CAPITOLO 12


LA GUERRA NELLA LIBIA, NELL'EGEO E NEL MAR ROSSO
(da pag. 369 a pag. 412)

Rapida azione militare iniziale e seguito di guerriglia - Complicazioni internazionali - Proteste dell'Austria per l'Adriatico - Proposta di un'azione conciliativa delle Potenze: diffidenze ed intrighi - Il Decreto della sovranità sulla Libia - Iniziativa di pace del Sazonoff: sue fasi e suo fallimento - L' incidente del Manouba e del Carthage - La guerra navale nell'Egeo: proteste e chicanes austriache - Diuturno dibattito sull'art. VII della Triplice per l'occupazione delle isole - L'attacco ai Dardanelli e la loro chiusura - Iniziativa a noi sfavorevole dell'Inghilterra, e nostra rivendicazione dei diritto di belligeranti - II partito militare austriaco in cerca di pretesti per agire - L espulsione degli italiani dalla Turchia - Ripresa di operazioni in Tripolitaniae Cirenaica - La piccola guerra nel Mar Rosso.

La nostra azione militare per l'occupazione dei territori in questione, si svolse con precisione e rapidità, quale era stata preordinata.
Il giorno 1° ottobre la nostra flotta stabiliva il blocco di Tripoli; il giorno 4 ne bombardava le fortificazioni, distruggendole; e subito dopo forze navali, sotto la condotta dell'Ammiraglio Cagni, compivano un audace sbarco ed occupavano la città, che le truppe turche avevano abbandonata, ritirandosi al confine dell'oasi circostante. L'Ammiraglio Borea Ricci, nominato governatore della città, indirizzava un proclama agli arabi, che in maggioranza facevano dichiarazioni di fedeltà ed amicizia e consegnavano le armi. Il giorno 10, dopo che il Re l'ebbe passato in rivista, partiva da Napoli il primo corpo di spedizione, e il giorno 11 compiva felicemente il suo sbarco; ed allargava l'occupazione, strappando al nemico, con un violento combattimento, i pozzi della Bumeliana, necessari per il rifornimento dell'acqua.

II giorno 22 ottobre si ebbe una azione pure violentissima, in cui si combinò un attacco dei turchi con un complotto di arabi della città e dell'oasi, che attaccarono alcune nostre trincee alle spalle, fatto che condusse ad una energica repressione. E le azioni continuarono a svolgersi quasi giornalmente, finché il 6 novembre, con una manovra bene preparata, il generale Caneva riuscì a scacciare i turco-arabi da Ainzara, donde minacciavano e tormentavano continuamente la città, e a stendere intorno ad essa un largo anello di difesa.
Tanto politicamente che militarmente le cose si svolsero secondo le nostre previsioni, e come avviene quasi sempre nelle guerre coloniali. I rapporti dei nostri consoli, fra i quali ricordo il Galli, buon giudice e conoscitore di quelle popolazioni, non avevano in proposito mai creato illusioni. Fra gli arabi e i turchi non c'era stato mai buon sangue; ma sarebbe stato arrischiato calcolare su una defezione generale o quasi, la quale soltanto avrebbe messo le scarse truppe turche in una posizione assai grave e forse costrette alla resa.

Le cose andarono metà a metà; gli arabi della città e della costa, che erano a contatto con noi, in buona parte accettarono la nuova situazione ; ma quelli dell'interno, sia per la suggestione della propaganda fanatica, sia perché esposti a immediate rappresaglie, seguirono in buona parte i turchi. I quali così poterono contare subito su un nucleo di forze numericamente abbastanza rispettabile e bellicoso, se pure deficiente di mezzi e di organizzazione. Ne derivò una situazione comune a quasi tutte le guerre coloniali; che il nemico non poteva pensare di attaccarci nei punti capitali da noi occupati, e viceversa noi per colpirlo, avremmo dovuto preparare ed intraprendere un'azione di guerriglia, particolarmente faticosa e pericolosa in quel paese privo di risorse.

Insieme a quella di Tripoli si svolse l'azione su gli altri punti capitali della lunghissima costa. Il giorno 4 la nostra flotta occupò Tobruk, per ordine mio, perché mi premeva di assicurarmi quella importante baia sino dal principio, e non dare ragioni o pretesti, che la guerra poteva facilmente fornire, data la vicinanza della frontiera non ben definita, per una occupazione egiziana. Volevamo pure evitare che, con la sua comoda baia, Tobruk potesse essere usata per contrabbando d'armi e d'armati nella Cirenaica. Il giorno 13 fu bombardata e occupata Derna; il 18 Homs; il giorno 20 si ebbe lo sbarco, condotto con grande audacia e fortuna, a Bengasi; dove, come a Derna, la popolazione locale si sottomise.

Tali avvenimenti militari rappresentavano la guerra quale si svolgeva agli occhi del pubblico. Ma accanto a questa noi dovemmo fronteggiare una successione di incidenti e complicazioni diplomatiche, che ci erano ragione di continue preoccupazioni, e dei quali il pubblico non ha conosciuti che i più clamorosi, o avuto solo notizie frammentarie.
La guerra in cui ci trovavamo involti, era infatti una guerra sui generis, che paragonerei al ballo delle uova. Il territorio dell'Impero nemico, in ogni sua parte, si trovava circondato da una fitta rete di interessi ed ipotecato da aspettative e da cupidigie che per intanto gli servivano di protezione. Vi erano gli interessi generali di potenze europee contrastanti fra loro; gli interessi russi contro gli austriaci; quelli inglesi contro i germanici; vi erano le ambizioni e le rivendicazioni dei vari Stati balcanici e appetiti e pretese e diritti economici e politici dí ogni specie. Ricordo che le nostre operazioni nel Mar Rosso suscitarono perfino proteste e comizi dei musulmani dell'India, con l'accusa che impedissero il pellegrinaggio ai luoghi santi. L'accusa era falsa e le proteste erano state indubbiamente provocate dalla Turchia, che cercava di suscitarci difficoltà da ogni parte. Poi vi era la preoccupazione generale della pace europea. Ora di tutti questi interessi e preoccupazioni noi dovevamo tenere conto, sia per cordialità verso le Potenze amiche e rispetto dei loro interessi, sia anche per interesse nostro; ma pure cercando di dare ogni possibile soddisfazione nei casi particolari, noi mantenemmo sempre intatta la nostra generale libertà d'azione e i relativi diritti. Devo aggiungere che ogni volta che la discussione fu portata da noi su questi punti fondamentali, il nostro diritto fu immediatamente e senza riserva riconosciuto.

Notificando alle Potenze la nostra dichiarazione di guerra alla Turchia, noi l'avevamo accompagnata
con assicurazioni della nostra intenzione di rispettare al più possibile i loro interessi, e di evitare qualunque azione che potesse avere ripercussioni sulla compagine generale dell'Impero Ottomano. E così avevamo subito ed energicamente rifiutato di aiutare agitazioni o sollevazioni in Albania, ed avevamo pregato il Re del Montenegro di astenersi da qualunque azione che potesse turbare la situazione balcanica, ciò che egli ci aveva promesso. Ritenevamo soprattutto opportuno di evitare incidenti nell'Adriatico, sapendo che a Vienna c'era un partito che avrebbe cercato di trarne profitto. Se non che sulla costa adriatica turca, specie a Prevesa, si trovavano alcune velocissime cacciatorpediniere, e noi avendo notizie di preparativi che vi si stavano facendo per attaccare le navi del nostro corpo di spedizione e compiere raids contro le nostre città aperte, dovemmo informare le Potenze della assoluta necessità in cui ci trovavamo di compiere, contro il nostro desiderio, alcune operazioni navali nelle acque europee. Queste operazioni furono affidate al Duca degli Abruzzi, il quale efficacemente sventò tentativi di incursioni delle navi nemiche. Un suo dipendente, il capitano Biscaretti, avendo percorsa la costa turca e albanese, visitò alcuni piroscafi austriaci che gli erano parsi sospetti, e dovette rispondere al fuoco diretto contro le sue navi da un punto presso San Giovanni di Medua.

L'Austria protestò subito e vivacemente. Aehrenthal il 1° ottobre disse al nostro ambasciatore D'Avarna che tali operazioni erano in flagrante contrasto con le nostre promesse di localizzare la guerra nel Mediterraneo; che non si poteva ammettere che le operazioni nell'Adriatico e nel Mar Jonio continuassero; che bisognava vi fosse posto termine, altrimenti potrebbero venirne serie conseguenze, ed egli sarebbe costretto a tenerci un diverso linguaggio. Gli rispondemmo che intendevamo mantenere gli impegni presi, che corrispondevano anche al nostro interesse; ma che vi sono esigenze militari imprescindibili, come era il caso delle operazioni militari intese a liberare i nostri mari dalla minaccia costituita per noi dalla base navale turca di Prevesa.

