LETTERATURA

UGO FOSCOLO

APRI' IL NUOVO SECOLO

(Vedi qui un'altra dettagliata biografia,
(di Maria Pia Perrotta)
la sua immagine, le opere > >


"…Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando aveva già moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e si era fatto della vita un concetto più reale, e si era spogliato gran parte delle sue illusioni, quando stava già con un piè nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida le sue "Grazie", l'ultimo fiore del classicismo italiano…".

"…Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa era la scuola romantica l'audace scuola boreale.…."… "…… Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione ufficiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne vedono le orme anche ne' "I Sepolcri", e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la rivoluzione.
"…La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le "Grazie"; Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto; e proprio nel 1815, tra il rumore de' grandi avvenimenti, usciva in luce un libricino, intitolato "Inni", al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo con "I carmi"; Manzoni apriva il suo con gl' "Inni"…." (De Sanctis)

Prima di questo 1815, di cui parla il De Sanctis, nella letteratura italiana del periodo cosiddetto "napoleonico", dunque due figure campeggiano: uno è Ugo Foscolo (abbiamo iniziato e parleremo subito di lui) l'altro è Vincenzo Monti (ne parliamo ora e ne parleremo ancora in fondo) che pur avendo nel 1798 (epoca della Cisalpina) 46 anni e una grande fama di poeta, si trovò davanti un giovane che aveva 20 anni, che gli censurò con furore la sua "Bassvilliana";
il giovane ventenne era "Lui": UGO FOSCOLO !!!

Monti la sua "Cantica" l'aveva scritta nel '93, ed era un catalogo delle "pene sinistre dell'inferno" riservate ad UGO BASSVILLE (segretario della legazione del governo rivoluzionario francese, inviato a Roma per sostenere la causa repubblicana, morto accoltellato a Roma dai reazionari), pene riservate alle "accigliate anime ree", ai "regicidi" che con il loro esempio incoraggiarono il misfatto, a Voltaire ("l'empio maligno/filosofante"), a Diderot ("il furibondo e torbo/Diderotto") e alla "plebe".

Alla fine nel canto IV, Monti celebra il martirio di Luigi e della sua famiglia, e simbolicamente le sue esequie, dove la Fede e la Carità raccolgono in cielo il regio sangue sparso nelle coppe, lo affidano a quattro angeli che dall'alto dei cieli lo spargono sull'Europa ai quattro venti, e questo ricade copioso sulla Francia. Era quell'anno il primo della coalizione, ed è ovvio che la "Cantica", fu subito cara alla reazione europea antifrancese, e soprattutto al clero; non dimentichiamo che Monti era un uno stimato abate della Curia Romana.
Monti fu subito salutato -per quella patina dantesca- col nome di "Dante ingentilito"; fu un successo travolgente, però… fino al '97, quando le armi francesi con Napoleone iniziarono ad avere fortuna proprio in Italia. Un bell'imbarazzo per il Monti, poi perfino agitato.
Ma il Monti, la Cantica non l'aveva terminata, ma lasciata in sospeso. Allo spettacolo della guerra che nel '93 si preannunziava, il Bassville dall'altro mondo, "pentito" dei suoi orrendi misfatti, chiede piangendo all'angelo "a chi propizie volgeran le sorti?". L'angelo non risponde, ma promette una risposta, e qui il poema termina.
Monti aveva fatto bene a non dare la risposta e a quel punto interrompere.

C'interrompiamo anche noi, per soffermarci su questi drammatici anni storici, che vivono prima il maturo Monti, poi il giovane Foscolo, ricorrendo ad una pagina del già accennato Francesco De Sanctis, quando ci fornisce di quel periodo la situazione sia letteraria sia politica:

"L'autore della "Bassvilliana" aveva Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio. L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè l'impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che il frutto di un'ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano "libertà", bene inteso la "vera libertà", come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutti i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gettò sul teatro l'"Aristodemo", che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s'insanguinò, in nome della libertà combattè la licenza, e scrisse la "Basvilliana". Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò Napoleone, e in nome anche della libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime erano sempre quelle, applicate a tutti i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che facevano i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre "libertà", "giustizia", "patria", "virtù", "Italia". E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si teneva stretto alla maggioranza, e non gli piaceva fare il martire.

"Fu dunque il segretario dell'opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buon amico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d'animo, che per malignità o perversità d'indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura, poteva da lui uscire un poeta. Orazio è interessante perché si dipinge qual è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda perché sotto la magnificenza di Achille sentì la meschinità di Tersite, e più alza la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo. C'è quel falso eroico, tutto di frase e d'immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le più alte qualità dell'artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un'assoluta padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l'impulso morale. Pure i suoi lavori, massime su l' "Iliade", saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello studio sarà, che non basta l'artista quando manchi il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli, forza, molto seguito. Un popolo così artistico, come l'italiano, ammirava quel suo magistero a freddo, quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo, in cui era più da compatire che da biasimare…".

"…Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà Monti fu censurato per la sua "Basvilliana" con lo stesso furore che l'avevano applaudito. Un giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.
L'Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di diritti territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano "libertà e indipendenza nazionale": dietro alle loro baionette c'era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso ai soldati e penetravano nei più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue periodiche eruzioni, finche non fu soddisfatto.

