempesta delle batterie nemiche.
Arrivarono i primi feriti a Dijon e fra essi il trombettiere della prima compagnia del battaglione Erba. Suonava e fumava morendo; farneticando diceva: - Siamo crepati tutti e continuava a suonare il passo avanti.

Correndo agli estremi avamposti per la, strada che rasentando il cimitero giunge a Talant, un lugubre corteo di feriti; più avanti, la via seminata di morti: giunta a Talant, le palle fioccavano come grandine. Rombava tuttavia il cannone di Talant più rallentato era quello di Fontaine. Alla sinistra il colonnello L'Hosto e il brillante suo aiutante Baghino tenevano fermi i franchi tiratori e alla loro destra la legione Tanara decimata, ma incrollabile, manteneva tutti i vivi, con cartucce o senza, al loro posto, e i feriti preferivano rimanere dove si trovavano per non distrarre i compagni dal combattimento.
E davanti a tutti Canzio con la sua brigata, la compagnia spagnola capitanata dal bravo Orense, un' altra compagnia di egiziani e gli italiani appena giunti da Lyons capitanati dal maggiore Perla.
A occhio nudo si vedevano i prussiani brulicare sul fianco della collina di Hauteville. Le acute e vocali note dei fucili ad ago si distinguevano chiaramente accompagnate dalle note basse dell'artiglieria. I carabinieri genovesi appoggiando le armi sul muricciolo tiravano con precisa mira su tutta la linea, e visibilmente le loro palle colpivano secondo l'intenzione, di modo che i gruppi germanici si rompevano, si distendevano e mutavano posizione, e si vedevano pure macchie di due o tre con sembianza di uomini, come chi raccoglie i feriti.

Per qualche momento il fuoco dei prussiani si era rallentato, gli ufficiali dei genovesi, Razzeto e Gnecco, passeggiavano su é giù raccomandando che i tiri fossero pochi e precisi. Si avvertiva il silenzio di Fontaine in confronto a Talant. E intanto venne Beghelli per domandare rinforzi, cosa che Canzio era nell'impossibilità di dare, e lo consigliava di raggiungere i suoi. - E' morto Imbriani, mi disse Beghelli. - Imbriani? - Sì e Settignani, Canovi e altri trenta fra ufficiali e soldati della 1a compagnia
Purtroppo era vera la triste notizia.

Con < GIORGIO IMBRIANI e Beghelli in testa, quella 1a compagnia del battaglione Erba, - legione Tanara - si era spinta con temeraria audacia nel bel mezzo dei prussiani, onde trovatasi circondata, troppo avanzata per aver soccorso, aveva sostenuto un micidiale combattimento di un'ora senza retrocedere di un passo, e, massimo sacrificio diedero i volontari, senza che un solo dei combattenti potesse andare indietro per raccogliere ed accompagnare i feriti.

Dopo la brevissima sosta ecco tutto ad un tratto nuova grandinata di palle. Una carica precisissima dai poggi seminò la strada di nuovi morti e nuovi feriti. Canzio, ritto sopra l'angolo di un muricciolo, tenendo di tal modo sott'occhio la sua truppa sviluppata sulle vie laterali e avanti lungo la strada principale, dirigeva le mosse raccomandando che nessuno si allontanasse neppure per trasportare i feriti , e a questi che lasciassero le cartucce agli illesi. E il povero Gnecco, mortalmente colpito, con la solita calma sorridente comandava che due dei suoi che lo sorreggevano ritornassero al loro posto.

Come descrivere il resto di quella giornata? Sui campi, fra i vigneti e sulla strada correva a rivoli il più puro, il più generoso sangue italiano. Le case al piede di Talant traboccavano di feriti e la morte sola ci aiutava nel soccorrere i morenti. Le batterie a Talant e due pezzi sulla strada tuonavano incessantemente e si poteva scommettere che il nemico pagava caro il suo ardimento. Eppure esso avanzava sempre in colonna serrata lungo la strada e alla bersagliera per i campi fuori di Daix, con la mira di rompere la linea di battaglia e di tagliare fuori Ricciotti con i suoi franchi tiratori.
Tanara, raggranellando i suoi alla meglio, li slanciò in faccia al nemico. Narratone e Montalto, degni amici del perduto Imbriani, fecero prodigi con le loro compagnie; Canzio perseverava agli avamposti. Ordinava al battaglione dei cacciatori di Marsala di caricare il nemico, e il maggiore Pera si lanciava, alla testa di spagnoli, genovesi, egiziani, tutti i resti delle altre legioni, dietro di lui.