Ad ogni modo, siccome non volevo fare il gioco dell'Austria, che poteva mirare all'occupazione di Durazzo, inviai ordini perentori al Duca degli Abruzzi perché le forze del suo comando si limitassero a vigilare il mare, astenendosi da sbarchi e bombardamenti terrestri. Il 3 ottobre l'Aerenthal c'informava che il governo turco era disposto ad entrare in negoziati anche dopo lo scoppio delle ostilità; e noi cogliemmo l'occasione di tale dichiarazione per avanzare la proposta di un primo passo, che consisteva nel neutralizzare per intanto, agli scopi della guerra, l'Adriatico, e forse, con l'assenso dell'Inghilterra, il Mar Rosso, riservandoci per tutto il resto del mare e del territorio nemico quella piena ed intera libertà d'azione militare che era nei nostri diritti, e che credevamo necessaria anche nell'interesse generale, per porre fine alla resistenza della Turchia ed abbreviare la guerra.

Il Governo ottomano intanto aveva messo in moto tutte le sue ambasciate, facendo pervenire alle capitali di tutte le grandi Potenze una nota intesa a promuovere un loro intervento amichevole in favore della pace. Il primo a comunicare con noi a questo proposito fu ancora il governo di Vienna, a mezzo del suo ambasciatore, lasciando intendere, in forma abbastanza moderata, che la soluzione della situazione si sarebbe potuta ottenere conservando una sovranità nominale del Sultano. San Giuliano, dopo avere conferito con me, gli rispose che nella nostra opinione la nota turca era uno dei soliti artifizi della Porta, da non prendersi sul serio, e che noi non potevamo accontentarci di mezzi termini, il nostro scopo essendo di risolvere la questione della Libia in modo da togliere di mezzo una causa continua di attrito fra noi e la Turchia, e di complicazioni internazionali. Se si fosse mantenuta la sovranità, sia pure solamente nominale, del Sultano, tale scopo sarebbe fallito; ne d'altra parte l'opinione pubblica italiana avrebbe consentito ad una soluzione che non comprendesse lo stabilimento della nostra sovranità in quelle regioni.

Il Ministro degli Esteri francese, De Selves, che aveva prima accennato ad una possibile mediazione francese, informò poi il nostro ambasciatore Tittoni dell'avviamento ad una mediazione generale delle Potenze; con l'intesa però che essa dovesse avere luogo solo come e quando l'Italia lo giudicasse opportuno. Il De Selves rinnovava la sua assicurazione che nella questione di Libia la Francia si proponeva per unico scopo di fare cosa gradita all'Italia, aggiungendo di voler tentare di procedere d'accordo con la Germania, cercando di portare le Potenze a fare tutte insieme un passo a Costantinopoli per l'annessione pura e semplice, dando così anche al governo turco il pretesto di dover cedere di fronte alla volontà unita dell'Europa.

Questo atteggiamento del De Selves ci dette occasione di fare sentire a Vienna ed a Berlino, per mezzo dei nostri ambasciatori, che noi non potevamo supporre che i nostri alleati tenessero verso noi un contegno meno amichevole, e si mostrassero meno persuasi delle nostre buone ragioni. E qualche giorno più tardi, per rispondere ad amichevoli richieste in proposito che ci venivano da Berlino, il San Giuliano comunicò al Governo germanico uno schizzo generale delle condizioni in base alle quali l'Italia era disposta a fare la pace; nel quale schizzo, mentre si manteneva assolutamente fermo il nostro proposito di non transigere sulla questione della sovranità, si facevano generose concessioni alla Turchia nel riguardo di vecchie vertenze ancora sospese; si prendeva l'impegno di accollarci quella parte del debito ottomano che potesse attribuirsi alla Libia; si proponeva di regolare la questione religiosa con rispetto alla qualità di Califfo del Sultano, in modo però che non nuocesse al nostro prestigio presso gli arabi, e non apparisse come una forma larvata di sovranità politica anche nominale, tale da dare appiglio ad attriti e conflitti fra Italia e Turchia, e ad intrighi turchi nelle due province che dovevano rimanere definitivamente staccate dall'Impero Ottomano; ed infine si proponeva di fare precedere il trattato di pace da un decreto unilaterale d'annessione da parte nostra; di modo che nel trattato la Turchia non dovesse fare cessioni, ma semplicemente regolare le conseguenze di fatti compiuti.

È interessante rilevare che le condizioni del trattato che fu poi quasi un anno dopo firmato fra noi e la Turchia a Losanna, corrispondevano notevolmente a quelle nostre prime proposte.
Il lavorio diplomatico fra le varie capitali continuava sempre assai intenso; ed il 25 ottobre l'Aehrenthal ci comunicava di avere ottenuto dai gabinetti di Londra e di Pietroburgo una risposta favorevole ad una sua proposta perché le Potenze procedessero ad uno scambio di idee per addivenire ad una soluzione della questione di Libia; i due gabinetti di Londra e Pietroburgo mostravano di accogliere con simpatia la sua iniziativa, ma aggiungendo di non credere che qualche cosa di preciso si potesse per allora fare. Questa comunicazione appariva alquanto ambigua, ma a chiarirla venne una conversazione che il sottosegretario degli Esteri tedesco, Zimmermann, ebbe col nostro incaricato di affari.
Zimmermann gli aveva dichiarato che le proposte di Aerenthal erano state bene accette agli altri gabinetti ; ma che però predominava in tutti l'idea che un passo collettivo fosse per ora inutile, se non addirittura dannoso, se noi non accettavamo l'alta sovranità del Sultano su l'intera Libia, o almeno non ci contentavamo di avere in assoluta nostra sovranità la sola Tripolitania. In quella conversazione lo Zimnermann si mostrava pure diffidente assai circa il contegno dell'Inghilterra. Egli osservava che ormai tutte le speranze della Turchia erano rivolte verso di essa, e che egli, per sintomi e indizi di vario genere che gli giungevano da diverse parti, aveva il presentimento che l'Inghilterra, per riprendere il perduto ascendente a Costantinopoli, sarebbe stata perfettamente capace di farsi avanti per imporci di accettare l'alta sovranità del Sultano, ottenendo la pace a tale condizione.

Molti erano secondo lo Zimmermann gli interessi inglesi, in Egitto ed anche in India, dove essa contava sui musulmani come sul suo più sicuro appoggio, che potevano spingerla ad un tale atto; e se ciò avvenisse, all'Italia non sarebbe rimasto altro che cedere; ed egli aggiungeva che in tale caso la Germania, per quanto spiacente, nulla avrebbe potuto fare per aiutarci. Il nostro ambasciatore a Londra fu subito incaricato di accertare cosa potesse esserci di vero in tali insinuazioni; ed egli ebbe un colloquio con Sir Edward Grey, al quale fece presente che noi non avremmo mai accettata altra soluzione come base di trattative di pace, che non fosse quella della piena nostra sovranità, e che qualunque potenza che pensasse a spingerci ad accettarne una diversa, perderebbe inevitabilmente l'amicizia del popolo italiano. Il Grey rispose con grande precisione; dichiarando che alle pressioni fatte dall'Ambasciata turca egli aveva sempre risposto che qualunque tentativo di mediazione, che non avesse per base la nostra assoluta sovranità, riuscirebbe vano.

L'insinuazione dello Zimmermann era così pienamente smentita; ma essa più che un tentativo d'intrigo a nostro danno, rappresentava lo stato di diffidenza che, riguardo le cose di Costantinopoli, dominava fra l'Inghilterra e la Germania; la quale ultima, non potendo fare nulla contro di noi a favore dei turchi, era preoccupata di perdere la situazione di prevalenza guadagnata in Turchia a mezzo della politica del Marshall, e temeva che l'Inghilterra pensasse di profittare delle difficoltà in cui essa si trovava. Da una conversazione che il Tittoni aveva avuto a Parigi con l'Iswolsky risultava che la sospettosa diffidenza tedesca verso l'Inghilterra aveva la sua contropartita nella diffidenza della Russia verso l'Austria; e che a Pietroburgo si considerava che la proposta di Aerenthal per un passo a Costantinopoli era stata fatta in termini ambigui e generici, e tale da compromettere la Potenza la quale, uscendo da quei termini, si fosse mostrata troppo favorevole all'Italia.
Il Marshall poi, avendo condotto avanti a Costantinopoli un suo lavoro preparatorio per venire alla pace sulla base del riconoscimento della sovranità nominale del Sultano, quando, informato del nostro deciso proposito di annessione, dovette rinunciarvi, aveva ammonito il proprio governo che alla Germania non conveniva di assumere l'iniziativa in favore del riconoscimento della sovranità italiana, perché ciò facendo si sarebbe esposta al pericolo che altri ne profittasse a pregiudizio della sua posizione nell'Impero Ottomano. Da una nuova conversazione che il nostro ambasciatore a Berlino ebbe con lo Zimmermann apprendemmo poi che i sospetti tedeschi si erano spostati dall'Inghilterra contro la Russia, temendosi che essa profittasse dell'occasione per risolvere a proprio favore la questione degli Stretti.

