STORIA DELL'INQUISIZIONE

LIBRO IV.


La convocazione del tribunale davanti al Gran Inquisitore


Il grande inquisitore assiste alle torture in attesa delle confessioni

 

Il capo inquisitore ed il Consiglio Supremo (Suprema) - Superstizioni - La malattia del Re - Il calvario di Fra Florian Diaz - Introiti e spese del Santo Ufficio - Il tribunale - Limpieza - Confische - Multe e penali - Prebende ecclesiastiche .

 

IL CAPO INQUISITORE

IL CAPO INQUISITOREED IL CONSIGLIO SUPREMO (SUPREMA)


L'Inquisizione Spagnola doveva la sua efficacia principalmente alla sua organizzazione. I Tribunali sottomessi, dispersi nel paese, i quali avevano contatto diretto con gli accusati non erano indipendenti, ma stavano sotto la sorveglianza di un organo centrale composto dal Capo Inquisitore e dal Consiglio, brevemente detto Suprema.
Abbiamo già visto come Ferdinando ed Isabella, dopo alcuni anni di esperienze, riuscissero a far nominare dalla Santa Sede, Torquemada nella carica di Capo Inquisitore, con la facoltà di poter nominare e licenziare i suoi incaricati, ciò che gli assicurò un completo controllo sull'organizzazione.

In principio la carica di Capo Inquisitore cessava con la morte del Papa, sebbene nell'antica Inquisizione, la Bolla del 1290 di Papa Niccolò, avesse qualificato « ne aliqui » la carica. Ma questa formalità più tardi cessò e già verso la fine del Secolo XVI la nomina divenne « ad beneplacitum » cioè fino al beneplacito della Santa Sede.
Ciò che riguarda la Suprema, a quanto pare essa é stata da principio solo un'assemblea di consultazione. Le ulteriori disposizioni vennero impartite a nome del Capo Inquisitore. Quando Torquemada voleva consigliarsi, oppure quando si trattava della determinazione delle norme generali, convocava gli inquisitori ed i cancellieri, i quali discutevano la parte formale, come avvenne nel 1488 a Valladolid.
Effettivamente la decisione spettava alla Corona, poiché con un ordine supplementare nel 1485 gli inquisitori vennero istruiti di presentarsi, in casi di dubbio, davanti al Sovrano per prendere i suoi ordini. Il Capo Inquisitore era il Tesoriere dell'Inquisizione.
Col tempo però divenne impossibile che il consiglio mantenesse il suo primitivo potere. Il Torquemada già cominciava ad invecchiare, sebbene in quel tempo la Suprema decidesse ancora indipendentemente e secondo il proprio discernimento, nelle condanne, nel mantenimento degli « auto da fé »; egli disponeva tuttavia dei ricorsi e delle « consultas da fé », ma sentiva già il peso della sua carica.

Mentre Torquemada diveniva sempre più senile la Suprema diventava un organo sempre più essenziale dell'Inquisizione. Dalle istruzioni del 1498 risulta che questo organo funzionava ad Avilla, in una forma mutata, inquantochè quando sorsero questioni dubbie ai Tribunali gli inquisitori avevano l'obbligo di chiedere consiglio alla Suprema e di agire secondo le istruzioni impartite.

Con la morte di Torquemada, in mancanza della sua energica personalità la Suprema divenne ben presto il fattore decisivo della organizzazione.
I rapporti tra il Capo Inquisitore e la Suprema, si erano formati senza alcuna regola preventiva. Uno storico scrisse nel 1675 un resoconto particolareggiato dell'attività dell'Inquisizione. Egli asserisce che rimase una questione discussa se il Capo Inquisitore aveva diritto di agire da solo, senza il consenso della Suprema. Secondo l'opinione generale, però, i membri del consesso erano indipendenti e dovevano obbedienza soltanto al potere direttamente delegato dal Papa. Infatti non v'era esempio che l'Inquisizione avesse agito senza la Suprema, mentre la Suprema aveva la facoltà di agire indipendentemente.

Come abbiamo visto, ciò era un abuso formatosi in seguito ad uso invalso. Per esempio il Capo Inquisitore Mendóza, nel 1700, ne diede prova nella questione di Fra' Frolian Diaz, questione che sotto certi aspetti era uno dei casi più importanti nella storia della Inquisizione.
Carlos III, l'ultimo Absburgo, il quale può essere considerato come la dannazione di Spagna, era fisicamente e spiritualmente inetto. Un essere meno adatto a regnare, forse non ha mai occupato un Trono ed era disgrazia, tanto sua come del popolo, che egli vi fosse asceso all'età di quattro anni e che vi rimanesse dal 1665 sino al 1700, cioè per trentacinque anni, mentre il suo Impero si inabissava sempre più nella miseria e nell'umiliazione. Egli non era che un fantoccio tra le mani di qualche intrigante, donna o uomo, o di qualche astuto confessore che aspirava a dominare.

Precocemente invecchiato, quando avrebbe dovuto essere all'apice dell'età virile, sotto il peso di un male spirituale e fisico, desiderò morbosamente ed irrequieto tutto ciò che avrebbe potuto dargli sollievo. La sua prima moglie, Maria Luisa d'Orleans, morì senza figli; la seconda, Maria Anna di Neuburg, che sposò nel 1690 era ambiziosissima e dominava suo marito e, a mezzo dei suoi favoriti, tutta la Spagna. Ben presto si rese evidente la necessità di dover designare un successore da un ramo laterale della famiglia e non tardarono a presentarsi, appoggiati dai due più influenti partiti, due pretendenti al Trono, il Principe Filippo d'Enjou, nipote di Luigi XIV appoggiato da gran parte del popolo e l'Arciduca Carlo, figlio di Leopoldo I, i cui diritti venivano sostenuti dalla Regina. Era una grande disgrazia per Diaz l'essere divenuto un giocattolo tra i due pretendenti.

Nel 1698 scoppiò una rivolta a Corte. In quel tempo il Regno era governato da un Domenicano, Pedro Matilla, il quale esercitava un ascendente sulla Regina e procurava promozioni e patrimonio ai suoi favoriti, fra i quali, in primo luogo, a Don Juan Tomas, Ammiraglio di Castiglia. Carlos lo odiava ed un giorno si sfogò con Portocassero, Principe Arcivescovo di Toledo, e con un esponente del partito francese. Essi non perdettero tempo e proposero a Carlo di sostituire Matilla con un altro Domenicano, Fra' Florian Diaz, professore di teologia all'Università di Alcala. Carlos accettò di buon grado la proposta e fece venire in segreto alla Corte il Diaz che era uomo di animo sincero ed aveva trascorso la sua vita in Convento.
Quando Matílla lo vide per la prima volta nell'anticamera del Re, comprese subito di aver perduta la partita, si ritirò nel convento di Rosario e dopo una settimana lo trovarono morto nella sua cella, a quanto si diceva, di dispiacere.
Nell'Aprile del 1698, Florian Diaz occupò il seggio riservato al confessore del Re nella Suprema.
Si iniziarono immediatamente le manovre per farlo cadere, macchinazioni che egli stesso promuoveva involontariamente, inquantochè seminava discordie tra i propri confratelli Domenicani; però egli fu tanto maldestro che, alle seguenti elezioni canoniche, venne eletto a Provinciale il suo più accanito nemico, Nicolas de Torres Padmota. Il suo insensato fervore lo trascinò ben presto su sentieri ancor più scabrosi, facendo avvampare nuovamente le ostilità ed attirando desideri di vendetta.

Lo stato di salute del Re peggiorava continuamente; gli attacchi di deliquio e di crampi si susseguivano e non sembrava` che egli potesse resistere ancora a lungo. Il Capo Inquisitore Valladares portò la questione dinanzi alla Suprema, la quale però non concluse nulla in merito. Valladares morì nel 1695 ed il suo successore fu il Domenicano Juan Tomas de Raccaberti, Principe Arcivescovo di Valencia, col quale Carlos nel 1698 si consigliò in segretezza, in merito alle dicerie che attribuivano a stregoneria il male del Re e proponevano ogni sorta di rimedi. La questione venne trattata di nuovo dalla Suprema, la quale però ritenne la faccenda tanto pericolosa, che non osò intromettervisi. Quando Diaz divenne membro della Suprema, Roccaberti si rivolse a lui ed egli promise il suo appoggio.
Ma non vi era traccia che potesse giustificare un'istruttoria, finché Diaz casualmente non venne a conoscenza che nel Convento di Monache di Canges (Oviedo), diverse Monache erano state aggredite dal Diavolo, e dalle quali il suo ex compagno di scuola, Fra' Alhanes de Arguelles, stava scacciando ora il Diavolo stesso. Da secoli era divulgata la credenza che da coloro che erano assaliti dal Diavolo, scacciandolo con esorcismi praticati da ecclesiastici, si potevano apprendere cose superiori alla mente umana. Siccome nel Medio Evo erano diffusi i sofismi dell'universo spirituale, che era considerato la fonte di tutte le sapienze, simili pratiche erano permesse dalla Legge, come indagini scientifiche.

Florian Diaz dunque non fece che applicare una modalità ammessa dalla Legge, quando questa dichiarò che bisognava affidare ai Diavoli di Canges la diagnosi della malattia del Re, ciò che secondo lui avrebbe significato un passo verso la guarigione. Roccaberti afferrò avidamente la proposta ed indicò per questo scopo il Vescovo Domenicano. Ma il cauto Prelato si tirò in disparte, quando si trattò di avventurarsi in un campo così pericoloso e perciò si dichiarò contrario al progetto. Díaz allora si rivolse ad Arguelles, il quale pure dapprima non volle saperne dell'incarico, ma più tardi acconsentì, a condizione di potei esibire un ordine scritto del Capo Inquisitore. Così dunque il Roccabertí scrisse un ordine, il 18 Giugno, che venissero scritti su due pezzi di carta separati i nomi del Re e della Regina e, nascondendo queste carte nel seno, venissero interrogati i demoni se l'uno o l'altro soffrissero di stregoneria.
Il Demone servizievole giurò su tutti i santi che il Re sarebbe stato stregato, fin dal suo quattordicesimo anno, allo scopo di renderlo inetto ed incapace a regnare. Con ciò Arguelles intendeva ritirarsi dalla faccenda, ma Roccaberti e Diaz insistevano, perché egli ottenesse più ampie informazioni e dei rimedi contro la stregoneria. Il 3 Settembre del 1675 il rimedio venne somministrato alla Regina Madre, in una tazza di cioccolata, allo scopo che essa non perdesse il suo potere. Il farmaco magico venne ottenuto dalle membra di un morto, ripulite con l'Olio Santo, appositamente per la Regina, con l'aggiunta di un lassativo.
Carlos invece fu spogliato interamente, unto dappertutto di olio, gli fu somministrata una buona dose di purgante, mentre si pronunciavano incessantemente delle preghiere, ciò che non diede altro risultato che il completo esaurimento del Re.

