CINQUANTASETTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTASETTESIMO

VITA PRIVATA - E RIEPILOGO DI UNA LUNGA STORIA
Vita privata di Garibaldi. - Divorzio e secondo matrimonio. - Povertà. - Rifiuto di una pensione e rendita. -. - L'accettazione forzata. - L'autobiografia. - Quando verrà stampata ? - Garibaldi repubblicano: Fondazione della Lega della Democrazia. - Inaugurazione del monumento ai caduti di Mentana. - Viaggio a Napoli e a Palermo. - Ultimo ritorno a Caprera.
GLI SCRITTI SUI DESTINI DELL'ITALIA -
(ANCORA OGGI ATTUALI !!!)


"Altra Italia sognavo nella mia vita".
G. GARIBALDI.

Con il ritorno di Garibaldi dalla Francia può dirsi finita per lui la vita guerriera, non finita però la vita politica, nè tantomeno la sua influenza nelle questioni sociali così intimamente collegate alle politiche.
Dal punto di vista melodrammatico, sentimentale, si può desiderare Garibaldi morto a Mentana nella battaglia contro il papato e contro l'impero, o a Digione in lotta per un popolo oppresso, in nome della fratellanza dei popoli.
E se così avesse voluto il Fato, a lui sarebbero state risparmiate indicibili sofferenze fisiche, ineffabili angosce morali, ma sarebbero andati perduti dieci anni della sua vita spesi per la libertà, per la patria e per l' umanità.

Delle circostanze private del Generale tutti hanno parlato diffusamente all'epoca della sua morte. Possono essere riassunte in poche parole.
Dopo il matrimonio "rato e non consumato" con la marchesa Giuseppina Raimondi nel 1859, Garibaldi non cercava subito il divorzio, probabilmente perché credeva dover rivolgersi al Vaticano per ottenerlo, cosa per lui non era pensabile né possibile. Non nato di certo per il celibato, prima di conoscere la Raimondi aveva avuto già una figlia da una popolana nizzarda, alla quale aveva messo nome Anita, e alla madre di essa lui avrebbe dato pure il proprio nome se i giudizi o i pregiudizi, degli amici suoi non ne l'avessero distolto.
Dopo il 1866 ebbe da un'altra popolana tre figli: Clelia, Rosa e Manlio. Morirono poi l'Anita e la Rosa, ma sopravvissero Clelia e Manlio; e Garibaldi, che teneramente amava i figli della sua prima moglie, con uguale tenerezza amava pure questi e volle a tutto costo legittimarli sposando la loro madre Francesca Armosino.
La marchesa Raimondi Garibaldi non domandava di meglio
anch'essa di essere liberata dalla catena che con le proprio mani si era fusa. D'accordo dunque i "conjugi disgiunti" domandarono lo scioglimento del loro matrimonio; ma la domanda fu rigettata dal Tribunale Civile di Roma il 6 luglio 1879. - Più fortunati furono gli interventi del sommo giureconsulto Pasquale Mancini, che assumendo la loro causa davanti la Corte d' Appello di Roma la vinse.
La Corte ammettendo la nullità dichiarava privo di ogni conseguenza giuridica quel matrimonio "rato" e "non consumato", celebrato a Como il 24 gennaio 1860. Questa sentenza fu emanata il 14 gennaio 1880, e il 26 gennaio stesso Giuseppe Garibaldi sposava la Francesca Armosino, dando così il suo nome glorioso ai figli Clelia e Manlio.
Questo nobile atto (reso possibile solo dopo venti anni), spazzò via tutte le accuse delle malelingue (in primis le bigotte) che screditavano Garibaldi di essere un "dongiovanni", che la famiglia non rientrasse tra i suoi interessi, e di avere sparsi quì e là figli. Ma non era affatto così; quando acquistò e si stabilì a Caprera, i due maggiori suoi desideri furono quelli di vivere - in una casetta costruita quasi tutta con le sue mani, su uno scoglio - una vita semplice in armonia con la natura occupandosi di agricoltura (amava infatti definirsi "agricoltore"), di dedicarsi tutto alla famiglia e lì amare teneramente moglie e figli, fino agli ultimi istanti della sua vita.

Su uno scoglio! non in una reggia !!


in fondo a destra, quella macchia bianca, la sua isolata dimora,
qui sotto

Nuova famiglia, nuove necessità; tanto più che con la prima aveva consumato tutto il suo avere. Non potendo più guadagnarsi da vivere come operaio o come marinaio, tentò invano di vendere il granito della sua Caprera ma ben presto dovette convincersi che in tale commercio le spese della mano d'opera superavano i guadagni.
Aveva già venduto lo yacht Olga, regalatogli dagli Inglesi nel 1864, al ministero delle finanze italiano, ma l'incaricato che doveva portargli i soldi, scappò in America con il denaro e il povero padre di tanta famiglia rimase con le mani vuote.

Scrisse a Caprera tre romanzi: "Clelia", "Il Volontario", "I Mille", tutti e tre negazione della storia e dell'estetica, commoventi testimoni degli sforzi fatti da Garibaldi per mantenersi indipendente lui e i suoi. Le sue conosciute ristrettezze economiche e le offerte di sovvenzione fattegli dagli stranieri commossero a sdegno e a vergogna il popolo italiano, il Parlamento, il Governo; e il 19 novembre 1874 il ministro Minghetti presentò un progetto di legge per accordargli una rendita vitalizia di 50 mila lire ed un'iscrizione sul gran libro per altre 50 mila di rendita. Il Senato votò il progetto di legge alla unanimità, la Camera diede 25 voti contrari e il 27 maggio 1875 comparve questo decreto nella Gazzetta Ufficiale.

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato:
Noi abbiamo decretato e decretiamo
Articoli unico.
In attestato di riconoscenza della nazione italiana al glorioso concorso prestato dal generale Garibaldi alla grande opera della sua unità e indipendenza, è autorizzato il governo del Re a scrivere sul gran libro del debito pubblico dello Stato una rendita di lire cinquantamila annue del consolidato cinque per cento con decorrenza dal 1° gennaio 1875, in favore di Giuseppe Garibaldi; ed è inoltre assegnata al medesimo un' annua pensione vitalizia di altrettante cinquantamila lire con la stessa decorrenza.
Ordiniamo che la presente Legge, ecc.
VITTORIO EMANUELE. - M. MINGHETTI.

Ma Garibaldi non esitava un momento. Scrisse a Menotti ordinandogli di incaricare Mancini del rifiuto.
"Dirai a lui - così la lettera - che le centomila lire mi peserebbero sulle a spalle come la camicia di Nesso. Accettando avrei perduto il sonno, avrei sentito ai polsi il freddo delle manette, le mani calde di sangue; ed ogni volta che mi fossero giunte notizie di depredazioni governative e di pubbliche miserie mi sarei coperto il volto dalla vergogna. Tuttavia ai nostri amici ed al Parlamento in generale, immensa gratitudine. Questo governo però, la cui missione é d'impoverire il paese per corromperlo, si cerchi complici altrove. "
GIUSEPPE GARIBALDI.

Lettera sincera, lettera sentita, il vero grido della sua anima.
Ma intanto le ristrettezze della famiglia crescevano, l'onore del nome pericolava; nel 1876 il governo dei moderati era caduto, la sinistra ne aveva raccolta la spinosa eredità.
Viva e schietta fu per questo fatto la contentezza di Garibaldi; il quale, benché non reputasse quelli come tanti geni, se ne riprometteva lo stesso disinteresse, pur ritenendoli devoti alla patria quando essi si segnalarono al tempo delle cospirazioni, delle prigioni e delle battaglie.

Uno dei primi atti di Mancini e di Nicotera fu quello di recarsi alla villa ove Garibaldi abitava fuori Porta Pia, per dimostrargli che le necessità della sua famiglia e l'onore del proprio nome lo obbligavano ad accettare il dono nazionale di un milione e la pensione di 50.000 lire annue, votati dal Parlamento.
E sostennero tutto ciò con così forti argomenti da costringerlo all'accettazione, a cui si era ripetutamente e fieramente rifiutato. Ma fu il più amaro boccone che Garibaldi in vita sua abbia inghiottito (*).
(*) Abbiamo scritto altrove che Garibaldi non aveva mai accettato la pensione offertagli dal Governo Sardo nel 1849. E in conferma ci piace citare il seguente paragrafo dal bel libro: La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, narrate da JACK LA BOLINA. Vol. II.
"Era intendente di Genova Gustavo Ponza Conte di S. Martino. - Istruzioni giunte da Torino lo sollecitavano di ottenere che Garibaldi rabbonito si allontanasse dall'Italia, e se possibile anche obbligato dal Governo Sardo. Per mezzo di questo funzionario (per ragion d'ufficio questa trattativa dall'incaricato fu a me narrata), il Generale si persuase che la miglior cosa era per lui il lasciare l'Italia e andare a cercar qualche comando di una nave mercantile. Ma quando all'eroe, allora povero di pecunia, fu proposto dall'abile negoziatore un sussidio di denaro, che altri, emigrati o profughi al pari di lui, avevano avuto, questi rispose, e a varie riprese ripeté, che poteva guadagnarsi il proprio pane col lavoro. Allora gli fu ricordato che aveva la madre a Nizza in condizioni assai misere, e gli si propose di trasmettere a lei il sussidio che lui per sé stesso rifiutava. Garibaldi replicò che non si opponeva che sua madre fosse soccorsa qualora lei stimasse conveniente la cosa, ma solennemente rifiutò di farsi interprete del desiderio ministeriale.