Ho voluto esporre nei suoi particolari tutto questo incrociarsi di azioni diplomatiche, per fare finalmente conoscere i precedenti che mi decisero ad un atto che, nel momento in cui fu compiuto, apparve a molti, e fu criticato anche in seguito, come prematuro; voglio dire il decreto di annessione della Libia.
Un mese solo di guerra aveva mostrato entro quale vasta rete di interessi delle altre Potenze la nostra azione dovesse svolgersi; e pure avendo ogni fiducia nella lealtà con cui la Francia, l'Inghilterra e la Russia avrebbero mantenuto gli impegni contratti verso di noi per la Libia, e che la Germani e l'Austria non sarebbero venute meno ai doveri dell'Alleanza; c'era sempre da temere che sorgessero fra le varie Potenze interessate nell'Impero Ottomano, complicazioni tali da indurle ad esercitare pressioni perché la guerra si concludesse, insistendo presso di noi nel concetto che noi potessimo accettare per la pace generale, quella nominale sovranità del Sultano, senza la quale il Marshall ammoniva il suo governo che la guerra si sarebbe trascinata assai lungamente.

Ora, pure prescindendo dalla impressione sulla opinione pubblica italiana, il mantenimento della sovranità nominale del Sultano in Tripolitania e in Cirenaica avrebbe avuto molteplici gravi conseguenze. In primo luogo, una tale soluzione avrebbe diminuito di molto la nostra autorità sulle popolazioni arabe, le quali avrebbero continuato a considerare come loro sovrano il Sultano, che aveva già su di esse tanta autorità come capo religioso. Imporre a popolazioni nello stato di cultura in cui erano quelle della Libia, una duplice sovranità; nominale l'una, l'altra effettiva, avrebbe create confusioni tali da ostacolare gravemente qualunque azione di governo.
In secondo luogo si presentava la identica questione con la quale l'Austria-Ungheria aveva giustificata l'annessione della Bosnia-Erzegovina; perché, quando la sovranità del Sultano fosse stata in qualsiasi forma mantenuta, come si sarebbe potuto impedire agli arabi di eleggere il loro rappresentante nel Parlamento di Costantinopoli; e il mantenimento di questa rappresentanza quali effetti avrebbe avuto sull'animo della popolazione? Infine c'era la questione delle capitolazioni, che avrebbero, in un tale regime per cui la Libia rimaneva legata all'Impero Ottomano, continuato a sussistere nel rispetto degli altri paesi, costituendo un'altra fonte di complicazioni, difficoltà ed attriti nel futuro.

L'Italia dunque, accettando una tale soluzione, o una qualunque altra soluzione che non fosse veramente completa e decisiva, si sarebbe trovata in una posizione difficile, con tutte le passività dell'impresa compiuta, e nessun vantaggio. Bisognava anche ora, come nel periodo della preparazione, evitare il pericolo di dovere ascoltare consigli di amici e di interessati; ed anche questa volta il modo di tagliare corto a questo pericolo era di mettere le Potenze davanti al fatto compiuto. E questo fine conseguii col decreto reale del 4 novembre che proclamava la sovranità assoluta dell'Italia sulla Libia.
La sua accoglienza fu quale l'avevo prevista. Ci furono dei brontolamenti, specie da parte di Vienna, contro quell'atto, ma nessuna protesta. Il decreto fu poi presentato al Parlamento appena si adunò in febbraio. Al Senato fu votato ad unanimità; alla Camera ebbe l'approvazione di tutti, eccetto i socialisti, i quali lo criticarono con la ragione che esso avrebbe resa più difficile la conclusione della pace; critica che si spiega, perché era naturale che chi non aveva voluto l'impresa non s'interessasse al suo buon successo. Del resto, chi non é al governo in queste contingenze, non conoscendo i retroscena non vede la ragione degli atti compiuti; e viceversa questa ragione il governo non può dirla. E' infatti evidente che io non potevo spiegare pubblicamente che avevo proclamata la nostra sovranità sulla Libia per paura di un intervento da parte delle Potenze alleate o amiche.


Che l'atto irrevocabile da noi compiuto, con la, proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, fosse giunto opportuno, lo provarono poi gli ulteriori tentativi fatti dalla diplomazia europea per risolvere la guerra; e che, in contrasto con quelli precedenti, furono basati sull'accettazione del fatto compiuto. A nessuno infatti poteva ormai passare per la mente che si potesse ottenere dall'Italia la rinunzia al decreto con cui la sua sovranità era stata proclamata.

L'iniziativa della nuova campagna di pace, che si prolungò per parecchi mesi, fu presa questa volta, e con sentimento di grande amicizia verso di noi, dal Ministro degli Esteri russo, Sazonoff. Il 2 gennaio l'Ambasciata di Russia a Roma comunicava al San Giuliano una idea che il Sazonoff aveva già fatta conoscere ai rappresentanti delle grandi Potenze a Pietroburgo, e che si riassumeva presso a poco nei termini seguenti: - Le grandi Potenze, riconoscendo che l'affrettare la pace fra l'Italia e la Turchia era un interesse europeo, dovrebbero fare a Costantinopoli un passo collettivo per convincere la Turchia che la perdita della Libia era inevitabile, e per indurla ad accettare un armistizio; durante il quale la Turchia ritirerebbe dalla Libia le sue truppe, mentre l'Italia studierebbe la misura di un compenso pecuniario con cui in certo modo indennizzarla. L'Italia non avrebbe domandato il riconoscimento immediato della sua sovranità da parte della Turchia, lasciando alle circostanze di regolare il corso degli eventi; ma le grandi Potenze, per garantire i diritti dell'Italia, s'impegnerebbero a riconoscere la sua sovranità sulle due province occupate.

Alla Francia sarebbe stato dato l'incarico di parlare a Costantinopoli a nome di tutti. Sir Edward Grey, interrogato in proposito dal nostro ambasciatore si mostrò incerto ed esitante. Le disposizioni delle altre Potenze gli parevano poco incoraggianti; l'atteggiamento della Turchia gli pareva negativo, nel qual caso una insistenza troppo viva da parte delle Potenze gli pareva avrebbe assunto il carattere di una pressione non in armonia cogli obblighi della neutralità. In Francia, secondo informazioni del Tittoni, un tale passo non pareva ancora giustificato dalla situazione da noi conquistata. Il Sazonoff persistette tuttavia nella sua iniziativa, cercando specialmente di intendersi con l'Inghilterra.
Sir Edward Grey, ripugnandogli sempre l'idea di parere di violare la neutralità, proponeva che si facesse un passo contemporaneo a Roma e a Costantinopoli ; ma poi, riconoscendo egli che in tal modo si sarebbero date false impressioni al governo turco ed incoraggiata la sua resistenza, fu deciso di fare prima un passo a Roma per essere informati delle condizioni che l'Italia sarebbe disposta ad accordare, poi un passo a Costantinopoli per consigliarne l'accettazione.

Il passo a Roma fu compiuto dagli ambasciatori, ognuno per suo conto, il 9 marzo. Il 15 marzo noi consegnammo agli ambasciatori la nostra risposta scritta nella quale erano elencate e spiegate le condizioni alle quali eravamo disposti a concludere la pace; e che corrisposero poi in grande parte esse pure a quelle con cui la pace fu conclusa; ciò che dimostra come il Governo italiano si fosse fino dal principio fatte idee chiare e precise sul modo con cui la questione doveva essere risolta, mantenendo fermamente i punti fondamentali, e mostrandosi conciliante per tutte le condizioni secondarie.

