CAPITOLO 1


LA FAMIGLIA E L'EDUCAZIONE
(da pag. 1 a pag. 9)

La mia famiglia e la mia origine - Una democrazia medievale - La famiglia di mia madre: i Plochiù - La mia prima educazione in montagna - Gli studi a Torino : letture letterarie, storiche e filosofiche - Esercizi fisici: le escursioni e la scherma.

Le memorie della mia vita di famiglia nella fanciullezza, e della mia educazione sono semplici assai e di tipo comune, senza niente di particolare o di eccezionale. Sono nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì, dove mio padre, Giovenale, teneva il posto di Cancelliere di quel Tribunale, e dove morì un anno appena dopo la mia nascita, di una polmonite presa in una gita di montagna. La famiglia di mio padre era originaria di Val di Macra; una delle vallate delle Alpi Occidentali che da occidente a oriente confluiscono al Po. Mio nonno paterno, che io non ho conosciuto, era notaio a San Damiano di Macra, e faceva da segretario e un po' da factotum a tutti quasi i Comuni della vallata. Le memorie della famiglia risalgono sino al nonno di mio nonno, del quale si sapeva che era venuto da Acceglio, il Comune più alto della Valle, sui 1500 metri, e propriamente dalla borgata Lausetti, da cui vennero pure i Ponza di San Martino. La nostra insomma era una famiglia di contadini-montanari, che deve avere vissuto per secoli in quella vallata che ebbe sempre una fiera indole democratica. Infatti la Val di Macra, da San Damiano in su, e sino al 1427, era stata una piccola repubblica indipendente, retta da suoi speciali statuti, che ancora si conoscono. I capi di famiglia si radunavano annualmente ad Acceglio, e nominavano due consoli e due giudici per la durata d'un anno. Per un esempio della semplicità dei suoi statuti, valga la legge della istruzione pubblica, che si compendiava tutta in questa frase latina: - Quod quisquis possit tenere scholas, et quisquis adire scholas sine ulla molestia.

Questo istinto democratico si mantenne non ostante le mutate condizioni ed istituzioni. Nel 1427 la minuscola repubblica montanara fece un accordo coi marchesi di Saluzzo, accettandone la signoria, ma assai nominalmente; infatti i valligiani si riservavano la nomina dei giudici e pattuivano che nella valle non dovessero mai essere introdotti nè il feudalismo nè l'inquisizione religiosa; ciò che era notevole assai per quei tempi. Quando il Marchesato di Saluzzo si unì con la Casa di Savoia, questa si obbligò a mantenere tutte le concessioni già fatte. Ma quando essa, mancando agli impegni, iniziò persecuzioni contro i protestanti, dei quali erano nella valle alcuni nuclei, i valligiani tutti si sollevarono, e verso il 1550 ne nacque una guerra dichiarata. Il primo anno i valligiani ebbero la meglio, ma l'anno appresso furono battuti; e la Casa di Savoia, a compensare gli ufficiali che avevano condotto la piccola guerra, attribuì loro titoli di nobiltà presi da quei Comuni; e nacquero così le famiglie dei La Marmora, degli Stroppo, dei Paglieres e degli Acceglio.
I valligiani, battuti ma non disanimati, si opposero, ricorrendo alla Camera dei Conti e sostenendo che la Casa di Savoia non avesse diritto di dare titoli di nobiltà nella valle, il suo dominio essendo stato accettato col patto che non vi sarebbe mai introdotto il feudalismo. La Camera dei Conti respinse l'istanza; ma i valligiani, raccoltisi ad Acceglio, deliberarono che il primo dei nuovi feudatari che mettesse piede nel paese fosse ammazzato. E nessuno tentò mai l'avventura, restando così i soli titoli, senza alcuna effettiva applicazione dei diritti feudali in essi implicati. La valle così salvò e mantenne la sua democrazia.
Mia madre, di nome Enrichetta, era di una vecchia famiglia, i Plochiù, che si era distinta per il suo liberalismo. Suo padre, che aveva accolte le idee nuove, era stato Procuratore generale a Torino sotto il governo francese. Con l'avvento della restaurazione, nel 1814 egli si ritirò; e pochi anni dopo, nei moti del 1821, fu alla testa del movimento rivoluzionario nella provincia di Pinerolo. Domata l'insurrezione dovette riparare all'estero; ma poi gli fu concesso di rientrare nel regno con la esplicita condizione che vivesse in campagna; ed egli scelse a sua residenza Cavour, dove aveva preso moglie, che gli aveva fra l'altro recato in dote una casa, la stessa vecchia casa nell'interno del paese, dove io risiedo l'inverno. Oltre mia madre egli aveva avuto due altre figlie e quattro figli maschi; l'uno di essi, il medico Giuseppe Plochiù fu il primo deputato di Cavour, dove fu eletto nella prima Legislatura piemontese, nel 1848. Altri due suoi figli, Luigi e Melchiorre, furono magistrati, ed un quarto infine, Alessandro, fu fatto generale sul campo di battaglia di San Martino, dove aveva combattuto come colonnello alla testa del 6° reggimento, che aveva prese le alture di San Martino nel momento decisivo della battaglia. Tutti e quattro quei miei zii materni sono morti senza famiglia. Le due sorelle di mia madre sposarono una il colonnello Danesi, l'altra il Cav. Vaccaneo.