Noi per caso entravamo da lui mentre ne uscivano i ministri: sembrava che fosse invecchiato di venti, anni, tanto era affranto dal dolore, tanto gli ripugnava di ricevere denaro dallo Stato sotto qualsiasi pretesto. Aveva già in una lettera, dettata pochi anni prima, fatte presenti le sue angustie finanziarie; e questo perché alcuni di coloro che da lui dipendevano non seppero tagliare l'abito sulla misura del panno. L'intensa ripugnanza provata gli toglieva ogni buon garbo nel modo di accettare; e certo non va lodato per equanimità il suo contegno offensivo verso i moderati, i quali, per dire il vero, in tutte le questioni di questo genere essi tuttavia l'avevano trattato con la massima deferenza e cortesia, e a loro onore sia detto che non risposero al suo durissimo linguaggio. I rimproveri e i sarcasmi furono tutti lanciati dal partito clericale e da qualche repubblicano puritano, che si permetteva di criticare il fatto come atto che offuscasse la gloria di un tale patriota.
Indegno modo di agire verso un compagno in bisogno, un uomo il quale aveva sempre mantenuto con il proprio lavoro sé ed i suoi famigliari, privandosi dello stretto necessario. E senza dubbio, se anche in quel momento supremo egli si fosse sentito in grado di tornare a fare candele di sego, spaccare legna, a fare il semplice contadino, qualcuno (e questo lo sapeva! e ne inorridiva!) avrebbe potuto procurarsi la poco nobile soddisfazione di rimproverarlo di vivere a carico dello Stato.

Del resto, quando si consideri che proprio gli immensi suoi servizi alla patria, le fatiche, i disagi, le privazioni e soprattutto le ferite furono proprio questi che lo ridussero impotente, si confesserà che il comperso datogli era ben poca cosa al paragone di quanto altre nazioni offrivano giubilando ai loro benefattori di gran lunga inferiori a lui.
Sottomessosi alla ripugnante necessità, pagava i debiti dei figli maschi del primo letto, assegnò ( questo il "dongiovanni" !!) una somma alla sua ben amata Teresita, ai figli piccoli e alla loro madre; e per ogni bisogno pubblico e privato la sua borsa fu sempre aperta.

Lui solo non approfittò di quel denaro, né tanto né poco, conducendo sempre la stessa vita parca, semplice; rimproverando amaramente chi specialmente lo aveva ridotto a così doloroso ed acerbo sacrificio.
Lo stato di servizio attivo del patriota era finito, e anch'egli disse: "Homo sum" e niente di umano stimo alieno da me".

Che lezione questa sua ostinatezza nel volere conferiti i diritti della legittimità ai suoi figli per colpa non loro nati ex lege, e dato il nome suo alla loro madre! che lezione per i tanti uomini, i quali, probi cittadini sotto altri riguardi, non esitano di abbandonare i figli senza stato e senza nome legale, e di lasciare per tutto compenso alla donna un giorno amata, solo l'onta, la miseria e l'impossibilità di riabilitazione! Oseranno essi gettare l'anatema contro Garibaldi? Apertamente no di certo ! I fautori della legge sul divorzio, e, ciò che più preme, i campioni delle leggi uguali per gli uomini e per le donne, gli saranno grati di certo per questa pagina della sua vita. E così il voto di biasimo gli verrà dato dai soli preti, che vogliono del matrimonio un sacramento, che la Chiesa solo - e solo essa - può annullare a suo beneplacito.
E l' anatema che viene dal Vaticano suona il "Ben fatto, buono e fedele servo" dato dall'umanità a chi dorme in Caprera.

Ora resta a sapere che cosa lasciò scritto Garibaldi intorno ai fatti storici del passato, e a raccogliere le, opinioni sue intorno all' avvenire della sua patria, agli insegnamenti lasciati, alla via da seguire. Ma questo lavoro non può essere fatto a dovere se non quando le Memorie di Garibaldi scritte di suo pugno giorno per giorno e destinate alla pubblicazione dopo la sua morte verranno integralmente date alla luce.
E questa pubblicazione non può, non deve tardare. L'Italia ha diritto a queste Memorie, la famiglia ha il sacro dovere di consegnarle. Furono messi i sigilli alle carte segrete di Urbano Rattazzi, affinché esse non rivelassero l' "agguato" di Aspromonte, il " mistero" di Sarnico, l' "arcano" di Mentana. Quei sigilli furono messi dai ministri del Re nell'interesse della monarchia. Ciò si capisce.

Uguale interesse dunque é per la democrazia possedere la verità, tutta la verità, null' altro che la verità, intorno a quelle catastrofi nazionali. Privare gli Italiani di questo, sarebbe defraudarli di una delle maggiori eredità lasciate da Garibaldi. Saffi dà all'Italia le opere di Mazzini, Bertani quelle di Cattaneo; devono mancare quelle di Garibaldi ?
Ma vi vien detto che per delicatezza verso molte persone (Re, Cavour, Mazzini, Preti, Papi e tanti altri personaggi nostrani ed esteri) che Garibaldi ha severamente criticate (lui stesso in seguito convenne "di aver passato ogni limite") queste carte non verranno pubblicate se non dopo chissà quanti anni.
("Le mie Memorie", " I Mille", "Clelia" con le opere originali che possediamo, sono state digitalizzate e pubblicate da "Cronologia" - vedi altre pagine).

Mancando questa parte essenziale della vita di Garibaldi, bisogna cercare qua e là i fatti, i detti, gli scritti di lui, durante gli ultimi anni della sua vita. Fino al 1870 Garibaldi non soltanto concentrava tutte le sue forze nell'azione, ma trattava con severità e alterigia chi discuteva sulle "forme" di governo, sulle "bandiere" da sollevarsi, ecc., classificandoli dottrinari, puritani , ecc. Egli temeva che gli Italiani venissero distratti da ciò che era la suprema necessità della patria, cioè dal compimento della sua unità. Nei suoi contemporanei Garibaldi cercava soltanto quanto valevano e potevano dare per questo scopo. Il più o meno decideva della sua opinione presso di essi. Essere buon soldato copriva per lui una moltitudine di peccati. "Chi per la patria muor, vissuto è assai" era la sua massima favorita.

Dopo Mentana, in un carme dedicato a Vittor Hügo, dettato in francese, lingua che Garibaldi scriveva meglio che la propria, egli versa tutta l'ira santa che ferveva nel suo petto per l'ingiustizia patita dai suoi:
e mette il dito sulla piaga, additando la causa delle sconfitte:

" Mais les nations toujours ont le terrible tort
De laisser une soeur seule dans la bataille,
Seule des potentats affronter la mitraille !
Eux, ils sont bien unis, à l'heure du danger;
Et les peuples jamais ne sauront partager
Le péril en commun pour la cause commune?"

Dopo il 1870, l' unità materiale compiuta, Garibaldi, come tutti i veri fautori di essa, rimase deluso e fremente. Ogni suo detto e scritto rivela l'amarezza dell'anima sua:
" Cosa era quest'Italia fatta a forza di ecatombe di morti, di fiumi di sangue, di miriadi di vittime e di martiri? Cosa era se non il fedecommesso di un Papa e di un Re? L'Italia per gli Italiani? Che ! l'l'Italia per i preti, per il re, per la sua corte, per i suoi ministri, per i suoi prefetti, per i sotto-prefetti, per i generali, per gli impiegati. Quella Italia da lui sognata nel lungo esilio, sui campi di battaglia, ferito e prigioniero nella solitudine di Caprera, dov'era? Non esisteva, ma bisognava crearla, liberandola dagli usurpatori domestici come la si era liberata dagli oppressori stranieri".
E guardandosi intorno si gettò come sempre sui campi di battaglia con ciò che gli sembrava l'avanguardia, con i comunardi di Parigi, coll'Internazionale che egli chiamava "il sole dell'avvenire".