"Quei grandi avvenimenti (prima rivoluzionari, poi napoleonici) colsero l'Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, che era la classe colta, trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria, aspettavano prima tutto dai principi, poi tutto dai forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al seguito dei loro liberatori, come clientela messa lì per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passata la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e d'invasore, gettarono alte grida, e cominciò il disinganno.

"I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, dove le idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata poco dopo a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desideri che non si sono più potuti sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il convegno dei più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri, che nei primi entusiasmi aveva cantata la liberazione dell'America e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel "Misogallo", nelle "Satire" l'acre umore, e (anche lui) contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se n'andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi…."

"…Poi comparve "Iacopo Ortis". Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di un'insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all'Austria.
Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo "Iacopo Ortis". La sostanza del libro è il grido di Bruto: "O virtù, tu non sei che un nome vano". Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illimitato di Alfieri con tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione.
Siamo ancora nella gioventù, non c'è il limite. Illimitate le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna c'è la follia delle speranze, al primo disinganno c'è la follia delle disperazioni.
Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quell'agitazione d'idee astratte ch'era in Italia, venuta da' libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall'esperienza, e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo Ortis un sentimento morboso, un'esplosione giovanile e superficiale, più che l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più alla riflessione astratta, che alla formazione artistica, un'immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.

"Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu il libro delle donne e de' giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non gli si diede importanza politica né letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del "Werther". Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggisce dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d'illusioni, appassionato, con tanto "furore di gloria", con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo getta violentemente in sé, gli rode l'anima.
È la malattia ch'egli chiama nel suo "Ortis" con un'energia piena di verità "consunzione dell'anima". Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora a fantasticare, scrivere se stesso in verso ("Ritratto")ora giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni…." (Francesco De Sanctis, "Storia delle Letteratura Italiana)

Agitata, avventurosa e degna di romanzo fu la vita di Ugo Foscolo
Vedi qui un'altra dettagliata biografia, la sua immagine, le opere).

Ugo Foscolo nasce a Zante (Zacinto), isola greca dello Ionio, il 6 febbraio del 1778, suo padre Andrea, veneto, è medico di bordo della marina veneziana; sua madre Diamantina Spathis è una greca di 31 anni, 7 più del marito. Ugo è il primo di quattro fratelli, dopo di lui nasceranno Rubina e Giovanni Dionigi. Giulio, l'ultimo verrà alla luce nel 1787, quando tutta la famiglia si è già trasferita a Spalato; lì Ugo frequenta il Seminario, dove compie i primi studi con poco profitto e viene espulso, per aver picchiato due maestri; lo confesserà al Monti, con rimorso, non per l'atto compiuto quanto per aver perso le lezioni di latino. Nel 1788 muore il padre. La madre parte quasi subito per Venezia, i figli sono affidati alla nonna materna e alle zie di Corfù; Ugo undicenne invece va a stare con una zia a Zacinto.
Quattro anni dopo, nel 1792, è con la madre a Venezia, dove continuò gli studi iniziati nell'isola natia, in un'altra isola a Murano, nella scuola laica di San Cipriano, dove ha come primo maestro Angelo Dalmistro. Quindicenne, sedicenne, si fece subito notare per il suo ingegno e per il suo amore alla poesia, che gli procurarono gl'incoraggiamenti e le lodi del Cesarotti, del Pindemonte, del Bertola, del Cicognara, del Costa e del Mustoxidi. Sono però anni di povertà, ma appena può va a Venezia, e anche qui, oltre che farsi notare per la sua vivacità mentale nei circoli letterari (lui conosce bene il greco e sa il latino) con la sua aria da bohemien è ammirato e stringe amicizia con le belle donne, prima fra tutte, l'affascinante Isabella Teotochi Albrizzi, che ha pure lei un salotto letterario, che lo accoglie, ed è, all'età di 16-17 anni, la donna della sua prima passione.
Ammiratore di questo giovane greco c'è pure Melchiorre Cesarotti, che è traduttore di Omero, ma che è anche un gran patriota; Venezia non è, in certi ambienti, rimasta immune al vento rivoluzionario. Come abbiamo letto nei riassunti storici, questi anni che vanno dal 1794 al 1797 sono critici non solo a Venezia.

Il giovane Ugo salì in fama di poeta, appena diciannovenne, proprio nei mesi della stagione 1796-1797 con la tragedia "Tieste", che, fra i più vivi applausi fu rappresentata per dieci sere consecutive al teatro S. Angelo dì Venezia. Tenuto d'occhio per il suo spirito ribelle e per i suoi sentimenti di libertà, pericolosi per l'antica (e vecchia) repubblica a causa della vicinanza dell'esercito del Bonaparte, il Foscolo se n'andò subito dopo questo successo, a Bologna, dove pubblicò la famosa "ode a Bonaparte liberatore" e si arruolò nei Cacciatori a cavallo.