Per un anno fu sostenuta la corrispondenza coi Diavoli, i quali rispondevano alle lettere, con una circospezione del tutto particolare, mentre qualche volta erano evasivi e contraddittori. Una volta sostenevano che il Re era stato stregato, mentre in un'altra occasione, il 24 Settembre 1694, i Demoni asserivano che era una bugia quello che avevano detto prima e che Carlos non era stato stregato. Anche circa le streghe colpevoli vennero in contraddizione, diedero il loro nome ed indirizzo, ma non fu possibile ritrovare le loro tracce, nonostante le più accurate indagini. In questi tristi tempi le sorti della Spagna dipendevano molte volte dalle asserzioni di qualche donna isterica, che il giorno seguente negava generalmente tutto quanto aveva sostenuto il giorno prima.

Le cose giunsero ad un tal punto che l'Imperatore Leopoldo I comunicò ufficialmente le accuse di una donna viennese, aggredita dal Diavolo, contro una strega di nome Isabel, la quale venne però cercata invano; inoltre inviò a Madrid un famoso esorcista, Fra' Maure Tenda, il quale nel segreto esorcizzò per dei mesi il Re, col risultato di aggravare il suo stato di salute.
Nel frattempo il cielo della Spagna si annuvolava. La Regina era furiosa per l'insuccesso politico e per essere stata costretta a divorziare dal marito e la sua ira si accrebbe, quando apprese della seconda stregoneria, che venne addirittura attribuita a lei. Un mese dopo che ella era venuta a conoscenza del fatto, Roccaberti morì in circostanze sospette, ma con ciò non si calmò il rovello della Regina, poiché poco tempo dopo si trovarono tre « andemoniados » a Madrid, i quali confermando le voci circolanti, riaffermarono i sospetti su di lei e su sua suocera. Le furie della Regina non conobbero più limite ed essa giurò che avrebbe rovinato Fra' Florian, mentre l'Inquisizione offriva i propri servigi, disponendo dei mezzi più adatti a questo scopo. Cercò di persuadere Carlos di nominare al posto resosi vacante con la morte di Roccaberto, Fra' Antonio de Cordona, fratello dell' ammiraglio di Castiglia, Don Juan Tómas.
Il Re però era deciso ad andare a fondo nell'istruttoria, nominò il Cardinale Alonzo de Aguilar e chiese subito una commissione papale. Aguilar chiamò a sé il più anziano membro della Suprema, Lorenzo de Folen de Cardona, fratellastro di Antonio e gli comunicò che tutti gli indizi indicavano colpevole l'Ammiraglio, il quale doveva essere arrestato subito ed i suoi scritti sequestrati. Le preoccupazioni della Regina si accrebbero, di giorno in giorno. Aguilar fu colto da leggero malore, gli venne applicato un salasso, ma dopo tre giorni era morto. Il sospetto era maturo, ma non vi erano prove.

In quei tempi Carlos era già tanto indebolito, che la Regina invitò come consigliere Mendoza, Vescovo di Segovia, col quale ben presto si intese e Mendoza le promise anche di soddisfare la sua sete di vendetta, in compenso del Cappello Cardinalizio.
Il primo accusato era l'esorcista austriaco, Fra' Tenda, il quale venne arrestato nel 1700, per diverse cose sospette. Egli durante la istruttoria narrò particolareggiatamente le azioni delle indiavolate donne di Madrid, azioni commesse in presenza di Florian e venne condannato all'esilio. Indi seguiva l'istruttoria di Florian, il quale però non volle deporre senza il consenso del Re, avendo agito per diretto ordine reale, con l'obbligo dell'assoluta segretezza.

Nel frattempo il Provinciale dei Domenicani, Torres Padmota, approfittando della sua carica, ottenne da Arguelles de Cangar le lettere di Florian, in base alle quali sollevò immediatamente accusa dinanzi alla Suprema, contro il Florian, in nome dell'Ordine; Florian si scusava adducendo di aver agito per ordine di Roccabertí e su sollecitazioni del Re, ciò che venne confermato anche da Aquines ed altri medici.
Mendoza comunicò alla Suprema che si era costituita una seria accusa contro il Florian, ma che, senza il consenso del Re, non si sarebbe potuto denunciarlo. Carlos resistette dapprima, ma poi cedendo alle pressioni della Regina e di Mendoza, sostituì il Florian con Torrez Padmota.

Avvilito, stordito ed incapace a reagire, Florían obbedì all'ordine di Mendoza e si accinse a ritirarsi nel Convento Domenicano di Valladolid; ma, strada facendo, cambiò idea e riparò a Roma. Il Re scrisse immediatamente al Principe Aceda, Ambasciatore di Spagna a Roma, ordinando l'immediato arresto di Florian, essendo egli accusato dall'Inquisizione, stato che non ammetteva ricorso a Roma. Nel contempo vennero informati i Tribunali di Barcellona e Mercía di imprigionarlo nelle carceri segrete, non appena fosse ritornato in Spagna; infatti Florian venne costretto a ritornare e sbarcò a Cartagena, dove il Tribunale di Mercia lo fece segregare.

Seguì quindi una accanita lotta per il potere nella Suprema. Mendoza ottenne il consenso dei membri alla nomina di speciali censori, i quali avrebbero avuto il compito di esaminare l'accusa e le prove. Vennero incaricati cinque teologi i quali dichiararono all'unanimità che il 23 Giugno1700 non era stata lesa in alcun modo la Fede; quindi la Suprema, ad eccezione di Mendoza, votò il rinvio della questione, che equivaleva alla condanna. L'8 Luglio, Mendoza firmò l'ordine di arresto, che sottopose alla firma degli altri membri, i quali però lo respinsero all'unanimità.
Allora il Mendoza li invitò uno per uno nella propria camera, esortandoli, ora con preghiere, ora con minacce, alla collaborazione. Infine dichiarò che avrebbe fatto valere ad ogni modo la sua volontà, entro un'ora ordinò a tre membri della Suprema di considerare come un carcere la propria casa, e minacciò pure il Tribunale di Madrid.
L'unico membro che tollerò fu Folck de Cardona, perché suo fratellastro Antonio, Arcivescovo di Valencia, era particolare favorito della Regina.

Il Consiglio di Castiglia intervenne, con una consulta, nella quale venne fatto presente al Re che i membri erano stati arrestati senza interrogatorio, soltanto perché si attenevano alle leggi ed alle usanze del Santo Uffizio.
La Regina era impressionata e sollecitò Mendoza ad essere cauto, ma questi la rassicurò che non vi era altro modo di soddisfare i suoi desideri. Mendoza nel frattempo inviò tutti gli atti al Consiglio di Mercia, con l'ordine di porre sotto accusa il Florian e di comunicargli poi la deliberazione. I giudici istruttori rilasciarono Florian, ma Mendoza ciononostante fece portare a Madrid il Frate, facendolo rinchiudere in una cella della clausura Domenicana di Nuestra Senora de Atocha. Qui vi soffrì per quattro anni, separato dal mondo, tanto che non si trovò nemmeno della sua esistenza; sino a che il Consiglio trovò dei giudici, i quali, senza alcuno scrupolo di coscienza, lo dichiararono sospetto di eresia.

Carlos morì il 1° Novembre 1700 e designò nel suo testamento, come successore, Filippo d'Anjou.
Fino all'arrivo di Filippo in Spagna la Regina ebbe la reggenza e Mendoza, il quale era partigiano dell'Austria, venne confinato alla sua Sede di Segovia, ma nemmeno questo alleviò la posizione di Florian.
Il partito Domenicano dell'Inquisizione ritenne offensivo il procedimento contro Florian e pose sotto accusa Mendoza. Questi però, secondo le tradizioni dell'Inquisizione Spagnola, ricorse alla Santa Sede. Papa Clemente si rallegrò molto di questa resa dell'indipendenza spagnola e rinviò la questione alla Congregazione. Mendoza rispose che, essendo stato confinato per motivi politici, non era in grado di presentare tutti gli atti, ciò che non era vero, poiché li portava sempre con se. Egli inviò un agente a Madrid e fece compilare un memorandum, nel quale si beffava la Suprema chiamandola proclive all'eresia, superstiziosa e feticista. Questo documento fu scritto come risposta preventiva ad un rapporto fatto da Folk de Cardona, nel quale quest'ultimo asseriva che il Capo Inquisitore decisamente disponeva del diritto di voto, mentre alla Suprema non era più concesso.
Inoltre Cardona cadeva nell'errore, volendo dimostrare a tutti i costi che le persone aggredite dai demoni erano nel contempo degli eretici. Ciò non piacque al Nunzio, il quale dichiarò apertamente che il Cardona era pazzo da legare e cercava di suscitare scandali. Infatti il suo memorandum, che fece stampare a proprie spese, venne condannato da tutti e Maria Luisa Gabriella di Savoia, la quale nell'assenza di Filippo era reggente a Napoli, lo congedò dalla sua carica. Nello stesso tempo la Suprema informava tutti i Tribunali di aver sospeso tutti gli ordini di Mendoza.

Mentre infuriavano tutte queste discussioni, il povero Florian giaceva dimenticato nella sua cella sotterranea.
La decisione dipendeva effettivamente dal Re, ma Filippo. durante le guerre di successione, aveva troppe urgenti cure, per mettere a prova il suo nuovo potere sovrano con simili cose. Del resto la questione di Florian si avvicinava già alla sua conclusione, quando un'audace dichiarazione, fatta da due Ecclesiastici di alto rango, ne provocò un altro leggero rinvio. Infatti i due Prelati, mentre uscivano dalla sala del Trono, osarono dichiarare che l'Inquisizione si era resa ormai superflua. I pochi superstiti partigiani degli ebrei ed eretici avrebbero potuto essere giudicati dai Vescovi e anche la questione di Florian Diaz avrebbe potuto essere risolta dal suo Vescovo. Con ciò si sarebbe abolita l'enorme spesa assorbita dal mantenimento del Santo Uffizio.