Egli é vero che trattandosi dei comunardi, non fece che difenderli contro il "piccolo codardo ministro di Luigi Filippo, contro la terribile realtà degli assassini di Versaglia". E delle dottrine degli internazionalisti non accettava se non "il loro immenso amore dell'umanità".
Ecco il linguaggio che egli fece parlare all'Internazionale:
"Io vengo ad assidermi ad un banchetto ove ho diritto come voi, o potenti della terra. Io non tocco al patrimonio vostro, benché più pingue del mio, ma non toccate questo poco che stilla dalla mia fronte."

Grande dunque fu la sua sorpresa, e non poco il suo sdegno, trovandosi politicamente circondato da avversari, chiuso fra due fuochi: Mazzini e i più autorevoli fra i repubblicani unitari, Quadrio, Saffi e Petroni da una parte; Alberto Mario federalista dall'altra; mentre il vecchio Giorgio Pallavicino, anche lui dichiaratosi apertamente repubblicano, venne su con la riserva.

In quanto concerne Mazzini, la questione era di vita o di morte per la neonata sua patria. Mazzini sapeva che i suoi giorni erano contati, e perciò raccoglieva tutte le proprie forze per strappare i suoi compatrioti dall'orlo del precipizio. I suoi articoli: - "Il Comune di Francia", "Sul Manifesto del Comune Parigino", "Sulla Rivoluzione Francese del 1789", "Pensieri, I, II, III, IV, V, VI e VII", "All'Internazionale di Napoli", "Il Comune e l'Assemblea, I, II e III", "Agli Operai Italiani", "Lettera alla Fratellanza Artigiana di Livorno", "Gemiti, Fremiti e Ricapitolazione, I, II, III e IV", "Il moto delle classi artigiane e il Congresso", "L'internazionale Svizzera", "L'internazionale, cenno storico" - sono capolavori per l'eloquenza appassionata, per la logica inesorabile con cui Mazzini svolge le proprie tesi, e cioè che per la strada degli internazionalisti un popolo non può arrivare mai a libertà, indipendenza o prosperità.
Si direbbero un riassunto dell'ultimo anno di vita e di lavoro di Mazzini i versi del Carme carducciano che comincia: " ....armasi Pur d'odio il canto mio" e termina:

Ahi grave é l'odio e sterile,
Stanco il mio cuor de l'ire:
Splendi e m'arridi, o candida
Luce de l'avvenire !
A terra i serti e l'infule!
In pezzi, o inique spade !
Sole nel mondo regnino
Giustizia e libertade !

(Dopo Aspromonte, di G. CARDUCCI)

Fu il canto del cigno morente. Essendosi recato a Pisa il vecchio patriota Giov. Battista Cuneo, ugualmente devoto sia a Garibaldi come a Mazzini, egli tentò di portare la pace nel campo democratico, la qual cosa anche Mazzini ardentemente desiderava. Impossibile però poterlo indurre a transigere sulla grande questione. "Meglio - egli disse - il ritorno degli Austriaci che l'impianto in Italia di quelle false e perverse dottrine che dividerebbero gli Italiani stessi in oppressi e oppressori".
E mentre parlava e scongiurava Cuneo di servirsi della sua grand'influenza sull'animo di Garibaldi per convincerlo del danno che questi apportava alla nazione, come se la morte stessa volesse mettere il proprio suggello sull'ultimo insegnamento di colui che tutta la sua vita aveva dedicata alla patria, fu colto dal morbo fatale che lo uccise.

E quando il 10 marzo 1872 giunse a Caprera la fatale notizia: "Mazzini è morto!" Garibaldi, trafitto di ineffabile angoscia, telegrafò:
"Sulla tomba del Grande Italiano sventoli la bandiera dei Mille".

Eloquente riassunto della storia dell'italica rigenerazione. Dall'appassionato amore di Mazzini per l' Italia schiava, nacque quella schiera di martiri che hanno nome Effisio Tola, Ruffini, Bandiera, Pisacane, Pilo e le migliaia di "vittime consacrate", "di cuori dedicati alla morte" e di quell'altra schiera di eroi di cui Garibaldi è il primogenito, e che lui soleva comandare al passo della vittoria. Giusto dunque che il Duce dei Mille spiegasse sulla tomba del precursore dell'Unità la bandiera vittoriosa, giusto anche che da quella tomba si prelevasse l'altra bandiera che Mazzini teneva avvinta al petto con la morente mano. Così morto come vivo, Mazzini era sempre l'angelo custode della sua Italia. Esalando l'ultimo alito, egli spense per sempre il fuoco fatuo dell'Internazionale in Italia, senza affievolire quel sentimento di fratellanza dei popoli, che fu articolo fondamentale, del suo credo.
Dalla morte di Mazzini fino all'ultimo suo giorno Garibaldi tenne alta la bandiera della democrazia e si fece campione della sovranità popolare.

Noi intendiamo benissimo che i monarchici di convinzione e di buona fede ritengono che "Garibaldi dopo la sua azione veramente efficace nel 1860 non aveva fatto nulla e non poteva fare nulla che aumentasse la reputazione sua e i suoi benefici al paese" (da "Perseveranza", 4 giugno 1883).

Questo giudizio si fonda sull'opinione che hanno i monarchici, essere la monarchia necessaria all'Italia.
Audace nel combattere, abile nell'approfittare dell'aura, fu suo ideale ed opera della sua vita tener testa ai nemici che stringevano d'ogni parte la patria, farsi arma del popolo contro di loro, e di sé scudo al popolo.
Mentre si trattava di conquistare una patria, Garibaldi afferrava ogni mezzo che gli si offriva per giungere allo scopo
Con la Giovine Italia scese dal suo vascello a Genova per condurre l'Italia alla libertà e all'indipendenza. A Montevideo educava alle patrie battaglie i suoi legionari, poi nel 1847, quando il Papa "accennava di fare il bene dell'Italia", con quelli attraversava l'Oceano per mettersi sotto i suoi ordini. Poi giunto, e trovato il Papa già traditore e solo re Carlo Alberto in campo, offrì a lui la sua spada. Respinto, ubbidisce al Governo Provvisorio di Milano, disobbedendo soltanto quando gli si ingiunge di eseguire il vergognoso patto di Salasco; poi nell'anno seguente proclama la repubblica in Campidoglio e pianta il vessillo repubblicano sul Gianicolo.

Ritornato dal duro esilio nel 1854, trova il popolo scoraggiato, i molti insuccessi del partito repubblicano, e fiducioso nel Piemonte per la parte brillante presa dal piccolo esercito Sardo nella Crimea; Garibaldi si fa arma della monarchia contro i nemici d'Italia e di sé scudo a Casa Savoia; iscrive nel 1859 sul vessillo della rivoluzione: Italia e Vittorio Emanuele, e trascinando con sè tutta la gioventù animosa passa il Ticino e fiancheggia e protegge l'armata regia, che prende possesso della pianura lombarda.
Beneficio, anche secondo i monarchici!

Impedito dalla "subdola e volpina" politica dei reggitori dell'Italia Centrale di passare il Rubicone, esce dalla rete tesagli senza diminuzione di popolarità, scende a Marsala, circonda con la propria aureola il nome di Vittorio Emanuele, libera dieci milioni di abitanti e unendoli alla parte d'Italia già libera rende inevitabile e indistruttibile l'Unità.
Beneficio e grande! giacchè il Re di Piemonte viene proclamato Re d'Italia, ripetono i monarchici.

Ma dopo? A Sarnico, ad Aspromonte, Garibaldi ha affermato la sovranità popolare, il diritto degli Italiani di compiere l'indipendenza e l'unità con, senza, contro tutti i re della terra. Vero é che indossa ancora l' uniforme regia e combatte nel Tirolo per il suolo italiano già vietato all'Italia. - Alla vergogna di Lissa e di Custoza contrappone Ampola e Bezzecca: non più come nel 1848 rinnega l'armistizio, ma fremente "ubbidisce", ripassa il ponte di Caffaro, e bandisce una nuova crociata contro "il maggior nemico dell'Italia, il Papato."

A Mentana fu sconfitto, ma ...
"Quante vittorie immortali questa disfatta oscura !".
Avere dovuto l'esercito regio assistere con l'arma al piede, mentre, al cenno del sire di Francia, i galli e i papalini scannavano il popolo italiano sulla sacra via di Roma, fu non un beneficio ma un danno incalcolabile alla monarchia.
Poi, quando venne finalmente l'espiazione per l'uomo del due Dicembre a Sedan, quando il re d' Italia, la corte, tutto il partito monarchico ipocritamente lacrimavano sulla sua sorte, Garibaldi sguainava la spada per la Francia repubblicana e traeva con sè, se non la maggioranza, il fior fiore della gioventù italiana, gli stessi suoi figli, ad alta voce proclamando:
"Hanno un solo campo i popoli
Ed un sol campo i re."