Con la morte precoce di mio padre, mia madre lasciò Mondovì e ritornò nella casa della madre sua e dei fratelli a Torino. Passai così fra questi quattro scapoli i primi anni della mia vita; essendo l'unico nipote con loro convivente ero naturalmente il beniamino della casa. Scarsi ricordi ho di quel periodo della mia vita che va fino ai sei anni; uno dei più vividi ricordi si riconnette agli avvenimenti del 1848-49. I miei zii mantenevano calorosamente la tradizione liberale della famiglia, trasmessa loro dal padre ed accolsero quindi con grande fervore la concessione dello Statuto fatta da Carlo Alberto; ed io ricordo di essere stato condotto a vedere la partenza del Re per la guerra, con una grossa coccarda appuntata sui miei abiti infantili.

Come io apparivo di- costituzione assai gracile, e la mia salute dava apprensioni a mia madre, che nella sua precoce vedovanza si era tutta consacrata alla mia educazione, mio zio medico la consigliò di portarmi in montagna; e mia madre lasciò Torino dove aveva la madre, le sorelle e i fratelli ai quali era profondamente affezionata e andò a stabilirsi da sola con me per tre anni, estate e inverno, a San Damiano, paese nativo di mio padre, piccolo comune della valle Macra a dieci chilometri sopra Dronero. Mio zio, per prescrizione medica, aveva aggiunto che mi si lasciasse trastullare come volevo con l'acqua e con la neve, e non mi si desse mai nessuna medicina. Prescrizione che ho fatto poi mia per tutta la vita; poichè a quasi ottant'anni a cui sono arrivato, io ho conservata una vera avversione alle medicine. Anche quando soffrii di una grave malattia di depressione nervosa, questa avversione alle medicine non mi si attenuò, e quando i medici me le ordinavano, io le discutevo, insistendo se fosse proprio necessario di prenderle, con l'effetto che non ne ho prese quasi mai....

In quel paese di montagna, a quei tempi incomparabilmente più appartato che tali paesi non siano ora, io fui pure iniziato alla scuola classica. Avevo già appreso a leggere e scrivere e pressochè compiuta la mia istruzione elementare sotto la guida di mia madre; a San Damiano cominciai l'istruzione ginnasiale, unicamente impersonata in un prete che godeva di un beneficio ecclesiastico con l'obbligo
di fare i primi tre anni di Ginnasio pei ragazzi paesani. Lo ricordo ancora: si chiamava Don Bernardo Aymar, ed era un tipo singolare, intelligentissimo, poeta improvvisatore, conosciuto e popolarissimo per tutta la vallata. Fui alla sua scuola, assieme ad altri cinque o sei ragazzi del paese, dai sette ai dieci anni, e feci qualche strada nell'apprendere il latino; ma il meglio del tempo passato lassù nei monti lo spesi a giocare e a rinforzarmi la salute. A dieci anni, quando tornai a Torino, mi contarono quei tre anni di Ginnasio montanaro per uno, e mi ammisero alla seconda classe nel Ginnasio San Francesco da Paola, che poi mutò il vecchio nome in quello attuale di Ginnasio Gioberti.