La proposta rivoluzionaria era appoggiata, fra l'altro, anche dalla Principessa Ursines; tuttavia Filippo la respinse, dando prova indubbiamente di grande saggezza, poiché, sebbene egli personalmente sarebbe stato d'accordo, l'incerta base della sua sovranità non gli permetteva di arrischiare una simile innovazione.
L'Ammiraglio di Castiglia era un fuggiasco portoghese e da ciò si spiega la sua resistenza rispetto il parere di Filippo. Mendoza, come era noto, apparteneva al partito austriaco, così Filippo col tempo decise ugualmente contro di lui. Il 27 Ottobre chiamò a sé Cardona, col quale si consigliò segretamente, consiglio che fruttò un documento il quale avrebbe dovuto esser munito della firma reale. Il 3 Novembre venne letto un ordine alla Suprema col quale venivano ripristinati nei loro seggi i membri « jubilados ». Ciò venne seguito il 7 Novembre da un decreto diretto a Mendoza che ingiungeva a lui ed ai suoi successori di rispettare i membri della Suprema, poiché questi esercitavano la Giustizia Reale ed erano autorizzati a dare voti decisivi.

Venne inoltre ordinato a Mendoza, sotto pena di espulsione dal Regno, di consegnare entro settantadue ore i documenti relativi alla questione di Florian Diaz e di interessarsi se il Domenicano era ancora vivo o morto. La Suprema, con deliberazione unanime del 19 Novembre, assolse il Florian da tutte le accuse, restituendogli il Seggio nel Supremo Consiglio, gli fece liquidare tutti gli stipendi arretrati, inoltre gli assegnò la Cella del Convento di de Rosario che era riservata ai confessori reali, dalla qual carica era stato scacciato tanto ingiustamente.

Florian Diaz venne dunque riammesso con tutte le regole alla Suprema. Per compensarlo delle sue sofferenze Filippo gli donò la Sede vescovile di Avile. Tuttavia egli non era persona grata a Roma e Papa Clemente gli negò la conferma, adducendo che avrebbe dovuto esaminare gli atti, prima di decidere, se la sua assoluzione era giusta o meno.
Ma anche Filippo non cedette e dopo la morte di Florian non voleva più assegnare il seggio vescovile che rimase vacante dal 1705 sino a che non venne nominato Julian Cano y Tovarrel.

Mendoza venne costretto a dare le sue dimissioni dalla carica di Capo Inquisitore ancora nel 1705 e quando Filippo fuggì a Burgos, Mendoza e l'Ammiraglio vennero arrestati con altri e tradotti assieme alla Regina Madre a Bayomo come traditori. Mendoza, naturalmente, non ottenne l'agognato cappello cardinalizio, ma sopravvisse al suo rammarico sino al 1727 come pacifico possessore del suo Seggio Vescovile.

In quei tempi, a quanto pare, la Suprema aveva adottato il sistema di affidare le cause a due relatori, riservandosi a decidere in base al loro parere.

* * *

Quando nel 1629 si trattava di organizzare la Suprema, Filippo IV invitò Castaneda di presentargli un esatto resoconto relativo alle paghe, alle spese delle corride e della illuminazione. nonché delle spese inerenti al mantenimento dei tribunali. La Suprema, come. al solito, tergiversò e credette di dover rispondere soltanto che il Capo Inquisitore godeva di una rendita di 500.000 maravedi, il Conego de la tarde, da 166 a 660, il Segretario Reale ed il Tesoriere 200.000 maravedi ciascuno.
Siamo riusciti a rintracciare un esatto resoconto degli onorari della Suprema, dal quale risulta che l'onorario ed i proventi straordinari del Capo Inquisitore ammontavano a 452.920 maravedi, mentre i membri ordinari ne ricevevano la metà. Naturalmente in quei tempi il valore d'acquisto del danaro era notevolmente diminuito, tuttavia ciò non giustifica l'enorme lusso sfoggiato in ogni occasione dalla Suprema e dai suoi dipendenti.

Anche il Re partecipava nei proventi delle propines e luminarias, nella doppia misura del Capo Inquisitore. Nel 1679 e 80 vennero spese 687.726 maravedi per le corride, per le feste di San Isidoro e SantAnna, nonché agli « auto da fé » Sacramentalis Corpus Cristi. Si rileva da documenti dell'epoca che una corrida costava circa 131.275 ed un « autodafé » circa 144.976 maravedi.
La Suprema non era affatto schifiltosa nella scelta dei mezzi per aumentare i propri proventi. Nel 1659 la nascita dell'Infante Ferrando Thomas diede occasione a decretare due speciali propine e cinque speciali luminarias. Ma non era parca nemmeno nella retribuzione straordinaria dei propri dipendenti. Nel 1670, per esempio, fece votare una rendita annua di 4.00 ducati come dote a Donna Juana Fita y Ribera che era, a quanto pare, la nipote del Segretario dell'Inquisizione.
Nello stesso tempo la Suprema provvedeva con larghezza alle distrazioni ed ai divertimenti dei propri membri, incurante della terribile provenienza dei mezzi devoluti a questo scopo che venivano carpiti con confische ed ammende, con le quali mandarono in completa rovina migliaia di fiorenti famiglie. Col motto « Exurge Domine et vindica causam tuam » i Tribunali da un lato privavano dell'onore, della vita e del patrimonio le persone ritenute colpevoli, dall'altro ponevano la massima cura a divertire il popolo nelle occasioni festive.

Vediamo un po' l'amministrazione interna del Santo Uffizio. Per la corrida del 3 Giugno 1690 si spendettero 267 reales, ma bisogna aggiungere che il trattenimento venne tenuto nel Palazzo del Buen Retiro pagando un noleggio di 4400 reales per l'uso dei balconi. Questo é solo un esempio del continuo sciupio di danaro praticato dalla Suprema allo scopo di far divertire i propri membri. Queste spese non si limitavano alle corride ad agli « auto da fé ».
Nel 1690 la Suprema pagò 3300 reales per l'uso dei balconi sulla Calle Mayer donde assistevano al festoso ingresso della nuova Regina, Maria Anna von Neuburg.
La Suprema non avrebbe potuto largheggiare di mezzi se non avesse avuto dei proventi permanenti e notevoli. Non solo i Tribunali dello Stato contribuivano abbondantemente alle necessità della Suprema, ma anche le colonie lo facevano. Messico e Lima pagavano 10.000 ducati all'anno e talvolta anche più. Anche da Cartagena de los Indias inviarono più di 100.000 pesos all'anno all'Inquisizione.

D'altra parte però le rendite della Suprema venivano seriamente intaccate dai contributi alle spese di guerra, comminati per Decreto Reale. Solo dopo le guerre napoleoniche il fallimento dello Stato diminuì notevolmente la sostanza patrimoniale dell'Inquisizione.
In contrasto con gli splendidi onorari il Consiglio lavorava solo tre ore al giorno, al mattino, mentre Martedì, Giovedì e Sabato tenevano una seduta di due ore nel pomeriggio. Originariamente le sedute del Consiglio venivano tenute nell'appartamento del Capo Inquisitore, finché sotto il Regno di Filippo IV acquistarono il Palazzo del favorito condannato, Rodrigo Calderon e così il Santo Ufficio ebbe la sua sede permanente.

IL TRIBUNALE


L'Inquisizione durante la sua attività era rappresentata dinanzi al popolo dai tribunali locali. Il Capo Inquisitore e la Suprema si tenevano appartati e non avevano contatto diretto con il pubblico.
Diversa era la questione degli inquisitori i quali potevano ordinare l'arresto e la segregazione in carceri segrete di qualsiasi persona altolocata, nonché procedere al sequestro del patrimonio ed all'inflizione di gravi ammende. Era naturale dunque che gli uomini investiti di tali poteri emanassero dappertutto terrore con la sola loro presenza. Essi erano gli agenti visibili del Santo Uffizio, gli esponenti della sua universale autorità, avevano il diritto di chiamare in aiuto la potente organizzazione e rispondevano esclusivamente ai propri superiori diretti. Il Tribunale stesso dove giudicavano sulla vita e sul patrimonio di tutti coloro che ritenevano opportuno sottoporre al loro giudizio, dinanzi al quale non si poteva che comparire col massimo terrore, non essendo mai sicuri che una parola mal ponderata o la denuncia di qualche nemico non facesse andare sul banco d'accusa, era organizzato con la massima semplicità.

Nel 1481 due Frati Domenicani con un giureconsulto ed un avvocato che rappresentava l'accusa formavano a Sevilla un Tribunale ed il loro raggio d'azione in pochi anni si estese enormemente.
Nelle epoche successive si fecero diversi sforzi per ridurre il numero enormemente accresciuto dei funzionari però sempre con esito negativo e nemmeno l'intervento del Re e del Papa valsero a migliorare la situazione.
Era impossibile liberarsi da coloro che avevano comprato per danaro un seggio vitalizio. Nel 1677 Valladares fece rapporto a Carlo che gli introiti dell'Inquisizione non coprivano nemmeno la metà delle spese perciò proponeva che le cariche che si rendessero vacanti in seguito non venissero più assegnate ad alcuno, e che il maggior Tribunale non potesse avere più di tre inquisitori in funzione.
Il Re approvò la proposta e qualche carica superflua venne soppressa. Ma, come tutte le riforme, nemmeno questa aveva carattere stabile.

Non mancavano neppure le tendenze per assicurare un ordinato e disciplinato lavoro dei tribunali sebbene i buoni intendimenti fossero stati ostacolati dall'eccessiva autorità concessa agli Inquisitori e dalla troppa indulgenza praticata nei confronti di alcuni colpevoli.
Era merito di Isabella di aver riformata la Giustizia nella Castiglia, delegando di tempo in tempo dei severi ed incorruttibili ispettori ai singoli Tribunali per il controllo della loro attività. Questi erano nominati dal Capo Inquisitore in base alla designazione del Sovrano. Col tempo però cessarono queste sistematiche ispezioni ed il controllo venne applicato soltanto nei casi in cui si presentava una particolare necessità.