Allora sì, che in cuor loro i campioni della monarchia deplorarono che la palla che ferì il piede non avesse colpito il cuore! - E durante gli ultimi dodici anni della sua vita ogni esposizione di colpe governative, specialmente delle fornicazioni col Vaticano, ogni appello al popolo per la rivendicazione dei suoi diritti , era, secondo loro, un nuovo colpo di Garibaldi commesso a danno delle pericolanti istituzioni.
E i monarchici erano (nel loro ambiente) coerenti, genuini, logici.

Non così gli ex-repubblicani, i neo-monarchici, che per giustificare il loro voltafaccia cercano di trasmettere alla posterità un Garibaldi monco, pittoresco, quasi scemo, che non aveva opinioni politiche, o , se ne aveva, erano in favore della monarchia di per sè, un Garibaldi che si studia di infondere nelle nuove generazioni la convinzione che il benessere, il progresso dell'Italia dell'avvenire si deve sperare dalla monarchia!

Invece, ogni suo scritto, ogni suo detto dà la smentita a queste ipocrite affermazioni, smentita testimoniata dalla stessa insistenza dei monarchici, convinti che la sua vita dopo il 1860 "non fu di beneficio ma di danno. "
Nè questi suoi detti e scritti vengono a negare dall'avere egli visitato Vittorio Emanuele, o dall'aver ricevuta e restituita la visita del Re Umberto nel 1876.
Che cosa poteva Garibaldi rimproverare a Re Vittorio ? Che cosa possono oggi gli Italiani rimproverare al Re Umberto? (*)
(*) L'art pour l'art, la repubblica per repubblica, non entrava di certo nelle idee di Garibaldi, tanto é vero che egli ha scritto:
"L'Inghilterra non é una repubblica; ma la pubblica opinione vi é onnipotente, e fissandosi essa su qualche riconosciuto miglioramento, lo accenna alle moltitudini, lo propaga senza posa e finisce sempre per ottenerlo. A quest' ordine di cose appartiene l'arbitrato nazionale, già messo in pratica dai due colossi anglo-sassoni, e che preoccupa oggi gli uomini di cuore di ogni parte del mondo".
E forse il Vecchi non s' illude dicendo che "gli balenò alla mente un concetto che dai più non fu inteso, cioè di condurre la monarchia da lui riconosciuta sopra un sentiero di riforma. E come con il grido "Italia e Vittorio Emanuele" aveva, nel 60, nel 66 e nel 67, consacrato l' accoppiamento del popolo e del Sire per giungere all'agognata unità della Penisola, così nel 1879 si pose a capo della Lega della Democrazia, associazione di forze liberali che nell'animo suo doveva gettar le fondamenta di un nuovo patto tra il popolo e il Sovrano, patto fondato su l'ampliamento delle libertà popolari (
JACK LA BOLLIVA, Vita da Garibaldi. Vol. II, pag. 420.).
Egli forse sognò per il giovane Umberto I, di cui spesso si professava il migliore amico, "la gloria non spregevole di monarca, cui istituzioni repubblicane lo circondassero, e tali da toglier la nostra contrada all'influenza settentrionale intinta di reazione; stringendola invece con Francia, con Grecia, con tutte le giovani o ringiovanite nazioni dell'Europa meridionale".
Può darsi che Garibaldi abbia fatto anche questo sogno di una notte d'estate. Si può anche ammettere l' ampia sua benevolenza paterna per Umberto "Re d'Italia per volontà della nazione e per la spada di Garibaldi". Ma credo che l'avrebbe sognato dittatore di una repubblica piuttosto che quell'essere informe di re costituzionale in un paese dove l'istituzione anormale non ha né tradizione, né glorie proprie, né radici nel cuore del popolo. In ogni caso, scomparsa la breve notte d'estate, scomparve il sogno!


Nulla ! l'uno e l'altro hanno mantenuta la parola data. Che il popolo, protestando, dica oggi: "Si stava meglio quando si stava peggio", é colpa, non del Re ma del sistema; degli uomini che, chiamati a reggere i destini della novella patria, hanno in essa fatto attecchire tutte le debolezze, tutti i vizi dell'età senile, calunniando anche in questi ultimi tempi e corrompendo in un modo che avrebbe recato stupore allo stesso Cattaneo che così stigmatizzava i Cavouriani di allora.
E Garibaldi, uomo giusto ed accorto, non incolpava il Re delle sciagure per le quali egli era irresponsabile, diceva soltanto:
"Non é questa l'Italia che io sognava nella mia vita", e si diede pacatamente e seriamente a condurla sulla via retta.
Del programma politico di Garibaldi, dettato sei mesi soli dopo la morte di Mazzini, diamo i brani più salienti:

"Se il governo spinto dalla fortuna e trattenuto dalla viltà continua nell'obblio dei propri doveri - serrando le file, lo forzeremo nelle strette di questo dilemma: o compierli, o cadere....
.... Chi pure lo invoca nel suo più bello ideale - deve intanto cercarlo sul terreno della realtà nello svolgimento delle più utili riforme. Indico quelle che reclamano il gagliardo appoggio della democrazia - perché costituiscono il programma del progresso sociale.
Sia cancellato il 1.° articolo dello Statuto: esso affermando il predominio del cattolicesimo - attesta essere un' audace ipocrisia la tanto proclamata libertà di coscienza. - Deve essere abolito; e con esso tutti i privilegi, che fanno più formidabili le offese degli implacabili nemici della patria e della civiltà: cessi la tirannia del prete ufficialmente riconosciuto.

"A Roma restituita all' Italia é offerta questa missione emancipatrice. Riprovevole quindi il Governo, che per ossequio alla diplomazia é perfino ribelle alla Legge, ed esita ad applicare alla Capitale quella che in tutto lo Stato abolisce tutte le corporazioni religiose.
Bisogna insistere perché cessi subito lo scandalo di un' eccezione, che lascia il morbo dove fu ed é più infesto.
Domandiamo la soppressione delle corporazioni religiose - in Roma senza indugi e senza restrizioni. - E poiché la catena del pregiudizio non può essere infranta che dall' istruzione, dobbiamo reclamarla obbligatoria, gratuita e laica. -
Senza questa condizione, la scuola dominata dalla setta clericale pervertirebbe invece di educare. Lo Stato non può favorire le dottrine della fede cieca, che s'insinua con i primi insegnamenti, e prepara la schiavitù dell'anima e del pensiero.

"Dunque istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica. - La riabilitazione intellettuale dev'essere completata - anche dal materiale sollievo al proletariato, che dal lavoro che crea ad altri la ricchezza esso non ritrae sempre un sicuro guadagno contro la fame. E tale provvedimento deve essere sollecito.
Per questa considerazione dobbiamo combattere l'assurdo sistema delle imposte - specialmente quella spietata ed immorale che gravita sul pane quotidiano - la tassa sul sale e quante sono indirettamente onerose al povero - come il dazio consumo. - Si sostituisca l'imposta unica, con il logico principio dell'applicazione progressiva.
La riduzione delle imposte dipende molto da quella delle spese esageratissime. Anche le ristrettezze finanziarie reclamano il decentramento, che dovrebbe aver per base il Comune - come appare nelle più gloriose tradizioni della nostra Italia, e nel moderno esempio dell'America.
Noi dobbiamo pretendere la completa applicazione delle libertà innate e riconosciute. - Il diritto di riunione e la libertà della stampa cessino d'essere una menzogna.

"Noi dobbiamo pur dare calorosa adesione al suffragio universale. - Esso innalza a dignità di cittadini i diseredati - restituisce loro il diritto fondamentale - escludendone soltanto gli analfabeti. - Per esso il proletariato sinora escluso dalla rappresentanza legislativa potrà reclamare giustizia. L'importanza della proposta é compresa - perché la vidi incoraggiata dal plauso di molte associazioni, dal voto di pubbliche tiunioni e da petizioni al Parlamento. - Ciò mi prova che la democrazia, sentendo il dovere di associare le forze per il trionfo dei principii racchiusi nelle questioni che ho additato - mi ha quasi prevenuto con quell'appello alla concordia che darà preziosi risultati.
Miriamo al meglio - senza escludere il bene - che possiamo ottenere presto - volendo"
GIUSEPPE GARIBALDI.

(da "La Provincia di Mantova", 15 agosto 1872).

Non ancora la parola repubblica. Se possibile senza sconvolgimento raggiungere lo scopo, che servirà cambiare la forma di governo?
Passato un altro metà anno, e con la violazione del magro diritto concesso dallo Statuto, con la proibizione del Comizio al Colosseo per il suffragio universale, la tazza divenne colma.
Gabaldi, si rendeva conto, e molti con lui, che lo sperare libertà o progresso con le attuali istituzioni fosse cosa assurda: cominciare con riforme sociali o economiche prima di avere proclamato e effettuato la sovranità popolare, fosse un mettere il carro davanti i buoi.

Donde all'inizio del febbraio 1873 esce il primo incitamento di Garibaldi agli Italiani a lavorare per la repubblica. (ma ci vorranno altri 75 anni !!! - Ndr.)