Perla mortalmente ferito cadde e accanto a lui Giuseppe Cavallotti, Rossi e Cecchini, 17 ufficiali fuori di combattimento, e un numero altissimo di soldati. Ma l'esito è decisivo. I prussiani si ritirano; Garibaldi rientra in Dijon fra le acclamazioni del popolo.
Ma giunto alla prefettura, ove pose il suo quartier generale, quale non fu la sua sorpresa trovandosi davanti una deputazione di Dijon composta del sindaco, del prefetto, del vescovo e di molti cittadini per pregarlo di ritirarsi con l'esercito per risparmiare a Dijon gli orrori di un bombardamento.

"Messieurs! - Garibaldi rispondeva cogli occhi scintillanti - Si vous avez des femmes, des enfants et des lâches, portez les dans vos caves; car je vous promets que je défendrai Dijon maison par maison, fenêtre par fenêtre et je vous montrerai commenton doit combattre pour la patrie!"

Alla figlia Teresita Garibaldi mandò il seguente telegramma:
"Attaccati vigorosamente dal nemico, lo abbiamo costretto a ritirarsi dopo dieci ore di combattimento. L'esercito dei Vosgi ancora una volta ha ben meritato la repubblica. "

L'indomani i prussiani non sembrarono disposti a tentare la rivincita con molto vigore; tentarono bensì di impossessarsi di Fontaine, ma le batterie fecero il loro dovere e fu loro possibile seppellire i morti e trasportare i feriti e i morenti dentro le mura della città.
Ecco il telegramma di Garibaldi sulla seconda giornata:
"Oggi combattimento meno serio di quello di ieri ma più decisivo, che obbligò il nemico alla ritirata inseguito questa sera dai nostri franchi tiratori ".

La terza giornata fu decisiva. Tutta la mattina si combatteva alla porta di Langres. Alle due pomeridiane la quarta brigata ebbe ordine di dirigersi sulla via di Langres. Oltrepassata appena la barriera della città, il cannone annunziava l'imminenza del nemico. Esso aveva fatto impeto sugli avamposti e si spinse sul Château de Pouilly, che occupavano i mobili e i mobilisés. Prese le mosse da una gran fabbrica detta Borgis, che si erge sulla sinistra della strada, quattro compagnie della quarta brigata s'accingono a traforare le muraglie. I mobilisés in prima linea cedono al vigoroso assalto dei prussiani, i quali con una colonna di rinforzo dal di dietro spiegano i cacciatori. E una nuova schiera avanza protetta dalla via ferrata, e irrompe irresistibile.

Ai cannoni prussiani rispondono i pezzi di Fontaine. Garibaldi in mezzo alle palle o dalla strada dirige la lotta. I prussiani sono in gran numero, le colonne d'attacco procedono formidabilmente. Alcune compagnie spiegate a destra e a sinistra saettano incessanti e le quattro compagnie dal di dentro di Borgis mantengono ben nutrito il fuoco. Vedono sì cadere tedeschi ad ogni passo, ma si sentono loro stessi decimati. Il nemico intanto avviluppa e stringe la fabbrica.
"Purché non prendano un solo prigioniero vivo - disse con un riso sul labbro Ricciotti - il resto non importa" .
Lo rassicura l'atteggiamento determinato dei suoi, ma si sente di certo il morire dentro e la sconfitta la sente certissima.
Il combattimento é già diventato mischia. Ma in quel disperato minuto essi vedono venir volando dalla sinistra con la spada sguainata Canzio alla testa i resti della sua quinta brigata con moltiplicata audacia. Canzio carica alla baionetta con uno slancio tremendo i nemici senza contarli; la lotta si muta in un'infinità di duelli; la fabbrica di Borgis é liberata, i mobilisés infiammati dall'esempio corrono avanti con ardore; finalmente l' eroica virtù del nemico vacilla, e incalzato con un vigore ancora più furioso dagli italiani e dai franchi tiratori cede terreno fra cumuli di caduti; squilla la tromba della ritirata, va indietro combattendo, e combattuto e inseguito fino a Nogent; ma la bandiera del 61mo rimase sul campo; un franco tiratore la raccoglie e Ricciotti la porge a suo padre che la mette a sventolare sulla sua carrozza fra il sibilo delle palle prussiane fino a giornata finita.