A Barcellona vi erano parecchi guai poiché il popolo indisciplinato non ubbidiva ai Tribunali. Il compito dell'Ispettore era tutt'altro che facile se esso voleva fare in coscienza il suo dovere. Quando Medina Rico venne inviato nel 1604 come Ispettore al Messico, dove era evidente il cattivo funzionamento della Giustizia, egli citò ad interrogatorio giudiziario gli inquisitori Estrada e Higaera, sospendendoli dalla carica che occupò poi egli stesso per degli anni.
Il Palazzo e lo stabile Comunale dove funzionavano i Tribunali, era suddiviso nel cosiddetto Secreter e negli appartamenti esterni. Esso aveva il compito di dare alloggio agli inquisitori e se vi era spazio sufficiente anche agli altri incaricati.
Le parti più importanti erano le cosiddette « Carcerese Secretas » ossia le carceri segrete, dove tenevano rinchiusi gli accusati che in caso di necessità potevano essere portati nella Sala di dibattito, senza che alcuno li vedesse. Vi era naturalmente anche una camera di tortura interamente sotterranea. Una parte caratteristica della sala di dibattito era la cosiddetta « Celosia » dietro la quale il teste poteva constatare l'identità dell'accusato senza che quest'ultimo lo potesse vedere o riconoscere.

Con la bolla del 1478, Papa Sisto autorizzò Ferdinando ed Isabella di attribuire le cariche di inquisitori a tre Vescovi, od altre persone degne, ecclesiastici o frati i quali avessero superato il quarantesimo anno di età, fossero devoti a Dio, di carattere nobile, dottori in teologia o per lo meno versati nelle leggi canoniche. Il limite di età di quarant'anni era già stabilito da molto tempo, e considerate le prerogative necessarie era ben ben determinato. Quando Sisto nel 1483 voleva liberarsi dell'inquisitore Gualbas pregò Ferdinando di sostituirlo con qualche professore di teologia che fosse devoto a Dio e godesse la stima generale per le proprie virtù.
Gli inquisitori che fungevano in Spagna erano domenicani e sebbene ciò non fosse esplicitamente pattuito era ritenuto naturale che l'Istituzione rimanesse tra le loro mani. Ma Ferdinando durante il suo alterco con Sisto circa il controllo dell'Inquisizione dell'Aragona cozzò contro il dovere di obbedienza dei Frati verso il loro Generale, che naturalmente era devoto alla Santa Sede. Quando Innocente VIII il 3 Febbraio del 1485 rinnovò l'incarico di Torquemada parlava già nelle formule di qualifica di Latrades, cioè di persone ecclesiastiche adatte alla carica d'inquisitori i quali dovevano essere dotti, devoti a Dio e sia dottori in teologia sia dei Canonici e per semplificare la casa non si rimase rigidi sul precedente limite di età, ma si fissò il minimo limite in trent'anni.
Così le cariche del Santo Uffizio vennero aperte anche ai laici che non indugiarono a nominare sino a che essi rimanevano celibi; però non appena si ammogliavano dovevano dare le dimissioni.

La Suprema sorvegliava sempre la moralità degli inquisitori, riconoscendo le innumerevoli tentazioni alle quali essi erano esposti durante lo svolgimento della loro attività. Fra le altre cose che gli Ispettori chiedevano ai nuovi inquisitori, essi domandavano sempre se avessero condotto una vita onesta, se non avessero tenuto pubblicamente un'amante o oltraggiato le donne arrestate, le moglie e le figlie dei detenuti e se avessero sempre rispettata la memoria dei morti.
La visita dell'Ispettore era congiunta ad una certa cerimonia e pompa. Prima che egli raggiungesse la città veniva inviato un messaggero per annunciare il tempo del suo arrivo ed allora le autorità civili ed ecclesiastiche nonché le notabilità gli andavano incontro, per accompagnarlo alla sua residenza.
Il Segretario del Tribunale veniva incaricato di curare la pulizia e di provvedere ai particolari del ricevimento. In questi casi la mancanza di rispetto verso l'Ispettore veniva severamente punita. Nel 1564 quando il dottor Punta visitò le Sedi Vescovili di Gerona ed Elne trovò chiusi i cancelli di Castellon de Ampurias ed uno dei guardiani afferrò le redini del suo cavallo. Vennero immediatamente denunciate le autorità locali, ma i consoli provarono la loro innocenza, mentre furono dichiarati colpevoli i due guardiani e rinviati al Tribunale di Barcellona.

Dove vi erano tre inquisitori l'assenza di uno non costituiva ostacolo all'andamento del lavoro, ma là dove ve n'erano solo due ciò significava già un serio inciampo. Da principio era stabilita la regola che due Ispettori dovevano decidere assieme nelle questioni importanti, come per esempio le torture, la escussione delle prove, ecc.
La persona più importante accanto agli inquisitori era il « Promotor fiscal » ossia un Giudice accusatore. Nella forma originale dell'inquisizione del XIII secolo non esisteva una simile carica ed il procedimento aveva una maggiore impronta di onestà che non col nuovo sistema, con il quale si cercava di dare ad intendere che nell'interesse dell'accusato la causa si sarebbe svolta tra giudice accusatore ed accusato, con la sentenza imparziale promulgata poi da gli inquisitori.
Anche i cancellieri e segretari avevano una parte importante, inquantoché essi dovevano compilare i verbali dei processi, le escussioni dei testi, con tutte le domande e risposte coi maggiori particolari ed infinite ripetizioni che nei sistemi intricati e tortuosi del procedimento si sviluppavano ad una mole addirittura fantastica.
I minori incaricati del Tribunale erano il Mucio il portiere, il carcelero, o alceide de las secretas. Il Mucio era, in realtà, un corriere o messaggero che portava i messaggi alla Suprema o ad altri tribunali, prima che si fosse costituito l'ufficio postale. Il suo mestiere doveva essere molto faticoso. Del carceriere vi era gran bisogno presso i tribunali che disponevano di proprie carceri. Come abbiamo visto da principio questa carica era rivestita dall'Alguasil, i cui incaricati non contavano come dipendenti dell'Inquisizione. La carica di carcelere figura per la prima volta sulla lista del 1499 dove appare Juan de Meyat, come carceriere del Tribunale di Barcellona. Il carcelere doveva essere abbastanza autorevole poiché Ferdinando nel 1515, ritenendo necessario di porre sotto sorveglianza le carceri, autorizzò i tribunali di assumere dei carceleres con uno stipendio di 500 sueldos.

Le carceri quasi sempre affollatissime erano molto malsane e perciò si rese necessaria l'assunzione d'un medico ufficiale, i cui servizi erano indispensabili anche perché prima e dopo la tortura bisognava visitare l'accusato, come pure nei frequenti casi di improvvisa alienazione mentale. Siccome i doveri del medico cadevano entro i sacri limiti del segreto, egli doveva essere una persona degna di fiducia la quale come tutti gli altri incaricati doveva fare il voto di segretezza. Era indispensabile anche il Cappellano, ma non per i prigionieri, ai quali negavano la somministrazione dei sacramenti, ma perché il lavoro giornaliero incominciava sempre con la messa.

Nonostante le continue lamentele la retribuzione del personale dell'Inquisizione non doveva essere molto scarsa, per lo meno non durante il primo secolo e mezzo della sua esistenza. Infatti tra le spese figuravano delle voci come, pagamento degli affitti, illuminazione, spese delle corride ed in molti casi le spese di lutto.
L'aiuda de coste, della quale si sentiva tanto parlare, era il più o meno notevole aumento delle paghe, una rimunerazione particolare o semplicemente un'elargizione. Quando non figurava un'aiuda permanente vi era sempre qualche avvenimento che dava l'occasione alla Suprema di liquidare i compensi secondo il proprio discernimento.
Per poter tener in ordine l'enorme quantità di atti la Suprema ordinò nel 1566 e 1572 che fossero messi a disposizione quattro locali nella camera del secreto uno per affari in corso, uno per quelli sospesi; uno per il materiale pronto ed infine il quarto per gli atti relativi alla « Informacienes de limpiesa ».
Dal 1633 si dovette compilare una scheda particolare di ogni accusato, con la data e col breve sunto della causa. Queste schede fornivano poi la traccia alle indagini fra i parenti ed i conoscenti dell'accusato. Fra tutte queste formalità, assunse le maggior proporzioni quella delle indagini di limpiesa, cioè della purezza del sangue da infiltrazioni ebree, che assurse ad una vera e propria mania e come vedremo in seguito non si risparmiò alcuna classe sociale, dimostrandosi per un affare proficuo, poiché l'Inquisizione era chiamata a decidere nelle questioni inerenti e le sue annotazioni erano le prove.

Queste annotazioni si svilupparono un po' per volta in un enorme archivio che dava le più ampie informazioni sugli eretici, su quelli sospetti e sulla loro parentela. Secondo le istruzioni del 1561, quando un arrestato veniva interrogato era uno dei primi compiti il raccogliere precisi dati sui suoi genitori, progenitori, fratelli, sorelle, zie, zii, dei figli di questi e vedere se tra questi non vi fosse stato qualcuno già prigioniero dell'Inquisizione o comunque punito o colpito di ammenda.
Quando l'accusato era già tanto vessato, che senz'altro abbracciava la Religione Cattolica, implorando pietà, la sua deposizione non era accettata finché egli non avesse reso conto di ogni altro eretico, sia parente sia estraneo, del quale egli avesse conoscenza o sentore, specificando tutte le loro colpe.
Tutto ciò veniva registrato e rubricato con la massima cura finché queste annotazioni riuscirono a fornire un elenco quasi completo di tutti gli elementi sospetti della Spagna. Un ebreo arrestato a Granada, poteva eventualmente compromettere altri venti ebrei che vivevano dispersi da Campostella a Barcellona e fra questi ciascuno che veniva arrestato a sua volta diventava una nuova fonte di informazione, cosicché il contatto tra i singoli Tribunali rese possibile raccogliere man mano tutti i dati che potevano interessare. Questo aumentava in modo grandioso l'efficacia dell'Inquisizione e lasciava ben poca
possibilità di sfuggirvi. Le cause svoltesi nel Secolo XVI, quando questo sistema, si può dire, era già perfezionato, dimostrano che sebbene l'arresto di qualche accusato facesse disperdere i complici l'Inquisizione era sempre sulle loro tracce e non giovava cambiare nome e domicilio.
L'astuzia umana difficilmente avrebbe potuto escogitare un sistema più perfetto per troncare immediatamente ogni tendenza avversa all'Inquisizione.