Passò ancora un mese prima che le Potenze si accordassero pienamente sul passo da compiere a Costantinopoli, sulla base della nostra risposta. Il passo ebbe luogo il 16 aprile; la risposta della Turchia fu ritardata ancora sino al 24 aprile nell'attesa che fossero finite le elezioni, e risultò interamente negativa, in quanto la Turchia, pure dichiarando di accettare senz'altro, per deferenza alle Potenze, la loro proposta di mediazione, aggiungeva di dover avvertire, ad evitare malintesi, che non le sarebbe possibile di entrare in negoziati se non sulla base del mantenimento effettivo ed integrale dei diritti del Sultano, e della rinunzia dell'Italia all'annessione delle due province e del ritiro delle sue truppe.
In tal modo l'iniziativa, perseguita dal Sazonoff con grande energia, e che aveva raccolto l'adesione di tutte le Potenze, falliva completamente. E merita rilevare che solo due mesi dopo la Turchia entrava in negoziati diretti con noi, essendo chiaramente avvertita che la nostra piena ed effettiva sovranità sulle due province doveva essere fuori di discussione.

Dopo la nostra occupazione delle città e degli altri punti più importanti della costa, e dopo l'azione, egregiamente condotta, con cui il generale Caneva aveva cacciati i turchi-arabi da Ainzara e spazzata l'oasi circostante a Tripoli, non si erano più avuti né in Tripolitania nè in Cirenaica fatti d'armi di carattere risolutivo. Il nemico era assolutamente incapace di attaccarci nei punti che noi avevamo occupati e fortificati, ed ogni suo tentativo di attacco finiva sempre per essere fiaccato con sue gravi perdite; ma d'altra parte per noi era pure assai difficile e alle volte anche pericoloso cercare d'inseguirlo nel deserto, dove le nostre truppe avanzandosi si esponevano a sofferenze ed a rischi, per le difficoltà del terreno, la penuria d'acqua e la mancanza di qualunque risorsa, e dove le sue squadre leggere riuscivano a dileguarsi davanti a ogni nostra mossa.
L'opinione pubblica che non si rendeva abbastanza conto di tali condizioni, e del fatto che la guerra era ormai degenerata in guerriglia, si mostrava impaziente. A questa impazienza io non partecipavo; però mi rendevo conto della convenienza che l'azione militare procedesse più spedita, allo scopo di dimostrare sempre più ai turchi ed agli arabi la futilità di qualunque resistenza, e per evitare il pericolo, che mi era sempre presente e che doveva essere tenuto d'occhio, di possibili ripercussioni internazionali.

Un incidente assai spiacevole in questo senso si era prodotto alla metà di gennaio. Una nostra nave da guerra, l'Agordat, che batteva il Mediterraneo occidentale per vigilare contro il contrabbando con cui i turco-arabi venivano riforniti di armi e di munizioni, il giorno 15 gennaio aveva fermato una nave postale francese, il Carthage, e tre giorni dopo una seconda nave, il Manouba, sulla quale si trovava una missione della Mezzaluna rossa turca, avviata al campo nemico in Libia, e l'obbligava a sbarcare in Sardegna. Si trattava, dopo tutto, di un piccolo incidente che in mie posteriori conversazioni con l'ambasciatore francese io qualificai come una causa da pretura; e quando, il mattino dopo avvenuto il fatto, venne da me, nell'assenza del Barrére, il primo segretario dell'ambasciata francese, signor Legrand, io gli dissi che a me l'incidente pareva una delle questioni caratteristiche, da deferirsi per la sua soluzione al Tribunale internazionale dell'Aja, essendo quel tribunale particolarmente atto ad impedire che una piccola questione potesse ingrossarsi e farsi pericolosa. Il signor Legrand mi chiese se poteva telegrafare al suo governo che io proponevo tale deferimento; ed io gli risposi affermativamente, pregandolo anzi di telegrafare subito. Ciò egli fece, ed all'una dopo mezzogiorno giungeva a Roma un telegramma dell'agenzia Havas che riferiva quella proposta del Governo Italiano.

Alle tre pomeridiane il Poincaré, allora Presidente del Consiglio francese, parlò alla Camera, pronunziando un discorso alquanto aspro e quasi minaccioso, nel quale della nostra proposta non era fatto cenno. Io non so se per caso egli non ne fosse stato informato; ma il suo discorso, che rispondeva un po' alla irritazione nazionalista, provocò naturalmente una reazione nella stampa italiana, e parve per un poco che la cordialità dei rapporti fra i due paesi, che avevano assai beneficiato del contegno decisamente amichevole tenuto dalla opinione pubblica e dal governo francese per l'impresa di Libia, ne fosse oscurata. Ricordo che lo stesso Clemenceau criticò l'atteggiamento assunto in quel discorso dal Poincaré, con un gioco di parole, dicendo : - Il pouvait étre moins carré. - Ma poi le cose si appianarono, e lo stesso Poincaré cercò di dissipare l'impressione di quel discorso, conducendosi molto amichevolmente per l'Italia nelle ulteriori vicende diplomatiche connesse con la nostra impresa; e si finì per deferire, secondo la mia proposta, la questione al Tribunale dell'Aja, davanti al quale fu per noi patrocinata dall'on. Fusinato, e che fu conclusa con una sentenza conciliante, colla quale l'Italia ne usciva bene.

Incidenti come codesto mostravano però che noi dovevamo preoccuparci, oltre che della guerra locale, anche della situazione generale. Nelle mie comunicazioni col Caneva, io mettevo bene in chiaro che non intendevo affatto di impartirgli ordini, e di dirigere dal mio gabinetto le operazioni militari, per le quali gli lasciavo con tutte le responsabilità l'intera libertà di giudizio, limitandomi semplicemente a richiamare la sua attenzione sul lato generale della guerra. Il Caneva mandò a Roma il Giardino allora tenente colonnello, per spiegarmi le ragioni della lentezza con cui la guerra procedeva. Poi più tardi, il 7 ed 8 febbraio, venne egli personalmente, ed ebbi con lui due lunghe conversazioni.
L'impressione che ne riportai fu per un rispetto ottima, come di uomo capace, intelligente, ed ordinato, che non procedeva se non rendendosi pienamente conto delle cose; ma mi parve anche che mancasse alquanto di iniziativa, e che non si rendesse conto abbastanza delle ragioni di politica estera che consigliavano una azione più rapida, per evitare complicazioni che potevano nascere ad ogni momento in una guerra che turbava tanti altri interessi. Il Caneva invece considerava quasi esclusivamente la situazione militare locale.

Nelle conversazioni egli mi spiegò con grande chiarezza tale situazione militare e la difficoltà di azioni risolutive, tanto che io fui persuaso che molte delle critiche che si rivolgevano alla sua opera non erano giustificate: egli alla sua volta si persuase delle ragioni di politica internazionale che consigliavano di abbreviare al possibile la durata della guerra. Fu convenuto di accrescere i mezzi militari, specie in vista di azioni rapide di colonne volanti, che poi furono usate in una seconda fase della campagna. Io desideravo insomma di conseguire la maggiore somma di risultati compatibile con una condotta prudente, che non esponesse a scacchi, perché avevo sempre presente l'eventualità di un intervento amichevole da parte delle Potenze per la risoluzione della questione e la discussione della pace; e perché sapevo che quando si entra in tale discussione si discute sempre in base ai risultati già ottenuti.

La guerra nel frattempo, e precisamente fra il marzo e il giugno, entrò in una nuova fase, alla campagna di terra aggiungendosi una campagna navale, nel Mare Egeo. Varie furono le ragioni che ci obbligarono a questo nuovo passo. Anzitutto avevamo constatato che dalla Turchia partivano continuamente ufficiali, armi e munizioni, e materiale d'ogni genere, che a mezzo di un vasto contrabbando esercitato traverso l'Egeo, erano sbarcate e fatto arrivare agli arabi, specie nella Cirenaica; fra l'altro, in tal modo vi era giunto Enver Bey, che vi aveva assunto il comando delle operazioni contro di noi. Nei mesi d'inverno l'inclemenza della stagione e la difficoltà degli sbarchi su quelle coste avevano aiutata la vigilanza delle nostre navi di crociera; ma con la stagione primaverile il contrabbando accennava ad intensificarsi maggiormente, e noi sapevamo di più vasti preparativi a tale scopo.
Il Ministro della Marina, Leonardi Cattolica, mi fece allora presente le difficoltà della situazione, osservandomi che la nostra vigilanza avrebbe potuto riuscire assai più efficace se, invece che lungo la estesissima costa libica, avesse potuto ,esercitarsi agli sbocchi orientali del Mare Egeo; il che però avrebbe reso necessaria l'occupazione di qualche punto d'appoggio nelle isole di quel mare, per dare modo alle nostre squadre di crociera di rifornirsi senza dovere percorrere la lunga strada che le separava dalla nostra base navale di Tobruk.