Caprera, 26 Febbraio 1873.
"Che farà l''Italia? - Questo si chiederà nel mondo, dopo la proclamazione della Reppubblica in Spagna e in Francia. E, bisogna confessarlo, sebbene con rammarico, il nostro popolo è indietro rispetto ai suoi fratelli latini.
Che farà l'Italia?
Il concerto clericale e monarchico e la corruzione delle masse sono tali nella nostra penisola, da rendere difficile una induzione, se non del tutto impossibile; ed io credo, alla maggioranza degli italiani ripugni un cataclisma rivoluzionario, che sarebbe tremendo, proporzionato all'odio immenso suscitato da chi così indegnamente manomette da tanto tempo l'Italia.
Dunque, non rivoluzioni di sangue.
Aspetteremo l'abdicazione degli infallibili e degli inviolabili? E' codesta un' idea da pazzi, a cui nemmeno i bimbi crederebbero. A mio avviso, invece, la possibilità della Repubblica in Francia ed in Spagna si deve principalmente alla organizzazione democratica di quei paesi.
Il 4 settembre 1870 e l' 11 febbraio 1873 trovarono nei due paesi un lavoro di preparazione, non completo, ma sufficiente, perché vi si appoggiasse il sentimento nazionale, stanco e disgustato dall'egoismo e dalla corruzione di clericali e monarchici.

"Lo stesso egoismo, la stessa corruzione esistono in Italia; ciò che vi manca, é l'organizzazione democratica, per poter raccogliere in un tempo determinato i frutti raccolti da un campo in cui quell'egoismo e quella corruzione hanno già seminato.
"Los intransigentes", in Spagna particolarmente, avversarono il Direttorio repubblicano; il quale prova oggi coi fatti essere stato sulla retta via. In Italia accade lo stesso; vi sono gli intransigenti, che ieri ancora censuravano Marsala e Mentana, e quante imprese hanno spinto il risorgimento nazionale, non compiuto, naturalmente, ma certo in migliori condizioni che non fosse prima del 1859.
Ora, perché tutte le associazioni italiane, tendenti al bene, non si affratellano e non si pongono, per amore di indispensabile disciplina, sotto il vessillo democratico del Patto di Roma?

"Formate il fascio, dunque, repubblicani ringhiosi; stringetevi intorno al Patto di Roma.
La società va riconoscendo a poco a poco essere la Repubblica il solo governo dell'ordine, il solo possibile, e quello che più la onora; giacché la Repubblica, considerata in sé stessa, é essenzialmente un governo di onesti. E come sarebbe altrimenti ?
Le monarchie corrompono mezzo paese, per torturare l'altra metà. All'una tolgono i figli e le sostanze, per ingrassare e mantenere nei godimenti il resto. Ciò non può durare, e quando l' occasione si presenti propizia, le nazioni rovesceranno questi anormali e mostruosi sistemi.

"Molti, tra i nostri giovani commilitoni, ripugneranno al metodo di aspettativa da me accennato. Io sono, per altro, obbligato a consigliare di non far correre rivoli di sangue per ottenere una vittoria, in altro modo non dubbia, e di imitare i nostri fratelli di Francia, che si accingono a provare con i fatti essere la Repubblica il solo governo ragionevole, il solo conveniente alla libertà ed alla prospera vita dei popoli."
GIUSEPPE GARIBALDI.

Eccoci alla repubblica per evoluzione e non per rivoluzione.
L'ideale da tenere davanti gli occhi degli Italiani, la repubblica per mezzi pacifici, per propaganda morale, per la volontà della maggioranza.
E nello stesso anno scrisse:
"Mio buon Quinet, con la vostra eroica pazienza e col vostro genio voi avete conservato l'idolo della nostra vita, cencioso e mutilato, ma infine Repubblica, e il mondo vi deve essere riconoscente."

E a L. Blanc e E. Quinet:
"Salutiamo insieme, amici diletti, salutiamo con gratitudine il nuovo astro ripubblicano che appare sull'orizzonte e che renderà assai più facile la missione umanitaria. Il rimanente dell'Europa che vi ammira camminerà certo sulla via tracciata da voi, e, come voi, senza scosse, senza convulsioni, grazie alla sola forza dell'interesse e della prosperità di tutti."

Ora quali la forma della sua ripubblica? molti, ammettendolo repubblicano , domandano.
Scrive Alberto Mario:
"Garibaldi aveva invitato a Napoli nel 1860 Carlo Cattaneo, il vincitori di Radetzky nella battaglia delle Cinque giornate in Milano, filosofo, letterato, economista di primissimo ordine della scuola positivista. Egli, più d'una volta, sapendomi discepolo del gran pensatore lombardo, m'interrogò sulle sue dottrine, del quale aveva letto le pubblicazioni politiche: Archivio Triennale, Insurrezione Lombarda, Note intorno alla cessione di Nizza, Intorno all'esercito", ecc. Io lo informai come il Cattaneo avesse rilevato con i nuovi studi desunti dal vero, dai fatti, dall'esperienza, da dove egli ricavava gli ideali, le ultime generazioni lombarde, le generazioni virili del '48 e '60; come egli, richiamando i cultori delle dottrine filosofiche e letterarie dagli idealismi malaticci della scuola cattolica, dalle vanità rettoriche e dalle convinzioni accademiche, abbia loro chiarito la potenza organica del metodo induttivo, l'efficacia della parola che rispecchia la cosa, e la bellezza nella sobrietà dell'ordinamento greco.

"Ma come mai, mi disse il Generale, un tant'uomo é federalista e così fieramente avverso all'unità per la quali combattiamo?
È unitario, Generale - risposi io - in quanto vuole in mano del governo nazionale tutti gli interessi generali; é federalista in quanto vuole in mano dei governi regionali tutti gli interessi regionali, locali, particolari".
"Allora non possiamo che trovarci d'accordo" egli rispose.
(Reminiscenze personali di Garibaldi di ALBERTO MARIO, tuttora inedite).

Giunto a Napoli, Garibaldi ascoltava sempre il Cattaneo con la massima deferenza, e a voce e per lettere s'intratteneva con Mario sulla repubblica federale.
Il 3 settembre 1872 scriveva:
"Sono certamente federalista anch'io, e quindi seguace dell' illustre Carlo Cattaneo e del nostro Alberto Mario. Credo la federazione meta alle aspirazioni nostre, come l'eliminazione del dispotismo i della menzogna."

Ed il 4 febbraio 1873 ad Alberto Mario scriveva:
"Già vi manifestai la mia adesione alla repubblica federale, meta delle nostre aspirazioni. - Il giorno in cui non vi saranno più eserciti stanziali, sarà inutile l'accentramento dei poteri costitutivi in un solo luogo; ed ogni provincia potrà mangiare i maccheroni come ad essa piacciono senza chiederne il permesso a Roma o a Pechino. Il nostro Guerrazzi redigerà un appello alle Società italiane per un arbitrato mondiale, che dovrà essere proposto tra poco nel Parlamento inglese e che sarà firmato da vari di noi."

Sempre eminentemente pratico, mentre si preparava apertamente, francamente, l'avvenire alla repubblica, non ometteva di spremere dalle istituzioni presenti quanto di bene era possibile.
Ed eccolo a Roma nel 1875, tutto intento allo studio dei lavori per impedire le inondazioni del Tevere e per bonificare l'Agro Romano.

Si presenta alta Camera come deputato del primo collegio di Roma, protesta contro il cattivo governo dei moderati, i quali alla fine del 1874 avevano trasceso ogni limite nell'arbitrio imprigionando e incatenando patrioti come Saffi e gli altri intervenuti a Villa Ruffi, per impedire che essi influissero sulle elezioni.
Propone poi che i "Pionieri di Sapri", i compagni dell'eroico Pisacane, fossero pareggiati, per grado, onori e pensioni, ai Mille di Marsala. Proposta giusta, venendo da lui, delicatamente generosa. Votò la vendita delle vecchie navi: in compagnia con il generale Medici, fece pubblica visita al Re Vittorio Emanuele. Poi vedendo che si burlavano di lui per le opere del Tevere ritorna a Caprera, dando tempo al tempo affinché i suoi amici della Sinistra facessero le ultime prove delle istituzioni vigenti.

Gli errori commessi, l'incapacità manifestata, lo sfogo di piccole passioni, le puerili gelosie di questi suoi amici al potere furono per Garibaldi una grande delusione, né egli si asteneva dal flagellarli con mano inesorabile e instancabile. Si mostrò molto più severo con essi che non con la Destra. Da Nicotera non aveva mai molto sperato, ricordando che dopo la lettera del 1860, in cui esso dichiarava di non potere più combattere finché lo scudo di Savoia macchiava il tricolore, poi era divenuto deputato e ministro del Re sabaudo; né Crispi ebbe il tempo di fare manifesta la propria capacità.
Ma la chiamata di Cairoli ravvivò tutte le sue speranze, ad ognuna delle quali corrispose la relativa delusione. Che Benedetto potesse proibire la celebrazione dell'anniversario della morte di Mazzini, impedire manifestazioni in favore del Trentino e di Trieste, egli non si sarebbe mai immaginato, dimenticando che anche Cairoli, ministro di un re, non avrebbe potuto portare a compimento i progetti che da semplice soldato e patriota ideava.