Caduta la repubblica della Serenisssima, il 16 maggio del 1797, tornò a Venezia; le sue precedenti conoscenze che furono causa del suo allontanamento ora venivano utili, e il suo ingegno pure, ed ebbe così uffici dal governo provvisorio e s'impegnò molto nel partito dei novatori, ma ceduta la sua patria adottiva all'Austria con il trattato di Campoformio, abbandonò Venezia e si recò a Milano. Se già prima a Venezia si trovava male nell'ammuffito conservatorismo del patriziato, con i burocratici austriaci nella città lagunare con ci poteva proprio stare.

A Milano, nella capitale della Cisalpina, il ventenne Ugo, fu assiduo frequentatore del circolo costituzionale, dove spesso fece udire la sua voce con infuocati discorsi; fu redattore con il Custodi e con il Gioia del "Monitore Italiano"; fu amico del Parini e del Monti e quest'ultimo (in quest'occasione) lo difese coraggiosamente da accuse politiche; ma rimasto disoccupato, si trasferì a Bologna, dove ottenne un modesto impiego come aiutante del Cancelliere del Tribunale criminale; iniziò la pubblicazione di un periodico intitolato "Genio democratico" e diede alla luce la prima parte delle "Ultime lettere di Jacopo Ortis".
Giunti, nel 1799, gli Austro-Russi in Italia, (vedi questo periodo nei riassunti) il Foscolo lasciò la penna per la spada. Fu fra primi alla presa di Cento, dove riportò una ferita; catturato da una banda di contadini a Monteveglio il 30 maggio e tradotto a Modena, vi fu liberato il 12 giugno dal Macdonald; unitosi nel 1800, al primo reggimento degli Ussari cisalpini, si trovò con essi, il 21 giugno, nella celebre battaglia di Marengo, il 17-19 luglio alla Trebbia, il 15 agosto a Novi. Ritiratosi a Genova, indirizzò al Bonaparte, con l'ode ristampata, una sdegnosa lettera e allo Championnet un "Discorso su l'Italia", dettò l'ode bellissima a "Luigia Pallavicini caduta da cavallo" e partecipò alla difesa della città sotto il Massena coprendosi di gloria all'assalto del forte dei "Due Fratelli" e rimase ferito al combattimento della "Coronata".

Dopo la resa di Genova, il Foscolo andò ad Antibo, quindi, promosso capitano, ebbe, tra il 1800 e il 1804, varie missioni. Fu ad Alessandria, a Milano, nell'Emilia, nelle: Romagne e in Toscana; s'innamorò a Firenze della bella Isabella Roncioni; a Milano fu preso da una torbida passione per la contessa Antonietta Fagnani Arese; a lei scrisse mirabili lettere e l'ode stupenda "All'amica risanata"; e intanto scriveva l'"Orazione a Bonaparte pel congresso di Lione", pubblicava l'edizione definitiva dell' "Ortis" e traduceva e commentava il poemetto di Catullo "La Chioma di Berenice".

Nel 1804, ripreso il servizio militare, il Foscolo andò in Francia, dove il Bonaparte radunava armi ed armati per la spedizione in Inghilterra, che non fu mai effettuata. In Francia, dove rimase circa due anni, il poeta conobbe ed amò Fanny Emerytt, dalla quale ebbe una figlia, Floriana, e la Pétiet, studiò l'inglese, tradusse il "Viaggio sentimentale" di Lorenzo Sterne, scrisse epistole, sonetti ed inni e pronunziò arringhe, tra i quali degna di menzione quella in difesa del sergente Armani.
Tornato in Italia, visse due anni tra Milano e Brescia, dove s' innamorò di Marzia Martinengo, e pubblicò un "Esperimento di traduzione dell'Iliade", i "Sepolcri" e le opere Raimondo Montecuccoli. Nel 1808 ottenne la cattedra di eloquenza all'università di Pavia; ma la tenne solo un anno, fino a quando cioè fu soppressa. Qui pronunziò la famosa orazione inaugurale "Dell'origine e dell'ufficio della letteratura".

Altri amori ebbe a Milano e a Como, dove vi si recò dopo Pavia, e dovette sostenere non poche polemiche con letterati invidiosi della sua fama; i quali, la sera del 9 dicembre 1811, contribuirono non poco all'insuccesso della tragedia foscoliana "Aiace", rappresentata al teatro della Scala, e fecero sì che per motivi politici fosse proibita e il poeta esiliato.

Il Foscolo si recò prima a Venezia, poi a Bologna e infine a Firenze, dove conobbe ed amò la buona, devota e generosa Quirino Mocenni Magiotti, compose la sua terza tragedia, la "Ricciarda", che fu rappresentata a Bologna il 17 settembre del 1813, e cominciò il carme "Le Grazie".

Il 21 novembre, essendo il regno italico minacciato dagli Austriaci, il poeta corse Milano e riprese servizio nell'esercito. Ma gli avvenimenti precipitarono. (vedi nei "Riassunti storici"), il viceré Eugenio stipulava con il Bellegarde, il 16 aprile del 1814, un armistizio e il 20 scoppiavano a Milano i famosi tumulti. In quella giornata drammatica, il Foscolo strappò dalle mani della folla il generale Peyri e, scampato per il suo coraggio alla furia popolare s'impegnò, ma invano, affinché fosse salva la vita del ministro Prima (altro episodio che abbiamo narrato) trascinato lungo le strade e linciato a colpi di punte di ombrelli.