LA "LIMPIEZA"


Abbiamo ripetutamente parlato della « limpieza », ossia della purezza del sangue che si esigeva da ogni dipendente dell' Inquisizione. Questo era uno dei più notevoli sviluppi del fanatismo ed ebbe una tale influenza sull'ordine sociale della Spagna da meritare un più accurato esame.
Le prime tracce di questa esclusione sociale le ritroviamo nella « Sentencia Estatuto » di Toledo nel 1449, dove ogni converso, venne privato della sua carica pubblica come sospetto nella sua fede. Una reazione la troviamo nella Bolla di Nicolò V, che stigmatizzò un simile procedimento contrario allo spirito di cristianità e vietò là differenziazione fra antichi e nuovi Cristiani, confermando la legislazione di Alfonso X, Enrico III e Juan II.
Ma gli spagnoli non se ne dettero per inteso, poiché nel 1473, costituirono a Cordova la « Fratellanza » sotto il pretesto dell'amore fra Cristiani, escludendo severamente dall'associazione ogni converso ciò che portò più tardi a sanguinosi conflitti e disordini. Può darsi che questo sia stato il motivo che spinse Carillo, Vescovo di Toledo a convocare un Sinodo provinciale ad Alcalà dove condannò solennemente ogni alleanza di fraternità che provedesse il giuramento di non assumere convertiti. Il Prelato dichiarò nullo ogni giuramento fatto in questo senso, assolvendo dal loro voto coloro che avevano giurato.

Era alquanto ridicola l'istruzione che diede a questo riguardo la corporazione dei muratori di Toledo composta principalmente di mudejari i quali vietarono nel 1841 ai propri associati di insegnare la loro arte ai convertiti. Nell'anno seguente venne promulgato a Guipozcoa uno statuto ancor più severo, che vietava ai convertiti di stabilirsi in quella regione e di contrarre matrimonio con donne di quella popolazione.
Il primo riconoscimento ufficiale di questa divisione fra vecchi e nuovi Cristiani era la bolla di Sisto IV del 1483, la quale ordinava che gli Inquisitori dovevano essere antichi Cristiani.
Un altro avvenimento ebbe ancora più effetto sull'avvenire, quando nel 1485 venne organizzata l'Inquisizione temporanea e si ritrovò fra i Frati della Clausura di Guadalupe un ebreo che viveva là già da quarant'anni, senza essere battezzato.
Il fatto di averlo bruciato al rogo immediatamente dinanzi alla porta principale del Convento, non calmò la preoccupazione che anche altri eretici avessero potuto trovare rifugio nel Convento. Venne affisso subito un decreto che nessun discendente di ebreo doveva varcarne la porta. Sorsero infiniti consigli e discussioni. Il decreto venne ritenuto in contrasto con la Bolla di Niccolò V del 1449. Già si preannunciava una violenta bufera e questo indusse Ferdinando ed Isabella a ricorrere all'intervento di Papa Innocente VIII. Questi però schivò di dare una risposta ed incaricò l'Arcivescovo di Sevilla ed il vescovo di Cordova di cambiare o mitigare il decreto secondo il loro discernimento. Ciò venne considerato come una prova a conferma del nuovo ordinamento e si sparse la voce che la Santa Vergine di Guadalupe si fosse rallegrata tanto del fatto da compiere alcuni miracoli.

Il seguente caso era particolare e significativo. Quando Torquemada fondò l'ordine di San Tommaso d'Aquino, era preoccupatissimo che i convertiti, che egli odiava tanto, potessero presentarsi all'assunzione. Perciò si rivolse nel 1495 a Papa Alessandro VI per un decreto che vietasse a chiunque discendente diretto od indiretto di ebrei di farsi assumere, senza il particolare permesso del Decano, alle Università. I Decani, naturalmente, si misero prontamente a disposizione di Torquemada, tanto più che erano minacciati, di scomunica. In questa corrente sempre in aumento di persecuzioni, é da notarsi un'eccezione. Non vi era un più fervente ed inesorabile difensore della Fede di Ximenes, il quale alla fondazione dell'Università di Alcele non fece eccezione con i convertiti. Nello Statuto elaborato con ogni cura, che precisava i requisiti per l'iscrizione non si trova una parola che il sangue ebraico o moro fosse un impedimento. Indubbiamente questo era un fatto di eccezione di fronte al decreto di malafede della Suprema, quando nel 1522 venne vietato alle Università di Toledo, Salamanca e Valladolid di conferire il titolo di dottore ad ebrei convertiti e a figli e nipoti di persone condannate dall'Inquisizione.

Il passo seguente fu intrapreso dai Francescani nel 1525, i quali ottennero un breve da Papa Clemente VII, secondo il quale nessun frate e sacerdote di origine ebraica poteva essere rivestito di alcuna carica in Spagna ed in seguito questi individui non dovevano essere assunti in alcun ordine religioso.
Nel frattempo la questione della « limpieza » rimase sempre sul tappeto e le persone vennero classificate nella categoria di vecchi e nuovi cristiani, poiché le genealogie erano già divenute quasi tutte di pubblica ragione.
Quando nel 1528 Diego de Uceda venne posto sotto accusa fu imputato di Luteranesimo, sebbene egli si fosse dichiarato antico Cristiano. Il Tribunale di Toledo fece indagini a Cordova per trovare le prove, ma là i testimoni riferirono senza esitazione che i genitori dell'Uceda, sia dal lato paterno che da quello materno, erano di purissimo sangue, senza avere nemmeno una goccia di sangue di convertito nelle vene.

L'importanza della questione cresceva sempre; ciò indusse l'Inquisizione a raccogliere le prove anche per documentazione; così nel 1530 venne dato ordine al consiglio d'accusa di citare tutti i parenti di coloro che erano stati colpevoli recidivi o penitenti, per stabilire se non avessero cambiato il loro nome. Di che importanza sia stata per la società questo atto risulta dalla domanda della « Cortes » fatta circolare nel 1532 che richiedeva che fossero considerati antichi Cristiani coloro che potevano dimostrare di discendere da genitori, progenitori e trisavoli e se necessario anche oltre, Cristiani, senza macchia.
I Domenicani non erano tanto ferventi come i Francescani per ottenere la protezione papale della limpieza nell'Ordine. Essi avevano uno spirito meno incline alle persecuzioni che non i Francescani. Il loro più distinto confratello era in quei tempi il Cardinale Thomas de Vio Gaietano il quale quando gli chiesero se pensasse che fosse legale escludere tutti coloro che erano di origine ebraica dall'Ordine, rispose che sebbene ciò non fosse un peccato mortale, considerato che era stata quella razza a dare Gesù Cristo e gli Apostoli, era insensato ed ingrato fare una distinzione, anzi ciò avrebbe ostacolato la loro conversione. Tuttavia ebbero i sopravvenuti i ragionamenti di Siliceo. La conferma della sua legge da parte di Papa Paolo III era definitiva ed inattaccabile. Essa riconosceva la necessità della limpieza come qualifica per tutti coloro che intendevano ottenere una carica dello Stato e della Chiesa. La città di Toledo fece valere questa legge persino di fronte alla Santa Sede e nel 1573 il Legato di Venezia, Leonardo Doneto, portò la notizia che invano il severo ed inesorabile Pio aveva sulla bilancia tutta la sua autorità, per procurare ad un suo vecchio cameriere il quale non era limpio, l'Arcidiaconato di Toledo e che questi dovette poi accontentarsi di una posizione più modesta.

Tutto ciò dimostra che i conversos lavoravano con fervore instancabile, così che Gregorio XIII e Sisto V donarono loro dei Breve a conferma dei loro diritti. Tuttavia la Santa Sede non tardò a dimostrare la sua eterna indecisione quando il Capitolato di Sevilla nel 1565 presentò la domanda a Pio di confermare il regolamento della limpieza, egli rifiutò di accoglierla e condannò apertamente il tono illegale che aveva preso il sopravvento nelle chiese spagnole. Viceversa il Cardinale Paheco difendeva a spada tratta la domanda ed era instancabile nel descrivere la scelleratezza degli ebrei, sino a che Pio adirato, lo aggredì dichiarando che avrebbe fatto quanto gli pareva giusto.

Sembra che in quei tempi non fosse ancora adottato un sistema regolare per comprovare la « limpieza ». Secondo le usanze di Toledo si chiedevano dai candidati, dati genealogici ed un deposito di denaro per le spese. Dopo qualche tempo si presentò la necessità di regolare definitivamente il procedimento ed il compito venne riservato a Filippo II.
Nel 1562 egli emanò un decreto che fedele alle tradizioni confermava la regola delle prove genealogiche. Il Sovrano ordinò dunque che i dipendenti di tutti i Tribunali fornissero prove sufficienti circa la « limpieza » propria e della moglie e che si licenziassero immediatamente coloro che avevano dei difetti di « limpieza » sia nella propria persona che in quella della moglie.
Un decreto analogo venne promulgato nella Castiglia e queste norme hanno la particolare caratteristica che per la prima volta si richiedeva anche la « limpieza » della moglie. Persino per incarichi provvisori era necessario comprovare la « limpieza ».

Nel 1595 Filippo II nelle disposizioni impartite a Manrique de Lera diede una grande importanza alla « limpieza ». Purtroppo la mania non conobbe limiti nella determinazione delle generazioni che dovevano essere « limpie ». Leonardo Donato scrive che la legge esigeva la dimostrazione per quattro generazioni. Tuttavia egli non rispecchia fedelmente il fervore degli spagnoli per il sangue di razza pura. Il fatto che nella « Cortes » di Castiglia nel 1532 si formulasse la preghiera che fosse sufficiente il dimostrare la « limpieza » dei trisavoli fornisce la prova che nella pratica applicazione si era giunti ad un eccesso.
Due cause potevano determinare il sangue impuro. L'una quando qualcuno degli avi apparteneva alle razze ebrea e mora; l'altra quando tra essi si trovava una persona condannata dall'Inquisizione. In relazione con la prima causa venne determinato il limite nei massacri di ebrei avvenuti nel 1391. Coloro che si erano convertiti volontariamente prima di questo periodo, vennero ancora riconosciuti per vecchi cristiani, mentre gli altri vennero considerati come nuovi cristiani. I matrimoni contratti con i convertiti nel XV secolo causarono un'enorme confusone in tutto il paese per varie generazioni. Mendoza y Bobadilla presentò nel 1560 a Filippo, un memorandum nel quale dimostrava che nelle vene della nobiltà di Aragona e Castiglia correva sangue ebraico.