Intanto la sua salute andava sempre deperendo: la terribile malattia, l' artritide deformante, invadeva tutte le sue membra, lasciando solamente intatti i visceri e fino all' ultimo istante il cervello. Sembrava impossibile a tutti che potesse più muoversi da Caprera, e tanto meno - a 72 anni - prendere parte a qualsiasi azione politica; eppure nell' aprile del 1879 ritornava a Roma e qui fondava la Lega della Democrazia, presentandola con il seguente manifesto:

" Agli Italiani,
Il fascio della Democrazia é formato.
Mi glorio che questo fatto importante, lungamente desiderato e studiato, e finora invano tentato, si sia compiuto sotto gli occhi miei, il 21 aprile.
Grandi patrioti di ogni classe, nobili ingegni - decoro del nostro paese - i quali
si illustrarono nel preparare e nel comporre ad unità di nazione l'Italia dal 1821 in poi, militano nel campo della Democrazia, vi milita la gioventù generosa.
E come alla Democrazia riuscirà fatto di spandere la sua influenza con l'agitazione che essa verrà promuovendo per la rivendicazione e l' esercizio effettivo della sovranità Nazionale, per il meno aspro vivere dei diseredati dalla fortuna, per la giustizia sociale, per la libertà inviolabile - una moltitudine di cittadini egregi, che assistono sfiduciati e increduli al governo delle minorità, le quali si succedettero e si esaurirono durante vent'anni, si aggiungerà certamente e rapidamente alle sue schiere.

"Oggi come mai la Democrazia é un valore di primo ordine fra i valori costituenti la nazione, é una potenza con cui quelle minorità, di buon grado o di mala voglia, hanno da fare i conti. Le sue varie scuole si sono collegate e affermate in un ordine di idee e di fini comuni, e convennero nell'adozione dello stesso metodo di apostolato, e degli stessi mezzi di agitazione, palesi e sinceri e dentro l'orbita giuridica - da cui la loro forza formarono la "Lega della Democrazia".
Il nostro Congresso del 21 aprile non ha celebrato solamente una lega politica, ma dissipati malintesi, rinnovate le strette amicizie.
Ogni scuola della Democrazia conserva l'individualità propria nello svolgimento e nella propaganda delle rispettive dottrine, e ad ognuna appartiene l'arbitrio delle rispettive iniziative, ma ognuna altresì ne risponde. Eppure sono sicuro che tutte, animate da un elevato sentimento di carità di patria e guidate da quella sapienza civile che anche le altre genti riconoscono negli Italiani, vorranno coordinare la loro opera particolare e specifica, e contemperarla a quella generale del Comitato della Lega.
E poiché la Lega della Democrazia si assunse di circoscrivere il proprio lavoro entro i termini del diritto e con mezzi pacifici, avverta chi governa l' Italia che, ove tal diritto sia contrastato o impedito o in qualsivoglia modo manomesso, la responsabilità al cospetto della nazione e della storia sarà tutta sua, se per la tutela o per la riconquista di quel diritto, la Lega della Democrazia, con la coscienza della legittima difesa, si appiglierà ad altri mezzi da quelli che si è prefissi.
Roma, 26 aprile 1879, - G. GARIBALDI.

Intorno a lui si affollarono tutti i democratici d'Italia; e grande fu lo scalpore fatto dai moderati perché egli nel programma fece chiari i suoi voti per la repubblica dichiarandola necessaria, inevitabile, e allo stesso tempo ebbe molto cara la visita del Re Umberto. Ma non ci fu né inganno né contraddizione; i voti di Garibaldi per la repubblica dipendevano dalla volontà della nazione; però lui non avrebbe mai acconsentito di adoperare le armi per ottenerla.
É anche allora come sempre, dopo la liberazione di Roma, poneva sull' animo suo la questione sociale; e così in quella occasione solenne esprimeva i bisogni del popolo e i mezzi per soddisfarli:

"Io credo che siamo tutti d'accordo nel riconoscere il profondo malcontento di tutta Italia - malcontento per cause economiche, politiche e morali;
- Nell'ammettere che, per toglierlo, tutti gli interessi debbano essere rappresentati nel governo della cosa pubblica;
- Nel volere pertanto il voto universale e l'abolizione del giuramento, a ciò che tutte le opinioni abbiano una voce in Parlamento;
- Nel volere soppresse le guarentigie, tolto il culto ufficiale, e indivisa la sovranità dello Stato;
- Rimaneggiato il sistema tributario a ciò che paghi solamente e progressivamente chi ha;
- Rotta la centralizzazione ed avviato un sistema di vero decentramento;
- Armata la nazione per essere in grado di liberare le province irredente;
-
Arati e bonificati i due quinti del territorio italiano incolto o paludoso, fecondandolo con i 115 milioni dei beni ecclesiastici invenduti;
- Utilizzati a favore dei poveri i 1500 milioni delle opere pie, in gran parte goduti dagli amministratori, dai frati e dalle oblate;
- Guarita con tutti i rimedi che ispira l' affetto e suggerisce la scienza, la gran piaga della miseria;
- Proporzionata l'autorità del potere legislativo e dell' esecutivo.

"Per ottenere questi risultati é necessario rivedere lo Statuto, insufficiente e inferiore ai nuovi bisogni della patria, a che essa si regga non con una carta elargita trent'anni addietro a una sola provincia (la Piemontese - Ndr.), ma poggi e sia sopra un patto nazionale.
A me pare che queste siano le principali idee sulle quali non corre un divario tra noi.
Principiamo col far trionfare quella che le contiene tutte e dalla quale tutte deriveranno, il
suffragio universale e l'abolizione del giuramento".

Ritornato a Caprera, e visto che il governo della sinistra umiliava l'ltalia davanti l'Austria, rinunciò a rappresentare la Nazione in Parlamento con la seguente lettera:

Caprera, 24 Settembre 1880.
Ai miei elettori del 1° collegio di Roma.
E' con dolore che io devo riunciare a rappresentarvi nel Parlameuto. Con l'anima sarò con voi fino alla morte. Oggi però - non posso più essere tra i legislatori - in un paese ove la libertà é calpestata, e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà ai gesuiti e ai nemici dell'unità d'Italia - per la quale sono seminate le ossa dei migliori dei suoi figli, su tutti i campi di battaglia - in sessant'anni di lotta.
Tutt'altra Italia io sognava nella mia vita, non questa, miserabile all' interno ed umiliata all'estero - ed in preda alla parte peggiore della nazione. E non vorrei che il mio silenzio s'interpretasse come un'affermazione dell' inqualificabile contegno degli uomini che governano il nostro paese.
Al suffragio universale - e non ai voti di pochi privilegiati - si addice il compito di mandare a rappresentarla uomini che possano e vogliano fare la grandezza e la prosperità della grande patria italiana.
Deputato o no - sarò sempre per la vita, vostro
GISEPPE GARIBALDI.

Poi quando seppe che, per controbilanciare al monumento eretto dai moderati a Napoleone III, - monumento però che questi non osavano collocare in un luogo pubblico, - i democratici di Milano ne avevano eretto uno ai caduti di Mentana, volle con un supremo sforzo assistere alla sua inaugurazione.
E andò a Milano; ma allo spettacolo dei dolori atroci causatigli dal più piccolo movimento, e specialmente dall'essere posto dentro e fuori dalla carrozza, gli amici suoi si pentirono di avere insistito per così tanto sacrificio.
Chi lo vide allora, con mestizia si persuase che i suoi giorni erano contati, il suo lavoro finito. Lui però imponendo la propria volontà alle sofferenze fisiche prese parte attiva alla cerimonia, ove quasi tutti i superstiti di Mentana si trovarono: Fabrizi e Mario capo e vicecapo del suo stato maggiore, Bertani, Missouri, Bezzi ed altri. Garibaldi aveva un sorriso, una parola affettuosa per tutti, ma era evidente come egli con eroica virtù dissimulasse gli spasimi che lo logoravano.

Da Milano andò ad Asti per passare un po' di tempo nel paese nativo di sua moglie, e aveva promesso di recarsi a Roma per il Comizio dei comizi.
Scoppiati nuovi dissensi nel seno della democrazia, egli venne fuori di nuovo con le vecchie accuse contro i mazziniani; ma poco durarono le discordie, perché dopo i casi della notte del 13 luglio tutta la democrazia si unì nella guerra al papato cominciando a chiedere l' abolizione delle guarentigie.
Il telegramma di Garibaldi al gran Comizio tenuto al Politeama in Roma il 7 agosto del 1881, fu significativo:
"Voto l'abolizione delle guarentigie e del guarentito"
e incoraggiava tutti di perseverare nella lotta.