Il 30 aprile, pregato dai comandanti della Guardia civica, scrisse un fiero documento indirizzato alle grandi potenze, chiedendo l'indipendenza, la possibile integrità e la monarchia costituzionale del regno d'Italia. Ma non ci fu più nulla da fare, era ormai stata decisa la dominazione. L'Italia ritornava al secolo precedente, alla repressione, alla censura, alla totale subordinazione.
Entrati gli Austriaci a Milano, il Foscolo diede le dimissioni dalla milizia, ma non furono accettate. Il nuovo governo cercava di attirare a sé il poeta con lusinghe ed offerte ed era riuscito a fargli accettare la direzione di un giornale con un lauto stipendio; ma quando seppe che doveva vestire la divisa austriaca e prestare il giuramento di fedeltà al nuovo sovrano, il Foscolo rifiutò di mettersi al servizio dei nemici della sua patria e della libertà e, pur privo di mezzi, prese la via dell'esilio.
E' l'atto conclusivo della vita di un uomo, che non vuole piegare la testa, e che preferisce una terra straniera, piuttosto che barattare la sua libertà con le lusinghe e le ricompense dei nemici.
Si congeda dalla famiglia con una bellissima lettera, in cui scrive, tra l'altro:
"L'onore mio e la mia coscienza mi vietano di dare un giuramento che il presente governo domanda per obbligarmi a servire nella milizia, dalla quale le mie occupazioni e l'età mia e i miei interessi mi hanno tolta ogni vocazione. Inoltre tradirei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere, e con vendermi a qualunque governo. Se dunque, mia cara madre, io mi esilio, tu non puoi né devi né vorrai querelartene, perché tu stessa mi hai ispirati e radicati col latte questi generosi sentimenti; e mi hai più volte raccomandato di sostenerli"
.
Lui partiva, mentre il suo avversario Monti, cambiava un'altra volta pelle, ingraziandosi gli austriaci con cantate quali "Il mistico omaggio"o "Il ritorno d'Astrea". E forse rispolverò la "Basvilliana" che aveva rinnegato.

Il 1° di aprile del 1815: il Foscolo giunse in Svizzera e vi rimase più di un anno, cambiando spesso città per sfuggire alle ricerche della polizia, aiutato nella miseria da amici lontani e specialmente dalla fedele Quirina Mocenni. Durante il suo soggiorno svizzero ristampò l' "Ortis", scrisse un piccolo saggio di critica letteraria intitolato "Vestigi della storia del sonetto italiano dall'anno 1700 al 1800", pubblicò l' "Ipercalisse", visione allegorica in cui scaglia contro i suoi nemici e i governanti, e compose i discorsi "Della servitù d'Italia".
Dalla Svizzera si recò in Inghilterra, giungendo a Londra l'11 settembre del 1816. Voleva portarsi dietro la Quirina, la voleva pure sposare, la donna conoscendolo nel profondo rifiutò scrivendogli una sincera e nobile lettera:
"Tu perderesti il solo bene che ti resta, la libertà e l'indipendenza assoluta; io non potrei offrirti quel che vorrei di cui madre natura mi fu avara, e che l'età mi toglie. Vorrei piuttosto morire che essere cagione del tuo malcontento. Tu puoi trovare una compagna che sia degna di te, nobile, giovane, ricca, avvenente, amabile….io, non avendo nessuna di queste doti, ti sarei a carico come moglie"
.
In Inghilterra, trascorsero gli ultimi anni della sua vita, vita piena d'operosità, di speranze, di disinganni, di brevi agiatezze e di lunghe miserie. Per la Edinburg Review scrisse i due importantissimi saggi: "Dante e il suo secolo" e "Discorso sul testo della Divina Commedia", per l'Hobhouse dettò il "Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo decimonono", pubblicò i "Saggi sul Petrarca" per i tipi del Murray, e su giornali e riviste stampò articoli vari, su Pio VI, "Delle fortune e della cessione di Para", sulla poesia di Michelangelo, su Federico II e Pier della Vigna, su Guido Cavalcanti, sulle liriche del Tasso, sul Digamma eolico, su Sordello, "Sugli antiquari e critici", "Sull'impresa di un teatro per musica", "Sulla nuova scuola drammatica in Italia", "Sulle donne italiane", sulle costituzioni democratica ed aristocratica di Venezia, sulla Regina Cristina e il Monaldeschi, sul Boccaccio, sul Filicaia, sulla "Letteratura italiana periodica" e sulla "Gerusalemme" del Tasso.
E ancora scrisse un importante "Discorso sul testo del Decamerone", un commento alla prima cantica dantesca, la "Lettera apologetica", che è quasi il suo testamento, e molte altre cose che rimasero incompiute o ci sono giunte a frammenti.
Ritrovata la figlia Floriana, ne sciupò per la mania del lusso il patrimonio; perseguitato dai creditori, dovette cambiar nome, dar lezioni di lingua italiana per vivere, abitare in una stamberga, fino al momento in cui alle 8 e tre quarti della sera del 10 settembre del 1827, la morte lo liberò da un'esistenza penosa ed insopportabile. Fu sepolto nel piccolo cimitero di Chiswick e nel 1871 le sue ceneri, tornate dall'esilio, furono poste nella chiesa di Santa Croce a Firenze.