Nello stesso tempo una persona che viveva a Costantinopoli, e che era assai addentro alle cose della marina turca, ci offriva i suoi servizi per aiutarci qualora lo credessimo opportuno, a compiere un colpo di mano contro la flotta turca, che si trovava, ancorata e male vigilata alla punta di Nagara. Ora, se nell'inizio della guerra per le ragioni già dichiarate, noi credemmo opportuno di astenerci da un tentativo contro la flotta turca, la situazione mutata doveva consigliarci ad agire diversamente. La condotta della Turchia, che pareva quasi disinteressarsi a che la guerriglia in Libia si protraesse indefinitivamente; come pure l'insuccesso dei passi compiuti dalle Potenze per persuaderla a riconoscere il fatto compiuto e ad accettare l'inevitabile, ci spingeva necessariamente ad entrare in un altro campo di azione, dal quale ci eravamo fino allora astenuti, per riguardo agli interessi delle altre Potenze, senza però rinunciare minimamente ai nostri diritti di belligeranti.
Io consideravo insomma che ormai ci si imponeva di avvicinare la guerra a punti in cui la Turchia fosse più vulnerabile, per farle capire che essa pure, ostinandosi a prolungare una guerra la cui sorte era ormai decisa, si esponeva a nuovi e più gravi rischi.

Era però da aspettarsi che tale spostamento della nostra azione militare dalla Libia all'Egeo avrebbe moltiplicate le difficoltà diplomatiche intorno a noi. Già nei primi giorni di febbraio il nostro ambasciatore a Vienna, Duca d'Avarna, ci avvertiva che l'Aerenthal, conversando con un personaggio del corpo diplomatico, aveva lasciato intendere che l'Austria non avrebbe potuto lasciare passare una qualsiasi azione nella Turchia europea, che egli, con arbitraria interpretazione, riteneva contraria agli impegni stabiliti nell'articolo VII del nostro trattato di Alleanza. Viceversa il Ministro degli Esteri russo, Sazonoff, c'incitava quasi a fare qualcosa in questo senso, dichiarando al nostro ambasciatore Melegari che egli sarebbe lieto se noi facessimo qualche cosa che colpisse la Turchia in una parte vitale, e dessimo una buona lezione ai Giovani Turchi onde abbattere la loro ormai insopportabile tracotanza.

E l'ambasciatore tedesco a Roma, conversando col De Martino, e pure premettendo di non parlare come ambasciatore, ma di esprimere semplicemente una sua personale opinione, gli diceva che noi dovevamo fare un'azione contro i Dardanelli, ed all'obiezione dell'opposizione austriaca, rispondeva che da quanta gli aveva detto il suo ministro Kiderlen-Wàchter, non risultava che l'Aerenthal fosse veramente opposto ad una tale azione. L'Aerenthai però nel frattempo era morto; e siccome con lui non si era potuto andare a fondo della cosa, c'era da temere che il suo successore, il conte Berchtold, non volesse rischiare di mostrarsi, davanti all'opinione pubblica e soprattutto all'elemento militare, più arrendevole all'Aerenthal, che godeva di una autorità molto superiore.

Per parte dell'Inghilterra e della Francia nulla ci era stato detto; ma il resoconto stenografico di un discorso di Poincaré lasciava credere che noi avessimo esplicitamente rinunciato a qualunque operazione militare e navale fuori della Libia; e noi ci affrettammo a smentire subito la cosa, che fra l'altro avrebbe avuto l'inconveniente di incoraggiare la Turchia alla resistenza. Ci constava poi che la Turchia, a mezzo dei suoi ambasciatori, si sforzava di correre in precedenza ai ripari, minacciando, nel caso di un nostro attacco ai Dardanelli, non solo di espellere tutti gli italiani dai suoi territori, ma anche di chiudere gli Stretti al commercio internazionale. Era il sistema ormai abituale per cui la Turchia cercava la propria protezione dietro qualche interesse forestiero.

La questione si trascinava così teoricamente negli scambi di vedute diplomatici, quando occorse un episodio che la mise alla prova della realtà. Una nostra squadra di crociera, essendosi presentata, il 24 febbraio, davanti a Beirut, vi trovò due vecchie navi da guerra turche che vi si erano ricoverate. Avendo esse all'intimazione di arrendersi, non solo rifiutato, ma aperto il fuoco contro le navi nostre, queste risposero colandole in breve a picco, senza del resto fare nessuna azione che causasse il minimo danno alla città ed al porto.

L'Austria protestò immediatamente, sulla base di informazioni errate che ci accusavano di avere bombardata una città aperta; e il suo ambasciatore a Roma, il Merey, a nome del suo governo, richiamò l'attenzione del San Giuliano sulla responsabilità in cui l'Italia incorrerebbe qualora si rinnovasse il bombardamento di una città, in cui viveva una numerosa colonia austriaca. Barrére fece pure un passo a nome del suo governo, ma in forma assai amichevole; e noi gli facemmo osservare come fosse in quel momento sommamente necessario di evitare qualunque espressione di linguaggio che accennasse a limitazione delle nostre operazioni, con l'effetto di incoraggiare la Turchia nella sua resistenza.

Ma il fatto diplomatico più grave di quel momento, fu il tentativo di una iniziativa inglese per determinare una tale limitazione a mezzo di una azione collettiva delle Potenze. Ne fummo informati contemporaneamente da Vienna e da Pietroburgo. Il 29 febbraio l'ambasciatore inglese a Vienna aveva consegnato al conte Berchtold una memoria così concepita: - «È certo che il commercio internazionale subirebbe gravi perdite nel caso che il Governo ottomano decidesse, come misura di difesa, di chiudere con mine sottomarine i Dardanelli. Sir E. Grey desidera sapere se il Governo austriaco giudicherebbe opportuno che i rappresentanti delle Potenze chiedano al Governo italiano se sarebbe disposto ad assicurare che nessuna operazione sarà intrapresa nei Dardanelli o nelle acque vicine».

Il Berchtold aveva risposto con disposizioni abbastanza cordiali verso di noi, dicendo di aver ragione di credere che il Governo italiano non consentirebbe mai a fare una tale dichiarazione e che egli non prenderebbe parte al passo progettato se non fosse prima sicuro che noi non faremmo alcuna obiezione; ma incaricava l'ambasciatore Merey di aggiungere che egli era convinto che noi non pensassimo ad una azione nei Dardanelli o nelle vicinanze, per timore delle ripercussioni che essa potrebbe avere nei Balcani. Più franco e deciso era stato il Sazonoff, il quale, nonostante le insistenze dell'ambasciatore inglese, aveva categoricamente rifiutato di partecipare ad un tale passo, come incompatibile con i doveri della neutralità, ed aveva dichiarato poi al nostro ambasciatore che egli considerava la proposta inglese addirittura indecente. E l'Inghilterra non insistette più oltre.

Nonostante questi intralci e manovre diplomatiche, noi avevamo deciso di agire, con l'intento soprattutto di colpire la flotta turca, e l'ammiraglio Thaon de Revel aveva avuto l'incarico di concertare tutto il piano d'azione. La concentrazione della squadra a cui l'esecuzione del piano era affidato aveva già avuto luogo a Bomba; ma poi il progetto fu per il momento abbandonato, non in ubbidienza a intimidazioni diplomatiche, ma perché, a giudizio della nostra marina, esso era diventato inattuabile in seguito alle precauzioni prese dalla marina turca, la quale, avendo avuto sentore della cosa, aveva sbarralo l'entrata dei Dardanelli e ritirata la flotta nel Mare di Marmara, dove non avrebbe certo potuto essere raggiunta.

Noi ad ogni modo eravamo ben fermi di mantenere la nostra libertà d'azione ed i nostri diritti di belligeranti; opinando però nello stesso tempo che fosse conveniente di tenere informate le Potenze alleate ed amiche, sia per riguardo ai loro interessi, sia per impedire che qualcuna di esse, e l'Austria particolarmente, potesse prendere pretesto da una nostra azione per procedere ad un'azione propria che riuscisse anche indirettamente a nostro danno.
Sapevamo che il partito militare austriaco spingeva a colpi di mano in Albania, che potevano essere consumati magari d'accordo con la Turchia, ed intendevamo di evitare che la nostra condotta desse a tali progetti qualunque pretesto. Avvertimmo pertanto il Berchtold che il contrabbando militare turco ci obbligava a stabilire una crociera allo sbocco dell'Egeo nel Mediterraneo, e che a tale scopo avremmo dovuto occupare provvisoriamente qualche isola, indicando Stampalia, Lemno e qualche altra.

