LETTERATURA

LA LIRICA E LA PROSA
DI DANTE

LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più in là, ti risponde come Raffaello: "Noto, quando Amor mi spira", ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione. Chi legge la "Vita nuova", non può mettere in dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi.

L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro.

Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità, esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a l'ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:
Io mi son pergoletta bella e nova,
e son venuta per mostrarmi a vui
dalle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora,
d'amor non averà mai intelletto...
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute:
le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.
Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica. Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finchè Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto, nè allegoria, ma è sentimento e fantasia.

Quell'amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte più eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai più la "Vita nuova", hai il "Convito". L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore. In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera speculazione, nè vanità scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace, come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:
L'esilio che m'è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:
... elli son quasi dèi
que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
chè solo Iddio all'anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, "bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non è amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:
Chè la beltà ch'Amore in voi consente
a virtù solamente
formata fu dal suo decreto antico
contra lo qual fallate.
Io dico a voi che siete innamorate,
che se beltate a voi
fu data e virtù a noi,
ed a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di beltà v'è dato
poichè non è virtù, ch'era suo segno.
Lasso! A che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna di ragion lodato
partir da sè beltà per suo comiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo, l'unità della vita. E poichè vede bellezza, e non trova virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d'immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di "bel disdegno", per il quale dica: - Poichè nell'uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtà: "Lasso! a che dicer vegno?". Il poeta sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel modo.

Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo "caduto in servo di signore", già signore di sè, ora servo delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni: l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica. Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita è la filosofia, la verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito di una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.
Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi. Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano ""Osanna"", ma rimase in terra, come luce della verità, della quale l'amante si fa apostolo, è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia è al di là della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia a vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto, così dottrinale nella forma, se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola. Perchè la parola è analisi, distinzione, precisione, e non può rappresentare che un contenuto ben determinato, e ne' suoi momenti successivi, più che nella sua unità. Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee essere non astratto pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in questo "dee essere". Perchè, prendendo a fondamento non quello che è, ma quello che dee essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto così in se stesso astruso e scientifico.

I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione. Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante, ancorchè dotato di una immaginazione così potente. Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perchè quelli vi pongono il massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio, severo, schivo del "gradire", e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto.

Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che quel mondo è vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta dee essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da natura.

Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore. L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il ""deus in nobis"", che possiede il secreto della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni, e te ne dà l'impressione e il sentimento. L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: ""pulcra species, sed cerebrum non habet"": l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione è l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il "fantasma", figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, così mistico e spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In balìa di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo mondo è la fantasia, e la sua forma è il fantasma. Il suo primo e solo poeta è Dante, perchè Dante ha l'istrumento atto a generarlo, è la prima fantasia del mondo moderno.
Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua canzone all'Amore:

Amor che movi tua virtù dal cielo
come 'l sol lo splendore,
chè là s'apprende più lo suo valore,
dove più nobiltà suo raggio trova...
Ed hammi in foco acceso,
come acqua per chiarezza foco accende...
È sua beltà del tuo valor conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sopra degno suggetto,
in guisa che al sol raggio di foco;
lo qual non dà a lui, nè to' virtute;
ma fallo in alto loco
nell'effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine. Dante è più severo, perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura. Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima. Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non quello che ella è, ma quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo "parere", l'impressione:
Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a mente:
sì è novo miracolo e gentile.
... .....
Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace. -
E par che dalla sua labbia si mova
... .....
uno spirto soave e pien d'amore,
che va dicendo all'anima: - Sospira. -
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
che qual l'avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
.... ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
... Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch' è sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l'äre,
e la terra tremare:
e uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch'era sì bella.
"Sì bella!"
Questa è l'immagine. Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
certo lo core de' sospir mi dice
che lagrimando ne uscirete pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch'uom di lei può dire,
hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire. L'immagine è immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno musicale dell'indefinito. Beatrice è un "rêve", un sogno, una visione. La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore, perchè
"esta vita noiosa"
non era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo, diviene "spiritual bellezza grande" che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove, "luce intellettual, piena d'amore", è il mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata. Il fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici. E poichè la filosofia non è potuta divenire virtù, poichè in terra essa è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale. L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realtà, l'eterna e "Divina Commedia", è nell'altro mondo.
Nè prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito, così profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti, così armonico nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano. Esso è l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce dell'umanità a quel tempo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte "gentile", come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace. La morte è il principio della vita, è la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa lirica, la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano ""Osanna"", e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -. C' è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità. Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di espressione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso, perchè non è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue. Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è pura scienza, in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia la realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il sentimento. È un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante.
D'altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista. Quel mondo è per lui cosa troppo seria, perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia sotto qualche cosa che si mova. Perciò è sempre evidente, spesso arido e rozzo.
L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.
LA PROSA - la "FAVELLA"
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori. "Favella" viene da "fabella", favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette "favelle", lingue de' favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d'Amore. Così gl'inizi della nostra lingua furono versi d'amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni come sono i "Conti di antichi cavalieri", la "Tavola rotonda "e i "Reali di Francia": Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: "Lucano tradotto in prosa", ed è la versione del "Giulio Cesare", romanzo in versi rimati di Jacques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone, "mastro di rettorica" e "buono chierico", così comincia una sua aringa a Pompeo: "Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio". E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto i "Diurnali", o come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la "Storia di Firenze" di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da' suoi tempi, ti trovi nell'infanzia della cultura. Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da "pisare" o "pesare", Lucca da "luce", e Pistoia da "pistolenzia"; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non c'è ancora l'"io", la personalità dello scrittore.

Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte. Come l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d'immaginazione e di affetto, che non trovi ne' racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il "Novellino", che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a' giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto "fiore del parlar gentile"; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne' "Conti di antichi cavalieri" e ne' romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto. Eccone un esempio:
"Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E quei dicea: - Perchè non battete me, chè mia è la colpa? - Diceano li maestri: - Perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. - E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro."
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d'arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati, questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sè l'animo delle classi colte. Quantunque "chierico" significasse ancora uomo dotto, e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso d'idee comuni, che costituivano la base della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana.

A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose, così come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a' loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i "Conti de' cavalieri" e le "Vite de' santi" rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La società mirava a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana e sacra. I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san Tommaso. Il volgare divenne l'istrumento naturale di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell'antichità, che durò parecchi secoli, e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura. La materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare e l'arte del ben dire.

Una delle più antiche versioni è il "Libro di Cato" o Volgarizzamento del Libro de' costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri. L'opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Nè è maraviglia, perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un esempio:
"Virtutem primam esse puto, compescere linguam: "
" proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere."
Ed è tradotto egregiamente così:

Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:
quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.
Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l'Etica di Aristotile e la "Rettorica" di Tullio. Questa "Rettorica" di Tullio è il "Fiore di rettorica", attribuito a frate Guidotto da Bologna, e da altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: "Qui comincia la "Rettorica nuova" di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna". Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:
"Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."
Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere "sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato". Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio, "il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza". Il frate, cercando le "magne virtudi" di Cicerone, aggiunge: "Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del "Fiore di rettorica" volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente".
Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, "d'arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose". E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell'etica e della rettorica. Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma anche le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de' "Trattati di morale", dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione. Il primo trattato, "Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta", è composto l'anno 1238. L'opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere, sacra e profana. L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla "Composizione della terra"; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato "De inventione" di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di "Fiore di filosofi e di molti savi" raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i "fiori" di Plato:
"Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de' malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de' suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva "fiore" quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche "giardino", come spiegava Bono Giamboni nel suo "Giardino di consolazione", versione del latino: "e chiamasi questo "Giardino di consolazione", imperò che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà". In effetti questo bel libro, dov'è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi Padri, tanto che si può veramente dire dell'autore: "il più bel fior ne colse". Ecco il capitolo Dell'"Ebrietade":
"Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente". Anche dice: "La ebrietà è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole." Santo Basilio dice: "l'ebro, quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione." E santo Paolo dice: "non t'inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria."
Nè solo "fiore" o "giardino", ma si diceva pure "tesoro" o "convito", quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande. Brunetto, che scrisse il "Fiore", avea già scritto il "Tesoro", "in romanzo o lingua francesca", come "più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi", e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il "Tesoro" è il "Cosmos" di quel tempo, l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole, la somma o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, "un'arnia di miele tratta di diversi fiori", un "estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente". Prende capo dalla filosofia, siccome "radice di cui crescono tutte le scienze", ed è descrizione di Dio, dell'uomo, della natura. Segue l'etica, o filosofia pratica, e poi la rettorica, che ha come appendice la politica, o l'arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima facoltà universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma più importanti erano i trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalità, come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato "De regimine principum" di Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s'affermava la società colta, e si distingueva da' semplici e dagl'ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito dall'avversità, che maledice prima alla vita e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio "Della consolazione", fondato appunto su questa base, dove la filosofia è rappresentata "in sembianza di donna, in tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle". Tale è pure la visione di ser Brunetto Latini nel "Tesoretto", ch'è visione delle cose umane "secondo il corso stabilito a ciascheduna":
Io le vidi ubbidire,
finire e incominciare,
morire e 'ngenerare.
La stessa base ha il libro, "Introduzione alle virtù", di Bono Giamboni. È un giovine, "caduto di buono luogo in malvagio stato", che narra di sè in questo modo:
"Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l'ora e il die che io nacqui e venn'in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m'avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della profondità del mio petto, fra me medesimo dissi: - Dio onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in questo misero mondo, acciocch'io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti, che neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più montare? - Lamentandomi duramente nella profondità di un'oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo m'apparve di sopra al capo una figura, che disse: - Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocchè stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che, conciossiacosachè tutti gli altri animali guardino la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all'uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere? - Quando la boce ebbe parlato... , si riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte lacrime gravati per duri pianti ch'io avea fatto... Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicchè poche persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m'assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a guardar la figura tanto fermamente, quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire. E quando l'ebbi assai mirata, conobbi certamente ch'era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: - Maestra delle virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di notte per le magioni de' servi tuoi? - "
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo, se però "porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando, che s'egli sarà compagno di Dio nelle passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni". La Filosofia finisce con questo lamento:
"O umana generazione, quanto se' piena di vanagloria, e hai gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i desidèri della carne, che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perchè poco basta la vita dell'uomo: e queste sono veracemente la morte tua, perchè meritano nell'altro mondo molte pene eternali. E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè se si comportano in pace, meritano nell'altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: - Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento, e quello che ne tormenta nell'altro, durerae mai sempre."

E segue, citando i detti dell'Apostolo, di san Pietro e di Salomone.
Questo era il tèma comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i santi Padri. Questo concetto è l'idea fondamentale della "leggenda", una storia fantastica, la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli e le sue virtù tira l'anima alla rinunzia de' beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra. L'uomo, mosso dalle naturali inclinazioni, vende l'anima al demonio pur d'essere felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell'inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell'anima, quando, aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella "Introduzione alle virtù" del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perchè in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto che vendè l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.

Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea, o per dir meglio, era questa l'idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè. Ma in prosa non trovò quell'adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda, com'era mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale, com'era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre.

Fra tanti ""Fiori"" e ""Giardini"" e ""Tesori"" manca l'albero della vita, l'anima impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione, e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l'attività dello spirito è consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un ""ipse dixit"", o piuttosto ""ipsi dixerunt"", tante e così accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietà in questi "giardini", dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d'immaginazione o di affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione; l'esposizione didattica, il trattato, riempie l'intelletto, e t'uccide l'anima. L'espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le "Storie" di Paolo Orosio, l'"Arte della guerra "di Flavio Vegezio e la "Forma di onesta vita" di Martino Dumense.

La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de' traduttori fu Bono Giamboni, così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l'opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.
Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

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