Purtroppo anche questa terza giornata costava cara all'Italia. La battaglia che incominciava con la morte di Giorgio Imbriani finiva con quella di Adamo Ferraris. Proprio nell'ultimo istante egli galoppava verso la prima linea latore di un comando di Garibaldi e cadde morto compiendo così il massimo atto del dovere, che fu sempre per lui guida della sua vita. Chirurgo distinto e repubblicano senza riepensamenti, Adamo Ferraris per non staccarsi dal fianco di Garibaldi preferì la sua più umile funzione di ufficiale d'ordinanza, al grado di
medico di reggimento che lo avrebbe obbligato a cucirsi sull'abito l'emblema della croce che lui abborriva, ritenendolo una salvaguardia.
Deve essere morto all'istante perché l'espressione del viso non tradiva ombra di dolore, e gli amici accorsi a vederlo non volevano persuadersi che fosse trapassato. Fu seppellito nel cimitero di Dijon. Né croce lo precedeva, né prete lo seguiva. Il corteo si componeva dei carabinieri genovesi, degli ufficiali delle legioni italiane e del quartier generale. Con le formalità d'uso composta la salma in una doppia cassa, ci si riservava l'esumazione dietro richiesta della famiglia. Canzio pronunziò sulla fossa affettuose parole intorno alle virtù repubblicane del perduto amico e al nuovo dono fatto alla Francia di così preziosa esistenza. Gli amici gettarono una zolla nella fossa ove caddero non poche lacrime di uomini prodi come lui.

Al ritorno al quartier generale ci aspettava un dolore non meno crudele, dato che nella
camera di Ferraris giaceva con la serena calma, lui così fedele in vita, il cadavere di Bossak, rinvenuto solo allora sul luogo della strada di Darois agli estremi avamposti. Magnanima Polonia, i figli tuoi sogliono rispondere presente ovunque la libertà li appelli; e quest' ultimo abbandonava la corte dello czar (il quale lo aveva raccolto fanciullo e orfano, e lo aveva allevato, accarezzato e protetto), e alla testa de' suoi fino all' ultima ora lottava per la libertà del suo paese, e nel fiore degli anni perì in terra estranea per la libertà degli altri!

Garibaldi provvide che il cadavere fosse imbalsamato e il municipio di Dijon fece costruire una stupenda cassa di mogano foderata di zinco. L'imbalsamatura riuscì tanto mirabile che quindici giorni dopo, mentre gli operai applicavano alla cassa la lastra di vetro per mantenere visibile la faccia , mi pareva che quella faccia potesse ancora svegliarsi e parlarmi di nuove speranze, e infondermi nuova fede e che il tutto non fu sofferto e patito invano.

Il Generale spedì il seguente telegramma.
"Oggi respinto il nemico per la terza volta. Abbiamo presa la bandiera del 61°reggimento"
Nel seguente bollettino, pieno d'incoraggiamento e scevro d'adulazione, Garibaldi ricapitolò gli avvenimenti delle tre giornate:
"Ai prodi dell'Esercito dei Vosgi,
Or bene! Voi gli avete veduti ancora una volta questi terribili soldati di Guglielmo fuggire davanti alla vostra presenza. O giovani figli della libertà, in due giorni di accaniti combattimenti voi avete scritto una pagina gloriosa negli annali della repubblica; e gli oppressi della grande famiglia umana saluteranno ancora una volta in voi i nobili campioni del diritto e della giustizia.
Voi avete vinto le truppe più agguerrite del mondo, benché non abbiate esattamente adempiuto a quelle regole che danno il vantaggio nelle battaglie.
Le nuove armi di precisione richiedono una tattica più rigorosa da parte dei tiratori; a voi vi tenete troppo uniti, non approfittate abbastanza delle accidentalità che offre il terreno; e non conservate quel sangue freddo tanto indispensabile di fronte al nemico. Però fate pochi prigionieri, avete molti feriti, e il nemico, più scaltro di voi, conserva, nonostante il vostro valore, una superiorità che non avrebbe.
La condotta degli ufficiali verso i soldati lascia molto a desiderare; poche eccezioni fatte, essi non si occupano abbastanza dell' istruzione dei soldati, dell' equipaggiamento dei medesimi, della cura delle loro armi, della loro condotta verso gli abitanti, che hanno riguardi per noi e che noi dobbiamo considerare come fratelli.
Infine, siate buoni compagni d'arme come siete buoni soldati; voi guadagnerete l'amore delle popolazioni, delle quali siete difesa e sostegno, e ben presto noi scuoteremo dalle fondamenta il trono cruento e tarlato del dispotismo, e stabiliremo sul suolo ospitale della nostra bella Francia il patto sacro della fratellanza dei popoli. a
GIUSEPPE GARIBALDI .