Scritto forse nel 1801 o 1802, il suo "Ritratto" lo terminava così:
"...cauta in me parla la ragion, ma il core,
ricco di vizi e di virtù, delira.
Morte, tu mi darai fama e riposo"
.

COSA CI RIMANE DI LUI

Come critico e come poeta - specialmente come poeta il Foscolo occupa uno dei primi posti nella storia della nostra letteratura. Critico il Foscolo fu non per disposizione d'animo, ma per bisogno di vita, quando, spinto dalla necessità di procacciarsi uno stabile e sicuro compenso, sollecitò ed accettò il posto di professore d'eloquenza all'università di Pavia, o quando, esule volontario in Inghilterra, perseguitato dai creditori, in eroica lotta con la fame, bussava alle porte degli editori e delle riviste, offrendo per poche lire i suoi scritti meditati e vergati in faccia allo spettro pauroso della miseria. Ma fu critico anche per vanità, quando ai contemporanei, che tenevano la dottrina in maggior considerazione che non l'arte e le Muse, volle mostrare di saper gareggiare vantaggiosamente con gli eruditi, e accompagnò il volgarizzamento della "Chioma di Berenice" con tutto il pesante bagaglio della sua vasta erudizione.

E fu critico novatore e personalissimo nel secolo in cui, dimenticate le audacie del Baretti e le disinvolte intemperanze del Bettinelli e le argute compostezze del Gozzi, la critica si adagiava pigra sui canoni di Aristotile e di Orazio ed era vuota accademia, muffa di biblioteche, vecchia, e insulsa pedanteria.
Il Foscolo le dà un'anima e una fede, discepolo ideale del Vico di cui per primo in Italia accetta e tenta di attuare le teorie.

La letteratura d'Italia non era libera manifestazione dello spirito, ma pura o interessata esercitazione retorica; arcadica e cortigiana la poesia; falsa, smidollata, non suscitatrice di virtù civili la storiografia; mercato ignobile il giornalismo, venduto ai principi e facile dispensiere di onori; accademica era l'eloquenza, non rivolta a far vibrare le corde del sentimento; orpello, suono non rampollato dall'anima, lenocinio di forma, meccanismo puramente esteriore l'arte.

Scrive il De Sanctis:
"Natali, Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo "concordato". Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò che muove il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Non è più un "credo", è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli basta che siano sante; vuole che siano belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la sostanza dell'arte moderna, chiamata "romantica". La critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di "classico" e di "romantico", di "plastico" e di "sentimentale" di "finito" e di "infinito. (De Sanctis, op. cit.)

Nella sua prolusione universitaria "Dell'origine e dell'ufficio della letteratura" il Foscolo staffila a sangue il mondo letterario del suo tempo, rimprovera dotti e dilettanti dell'indegno ufficio che hanno assegnato alla letteratura della patria ed ammonisce che la letteratura deve scaturire dalla vita e ad essa, accordarsi, che deve avere una coscienza ben chiara delle sue funzioni educatrici, che non deve infine essere vuoto diletto o mezzo indecoroso o espressione cui manchi la serietà di un mondo morale.
La critica, quando non era ricerca empirica di fonti, freddo elenco di nomi e di date, prolissa e pomposa biografia, encomio bugiardo, era ancora imperniata sui precetti dei retori e dei grammatici o tentava di liberarsene rifugiandosi nel razionalismo e nel sensismo. Il Foscolo intuisce e scopre una via nuova additando più ai posteri che ai contemporanei un orizzonte vasto ed inesplorato.
L'arte per il Foscolo non è forma che vive in sé e per sé sola, della sua fredda eleganza, estranea al mondo e alla vita dello scrittore; è invece creazione, intima espressione dell'anima; è tutto il mondo dello spirito, che, dopo un faticoso travaglio interiore, si manifesta con i suoi caratteri inconfondibili; e la forma altro non è che la perfetta fisionomia della vita interiore fatta di fantasmi, d'immagini, di concetti, di sentimenti. Così nell'artista c' è l'uomo con le sue passioni e le sue aspirazioni e, intorno, non c. è il deserto e la solitudine, ma il mondo, piccolo o grande, che è alimento e insieme sbocco della vita dello spirito umano.
Da ciò deriva che il critico non è il controllo della giusta applicazione da parte dello scrittore dei canoni retorici, e non è nemmeno il riassuntore degli scritti altrui; ma l'interprete dell'opera d'arte. Il critico deve rifare la strada percorsa dall'artista nell'esprimere la vita del suo mondo interno, penetrare nel mistero della creazione, coglierne gli aspetti e rivelarli agli altri, giudicando se e quanto l'espressione abbia falsato la concezione; il critico deve mettersi in intima comunione con l'artista, viverne il mondo interiore e farlo infine rivivere nella sua interezza, in commossa e complessa rivelazione, gli altri.
E' la critica psicologica che precorre ed annuncia l'avvento della critica estetica. Il Foscolo non è però un teorizzatore; le leggi estetiche da lui intuite si ritrovano come germi fecondi nei suoi saggi e studi, nati dal crudo bisogno ed ispirati ed alimentati dall'amore infinito per la patria letteratura.