Il zelante segretario del primo Tribunale di Saragozza dichiarava nella sua opera chiamata « Libro Verde de Aragon » che i convertiti che ricoprivano posizioni importanti, dovevano fare da capro espiatorio per tutti coloro che volevano evitare le accuse di impurità ed essi servivano da scudo. Si trovavano in quei tempi molti individui che per malafede o per fanatismo scrivevano dei libri chiamati « Libros Vertes » oppure « Del Recerro » compilati in base a semplici dicerie. Nelle classi alte, ad eccezione di coloro che abitavano nella regione montuosa del Nord e dell'Est, nessuno aveva la sicurezza che un momento all'altro l'esame di razza non rivelasse qualche disgraziata mesalliance. Effettivamente potevano stare al sicuro soltanto coloro, le cui origini insignificanti escludevano la possibilità di indagini nella loro discendenza.

L'altra causa dell'impurità, ossia la discendenza da una persona punita dall'Inquisizione, venne riferita originariamente soltanto ai casi più gravi. Tuttavia questa indulgenza non durò molto data la minuziosità dei giudici inquirenti, i quali ben presto qualificarono ogni castigo inflitto dall'Inquisizione, come una macchia indelebile sulla persona e sui suoi discendenti. Sylva Diego descrive come il procedimento segreto dell'Inquisizione avesse talvolta trascinata la soluzione della questione per degli anni, in mancanza di prove convincenti, incurante che nel frattempo il sospettato e tutta al sua famiglia patissero di questo stato di incertezza.
Quando il richiedente presentava il proprio albero genealogico, doveva versare un deposito che da principio era stabilito in 300 reales. Quando questo affare cominciò a fiorire in modo insperato, si presentò la necessità di creare un'amministrazione separata.

Tutto l'affare divenne per così dire un'incubatrice di imbrogli e provocò addirittura la corruzione, in quanto vi erano sempre in maggior numero le false testimonianze e non erano rare anche le corruzioni tra i dipendenti dell'Inquisizione stessa.
Sebbene Valdés nel 1560 avesse disposto con la massima umanità nei confronti dei testimoni falsi, questo trattamento mite cessò fin dal 1577 quando entrò in vigore l'inizione di una ammenda. Non può essere considerato che naturale, gli innumerevoli guai provocati dal ridicolo culto della « limpieza » finissero per mobilitare anche gli avversari. Lo scrittore più antico che propose coraggiosamente una riforma era il professore Domenicano Salucio, il quale nel 1599 pubblicò un'opera in cui diceva che, se si fosse risaliti per cent'anni, non vi sarebbe rimasto più uno spagnolo che potesse essere incolpato di impurità. Soltanto i componenti delle
classi inferiori la cui genealogia non era rintracciabile avrebbero potuto evitare le conseguenze.

Per dimostrare l'inutilità di tutto il sistema, basterà additare che nella questione delle prove ebbero la meglio i poveri contadini che non possedevano dati genealogici ed i grandi signori contro i quali nessuno osava testimoniare. L'incoerenza era aumentata dalla segretezza, che permetteva agli avversari di raccogliere false testimonianze e di corrompere i funzionari. In questo modo si andava formando una specie di aristocrazia, cioè quella della « limpieza », la quale guardava con disprezzo l'antica nobiltà del paese.

Un altro guaio era l'enorme sciupìo di denari richiesto dal procedimento stesso. Se esso portava ad un buon risultato, l'individuo si trovava ben presto ridotto alla mendicità, per le notevoli spese e per il pagamento dei propri agenti. Coloro che ebbero un insuccesso generalmente non avevano denari sufficienti per ritentare la causa.

Tutto ciò era un enorme danno per l'onore del paese, poiché l'elemento colto che avrebbe potuto essere di grande utilità, non osava più sottomettersi al procedimento nel timore di avere eventualmente una goccia di sangue contaminato nelle vene. La « limpieza » sopravvisse anche alla rivoluzione francese e persino sotto la restaurazione ebbe la stessa capitale importanza avuta sotto la monarchia. Soltanto la sua rigidezza si mitigò alquanto.

La pretesa della « limpieza » sopravvisse l'inquisizione stessa sebbene non sia facile immaginare, con la cessazione di quest'ultima, d'onde prendessero delle prove serie. Sino al 1859 la « limpieza » era uno dei requisiti richiesti per l'assunzione alla scuola dei cadetti e soltanto nel 1860 la « Cortes » cancellò all'unanimità questo ultimo rimasuglio dell'intolleranza e del preconcetto.


LE CONFISCHE

Quando fu istituita l'Inquisizione era previsto che non soltanto avrebbe potuto mantenersi con mezzi propri, ma divenire anche una fonte di proventi. Sarebbe inutile scrutare oggi in quale misura siano stati influenzati Ferdinando ed Isabella dalla possibilità di sequestri, quando scelsero questo sistema per proteggere la fede.
La confisca, come punizione di reati, era un principio già tanto radicato nella Legislazione Reale che non vi poteva essere discussione sulla sua adozione.

Nell'Aragona l'Inquisizione del XIII Secolo riteneva per naturale la confisca dei beni degli eretici. Da principio soltanto la metà del patrimonio venne sequestrato a favore della tesoreria reale, ma rimase riservata a Ferdinando ed Isabella la facoltà di poter applicare in tutto il suo rigore la legge canonica che prevedeva una confisca totale a favore dell'Erario.
Uno scrittore del tempo asserisce che i proventi delle confische vennero suddivisi in tre parti, cioè un terzo per le spese delle guerre contro i mori, un terzo per il mantenimento dell'Inquisizione ed un terzo per scopi religiosi. Tuttavia non troviamo traccia di questa ripartizione e a quanto pare, la Corona disponeva dei fondi secondo il proprio discernimento.

D'altra parte l'alta nobiltà vedeva di malocchio come la Tesoreria Reale inghiottisse man mano le proprietà dei suoi vassalli, sebbene non avessero sollevato delle pretese concrete. Ferdinando in molti casi stimò opportuno di concedere ai nobili un terzo dei beni sequestrati sui loro poderi.

Come abbiamo visto la confisca costituiva una delle più frequenti punizioni contro l'eresia sotto le leggi canoniche. L'eretico era considerato come individuo che stava al di fuori della Chiesa; se non ubbidiva e ricadeva allora veniva bruciato. Se viceversa mostrava pentimento e faceva penitenza allora lo consideravano conciliato con la Chiesa e, sebbene potesse sfuggire così alla morte, gli venivano (e questa era l'obiettivo principale) confiscati interamente i beni.

La confisca era una questione puramente di lucro e veniva eseguita con i sistemi più inesorabili. Quando l'accusato veniva arrestato, tutti i suoi beni erano elencati e sequestrati. Si procedeva all'esame della corrispondenza e della contabilità per stabilire i debiti mentre l'accusato stesso veniva sottoposto all'Audiencia de Hacienda durante la quale doveva dichiarare il valore del suo patrimonio, i debiti, le donazioni ai figli e se nel timore di essere arrestato non avesse nascosto qualche cosa. Questa prostituzione della religione venne sfruttata fino all'estremo limite delle possibilità.

Una risposta insufficiente era calcolata come una bestemmia e veniva punita, come avvenne nel caso di Luis de Perles che venne posto sotto accusa a Valencia per Luteranesimo. La parte più ripugnante del procedimento di sequestro era quella di far confessare al detenuto se non avesse nascosto qualche valore; a questo scopo dei sacerdoti confessavano tutta la notte i prigionieri e non si peritavano di impressionarli col timore della condanna a morte. Se l'avvocato erariale riteneva che fossero state nascoste parti di proprietà il Tribunale promulgava un editto, che bisognava leggere dai pulpiti, che imponeva ai fedeli presenti di denunciare entro tre giorni al Parroco se qualcuno aveva dichiarato parte dei propri beni come appartenenti ad altri. Trascorsi i tre giorni seguiva l'Anatema, con tutte le sue formule terrificanti.

Dopo aver cantato un salmo di introduzione, l'inquisitore invocava l'ira di Dio, della Vergine Santissima, degli Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi, su coloro che intendevano privare il Santo Uffizio di quanto gli spettava.

Riguardo la dote delle mogli l'Inquisizione non era più blanda. La dote era perduta in seguito all'eresia della moglie; ma in caso di reità del marito diveniva tutto di proprietà dei figli. Vi erano molti casi in cui due coniugi, dopo anni di convivenza, ad un tratto divenivano poveri, poiché la dote della moglie veniva sequestrata in seguito alla condanna dei genitori della moglie stessa poichè da quelli proveniva la dote di quest'ultima.
Seguivano allora disperate implorazioni ai Sovrani e questi rispondevano molte volte rinunciando alla parte della confisca spettante alla Corona.
Con la stessa rigidezza venivano trattate le doti delle Monache.

Il Convento di Santa Inez di Cordova inoltrò una domanda a Ferdinando, nel 1510, dichiarando che circa circa vent'anni prima, un certo Pedro Silbero vi aveva collocata la nipote, dandole in dote qualche stabile, del quale godeva tranquillamente la rendita, sino a che il nonno della Suora venne condannato per eresia e l'Inquisizione sequestrò una parte dei beni immobili. Questo procedimento era perfettamente legale e solo una grazia particolare del Sovrano poté far togliere il sequestro.

L'eresia diffondeva una tale contaminazione che ogni cosa con la quale venisse in contatto ne era contagiata; non soltanto gli eretici erano destinati alla distruzione, ma anche le loro mercanzie. Nel 1501 Vincenzo de Landera, commerciante di Gaeta, caricò una spedizione di cotone su di un battello, ad Alicante; quando la nave attraccò, nel porto d'arrivo fu sequestrata, perché vi si trovavano due persone condannate dall'inquisizione e soltanto per l'intercessione del Vescovo di Gaeta, primo Cappellano della Regina di Napoli, sorella di Ferdinando, il Landera poté ricuperare la sua merce.