Il mattino del 29 si leggeva al quartier generale, il seguente telegramma:
"Bordeaux, 29. -
La delegazione del governo stabilita a Bordeaux, che non aveva finora ricevuto altre informazioni intorno alle trattative di Versailles se non quelle della stampa estera, ebbe questa notte il seguente telegramma , che reca a conoscenza del
pubblico:
" Versailles, 28 gennaio, ore 11 e 25 pom.
Giulio Favre alla Delegazione di Bordeaux.
Abbiamo firmato oggi un trattato con il conte Bismark e fu convenuto un armistizio di 21 giorni. Convocasi un'assemblea a Bordeaux per il 15 febbraio. Fate conoscere questa notizia alla Francia, fate eseguire l'armistizio e convocate i collegi elettorali per l'8 febbraio. Un membro del governo va a Bordeaux ".

I nostri credettero di impazzire "Proprio adesso! - esclamavano - adesso che si inizia a vincere, bisogna deporre le armi!".
E i francesi: "Non é! non sarà! Parigi non comanda alla Francia. Guerra, guerra!".

Io veramente non provavo gli stessi effetti: "Non più morti - dicevo a me stessa - non più feriti; né altre madri, né altre spose, né altre fidanzate italiane abbiano quindi davanti il cuore rotto per la perdita dei loro cari a beneficio di questa gente ingrata".

Più tardi i prussiani stessi avvertirono Garibaldi che egli e il Bourbaki erano esclusi dall'armistizio, essendo la Côte d'Or, il Giura e il Doubs terreno riservatosi dai vincitori per il proprio soggiorno. Questa importante circostanza il signor Giulio Favre aveva dimenticato di telegrafarla a Bordeaux, e così Gambetta non poté avvisarne a tempo Garibaldi.
Centocinquantamila tedeschi in tre colonne avanzarono contro la piccola armata dei Vosgi. Ma ne era duce chi capitanò la ritirata da Roma, e l'entrata in Palermo: facile a lui dunque effettuare immediatamente e in buon ordine la ritirata da Dijon e dirigendosi sopra Macon distribuire le sue brigate, nei dipartimenti compresi nell'armistizio.
A Chûlons seppe di essere eletto deputato all'Assemblea di Bordeaux da tre dipartimenti; più, dalla città di Parigi. Egli capiva che la guerra era finita e corse a Bordeaux ad offrire la sua dimissione da generale e da deputato.

La Francia ordinava ai suoi rappresentanti alla Camera con un immediato mandato di votare pro o contro la continuazione della guerra. Gli orleanisti, i legittimisti, i repubblicani, la mezza dozzina d' imperialisti, non avevano valore proprio come tali in quella suprema tragica conclusione, nella quale la gran patria pendeva fra la vita e la morte. L'elezione di Thiers in 18 dipartimenti rivelò l'intimo pensiero della nazione: Thiers sconsigliò la guerra (benché non ispirato da un alto principio, ma semplicemente indottovi da una riflessione che il governo alla guerra non si era preparato); Thiers suggerisce la pace dopo Sédan, dopo Strasburgo, dopo Metz; lui vecchio e infermo aveva attraversato l'Europa supplicando re e ministri per ottenere che la guerra cessasse e con essa la devastazione della sua patria sventrata.
Convertito in aula dell'assemb
lea nazionale il magnifico teatro di Bordeaux, il 12 febbraio l'assemblea sedette in via preliminare. Mancava il numero necessario dei deputati; eppure essi si costituirono subito e fissarono per la mattina dopo la prima tornata pubblica.