Informammo di queste nostre intenzioni anche il Governo di Berlino, che non fece opposizione, anzi si impegnò di agire a mezzo del suo ambasciatore presso Berchtold per persuaderlo a non frapporre ostacoli a nostre eventuali operazioni nell'Egeo e contro i Dardanelli. Anche la Francia non fece difficoltà, anzi il Poincaré consigliò apertamente di occupare qualche isola, come mezzo per impressionare la Turchia ed affrettare la pace. Ma l'Austria, che si mostrò pure assai piccata che noi le avessimo fatto parlare dalla Germania, teneva duro; e ne seguì una lunga conversazione diplomatica, nella quale il San Giuliano controbatté con grande abilità dialettica le argomentazioni del Berchtold.
La discussione verteva specialmente su due punti. Il Berchtold sosteneva, seguendo l'interpretazione già data dall'Aerenthal, che l'articolo VII del Trattato della Triplice, che contemplava i reciproci interessi dell'Austria e dell'Italia nei Balcani, vietasse qualunque occupazione, sia pure temporanea ed a scopo militare, nei territori europei dell'Impero; e fosse anzi contrario ad una qualunque azione militare, quale sarebbe un bombardamento di quelle coste. Sosteneva pure che tutte le isole dell'Egeo dovessero considerarsi come parte della Turchia europea. San Giuliano rispondeva rifiutando assolutamente di accettare l'interpretazione arbitraria ed infondata che l'Aerenthal ed il Berchtold davano all'articolo VII del Trattato, in quanto tale articolo si riferiva a modificazioni permanenti dello statu quo, e non già ad occupazioni temporanee consigliate ed imposte da ragioni militari, e reputava arbitrario l'assunto del Berchtold che le isole del basso Egeo, che sia nel criterio geografico, sia nello stesso criterio amministrativo turco facevano parte dei vilayets dell'Asia, dovessero intendersi contemplate dalle clausole del Trattato che si riferivano esclusivamente ai territori europei dell'Impero.

La conversazione diplomatica, diventò a certi momenti assai serrata; e ad un certo punto noi dichiarammo all'Austria che non ci saremmo lasciati arrestare da pericoli immaginari e da interpretazioni infondate; e che una sua opposizione alla nostra libertà d'azione renderebbe impossibile il mantenimento dell'Alleanza. Al 12 aprile noi informammo il Berchtold che non potevamo ormai più differire, per ragioni militari e politiche, le nostre operazioni nell'Egeo; ed egli finì per dichiarare che non avrebbe sollevate difficoltà di fronte ad una nostra eventuale occupazione di Rodi, Stampalia, ecc.,. purché noi ci fossimo impegnati a restituirle a guerra finita. Noi non eravamo alieni di prendere tale impegno, a condizione che fosse mantenuto segreto; anzi consideravamo fosse nel nostro interesse di prenderlo, per evitare che l'Austria, giocando sulla sua interpretazione dell'articolo VII dell'alleanza, avanzasse la pretesa di compensi o magari si prendesse di colpo un compenso in Albania o nel Sangiaccato, secondo le intenzioni da noi non ignorate del partito militare, col pretesto della nostra occupazione delle isole.

Una nostra dichiarazione che quella occupazione era solo temporanea toglieva di mezzo quel pretesto, perché in tal caso anche il preteso compenso austriaco avrebbe dovuto essere temporaneo. E di tale conseguenza forse si accorse il Berchtold, o chi stava dietro di lui; perché dopo averci richiesta la formula scritta dell'impegno di restituzione delle isole alla Turchia, all'ultimo finì per rinunciarvi, probabilmente per conservare maggiore libertà d'azione.


Pochi giorni dopo s'iniziava questa nuova fase della guerra.
Una squadra, al comando dell'Ammiraglio Viale, partita da Taranto si concentrava fra i giorni 15 e 16 aprile a Stampalia, già scelta come base di rifornimento, e dove fu raggiunta da un nostro agente forestiero segreto che doveva servire da pilota per qualunque azione nei Dardanelli. Il suo obiettivo principale era di scortare ai Dardanelli una squadriglia di siluranti, le quali, qualora avessero potuto entrare di sorpresa, avrebbero tentato di silurare la flotta turca. La squadriglia arrivò, come stabilito, davanti ai Dardanelli la notte del 17, ma le pessime condizioni del mare, e la vigilanza dei riflettori turchi, resero impossibile la sorpresa. Nella mattinata avanzò una squadra di nostre corazzate, con l'intento di attrarre quella nemica, mentre un'altra nostra squadra si teneva nascosta dietro Imbros, pronta a tagliarle la ritirata. Ma le navi turche non si mostrarono. Aprirono invece il fuoco contro le nostre squadre i forti delle due sponde; le nostre artiglierie risposero, cannoneggiando per due ore, poi si ritirarono per adempiere alle loro altre missioni.

La crociera della nostra squadra non aveva affatto avuto lo scopo di un attacco ai Dardanelli, ma semplicemente di sostenere un eventuale attacco di torpediniere contro la flotta turca, e di compiere una dimostrazione che togliesse alla Turchia la illusione che la rincuorava alla resistenza, che la nostra libertà d'azione fosse limitata. Il breve scambio di cannonate coi forti turchi non poteva essere considerato quale un attacco, ed era stato provocato dai forti stessi. Ma la Turchia, la cui sola speranza stava nel provocare complicazioni, colse l'occasione per un atto che danneggiasse gli interessi commerciali delle altre Potenze e ne provocasse l'irritazione e forse qualche provvedimento contro l'Italia; e cioè la chiusura dei Dardanelli alla navigazione commerciale.

Quella decisione turca era insostenibile, ed inammissibile la tesi su cui si fondava. Il diritto della Turchia di chiudere gli Stretti, sancito dal Trattato di Londra del 1841 e confermato da quelli del 1856 e del 1871, si limitava esplicitamente alle navi da guerra, non essendo ammissibile di diritto, né il blocco assoluto dei Dardanelli da parte di una flotta nemica, né la loro assoluta chiusura da parte del Governo turco. E il Sazonoff, con la dirittura che mantenne durante tutte queste vicende, inviò subito alla Porta una energica protesta scritta, chiedendo l'immediata riapertura degli Stretti e minacciando, in caso di rifiuto, di esigere risarcimenti. A rendere la chiusura ingiustificata anche dal punto di vista pratico, stava il fatto che il grosso della nostra squadra si era già allontanata rientrando parte a Taranto e parte a Tobruk. Ma gli interessi commerciali, che esercitandosi nel territorio ottomano, parteggiavano per la Turchia, facevano sentire il loro peso, riuscendo a determinare qualche atto diplomatico.

Sir Edward Grey, rispondendo ad una rappresentanza commerciale, aveva dichiarato che avrebbe telegrafalo a Roma e a Costantinopoli, per ottenere che le navi commerciali potessero passare liberamente dall'Egeo al Mar Nero e viceversa. Una tale mossa sarebbe stato un nuovo attacco ai nostri diritti di belligeranti, con conseguente incoraggiamento alla Turchia; e noi facemmo sapere al governo inglese che non avremmo potuto ammettere una qualunque diminuzione di tali nostri diritti, del resto perfettamente compatibili con gli interessi commerciali che esso desiderava proteggere, la Turchia non avendo diritto di chiudere gli Stretti che dopo iniziato un attacco; aggiungendo che a noi pareva che il miglior modo di risolvere la questione fosse di fare passi presso la sola Turchia, appoggiando l'azione della Russia.

Il Berchtold rinnovò le solite lagnanze, qualificando, in una conversazione col nostro ambasciatore, l'attacco ai Dardanelli come un atto di provocazione, che egli non si aspettava, e che stava in contrasto coi nostri amichevoli accordi; che egli non poteva ammettere che noi in avvenire ripetessimo azioni simili a quella ora compiuta; e che se un'operazione simile fosse da noi eseguita, avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Alla fine il punto di vista russo prevalse, e la Turchia, dopo una certa resistenza, si rassegnò a riaprire gli Stretti al commercio, ed a rinunciare a questo ricatto tentato ai danni nostri e degli interessi generali dell'Europa.