Dalla corrispondenza scambiata fra Ferdinando ed Isabella nel 1498. nonché dalle disposizioni date dalla Regina al Conte Cinfrantes, Governatore di Sevilla, risulta che la Regina diede ordine al Conte di raccogliere tutti gli ebrei che si trovavano nella clausura di San Pedro e di venderli come scvhiavi ad un prezzo adeguato, versando il ricavato all'Erario, dove l'importo sarebbe stato devoluto a copertura delle spese e delle necessità della Corte Marziale. Un analogo ordine venne impartito il 6 Novembre del 1500, riguardo il Maestro Luis Corpano e di sua moglie, ad Auteguerra, i quali nella loro persona e nei loro beni mobili ed immobili, si trovavano sotto sequestro dell'agente fiscale.

Ma non soltanto i convertiti dovevano subire queste vessazioni; anche i vecchi Cristiani venivano messi nelle più penose situazioni. Antiche pretese, da tempo liquidate, risorgevano continuamente e l'unica possibilità era di ricorrere al Sovrano.
L'avidità dell'Inquisizione non diminuiva col tempo, né la sua mancanza di pietà verso le persone di cui adocchiava il patrimonio. Nel 1615 un protestante tedesco di nome Cote venne condannato all'ergastolo dal Tribunale di Toledo. Egli aveva allora ventiquattro anni ed era venuto, ancora in infanzia, alle isole Canarie, da suo zio Juan Aventro. Suo zio aveva sposato una vedova, con quattro figli, la quale morendo lasciò un quinto del suo patrimonio. Nel 1613 Aventro mandò in Ispagna il Cote, con una lettera diretta al Principe Lerma, lettera che portò allo scomprimento della sua eresia.

L'Inquisizione iniziò subito le pratiche per impadronirsi della sua eredità, ma la questione si trascinò molto a lungo, anche perché il Tribunale delle isole Canarie aveva sollevato l'obiezione per i diritti degli eredi, essendosi il Cote e suo Zio dichiarati tempestivamente cattolici. Di fronte a ciò la Suprema, irremovibile, si procurò nel 1646, un attestato dal Tribunale di Toledo, confermante che il Cote, già nel 1613, cioè quando aveva portata la lettera incriminata al Principe Lerma, praticava l'eresia. Non è dato di sapere quali vie tortuose seguisse l'intricata questione, tuttavia risulta che la Suprema riuscì a tenere sotto sequestro il possedimento per ben venticinque anni.

Formavano un enorme impedimento gli atti numerosissimi che si riferivano a vecchie confische. I Tribunali di Leon e di Eciga si rifiutavano di consegnarli e vi fu bisogno di ripetuti energici richiami da parte di Ferdinando, perché finalmente li consegnassero, allo scopo di poterli esporre al pubblico nel Castello di Trancia. Finalmente ebbe inizio la difficile procedura. Vennero nominati degli assessori che applicavano le tasse a coloro che chiedevano l'esame di « limpieza ». L'amministrazione venne affidata a Pedro deVillacis, esperto tesoriere di Sevilla, il quale ancor nel 1508 iniziò il lavoro. Questo progrediva bene, inquantoché riuscirono a raccogliere i pagamenti arretrati, i quali verso il 1515 ammontavano a 650.000 maravedi, che vennero assegnati al Tribunale di Sevilla, che però non ricevette mai il danaro.

Va ricordato, in quest'epoca di cupidigia di danaro, il commercio delle belle schiave, per le quali i reverendi membri della Suprema mostravano sempre un particolare interesse. Il 7 Febbraio 1510 Ferdinando scrisse al Tesoriere di Cartagena di aver appreso che fra i beni di Ramedo Martin, a Santa Cruz, si trovava una schiava di nome Alia. Se ciò fosse stato vero, la donna avrebbe dovuto essere consegnata immediatamente a Peren Ganzelo Nanson, membro della Suprema. Nel 1514 Ferrando de Mezuceus, pure membro della Suprema, inoltrò una domanda al Sovrano, per ottenere una bella schiava mora, che era stata confiscata insieme alle proprietà di Juan de Tena e Ferdinando ne ordinò la consegna, che venne subito effettuata. Per una bella schiava bianca di nome Fatima, che era stata confiscata sul podere di Alonzo Sandres del Castillo, vi era - data la particolare bellezza- una grande contesa. Il Marchese Villena pregò di poterne prendere possesso e Ferdinando esaudì la sua domanda, ma quando, il 15 giugno del 1514, si mandò l'ordine di consegna a Toledo, il Tesoriere non volle consegnare la ragazza, asserendo che l'ordine sarebbe stato emanato a dati falsi, poiché la Suprema l'aveva già aggiudicata all'avvocato erariale Martin Ximenes. Allora partì un altro ordine, firmato non soltanto da Calcena, ma anche dai membri della Suprema, che aggiudicava la schiava a Villena, mentre il tesoriere ed il Ximenes vennero compensati con altre cose di pari valore. È significativo che per gli schiavi maschi non si verificò mai una di queste contese.

Nemmeno Ferdinando esitò ad appropriarsi parte dei bottini fatti fra i suoi sudditi. Nel 1502, per esempio, si appropriò cinquantamila perle autentiche, che erano di proprietà di Micer Regader, bruciato al rogo per eresia. Molte volte egli non attendeva nemmeno la condanna del proprietario, come avvenne per un cavallo che nel 1501 regalò all'inquisitore di Cordova, ma quando seppe che la bestia faceva ottimo servizio alla caccia, mandò a prenderlo per uso proprio, ordinando di pagare quattromila marvedi all'inquisitore come ricompensa. Ancora più incosciente si dimostrò nel 1502, a Granada, quando apprese della morte di Bernaldalla, prigioniero non ancora condannato, ordinando il sequestro di un giardino a Ranolla, di proprietà del defunto carcerato e assegnandolo come luogo di giochi alla Principessa Juana.
Quando, dopo la morte di Ferdinando, Ximenes volle far ordine nelle finanze dell'Inquisizione, sembra che egli ritenesse che nemmeno le sue alte cariche, come Governatore e Capo Inquisitore, fossero sufficienti per poter compiere l'opera. Perciò si fece rilasciare dal giovane Re Carlo una Prammatica datata, il 14 Giugno 1517, da Ghent, la quale fu certamente compilata da lui stesso.
Però Re Carlo non appena consegnata la Prammatica ebbe premura di annullarla. Tre mesi dopo, il 9 Settembre, egli sbarcò in Spagna, circondato da un branco di affamati e voraci fiamminghi, i quali non vedevano l'ora di arricchirsi a spese del loro padrone e dei suoi sudditi. Gli importuni mendicanti fiamminghi fecero sì che ben presto gli sciupii di Ferdinando sembrarono delle inezie. Peter Martyr scrive che i fiamminghi, in meno di dieci mesi dal loro arrivo, avevano già inviato undicimila ducati a casa, in parte per la munificenza della « Santa Cruzada » in parte per i benefici ottenuti dall'Inquisizione, poiché essi ricevevano una parte, non soltanto dei beni sequestrati, ma persino dalle proprietà dei prigionieri che stavano sotto interrogatorio. Ciò dimostra, meglio di tutto, quanto presto essi fossero riusciti a costituire dei contatti segreti, che fornivano loro informazioni su tutte le azioni dei Tribunali e quanto poca fosse la possibilità dei prigionieri di sfuggire alla pena e meno ancora ricuperare i loro beni.

Dopo la partenza di Re Carlo, avvenuta nel Maggio 1520, le confische diminuirono. Il giovane sovrano si era presto incanutito, sotto il peso dell'enorme responsabilità e non tardò a comprendere che la sua posizione esigeva altre attività che la soddisfazione della voracità dei suoi cortigiani. A quanto pare egli lasciava volentieri la decisione al Capo Inquisitore ed alla Suprema di approvare o meno le concessioni che egli distribuiva ai suoi favoriti.

Se abbiamo trattato minutamente questa parte dell'attività dell'Inquisizione, lo abbiamo fatto perché non molti fra gli scrittori dell'Inquisizione si erano accorti sinora della grande importanza che ebbe. Infatti le confische servivano non soltanto a coprire le spese materiali dell'istituzione nei periodi della sua maggiore attività, ma, come gli stessi inquisitori riconobbero, fu l'arma più potente, che destò il massimo terrore nei ceti industriali, che formavano il territorio di operazione più importante per l'Inquisizione. Questo potere creò uno stato di miseria morale e materiale che trovava la sua massima espressione nelle disperate grida di coloro che venivano torturati ed uccisi alla gogna.
A questa linea di condotta si può attribuire la drammatica crisi del commercio e dell'industria spagnola, poiché non poteva formarsi la reciproca fiducia, quando i padroni delle migliori aziende potevano capitare da un momento all'altro fra gli artigli dell'Inquisizione e perdere l'intero patrimonio. Il fatto che l'Inquisizione spagnola rispettava i debiti degli eretici, era una ben piccola concessione, poiché doveva trattarsi di un debito arretrato di quarant'anni, perché l'Inquisizione difendesse la pretesa.

L'Inquisizione venne fondata nei tempi in cui le scoperte geografiche rivoluzionavano il commercio mondiale, quando l'ora dell'industria era già scoccata e l'avvenire apparteneva alle nazioni che più agevolmente avevano potuto adattarsi a nuove circostanze. La situazione della Spagna permise il controllo delle illimitate possibilità dell'avvenire, ma il paese fece cadere ciecamente tutti i suoi vantaggi in seno alle eretiche Olanda ed Inghilterra.