Sia che discorra dell'origine e dell'ufficio della letteratura o detti le lezioni d'eloquenza, sia che scriva dello svolgimento del romanzo o illustri le opere di Raimondo Monteuccoli, sia che parli di Michelangelo o di Federico o del Digamma eolico o studi il testo della Divina Commedia o quello del Decamerone, sia che s' intrattenga sulle liriche del Tasso o sul carattere, sugli amori e sulla poesia del Petrarca, tratteggi Pier delle Vigne o Farinata, Francesca da Rimini o Laura, il Foscolo penetra nell'anima degli artisti, ne interroga i moti e ne scruta i fantasmi e ci comunica con accento commosso le sue indagini psicologiche, le sue impressioni, i risultati delle sue analisi e delle sue ricostruzioni. Le sue pagine critiche, piene di acutezza e di buon gusto, sono riscaldate, vivificate, illuminate dal genio del poeta e si elevano anch'esse all'altezza di opere d'arte.
Pur nella critica lo scrittore è e rimane poeta, divino alunno di quelle muse che non tradisce mai, narri le disperate angosce di Ortis o mostri sdegnoso al Bonaparte le tristi condizioni della Repubblica Cisalpina, versi nel seno della sue innumerevoli amanti l'onda infinita della sua malinconia o il tumulto e il travaglio della sua passione, preghi le Grazie davanti all'altare di Bellosguardo o interroghi lo spirito degli eroi fra le tombe di Maratona, della Troade o di Santa Croce. Perché poeta sopratutto fu lui in tutte le manifestazioni della sua vita e del suo intelletto, nei furori erotici e nei furori patriottici e politici, sui campi di battaglia e nelle tribune repubblicane, nei sogni di grandezza e nel desiderio di fasto, nel contrasto tra il sogno e la realtà del quale fu vittima.

Foscolo, ebbe la culla a Zante, in quel mare dove quando il vento si aggira senti il suo lamento, o quando è calmo, nel silenzio, in lontananza, senti il suono della lira, o la sacra cetra italica. Grecia e Roma: ecco le due patrie del suo sangue e del suo spirito; mai i ghiacciai dei monti svizzeri, o le nebbie britanniche offuscheranno per un solo attimo la luminosità mediterranea della sua poesia. Anche quando trae ispirazione dai ricordi di scuola, egli si sente prima greco e poi romano; greco-latina è, infatti, ed essenzialmente la sua cultura, sebbene abbia letto i moderni, specie gli enciclopedisti gallici; e infine la fisionomia romana è nella sua fantasia e nel suo desiderio, che riassume in quell'Italia che lui sogna -e che sembra per un "attimo" essere ritornata- sotto le insegne della grande repubblica di una volta.

Nel rievocare la grandezza e la bellezza dell'antichità il Foscolo è sempre sincero, anche quando il tono rassomiglia a quello d'un retore; sincero è, ad esempio, quando, invaso dal furore di libertà, al Bonaparte, che come una furia, vittorioso incalza gli Austriaci, gli invia un panegirico-lode, zeppo di mitologia e di romanità. È questo il momento in cui il poeta si illude che il suo mondo fantastico, l'Italia dei suoi sogni, stia per diventare realtà, e la sua voce è quella del vate e del tribuno insieme. Ma Venezia è venduta all'Austria, il sogno scompare e rimane la realtà angosciosa. Il mondo del Foscolo, d'ora in avanti, non subisce, che cambiamenti molto lievi. La sua realtà esterna è e sarà la patria dolorante; le speranze, i suoi dolori, le sue disillusioni personali s'identificano con quelli d'Italia.

Da questo mondo, al quale, al contrario di Vincenzo Monti, non sa e non vuole adattarsi, nasce l'Ortis", si schiudono "i Sepolcri", germogliano "Le Grazie".

Il primo è il grido angoscioso del patriota che nella morte delle sue speranze vede la fine della sua vita; nel carme eroico c'è lo scetticismo animato dall'amor patrio e c' è l'altissimo monito del poeta alle generazioni italiche; nell'ultimo carme c'è il rifugio estremo della passione angosciosa, c'è la pace e il riposo in seno all'eternità della bellezza e della voluttà.