Garibaldi si presentò all'assemblea con l'unico fine di perorare in favore degli orfani e delle vedove e in favore dei feriti e storpiati del suo esercito, e disse che nella sera medesima sarebbe ripartito per Marsiglia e di là per Caprera.
Il vecchio conte Benoit d'Azy per privilegio degli anni occupò il seggiolone del presidente; Favre, Simon, Arago, Pelletau, Pagés, Glais Bizoiu e Maguin, entrati con lui, presero posto al banco ministeriale, ultimo a destra. Alle due in punto entrava Garibaldi, che i giornali si compiacevano di dipingere infermo, incapace di reggersi e tanto meno di reggersi il suo esercito.
Vestiva la solita camicia rossa e il poncho e portava il cappello grigio: appoggiandosi appena al suo bastoncino si diresse alla sinistra. Corse un fremito nella platea; i deputati si raggruppavano in capannelli e si parlavano sottovoce; alcuni si accostarono al Generale e gli strinsero la mano; il pubblico in quel giorno,
applaudiva fragorosamente e l'emiciclo echeggiava di - viva Garibaldi - viva, l'eroe dei due mondi - viva il coraggio - viva la guerra.

La platea si riempiva adagio; trecento deputati, appena la metà dell'assemblea.
Dopo alcune formalità, il presidente lesse piano piano la lettera con la quale l'eletto di Nizza, della Côte-d'Or, del Doubs, di Parigi, rassegnava il mandato di rappresentante del popolo.
"Al ministro della Guerra.
Essendo stato onorato dal governo della difesa nazionale del comando di un corpo dell'esercito e vedendo la mia missione finita, domando la mia dimissione.
GARIBALDI.

"Al Presidente della Camera.
Come ultimo dovere verso la repubblica venni a Bordeaux ove siedono i rappresentanti della nazione, ma rinuncio al mandato di cui mi onorano diversi dipartimenti. a
GARIBALDI.

Favre con una breve orazione restituiva anche in nome dei suoi colleghi il potere esercitato dal 4 settembre nelle mani dell'Assemblea nazionale, soggiungendo che ognuno sarebbe restato al posto suo fino alla nomina del successore, e che egli doveva ritornarsene a Parigi la sera stessa. La sua orazione fu applaudita e subito dopo si scelsero i membri degli uffici, e quando la seduta volgeva al termine Garibaldi si alzò e scoprendosi il capo disse:
"Domando la parola".
Ne seguì una grande confusione, alcuni gridavano altri deputati iniziarono ad andarsene. Esquiros, deputato di Marsiglia, gridò loro:
"Signori, non avete inteso? Garibaldi ha chiesto di parlare".
E il pubblico:
"Oh, olà! signori, avete capito? Garibaldi vuol parlare!".
E dà molte parti:
"Ah! allons donc! ascoltate; tremate di udire la verità. E' Garibaldi che parlerà. Ascoltate; siete codardi! "
Il tumulto, la confusione diventarono indescrivibili, i deputati tornarono nell'aula; però non si sedettero; il presidente scoprendosi il capo e con accento di stizza domandò a Garibaldi:
"Che cosa volete? La seduta é chiusa".

Molte voci:
"Che chiusa! deputati venduti e paurosi, maggioranza di rustici e di imperialisti, ascoltate la voce dei rappresentanti delle città".
Alla infinita baraonda seguì un minuto di quiete.
"Parlate, parlate!" esclamò e incitò il pubblico; ma Garibaldi rifiutò di farlo senza averne avuta l'autorità dal presidente.
Il clamore cresceva; il presidente, i deputati ad uno ad uno se ne andarono, infine uscì Garibaldi. Il popolo frenetico lo applaudiva, la guardia nazionale gli tributava gli onori militari. Usciva pure in quel momento Thiers e lo fece con in volto una gran stizza.
"Qu'est ce que c'est que ça?"
"Ça c'est Garibaldi, che vale più di tutti voi insieme", rispose un popolano.