In quella scuola non mi distinsi particolarmente, se non forse per il fatto che fui scolaro poco disciplinato. Nello studio ero fra i buoni, ma non fra i diligenti e primissimi. Lo studio a cui mi sentivo più invogliato era quello della storia, e negli esami di storia prendevo spesso il premio. Ma lo studio delle lingue antiche, condotto anche allora con metodo grammaticale ed astratto, tutto fatto di regole e di eccezioni alle regole, mi repugnava; così pure poco mi attraevano le matematiche. Le mie preferenze erano per le materie più concrete. Ero attratto anche dalla lettura, e negli anni del Liceo feci un gran leggere di cose letterarie, specie dei nostri poeti dal trecento in poi. Poco lessi di autori stranieri, e di romanzi; preferii quelli di Walter Scott e di Balzac, per le loro connessioni con la tradizione storica o con la realtà attuale. I romanzi di intrigo o di passione non mi interessarono mai. Lessi e studiai molto di filosofia, specie dei filosofi allora celebrati, che erano il Rosmini ed il Gioberti; ma di questa passione filosofica fui poi guarito ad un tratto, ed una volta per sempre, dalla lettura della «Teorica del sovranaturale» del Gioberti.

Passato alla Università, entrai nel corso di legge. Feci i due primi anni di quegli studi secondo il sistema antico, col quale il curriculo di legge era diviso in cinque anni; poi, introdotto il sistema nuovo, portai a termine tre anni in uno solo, prendendo dieci esami e la laurea in poche settimane, parendomi che nella Università si andasse a rilento e si perdesse tempo. Co me presero pure la laurea il Malvano, quello che poi fu Segretario Generale degli Affari Esteri e Senatore, ed il Senatore Bertetti. Negli anni d'Università m'interessai allo studio del Diritto; e particolarmente Diritto romano e Diritto civile e loro storia. Il maggiore o minore interesse che si può prendere in quegli studi molto dipende dai professori, e in quegli anni l' Università di Torino non ne aveva di insigni. C'era veramente di uomini insigni il Mancini, o meglio avrebbe dovuto esserci perchè in tutti i miei anni universitari, non che sentirlo, non l'ho visto mai.
In quegli anni, cioè fra il '57 e il '60, io non ho conosciuto nessuno degli uomini politici in vista. Vidi spesso il Cavour ed ascoltai i suoi discorsi alla Camera, ma non ebbi rapporti con lui. Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla. Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna; andavo a caccia e tiravo di scherma. Mia madre, che era donna di carattere molto energico, tanto che mio zio il generale soleva dire che avrebbe potuto comandare bene un reggimento, mi teneva sempre in moto. Nella scherma, alla quale mi dilettavo molto, ebbi maestro Achille Parise, padre del famoso schermitore Masaniello, poi Gandolfi e Sprani. Seguitai ad esercitarmi anche dopo, quando ero impiegato a Firenze, dove ebbi maestri Enrichetti, Borelli, Sampieri, Bellincioni. Ero diventato espertissimo e famoso; in accademie pubbliche avevo battuto anche dei maestri di professione. Credo che quell'esercizio giovanile mi abbia servito poi anche alla scherma parlamentare.
Ricordo in proposito un episodio curioso. Quando appartenevo al Ministero Crispi quale Ministro del Tesoro, un giorno, essendo assente Crispi, dovetti rispondere ad una interpellanza di politica estera presentata dall'Alfieri, che aveva dette parecchie corbellerie. Risposi con molta verve, ed ironia, e quando ebbi finito, Farini, presidente del Senato, mi disse: "Lei, nella sua giovinezza deve avere studiato e praticato assai bene di scherma; me ne sono accorto dal come ha risposto".

Ho detto che non ho mai avuti rapporti personali con Cavour. Egli era però molto amico del mio zio materno Melchiorre, che era anche azionista del suo giornale Il Risorgimento. E fu a mezzo di quel mio zio, il quale aveva molta influenza nel paese, che Cavour fece eleggere deputato al collegio di Cavour-Vigone, il famoso Gallenga, perchè, essendo il Gallenga corrispondente del Times, Cavour che conosceva la grande influenza di quel giornale nella vita politica inglese d'allora, teneva ad averlo alla Camera. A quell'elezione seguì poi il famoso episodio Gallenga-Mazzini. Il Gallenga infatti aveva rivelato come il Mazzini avesse tramata l'uccisione di Carlo Alberto, che doveva essere consumata a mezzo di un pugnale ornato di lapislazzuli, da un certo Mariotti. Il Mazzini, irritato, rispose in modo fulmineo, rivelando alla sua volta che il nominato Mariotti altri non era che il Gallenga stesso, il quale per questo scandalo dovette dimettersi da deputato.

FINE DEL PRIMO CAPITOLO

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