Sordi alle parole del De Sanctis, discorrendo dell' "Ortis", i critici anche oggi richiamano il "Werther" del Goethe. Ma in arte, ove non ci sia plagio, i motivi, le reminiscenze, i modelli non invalidano l'opera, e il Foscolo stesso, scrivendo al Goethe, se confessa che forse i casi di "Werther" hanno dato origine all' "Ortis", tiene a dichiarare che nel romanzo di Jacopo egli ha dipinto sé stesso, le sue passioni e i suoi tempi ed ha tratto tutto dal vero.
La somiglianza tra i due romanzi è più formale che sostanziale. Nel "Werther" c'è la storia di un'anima e il dramma di una vita e ne è l'epilogo il suicidio; nell' "Ortis" invece c' è una tragedia individuale in una tragedia nazionale e con i casi di Jacopo non si racconta come in lui sia nata e si sia sviluppata l'idea del suicidio. Quest'atto dì violenza non è la conseguenza logica delle vicende narrate. Quando comincia il dramma Jacopo (Ugo) ha l'anima predisposta al suicidio; ha perduto la patria, ha visto tramontare il suo sogno di libertà, ha perso i parenti e l'amore; non ha più forza e volontà di lottare e di rifarsi un avvenire e non spera più nella rinascita delle sue illusioni. Il suicidio è in potenza, ma Jacopo vive ancora, come un condannato che sa di dover morire e debolmente spera nella grazia.
Il romanzo foscoliano è uno stato permanente dell'anima protesa al suicidio e perciò vi manca l'azione e perciò l'espressione è eminentemente lirica perché è l'espressione dell'animo agitato. Dallo stato d'animo di Jacopo poteva uscire un canto addolorato, non un romanzo, sia pure psicologico. In una situazione identica si trova il Leopardi, conscio del suo genio cui fa contrasto la sua deformità, sfiduciato della vita, escluso dall'amore, e ci dà l'angoscia immortale nell'" Ultimo canto di Saffo".
Della tragedia di Jacopo è coetanea e sorella l'attività poetica del Foscolo, e le sue poesie di quegli anni sono quasi un commento e un'appendice al romanzo. Egli canti in versi facili ed armoniosi che, dileguati i sogni di poesia e di amore, gli balena nella mente l'idea della morte, e lo tengono ancora attaccato alla vita solo furor di gloria e carità di figlio; canta la sua vita randagia e l'avverso destino; dice di sé stesso che solo morte gli darà pace e riposo e chiude il sonetto alla sua natia Zacinto con la terzina piena di lacrime

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Ma se Jacopo si uccide, Ugo vive e rinascono nel suo cuore le speranze e la risoluzione di operare, perché "breve è la vita e lunga è l'arte"; però la vita per lui non è più quella che sognò giovinetto nelle fiorite campagne di Zacinto davanti allo Jonio popolato di divinità o nelle calli veneziane al cospetto dell'Adriatico azzurro imperlato di vele. La dolce fede dei padri non gli è più di sorriso e di conforto e non può più somministrargli serenità o rassegnazione nei mali e nelle sofferenze della vita. Il dubbio è il tarlo che gli rode l'anima e lo spinge ad esplorare il fitto mistero delle cose. Dall'ansiosa ricerca nessun barlume di luce è venuto a rischiarare le tenebre, e il Foscolo, portatovi dall'educazione romana e paganeggiante del suo intelletto, si accosta allo stoicismo che i grandi Romani spingeva serenamente al suicidio, e si rifugia infine nel materialismo e nel sensismo, che sono le due grandi correnti filosofiche del secolo XVIII.

Scettico e fatalista insieme, il Foscolo pensa che una forza bruta ed ignota governa il mondo e condanna gli uomini ad una vita dolorosa per poi farli piombare nel nulla; pensa che il senso e non la ragione, è la guida dei mortali, e l'egoismo è il mezzo e lo scopo alla vita del mondo. Il cieco ed occulto potere che domina l'universo si manifesta nell'eterno Moto, che, operando incessantemente sulla materia, dà vita a tutte le cose e le travolge, trasformandone in perpetuo gli aspetti.
Il moto insomma è l'anima dell'universo, ed oltre il moto c' è il nulla e l'oblio che avvolge ogni cosa nella sua notte. Questa concezione pessimistica della vita ha un solo sbocco: la morte; oltre la morte non i regni paurosi o beati creati dalla pietà, dalla fantasia, e dalla fede dell'uomo.

Il Foscolo va però più in là nel concetto materialistico della vita. Come questa è vivificata e trasformata continuamente dal moto, così l'anima umana, lo spirito umano, che è una delle cose dell'universo, ha un motore esterno che lo affatica senza tregua e lo rende operoso e lo trasforma perpetuamente: l''illusione.
Le illusioni danno uno scopo alla vita dell'uomo, aprono all'anima orizzonti infiniti ove danzano le chimere, sospingono fatalmente lo spirito dietro i sogni e le speranze. Le illusioni generano nell'anima dell'uomo le fedi, l'amore, il desiderio, le virtù, le passioni, e lo fanno tendere verso mete irraggiungibili: la felicità e la gloria. La vita umana, che è duro e quotidiano pellegrinaggio lungo una misteriosa via segnata dal destino, è confortata dalle illusioni, e il succedersi e l'intrecciarsi delle illusioni forma la complessa vita dell'umanità e delle nazioni. Sotto la spinta delle illusioni, che sono la forza motrice dello spirito, l'uomo crede ad uno scopo morale e materiale della sua esistenza, sogna, lotta, muore; si crea l'oltretomba, e perciò una fede e una religione, crea delle norme morali che chiama virtù e ad esse conforma il suo vivere e le esalta.

Guai se non ci fossero le illusioni! La vita umana apparirebbe in tutta la sua orrida nudità, in tutta la sua aridità, in tutto il suo squallore, governata dall'istinto e dalla brutalità. L'illusione è la dolce e necessaria poesia della vita, la rende utile e bella, ha la potenza di cancellare o di trasformare la realtà triste, di popolare un deserto di lieti fantasmi, fare ascoltare nella solitudine soavi armonie la solitudine, di colmare il nulla, di rendere meno brutto e pauroso il volto della morte.