Garibaldi poté con difficoltà montare in carrozza e disse laconicamente che era venuto ad offrire i suoi deboli servizi alla repubblica, che il suo compito era finito, e che ritornava immediatamente a casa sua.
"No, no, non lasciarci, non abbandonarci" urlava il popolo.
Egli ordinò al cocchiere di condurlo all'albergo, e inviò sull' istante un suo ufficiale a verificare l'ora della partenza del treno per Marsiglia.
Venne una deputazione della sinistra per scongiurarlo a rimanere; giunse poi il figlio di Victor Hugo e il segretario per annunciargli che nella sera sarebbero arrivati Louis Blanc, Victor Hugo, Ledru-Rollin, i quali aveano telegrafato con la preghiera di attenderli. Garibaldi non si smosse dalla prima decisione, e alle 7 pomeridiane salimmo in un treno per Marsiglia.

Non si puo esprimere l'accoglienza che ebbe il Generale in questo popoloso centro di democrazia. A stento si attraversò la città nelle carrozze, e fino al tramonto deputazioni si succedevano a deputazioni. Entrai nella stanza di Garibaldi prima di sera; egli era solo e scriveva, ed io pensando di disturbarlo mi ritiravo quando lui mi trattenne dicendo:
"Ciò che scrivo non é urgente: scrivo un nuovo romanzo intitolato: I mille di Marsala".
Gli parlo sulla sorte dei suoi militi dei Vosgi.
"Voi tornate a Châlons - soggiunse - per ultimare le faccende dei feriti e vi prego di stendere una lista accurata di tutti gli italiani, degli spagnoli, dei greci, dei polacchi".

La preghiera di Garibaldi in campo significa sempre comando, e non mi restava che di accontentarlo.
Col primo sole ricominciò la processione delle deputazioni. Comunicatogli che la carrozza era pronta, prese commiato, e passando in mezzo ad una popolazione la quale come a lamentarsi gridava: "ecco che se ne va il nostro salvatore, l'unica nostra speranza!" giungemmo al quai dove lo aspettava il battello a vapore; e prima di salirvi salutò il popolo che si era assembrato sul quai e ordinò che solamente i suoi varcassero il ponticello.

Incontratosi sul ponte col il solo Basso e con Eugenio, disse poi a ciascuno dei suoi ufficiali, a Bordone, a suo figlio, a Fontana, a Pasqua, a Galeazzi, a Gattorno. Piangevano tutti.
Io fui l'ultima, ed lui mi porse uno stupendo mazzo di mammolette che le signore di Marsiglia gli avevano gettato sulla sua carrozza. Appena rialzato il ponticello, il vapore si mosse e abbandonò il porto; noi ci avviammo frettolosi all'ultimo quai per dare e ricevere l'ultimo saluto e vi rimanemmo finché la nave e il fumo non furono più visibili; poi mesti e muti come orfani in estrania terra ritornammo all'albergo.

Il 15 si affiggeva a Châlons il seguente ordine del giorno.
Era l'addio di Garibaldi:
"Ai bravi dell'esercito dei Vosgi, Io vi lascio con dolore, miei bravi, e sono costretto a questa separazione da circostanze imperiose.
Ritornando ai vostri focolari raccontate alle vostre famiglie i lavori, le fatiche, i combattimenti che noi abbiamo sostenuto insieme per la santa causa della repubblica.
Dite loro principalmente che voi aveste un capo che vi amava come suoi figli e che andava orgoglioso delle vostre braccia.
A rivederci in occasioni migliori!".