MULTE E PENALI

Sebbene, almeno per il principio, il sequestro dei beni degli accusati costituisse il massimo provento dell'Inquisizione, essa disponeva anche di altre fonti di entrate. Fra questi figuravano le multe, che i Tribunali avevano il diritto di infliggere secondo il proprio discernimento, al minimo sospetto di eresia.
La distribuzione di elemosine, per ottenere il condono dei peccati, era pure in gran voga nel Medio Evo, tanto che gli enormi possedimenti della Chiesa avevano origine anche da questo provento. Abbiamo visto le lunghe lotte di Ferdinando per la proprietà delle multe, le quali in fine vennero aggiudicate all'Inquisizione. Ciò cambiò naturalmente più tardi, quando il controllo finanziario fu assegnato alla Suprema. Tuttavia i diversi fondi erano distaccati.
Il 13 Maggio del 1585 in un « auto da fé » di Sevilla fu inflitta una multa di cento ducati a un penitente accusato di luteranesimo e duecento ducati a un bigamo. L' « auto da fé » fruttò complessivamente ottocentocinquanta ducati e duemila maravedi, ma vi erano altri « auto da fé » che fruttavano molto di più, se gli accusati erano in maggioranza persone benestanti.

A questo riguardo l'Inquisizione romana segna un contrasto molto sfavorevole a quella spagnola. Ad eccezione di Milano, Cremona ed altre città che stavano sotto il dominio spagnolo, le pene materiali vennero applicate solo molto di rado. Anche la gran maggioranza dei papi era contraria a queste pene, particolarmente Alessandro VII, il quale ripudiò lo sfruttamento della Fede a scopo di lucro.
La Curia romana aveva abituato da molto tempo il Cristianesimo al pensiero che le assoluzioni erano comperabili e che l'esonero dalle multe era un puro atto di compra e vendita.
Questi flagelli erano completati dalle pene corporali. Vi era la galera, l'esilio, le prigioni, l'obbligo di portare il chebito o sanbenito, una specie di cilicio giallo con in mezzo una croce rossa. Era questo il segno esteriore della vergogna e rendeva difficile alla persona marchiata di guadagnarsi di che vivere.

La Curia Romana continuava indefessa il commercio di ogni genere di dispense, con una spudoratezza che offuscava anche quella della Giustizia spagnola.
Anche la Spagna non rimase indietro nel traffico delle dispense. Qualsiasi sentenza fosse portata dagli Inquisitori, il Capo, a seconda delle sue influenze, poteva annullarla, come per esempio Valdes nel 1551, garantì a Leandro de Loriz che avrebbe ottenuto la carica di assessore a Valencia, sebbene quel Tribunale lo avesse già interdetto da ogni carica nella giurisdizione.

La riabilitazione, cioè la concessione di poter esercitare il commercio o mantenere un negozio, era una buona fonte di proventi per il Sovrano e di conseguenza per i dipendenti della Corona. Questo mercato divenne tanto diffuso che nel 1552, nella Cortes di Madrid, se ne parlò lamentando che essendo i figli o i nipoti dei condannati eretici, persone generalmente ricche, i pingui proventi della riabilitazione, in base alle Prammatiche, erano carpiti dai Regnanti a danni del paese.
La Curia non si intromise mai a cambiare le pene inflitte dall'Inquisizione. A questo riguardo vi era quindi la massima libertà e le somme derivanti dalle condanne dovevano essere molto considerevoli, poiché l'Inquisizione era sempre pronta ad eventuali concessioni, persino nei casi di condanne alla galera, che era pure calcolata una pena assai più severa del Carcel y Abito e tuttavia riscattabile. Siccome però il prigioniero era sempre importuno, mentre il galeotto era utile e ve n'era sempre richiesta, si può immaginare che il prezzo di riscatto fosse molto elevato.
Il prezzo di riscatto del galeotto poteva essere di varia natura.
Nel 1545, Don Luis Nunez, latifondista di Agodan, offrì due schiavi
per riscattare due vassalli mori, tra i quali l'uno era condannato a dieci e l'altro a dodici anni di galera dei quali ne avevano scontato tre. Siccome all'esame i due schiavi risultarono uomini forti, il patto venne convenuto.
Evidentemente la Suprema non si curò molto delle disposizioni impartite da Filippo II a Manrique de Lora, ammonendolo di essere molto cauto nel condono delle pene di galera, poiché era necessaria una seria ragione, mentre non si dovevano prendere in considerazione le invocazioni, ma eseguire le sentenze con la maggior sollecitudine possibile. Lo stesso ammonimento venne ripetuto da Carlos II nel 1685 e questo rende evidente che nessun freno era stato posto alle contrattazioni del Santo Uffizio.

PREBENDE ECCLESIASTICHE

Filippo III ascoltò finalmente le lagnanze dei Capitoli e nel 1503 diresse un decreto alla Suprema nel quale richiamava l'attenzione sul danno provocato dal fatto che i canonici venissero distolti dal loro dovere, ordinando che in avvenire si usasse maggior riguardo, particolarmente verso l'Arciprete e i canonici addottorati. Ma questo ordine ebbe solo un effetto transitorio. Infatti risulta che nel 1655 al Tribunale di Cordova, fra tre inquisitori, Bernardino de la Roche era il Priore ben stipendiato della Cattedrale di Cordova, mentre Bartolomeo Bujen de Sannoza era Canonico di Cuenza e Fernando de Villegas direttore dell'Internato San Bartolomeo. Quindi questo unico Tribunale aveva privato Cuenza di due dignitari ecclesiastici e Cordova di uno. Sebbene queste cose fossero state ripetutamente raccomandate all'attenzione dei Papi, non vi venne posto rimedio, però in quei tempi della pericolosa propagazione dell'eresia, si dimostrava quanto mai necessario rafforzare e dare carattere permanente ai tribunali del Santo Uffizio.

Secondo la mentalità degli esponenti dell'Inquisizione la questione sarebbe stata facile a risolversi se il Papa avesse sacrificato una parte delle prebende ecclesiastiche, le quali, sempre secondo gli inquisitori, promuovevano in misura ridottissima la propaganda della Fede. Sebbene il Santo Uffizio fosse sovvenzionato da tutte le parti, gli inquisitori erano non poco preoccupati del suo avvenire, attendendo i rimedi da Sua Santità.
La menzognera esposizione dei fatti, opportunamente sottolineata dalla parola del Re, venne presentata da Varegas al Papa e ben presto egli poté riferire che il Papa lo aveva ricevuto in udienza particolare assieme al Cardinal Palveo, che lo aveva assicurato della sua benevolenza, ordinando che il clero venisse tassato di centomila ducati, cioè l'uno per cento della rendita complessiva.
Il grado di diffusione dell'eresia in Francia e il conseguente timore che la Spagna venisse contagiata resero conciliante la Curia su questo punto.

Pio IV morì il 9 Dicembre 1565 e Valdes venne eletto nel 1566. Sebbene la cosa non cambiasse, molto difficilmente si sarebbe potuto immaginare una peggiore sfacciataggine nella giurisdizione, dell'aver insediato, come proprio Capo, colui che aveva tratto profitto dall'oppressione. Dei casi analoghi si sono verificati nel 1560, a Cordova, ad Alcala de Heneres ed a Pudela, dove solo dopo energici passi, finalmente si cominciava a rispettare l'autorità pontificia. Così il 29 Gennaio del 1560, Andrea Martin riuscì a far valere delle Bolle che lo autorizzavano ad usufruire di una pensione di trenta ducati, dal fondo canonico di Calahora, già tenuto da un suo fratello prelato che era morto. La stessa cosa fecero a Cuenza Juan Rodriguez e Pedro Lara i quali pretendevano cinquanta ducati di pensione da un Canonicato resosi vacante.

Sorgevano molte questioni strane le quali tenevano sempre sveglia l'ostilità fra i Capitoli e l'Inquisizione; frequentemente si ricorse a Roma, ma questi ricorsi vennero raramente decisi a favore del ricorrente, poiché l'Inquisizione riusciva sempre ad avere il sopravvento. Quantunque questi attriti avessero avuto un'influenza dannosa agli effetti dei proventi dell'Inquisizione, le prebende ecclesiastiche tuttavia costituivano tre ottavi di tali entrate, che già nel 1531 ammontavano a circa 600.000 reales. Se non vi fosse stata l'idea geniale di Valdes con la quale, nel 1599, egli riuscì ad assicurare all'Inquisizione una parte delle prebende ecclesiastiche, é dubbio se l'Inquisizione non si sarebbe dimostrata un aggravio troppo forte allo Stato e, come istituzione non vitale, non sarebbe stata definitivamente lasciata morire da Carlos III.

Al principio del Secolo XVIII molte nubi pericolose si accumularono sul cielo di Spagna. La guerra di successione suscitò dappertutto dei torbidi. Non solo le finanze dell'Inquisizione ne risentirono, ma il governo borbone sollevò tali pretese che Filippo IV non avrebbe osato avanzare nemmeno nelle epoche di maggior necessità dello Stato.
Erano permanenti le lamentele per la miseria, e le tabelle di rendita, compilate in quei tempi, forniscono la prova del notevole deprezzamento dei valori, verificatosi sotto Filippo V. A quanto si diceva le spese della Suprema erano di sette volte superiori alle sue rendite.

Verso la metà del Secolo la situazione generale accennava ad un miglioramento, ma tuttavia l'Inquisizione nelle Province era talvolta costretta a coprire i propri fabbisogni con la mendicità. Ciò a grave danno della sua integrità, poiché la popolazione affamata, non di rado si ribellava di fronte alle richieste.
L'organizzazione finanziaria dell'Inquisizione era originariamente molto semplice. Il custode dei beni confiscati, cioè il Tesoriere, era un dipendente Reale. Quando Ferdinando morì, gli Inquisitori diedero ad intendere ai Tesorieri che la carica cessava con la morte del Re, tuttavia, dopo l'abdicazione di Carlo V, il sistema era già tanto solidamente fondato, che poteva essere considerato definitivo, anche in caso di cambiamento di Sovrano. Nessuno si attendeva integrità dal Tesoriere e da principio il denaro era tenuto in una cassetta chiusa a tre chiavi, in modo da poter essere aperta soltanto in presenza di tutti e tre i tesorieri.
Ma altra cosa era stabilire le norme di regolamento ed altra cosa era mantenerle. Queste disposizioni vennero inviate anche in Sicilia, donde dopo poco giunse alla Suprema la lagnanza che i tre tesorieri scambiavano tra loro le chiavi e derubavano la cassa.
Sebbene le continue lamentele per la cattiva gestione finanziaria possano essere in parte attribuite all'ignoranza dall'inesperienza, sarebbe ingiusto motivare esclusivamente con ciò gli ammanchi. L'amministrazione probabilmente non era né migliore, né peggiore di quella di qualsiasi altra istituzione governativa.

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