Nonostante queste complicazioni diplomatiche noi continuammo risolutamente nel programma che ci eravamo prefisso: ed il 23 aprile una nostra divisione navale, al comando dell'Ammiraglio Presbitero, occupò l'isola di Stampalia, stabilendovi una nostra base navale, e facendo prigioniera la guarnigione turca. Il 12 maggio la divisione al comando dell'Ammiraglio Corsi occupava le isole di Scarpanto e Cos e altre otto isole; ed il giorno dopo varie nostre navi occuparono le altre isole del Dodecaneso. L'impresa più importante fu quella di Rodi, dove si trovava una grossa guarnigione turca. Viale ed Ameglio vi erano sbarcati il 3 e 4 maggio, alla Baia di Catilla, senza colpo ferire; la guarnigione turca ritirandosi nell'interno, dove finì per arrendersi il 17 maggio dopo una piccola battaglia combattuta a Psitos.

L'occupazione delle isole non dette luogo ad alcuna osservazione da parte delle Potenze, eccetto l'Austria. Anche per queste operazioni il Berchtold rinnovò le sue lagnanze, perché le nostre occupazioni non si erano limitate alle isole per le quali egli aveva espresso, sebbene a riluttanza, il suo consenso. Egli affacciò allora la tesi che le occupazioni italiane dessero all'Austria il diritto di chiedere compensi, che essa per ora non desiderava, senza per ciò rinunciare a tale suo diritto. Egli intendeva però che le occupazioni compiute segnassero l'ultimo limite. Il San Giuliano, che in tutta questa controversia, mostrò sempre grande pazienza unita a fermezza, gli rispose che in Italia si considererebbe come amica ed alleata della Turchia, e come non amica e non alleata dell'Italia quella potenza la quale, violando i doveri della neutralità in favore della Turchia ci avesse impedito di servirci di tutti i mezzi in nostro potere per obbligarla a cederci.

Osservava che la astensione da operazioni, politicamente e militarmente necessarie, ma ostacolate dall'Austria, non sarebbe stata possibile alla lunga senza che il vero motivo di tale astensione, cioè l'opposizione dell'Austria, finisse per essere noto, ed anzi il Governo italiano potrebbe trovarsi, ad un dato momento, nella necessità di dichiararlo. E concludeva che vi era contraddizione fra il pretesto dell'Austria di non riconoscere la nostra sovranità in Libia perché la Turchia era ancora in grado di resistere, e la pretesa di ostacolarci l'uso dei mezzi per obbligarla e desistere dalla resistenza. Io non ho mai avuta occasione di conoscere il Berchtold; ma il San Giuliano, che poi lo incontrò in un convegno a Pisa, me ne comunicò una impressione assai mediocre, come di persona senza idee proprie ed asservita interamente alla camarilla aulica e militare, alla quale non sarebbe parso vero di profittare della situazione per svolgere i suoi progetti nell'Albania e nel Sangiaccato.

Ed infatti la sua condotta diplomatica, di perpetue lagnanze e di mezze minacce verso di noi, senza che arrivasse mai ad una conclusione; e la monotonia con cui insisteva in interpretazioni arbitrarie ed infondate dei nostri impegni, senza mai tentare di affrontare le argomentazioni contrarie del San Giuliano, davano l'impressione di un uomo che non aveva né libertà né capacità d'azione, e che invece di ragionare con la propria testa per rendersi conto della realtà delle cose, eseguisse semplicemente una parte che gli era affidata. La stranezza ed ambiguità della sua posizione e dei suoi atteggiamenti, risultò in modo assai curioso nell'ultimo episodio di questa lotta diplomatica, che merita di essere ricordato.

Lo Stato Maggiore della nostra marina credè ad un certo momento conveniente che noi occupassimo Chio e due o tre altre isole minori, per rendere più agevole e meno faticosa la nostra vigilanza. Siccome il Berchtold riteneva che secondo i trattati noi fossimo impegnati di preavvisarlo e consultarci seco per qualunque nostro progetto di occupazione, e ci aveva rimproverata come una violazione dei nostri impegni il non averlo fatto in precedenti occasioni, così noi incaricammo il nostro ambasciatore D'Avarna di informarlo e consultarlo. Il Berchtold mutò allora la sua tesi, dichiarando che tali nostri preavvisi avevano l'effetto di associarlo alla nostra azione, e che egli declinava tale compromissione. Noi agissimo per nostro conto; e se la nostra azione era contraria agli impegni da noi assunti egli si sarebbe ritenuto svincolato pure per parte sua dagli obblighi dell'alleanza e della convenzione segreta dei Balcani del 1909.
Siccome l'occupazione di Chio era conveniente ma non indispensabile, io e San Giuliano decidemmo di prendere, come si dice, la palla al balzo, rinunciando alla occupazione progettata, ma nello stesso tempo avvertimmo il Berchtold che prendevamo nota che, con la nostra rinuncia, egli riconosceva che i reciproci impegni rimanevano pienamente validi. E di questa nostra constatazione demmo pure avviso alla Germania.

La risposta della Turchia alle nostre occupazioni nell'Egeo fu un decreto di espulsione, già da lungo tempo minacciato, dei nostri connazionali da tutti i territori dell'Impero. Quella deliberazione del Governo turco era una rappresaglia abbastanza grave, non essendoci meno di ventimila cittadini italiani a Costantinopoli, e cinquantamila nel resto dell'Impero; ma i suoi effetti sulla guerra erano più che nulli, negativi in quanto che se quel decreto fosse stato integralmente applicato, e i nostri porti fossero stati invasi dai profughi, lo spettacolo delle loro miserie e sofferenze avrebbe irritata sempre più l'opinione pubblica e spinto il Governo italiano a rispondere alla sua volta con nuovi attacchi militari alle parti più vitali dell'Impero.
L'Ambasciata tedesca, che aveva assunto la tutela dei nostri concittadini, non spiegò un'azione protettrice molto vigorosa; il Marshall essendo assai irritato contro l'Italia perché considerava che la nostra impresa avesse gravemente danneggiata la sua opera politica in Turchia, costruita col lavoro di un ventennio; ma l'applicazione del decreto fu assai blanda, anche perché molti dei nostri connazionali erano impiegati in imprese europee che non potevano fare a meno della loro collaborazione.

L'ultima impresa d'una certa importanza della nostra marina nell'Egeo, fu una scorreria nei Dardanelli, compiuta da una squadra di torpediniere al comando dell'Ammiraglio Millo. Avendo avuta notizia che la flotta turca progettava un colpo di mano contro qualche nostra nave isolata, fu ordinato di intensificare e spingere più al nord le crociere di vigilanza delle nostre siluranti. Una nostra squadriglia così entrò nei Dardanelli, spingendosi con grande ardimento per una ventina di chilometri, fino quasi a Cianak. Giunta colà fu scoperta, e presa sotto un fuoco incrociato; ma proseguì nella rotta finchè, giunta al luogo d'ancoraggio della flotta turca, e constatando che questa era sicuramente difesa da reti di acciaio che rendevano impossibile un attacco, decise di ritirarsi; e la ritirata fu eseguita in perfetto ordine, senza alcun danno, e senza che il nemico osasse un inseguimento, quantunque le nostre siluranti non fossero protette da alcuna nave maggiore.
La squadriglia aveva a bordo, per pilota, uno straniero conoscitore degli Stretti, il quale ad un certo punto era stato preso da paura, e voleva che si retrocedesse; ma il Millo, puntandogli la rivoltella alle tempie, l'aveva obbligato a compiere sino al fondo l'opera per cui si era profferto ed era stato ingaggiato.