Ecco come il generale Manteuffel, capo dello stato maggiore generale tedesco, nella storia della guerra franco-alemanna, conclude la narrazione dei fatti d'arme in cui Garibaldi prese parte:
"La tattica del generale Garibaldi va segnalata specialmente per la grande rapidità delle mosse, per sagge disposizioni durante il combattimento a fuoco, e per un' energia e focosità nell' attacco, che se dipende in parte dall'indole dei suoi soldati, dimostra indubbiamente, che il generale non dimentica un solo istante l' obiettivo del combattimento, che é appunto quello di far sloggiare il nemico dalle sue posizioni, mediante un attacco rapido. vigoroso, risoluto.
La prova di questa sua speciale valentia l'avemmo nel fatto d'arme, che fece rifulgere non solo l' eroismo dei nostri soldati, ma anche la bravura dei garibaldini.
Il 61° fucilieri ebbe sepolta la sua bandiera sotto un mucchio di morti e feriti, appunto perché non gli fu possibile sottrarsi alla celerità delle mosse di Garibaldi.
Certamente i successi dei generale furono successi parziali e non ebbero seguito; ma se il suo generale Bourbaki avesse operato secondo i suoi consigli, la campagna dei Vosgi sarebbe stata la più fortunata campagna combattuta nel 1870-71 dalle armi francesi.
L'alterigia del generale francese ci risparmio molti imbarazzi."

E il generale Kettler:
" Se Garibaldi fosse stato alla testa di una delle armate francesi, la bandiera del 61° non sarebbe stata l'unica perduta da noi."

Molti di noi abbiamo tentato la narrazione della campagna dei garibaldini in Francia appena reduci dai Vosgi (La Camicia Rossa, di BEGHELLI. - Da Firenze a Digione, di ETTORE SOCCI. - Impressioni di un volontario, di BIZZONI. - I garibaldini in Francia, di JESSIE WHITE MARIO).
Ma Michelet solo ci é riuscito nelle parole ispirate che si trovano in testa a questo e al precedente capitolo.
Quella é la vera, la sola storia di quelle gesta compiute dagli italiani e che gli italiani soli sanno compiere, o almeno sapevano, vivo il loro Duce.
Nell'avvenire storici imparziali e competenti prenderanno le parole di Michelet come punto di partenza, e servendosi dei nostri abbozzi compileranno la genuina storia della campagna di Garibaldi a pro della Francia vinta, invasa e occupata dallo straniero. Qui figureranno i suoi ordini del giorno semplici, precisi, da essere intesi dal più umile soldato; i tratti di delicatezza verso gli ingrati e impertinenti "fratelli " che era venuto a soccorrere; allora si capirà il suo spietato rigore con i suoi, l'inesorabile disciplina ch'egli esigeva, la rettitudine dei suoi giudizi, l'olimpica serenità mantenuta in quell'orgasmo babilonico.

E così la storia della campagna dei Vosgi formerà una delle più belle pagine dell'epopea garibaldina, epopea unica più che rara nel mondo moderno.
Quella campagna nel suo complesso é stata per l'Italia un bene. Fu bene che gli italiani, i quali si stimarono sempre di esser meno dei francesi, si sono provati al loro fianco in terreno esclusivamente francese, che abbiano maneggiato lo chassepot contro il fucile ad ago, operando ben altre meraviglie che non quelle di Mentana contro i catenacci dei gari
baldini. E se prima si ammiravano gli italiani e i loro inauditi sacrifici e il valore per riuscire alla emancipazione della propria patria, la generosità che li spingeva a combattere a favore della repubblica in Francia, la loro pazienza nel soffrire le privazioni d' ogni genere, il substrato di buon senso e l'inalterabile buon umore che li salvò dal naufragare fra gli elementi dissolventi ond'erano circondati, e soprattutto l'altezza d'animo con la quale tutti soffrirono l'ingratitudine dei francesi, destarono un sentimento di profondo rispetto per essi e ferma fede nel glorioso avvenire della loro nazione.

E se, come profetizza il Carducci, la Francia, guarita dalla smania di credersi la "grande nation" risorgerà innovata sorella eguale nella famiglia delle sorelle Latine", allora sì Garibaldi e la primavera sacra italiana saranno salutati come i precursori del rinnovamento della razza latina e della federazione dei popoli liberi ".

E allora l'Italia, sempre Niobe fra le nazioni, frenerà le lacrime per Imbriani e Ferraris; per Perla e per Rossi; per Leonardo e per Moro e per le centinaia dei suoi figli che alla Francia salute, sangue e vita donarono; consolata dalla certezza che come tutta la loro vita fu alla libertà e al bene consacrata, così all'uno e all'altra giovava ancora più il supremo suggello della loro morte.

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Terminata così in Francia la sua vita guerriera
Garibaldi tornò in Italia sì a vita privata
ma non smise di influenzare la vita sociale e politica italiana

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