La condotta dei Francesi nell'affare di Tunisi lo indignava; gli atti di viltà commessi contro gli Italiani a Marsiglia lo nauseavano. Si sentiva italiano avant tout:
"Io sono amico della Francia e credo si debba fare il possibile per conservare la sua amicizia. Però siccome sono italiano prima di tutto, darò lietamente questo resto di vita affinchè l' Italia non sia oltraggiata da chicchessia".

E poi ingrossando la burrasca scrive:
"Caprera, 29 settembre 1881.
Mes chers amis,
Laver le drapeau italien traîné dans la boue des rues de Marseille. Déchirer le traité, arraché par la violence au bey de Tunis. Laisser Bismarck cajoler le pape. Ne pas déshonorer la République en s'alliant avec l'officine du mensonge, alliance dont on menace l'Italie ;
A ces conditions seulement, les Italiens pourront fraterniser de nouveau avec les Français.
Nos voisins autrichiens et français doivent comprendre que le temps de leurs promenades dans le beau pays est à tout jamais passé.
Et si leurs maîtres ont peur, les Italiens sont décidés à ne plus se laisser outrager.
Je suis à vous.
G. GARIBALDI.

Peggiorando sempre la sua salute, la famiglia e i medici cercarono invano di indurlo a scegliere qualche dimora più mite di Caprera per non inasprire il terribile suo nemico, l'artrite, oramai padrone di tutta la sua persona; ma egli non poté rimanere lontano da quella solitudine, da quella pace non turbata che dal mormorio del mare, ove senza il fastidio di essere osservato poteva farsi condurre a tutti i punti dell'isola sul letto a molle da molto tempo mai abbandonato.
Passava i suoi giorni leggendo, anche se sofferente, ascoltando le chiacchiere di Manlio a cui narrava tutti i fasti della sua straordinaria vita, divertendosi a vedere il fanciullo tentarne con la matita il ritratto. Parlava poco del resto, mai si lamentava, ringraziando tutti con il sorriso, di ciò che facevano per alleviare il suo martirio, mai sfogando su di essi l'irritazione prodottagli dai dolori acerbissimi.
Così mite fu quell'inverno che quasi ogni giorno volle girare l'isola in carrozzella. E un giorno avendo voluto essere condotto giù per la ripida discesa fino alla spiaggia per vedere Manlio pescare, nel girare troppo in fretta la terza ruota della carozzella, cadde sui sassi, e incapace di un solo movimento, ferito la testa e alle mani, perdette per qualche momento la conoscenza. Ritornato in sé, e vedendo il piccolo Manlio in lacrime e atterrito, disse con l'abituale serenità olimpica: "E come? vuoi diventare un buon soldato, e piangi nel vedere due gocce di samgue ! "
Le ferite erano lievi, ma la scossa fu grave; e unita ad una forte bronchite fece temere dei suoi giorni. Menotti, che sempre lo desiderava vicino quando si sentiva peggiorare, accorse subito e assieme ai medici lo persuase a lasciare l'isola. Egli dovette cedere, e scelse Napoli per farci soggiorno, non potendo, diceva, vivere lontano dal mare.

La viva istanza fatta dal comandante dell'Esploratore ancorato presso la Maddalena affinché si servisse della sua nave lo decise, e le cure infinite del comandante, degli ufficiali e dell'equipaggio per impedire che soffrisse, vivamente lo toccarono. Infatti non patì nessun danno, avendo il capitano Colonna spinto il vapore fino a una piccola insenatura di Caprera, poi sollevato il letto con la gru, scoperto il tetto della propria camera, e qui adagiato sul letto: così l'infermo giunse a Posilipo senza scosse e senza risentirne.

Qui accorsero prima dell'alba 200.000 persone da Napoli, anelando di rivedere il viso di colui che venti anni prima, dopo averli liberati, se né era partito con l' "A rivederci sulla via di Roma ! ".

Che momento di angoscia ! Colui che ora vedevano, colui che calavano nel letto di dolore sulla zattera, non era che l'ombra del liberatore, lo spettro del vincitore onnipotente. Gli evviva dei 200.000 echeggianti sul mare fecero scintillare gli occhi all'infermo, e il vecchio sorriso luminoso colorì la pallida guancia.
Poche parole poté dire al sindaco come rappresentante del popolo napoletano: "Amor d'amor si paga." Parole che nella sua bocca non erano un vano suono, perché nella storia antica e nella moderna nessun essere umano fu altrettanto interamente e universalmente e meritatamente amato.

Ma intanto, fra questo popolo immaginoso, per il quale Garibaldi era sempre stato un mito, le vecchie leggende tornavano a diffondersi. - Non esser egli Garibaldi, perché il vero Garibaldi era morto nel 1860. Altri si sdegnavano, asserendo che lui, con la camicia fatata, non poteva morire. Altri sostennero e sostengono, che non si tratta di un Garibaldi solo, ma di dodici fratelli tutti biondi e valorosi. Portano tutti la camicia rossa e la spada con cui uccidere i nemici. - Garibaldi, avendo saputo ciò, desiderava presentarsi agli occhi del suo popolo. E nel giorno di san Giuseppe, 19 marzo, che fu festeggiato quell'anno con un affetto straordinario, quasi presagi che fosse l'ultimo, egli volle, malgrado l'estrema debolezza, ricevere i superstiti delle patrie battaglie. Essi partirono in tre piroscafi da Santa Lucia, preceduti dalla banda del municipio di Napoli, e, si può dire, da tutti i cittadini e dal popolo. Giunti a Villa Maclean, scelsero due commissioni, le quali trovarono Garibaldi già sul terrazzo, steso sul lettuccio, coperto da un lenzuolo, con le mani fasciate, ed il volto di un pallore marmoreo; gli occhi soli brillavano di vita.

Con infinita compiacenza, il suo sguardo spaziava sull'immenso mare, letteralmente coperto di barche; gli scogli vicini sembravano corpi viventi, tanto brulicavano di gente. Garibaldi sorrideva ai membri delle Commissioni, ch'egli aveva conosciuto uno ad uno nei momenti di supremo pericolo. Le acclamazioni: "Viva il nostro duce, il nostro padre, il nostro liberatore, l'eroe dei due mondi, il ferito d' Aspromonte !" echeggiavano fin da lontano. E quando, per un momento, i Garibaldini sul terrazzo lo circondarono, per raccogliere le brevi sue parole, pronunciate a voce bassa, il popolo urlò quasi minaccioso: "Fate largo ! Lo vogliamo vedere, il nostro Garibaldi, lo vogliamo vedere ! "
E furono accontentati, e urlarono: "Viva la faccia soia".

Gli fu presentata una medaglia d'argento dai reduci, recante da un lato la stella d'Italia, con l'iscrizione "Superstiti delle patrie battaglie, 1820-1870" dall'altro il nome di Giuseppe Garibaldi.
Quei reduci, commossi ed inteneriti, non vollero rinunciare al posto d'onore fino a Palermo, e gli dissero: "Soltanto a Palermo, Generale, vi affideremo ai generosi Siciliani."
"Sì, sì - rispose il Generale - ho piacere d'avervi con me!".

Fu questa l'ultima volta che il popolo napoletano vide il suo liberatore. Sembrò una favola, quando fu annunciato che Garibaldi, così sofferente, così debole, voleva intraprendere il viaggio fino a Palermo per assistere al centenario del Vespro. I medici lo dichiaravano impossibile, nel suo stato. La famiglia piangeva, pregava per trattenerlo. Persino Menotti, che non si oppose mai al minimo desiderio del padre, fece di tutto per dissuaderlo da una decisione che a tutti pareva fatale. Ma Garibaldi fu irremovibile; egli aveva ancora un dovere da compiere per l'Italia, e lo volle compiuto ad ogni costo.
I campioni dell'alleanza Austro-Italica si rallegravano; gli amici democratici della Francia si rannuvolarono; il governo era spaventato.
Chi non conosceva Garibaldi intimamente, diceva: "Ecco che va ad imbrogliare le carte fra l'Italia e la Francia!"
Ed a priori i francesi s'impennavano per l'offesa che a loro avrebbe inflitto il capo della democrazia mondiale.