Questa complicata guerra, fra diplomatica e marittima, condotta nell'Egeo, non aveva affatto distolta dalla nostra attenzione dalla Libia; dove alcuni mesi di sosta ci avevano permesso di riordinare i nostri corpi di occupazione, rafforzandoli anche con nuovi importanti contingenti, e con mezzi intesi a renderli atti ad una serie di operazioni e spedizioni, più rapide e lontane, allo scopo di debellare i vari nuclei turco-arabi, riaffermando il nostro dominio e mostrando, alle popolazioni da cui i turchi traevano le loro reclute, la inutilità di una ulteriore resistenza.
Codeste operazioni furono iniziate con una impresa contro Misurata, che era uno dei centri della resistenza nemica e che serviva particolarmente ai turco-arabi per il contrabbando d'armi e munizioni nella Tripolitania. Un corpo di spedizione, al comando del Generale Camerana, scortato dalla divisione dell'Ammiraglio Borea-Ricci, vi effettuò uno sbarco la sera del 16 giugno, e si impadronì delle principali posizioni dopo un combattimento accanito. L'operazione ebbe poi il suo compimento l'8 luglio, con l'occupazione della città stessa, che si trovava alcune miglia all'interno, dopo un altro accanito combattimento. Il 21 luglio fu iniziata la avanzata del colonnello Fara verso il Garian, che costituiva il principale punto d'appoggio del nemico nell'interno; e il 5 agosto il generale Garioni, operando con due divisioni sbarcate dal mare, occupava, ad occidente di Tripoli, Zuara; estendendo poi l'occupazione sino alla frontiera tunisina, anche allo scopo di mettere fine al contrabbando di armi e munizioni che passava abbondantissimo attraverso quella frontiera. Il 31 agosto Caneva lasciava Tripoli e veniva esonerato dal comando supremo del corpo di spedizione; e i due comandi della Tripolitania e della Cirenaica venivano resi indipendenti sotto i rispettivi generali Ragni e Bricola; tale provvedimento venendo preso in considerazione del fatto che ormai l'unità del comando non era più necessaria, anzi avrebbe intralciata quella particolare opera di polizia militare, rispondente alla nuova fase della guerra, e che richiedeva libertà e rapidità di iniziativa.

Il generale Reisoli effettuò verso la metà di agosto alcune di queste operazioni ad occidente di Derna, provocando un grande attacco da parte dei nemico, che fu sconfitto, lasciando oltre un migliaio di morti sul terreno; e pochi giorni dopo si aveva pure una notevole battaglia a mezzogiorno di Tripoli, presso Zanzur.
Queste operazioni nella Libia si svolgevano parallelamente ai negoziati per la pace, già iniziati ufficiosamente ad Ouchy, ed erano intese, fra l'altro, a fare comprendere alla Turchia che, quale si fosse l'esito di quei negoziati, noi eravamo ben fermi nel proposito di andare a fondo in Libia a qualunque costo, fino a che la nostra autorità vi fosse stabilita e riconosciuta. E del resto queste operazioni erano pure necessarie per fiaccare la resistenza locale, che altrimenti avrebbe potuto prolungarsi anche dopo che la Turchia avesse firmata la pace.
* * *
Una terza piccola guerra, oltre a quelle di Libia e dell'Egeo, fu combattuta in un teatro più lontano, nel Mar Rosso, parte direttamente a mezzo di una piccola squadra navale nostra, e parte indirettamente a mezzo di uno sceicco arabo, Said Idriss, col quale riuscimmo ad assicurarci una specie di alleanza.
Queste operazioni nel Mar Rosso, che richiedevano un'azione tutta speciale dietro le quinte, furono sempre sotto il controllo del Ministero degli interni, e dirette da me personalmente. L'estensione della guerra nel Mar Rosso apparve necessaria e conveniente sino dal principio, per varie ragioni. Dovevamo anzitutto proteggere le nostre colonie contro qualche colpo di mano che la Turchia vi potesse tentare, se non altro per recarci qualche disturbo; ad evitare la qual cosa sarebbe però bastata la vigilanza dei nostri incrociatori e delle nostre cannoniere di stazione a Massaua. Ma vi era un altro più grave pericolo, connesso con la guerra in Cirenaica, e cioé che attraverso il Mar Rosso e il Sudan i turchi facessero passare armi e capi al Senusso, che aveva il suo quartiere generale nelle oasi di Kufra e di Giarabub.
Ad impedire questo, la vigilanza delle nostre navi, su una costa cotanto estesa, sarebbe riuscita assolutamente insufficiente; e forze maggiori di quelle di cui disponevamo in quel mare, sarebbero pure occorse per bloccare i porti della costa araba. Io giudicai che fosse mezzo di maggiore efficacia, a distogliere i turchi da tale tentativi, creare loro delle ostilità nel loro stesso territorio d'Arabia; ciò che appariva anche più agevole in quanto che Said Idriss, una specie di grande feudatario delle popolazioni che si trovano fra la Mecca e lo Yemen, era già in stato di ribellione contro le autorità ottomane, per motivi religiosi; il linguaggio e le idee occidentali adottate dai Giovani Turchi apparendo assolutamente eretiche a quegli ortodossi purissimi dell'islamismo che vivevano nei territori da dove uscì Maometto, e che furono culla della loro religione.

Ricordo che nella corrispondenza passata fra noi, cristiani, e l'Idriss, costui ci considerava come strumenti della volontà di Allah, e qualificava i Turchi di «cani infedeli», accusandoli di avere introdotte nuove divinità come il Progresso, la Civiltà, ecc. nella loro religione.
Ad annodare rapporti con Said Idriss, ci aiutò assai il Kedivé di Egitto, che in quel tempo era ostilissimo ai Giovani Turchi, di cui temeva le ambizioni e le pretese; e che mostrò, durante l'intera guerra, grande amicizia per l'Italia, in riconoscenza, egli diceva, della cortesia di Umberto I, il quale aveva accolto con cordiale ospitalità in Italia suo padre, quando era stato privato del trono e bandito dall'Egitto in seguito agli avvenimenti del 1882, alla rivolta di Arabi pascià ed all'occupazione inglese.
Suoi agenti, venuti appositamente a Massaua, riuscirono a mettersi in comunicazione, nonostante la vigilanza turca alla costa, con Idriss, il quale accolse con entusiasmo la nostra offerta di aiutare la sua guerriglia contro i Turchi. Al comando delle nostre forze navali nel Mar Rosso, fu inviato l'allora capitano di vascello Cerina Ferroni, che condusse le cose con molta capacità ed energia, insieme al tenente Rubiolo, che vi si trovava già ed aveva grande pratica di quei luoghi. Noi aiutammo Idriss con danaro; poi gli fornimmo circa diecimila fucili e munizioni, e mettemmo anche a sua disposizione tre batterie da campagna, con i loro cannonieri, per dargli modo di attaccare i turchi anche nelle loro fortificazioni, mentre poi le nostre navi bloccavano Hooded per impedire che rifornimenti di armi e munizioni arrivassero ai campi turchi, e partecipavano pure dal mare ai bombardamenti dei forti lungo la costa. Siccome Idriss mirava ad impadronirsi dei luoghi santi, scacciandone la guarnigione turca, la qual cosa avrebbe recato un grave colpo all'autorità del Sultano quale Kalifa, i turchi si allarmarono molto, e tentarono ogni mezzo per pacificarlo, o per minacciarlo e creargli difficoltà che lo forzassero a rinunciare a quell'impresa. Così pensarono di attaccarlo a tergo, suscitandogli contro l'Iman Jaja, che dominava nello Yemen; e siccome fra lo Yemen e il territorio di Idriss c'erano delle popolazioni mezzo selvagge, noi a nostra volta lavorammo a incitarle contro l'Iman Jaja, perché gli impedissero di attaccare Idriss alle spalle. A dare una idea dello stato di ignoranza affatto primitiva di queste popolazioni, ricordo un curioso episodio. Fra i nostri ufficiali che si recavano a negoziare coi loro capi, ce ne era uno che aveva un dente d'oro; e la cosa, che evidentemente esse credevano naturale, impressionò talmente queste popolazioni che accorrevano da ogni parte solo per ammirare quel dente.

Quella piccola campagna secondaria conseguì tutti gli effetti che ci eravamo proposti, e non fu nemmeno senza qualche ripercussione in Cirenaica, perché il Said Idriss, col quale eravamo alleati, era imparentato col capo dei Senussi la cui autorità dominava nell'intera Cirenaica. Più efficaci ancora furono le sue ripercussioni, di carattere morale e politico, sull'animo del governo ottomano e del Comitato «Unione e Progresso», il quale già da tempo preoccupato delle tendenze separatiste manifestate dagli arabi, tanto nell'Arabia che nella Siria e nello Yemen, temeva che questa campagna, insieme all'incapacità mostrata dal governo ottomano a difendere gli arabi della Libia, portasse ad una sollevazione generale dei dodici milioni di arabi compresi nell'Impero.
Ed anche questa campagna, nonostante i limiti modesti entro i quali era mantenuta, ci suscitò le solite difficoltà diplomatiche; il governo inglese, a mezzo del Viceré delle Indie avendo ricevute proteste dei musulmani dell'India, dell'Afganistan e perfino della Cina, nonostante che noi avessimo evitato con ogni cautela di interferire con i pellegrinaggi, guardandoci da qualunque attacco ai punti di sbarco per i luoghi santi della Mecca e di Medina.

FINE DEL DODICESIMO CAPITOLO

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