Ma che! Quando mai Garibaldi ha pescato nel torbido? Quando mai ha suscitate ire fraterne ? Quando ha creato difficoltà internazionali per il governo italiano? Voleva proclamare l'unità italiana da Roma, ed intrepido ricevette la palla d'Aspromonte, gridando agli italiani volontari ed agli Italiani soldati regi: "Non fate fuoco, cessate il fuoco! ".
A Mentana vide decimati i suoi prodi dagli chassepôts, ed a Digione insegnò alla democrazia come si vendicano le offese fra popolo e popolo. Fulminò, è vero, la Francia per la blague e la tracotanza, ma verso il popolo francese non ebbe altro mai che parole di benevolenza, di incoraggiamento, di avvertimento. E perciò, dopo un viaggio, dove le dimostrazioni d'affetto lungo la strada superarono il narrabile, dove le popolazioni tentavano di trattenere la locomotiva, dicendo alle autorità: "il treno ci passi pur sopra, ma vogliamo vedere Garibaldi!" - dopo tante emozioni e fatiche da ammazzare un atleta, giunto a Messina, le prime sue parole furono spese per calmare l' agitazione, allora viva fra i Messinesi, i quali non volevano che la nuova ferrovia passasse per Milazzo.
Egli dimostrò l'ingiustizia e l'egoismo di questo dissenso, ricordò con voce commossa lo slancio patriottico e le amorevoli cure prodigate ai suoi feriti dal popolo di Milazzo, promise di adoperare i suoi buoni offici presso il governo per ottenere la linea breve e quella per Milazzo. E si noti! da quel momento più non ebbe luogo la minima agitazione per tale argomento. Prima di partire da Messina, egli di suo pugno scrisse la seguente lettera:

"Ai miei cari e fedeli Messinesi,
Memore di quanto operammo insieme nel 1860, dell'affetto con cui fui sempre beneficato dall'intera Sicilia e da voi particolarmente, io qui, mi trovo in famiglia, e se il dovere non mi chiamasse altrove, prolungherei certo per più tempo il mio soggiorno in seno a questa gloriosa popolazione, su questa terra delle grandi iniziative. Io ricordando alla Sicilia il più grande eroismo di popolo che registri la storia del mondo, il Vespro, rammenterò soltanto che gli assassini dei nostri padri di quell'epoca furono mandati e benedetti da un papa, e che i successori di quel l'infallibile scellerato hanno venduto l' Italia settanta volte sette allo straniero e che oggi stesso stanno trattando di venderla, e non vi riescono, per mancanza di mediatori e di barattieri. Vi saluto di vero cuore. Per la vita
Sempre vostro G. GARIBALDI.

Poi telegrafò al sindaco di Palermo:
"Sarò felice di potere salutare la città delle grandi iniziative."
Ben trovato e ben meritato appellativo! E il 28 marzo 1882, l'ombra del Duce apparve nell'amata città. E la guardia d'onore dei superstiti napoletani disse ai Palermitani: "Eccolo, il nostro compito é finito; noi vi confidiamo, come un tesoro, Giuseppe Garibaldi."
E l' associazione dei Mille ed i superstiti di Palermo accettarono e gelosamente custodirono quell' inestimabile tesoro.

Thomas Adolphus Trollope, letterato distinto e corrispondente di uno dei principali giornali di Londra, che era andato appositamente a Palermo, ci disse ancor commosso dopo il ritorno a Roma:
"Giammai ho assistito ad una scena così imponente, così patetica. Quella massa densa di popolo, tutta Palermo e gli abitanti dei dintorni, aspettarono il liberatore, giubilanti, deliranti. Ma alla vista di lui pallido, immobile, muto, essi non fiatarono più; guardavano piangenti. Dopo il primo evviva, che tuonava riecheggiato dalla Conca d'oro, non più un grido, non un'acclamazione. Perfino la musica taceva; durante quel tragitto di tre chilometri, neppur un battimano, neppur un solo evviva ruppe quel solenne silenzio, che giustificò il detto del Sindaco al popolo: "Mai siete stati, come oggi, così sublimi!".

Garibaldi fu da questo silenzio toccato sul vivo. Egli era talmente affranto dal viaggio, che a tutti balenò il pensiero: Qui é venuto per morire ! Ma se debole era il suo corpo, non così lo spirito.
Appena giunto, volle pubblicare questo proclama che si può dire il suo testamento politico:
"A te, Palermo, città delle grandi iniziative! Maestra nell' arte di cacciare i tiranni, a te appartiene di diritto, la sublime iniziativa di scacciare dall'Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della menzogna, che, villeggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia al di là i suoi neri cagnotti, all' adulterazione del suffragio universale, quasi ottenuto, dopo di essersi provato di vendere l'Italia per la centesima a volta - il papato infine !
Ricordati, valoroso popolo, che il papa mandò e benedì gli sgherri, che nel 1282 tu cacciasti con tanto eroismo. Forma quindi nel tuo seno, cui palpitano tanti cuori generrosi, una Associazione intitolata Emancipatrice della intelligenza umana, la cui missione sia quella di combattere l' ignoranza, svegliare il libero pensiero, mandare perciò a sostituire fra le plebi delle città e delle campagne alla menzogna la religione del vero.
GIUSEPPE GARIBALDI.

La forma di questo proclama può essere criticata; ma il morente che cerca di concentrare tutte le forze, tutte le facoltà in un istante supremo, non può curarsi di mettere i puliti sugli i.
Non entra nel nostro compito descrivere le feste del Vespro Siciliano. Felicissimo fu il riassunto fatto da Crispi delle ragioni, perché oggi sì, e prima no, si poteva e doveva festeggiare quest'anniversario. E Crispi ebbe da Garibaldi onorevole e meritata accoglienza.

Il Generale ricordava che Crispi era stato fra i più zelanti nello spingerlo all'opera liberatrice. Ma ahimé! a quanti eroi, da lui condotti alla vittoria, egli era già sopravvissuto ! Dei preparatori di quella spedizione oggi non ci restano che Bertani, il quale ne fu l'anima organizzatrice, e Nicola Fabrizi. Mazzini ispiratore, Rosolino Pilo e Corrao i pionieri e i martiri, Bixio fulmine di guerra, solo a Garibaldi secondo, Sirtori, Medici, Acerbi, La Masa, morti tutti ! La salma di Carini fu sepolta sotto gli occhi stessi di Garibaldi. Se dovessimo ricordare i nomi di tutti quanti caddero, dal giorno in cui Garibaldi scese a Marsala sino a quel giorno, non ci basterebbe un intero capitolo. E d'allora in poi?

Egli rimase ancora qualche tempo fra i suoi Palermitani, ed ai suoi picciotti indirizzò la seguente lettera:
"Miei cari Picciotti, credete forse che io vi abbia dimenticati ? - Come potrei dimenticare i miei fratelli d'arme, che tanto valorosamente cooperarono alla liberazione di questa bella ed illustre capitale?
Mi ricordo che voi, con i poveri vostri fucili, ma con cuore da leoni, caricavate i Borboni, mettendoli in fuga! I Mille pure vi ricordano, come coraggiosi compagni in tutte le battaglie della patria, e vanno superbi di rammentarvi.
Addio, vi mando un saluto dal cuore; sono per la vita
Vostro GARIBALDI.

Prima di partire, aveva poco alla volta rivisti tutti i suoi soldati, tutti i suoi amici; ma in ultimo, assalito da repentino male e volendo assolutamente morire a Caprera, si decise a ritornarvi. Le ultime parole da lui dirette ai Palermitani sono le seguenti.
"Palermitani !
Allontanandomi da voi, é per me un vero dolore: l'anima vostra gentile deve comprenderlo. Per questo popolo di liberi, insofferenti di servaggio, ho nutrito sempre sincero amore, ed il poco da me operato per voi lo ricambiaste con manifestazioni tali d'affetto, da superare il merito di qualunque uomo.
•Ieri volli onorarmi col titolo di "figlio di Palermo", spero che tale titolo verrà da voi confermato, come il più prezioso nella mia vita. Addio, popolo amato !
Vostro per sempre, in tutti gli angoli della terra.
GIUSEPPE GARIBALDI.


Bellissima fu la serenata d'addio e la fiaccolata; mentre lui percorreva quattro chilometri dalla sua abitazione al molo, il passaggio era assiepato di popolo mesto, e pure consolato, vedendolo partire meno sofferente di quando era giunto. A mezzanotte del 16 aprile, sul Cristoforo Colombo, Garibaldi lasciò anche Palermo, per non rivederla più.

Che volontà ferrea! Pensare che ogni movimento significava uno spasimo a quell'affranto corpo ! Ma Garibaldi non ha mai permesso alla carne di dettare la legge all' anima sua. Come da giovane lui cercava ogni mezzo per rinforzare il suo corpo, per costringerlo a sopportare le privazioni, per essere in ogni occasione al servizio della patria, così da vecchio poté ancora comandarlo, costringerlo ad ubbidire ed a tacere.
Questo perfetto possesso di sé stesso era uno dei distintivi di Garibaldi, quello che gli diede autorità sugli altri uomini, fattore non ultimo del suo successo.

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Poi, il ritorno a Caprera e la morte

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