Da questa concezione della vita nascono "I sepolcri"; ma nascono anche dalla realtà medesima della vita del Foscolo, il quale nella prostrazione della patria, nell'angoscia della sua esistenza, nell'irrequietezza del suo animo, sente il bisogno del conforto e si rifugia nelle illusioni e glorifica i sepolcri, che sono i segni tangibili delle illusioni umane, pietose irrealtà in una realtà sconsolata. Ci attestano che l'uomo crede all'immortalità dell'anima, ad un mondo soprannaturale, premio e castigo alle azioni umane, essi perpetuano l'amore, la pietà e il ricordo oltre la morte, fanno rivivere allo sguardo dei superstiti le virtù del passato e sospingono i vivi all'esempio.
All'ombra dei cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?.

Nel carme foscoliano ci sono parecchie età e parecchi mondi: c' è il mondo dì Troia e il mondo della Grecia e il mondo di Roma e il mondo d'Italia, ahimè non ancora risorta; e c' è la visione eroica e grandiosa dell'epopea ellenica e troiana: la pianura di Maratona si stende davanti a noi, campo immenso d'invisibili tombe; e la leggenda al soffio animatore della poesia diventa realtà e la battaglia rivive e si rinnova; fumo e polvere, e scintille che rompono le tenebre della notte tragica, e il cozzar di elmi e di spade, le falangi tumultuose, l'incalzare dei cavalli, il suono delle trombe, i gemiti di moribondi e infine il canto delle Parche. Più oltre, nello spazio e nel tempo, il deserto reso sacro dalle preghiere. Preghiere di Elettra, dalle profezie di Cassandra e da tutto un popolo perito con le armi nel pugno nella lunga disperata difesa delle case, dei tempi e delle terre della patria.
Il carme è un tempio gigantesco, il tempio della gloria immortale e del ricordo perenne, popolato dalle divinità protettrici, consacrato dalle tombe degli eroi, custodito dai sacerdoti della patria. E la religione è quella di tutta l'umanità. Nel tempio scompare l'idea di nazione, e la religione è una ed abbraccia popoli diversi e tempi lontani e vicini, dai figli di Priamo a Nelson, da Maratona a Firenze. Ogni distanza è abolita; sotto gli archi enormi, eretti dalla fantasia del poeta ha il suo posto il vincitore di Abuchir e di Trafalgar nella bara costruita con l'albero della nave ammiraglia, ed hanno posto Dante e Machiavelli e Galileo e Michelangelo e Alfieri. Non c' è il Parini. Nella fossa comune forse le ossa "…gli insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti". E invano la Musa lo cerca fra le macerie e i tronchi e prega rugiade dalla pallida notte sul suo poeta. I templi, piccoli e grandi, lontani e vicini, si fondono in uno solo: Santa Croce, eterno pantheon della Patria.

Le tombe non sono mute dimore di trapassati; sono altari, e a questi verranno le generazioni a genuflettersi per adorare; i poeti a trarre ispirazione; i guerrieri a temprare l'anima. Nei sepolcri stanno racchiuse le salme degli eroi e gli aneliti della patria; ed a quelli viene la poesia eterna che si aggira nell'ombra dei cipressi annaffiati da lacrime di vedove, e brancolando abbraccia le urne e le interroga e nel canto sublime tramanda all'eternità la memoria e la gloria.

"…Non si cerchino le fonti e non si istituiscano confronti davanti al capolavoro; qui bisogna ascoltare il fremito delle ossa e fremere con esse, porger l'orecchio al gran mare che fluttua portando le armi d'Achille sopra le ossa d'Aiace, al rumore dei popoli cozzanti, alle voci che escono dai sarcofaghi, alle preci divine d' Elettra ed alle ispirate parole di Cassandra, al fruscio dei cipressi e al canto silenzioso e armonioso che allieta i deserti; bisogna contemplare ammirati il divino paesaggio di Firenze, i colli vestiti dalla limpidissima luna o festanti per la vendemmia, le colline popolate di case ed oliveti da cui salgono al cielo mille incensi di fiori; bisogna commuoversi, piangere, esaltarsi, sognare, vibrare di passione, ritrovar la fedi perdute, dimenticare la realtà incalzante, giurare, benedire la divina poesia e le divine illusioni, o meglio, bisogna tacere, genuflettersi e lasciar che l'anima nostra nell'etera armonia preghi" (Paolo Giudici)

Ora l'anima del Foscolo sembra calma e non è; neppure le illusioni gli sorridono più nella dura realtà della vita; le passioni infuriano nel suo cuore e la raffica del dolore lo investe. È la delusione triste dopo le illusioni rasserenanti, e il poeta cerca un rifugio ideale per l'anima sua, e torna all'amore e alla fede per la Poesia e la Bellezza. Al vate succede l'esteta, e l'esteta costruisce un tempio che consacra alle Grazie, che sono le divinità della bellezza e della virtù. Il tempio è pagano, e c'è tutto un mondo di classiche deità e vi spira una serenità come d' Eliso; e una luce purissima scende dal cielo e si spande tra le colonne, la primavera eterna splende tutt'intorno; ma i marmi levigati e perfetti sono freddi e le divinità sono statue prive di vita qualcuna si muove e palpita per un momento quando la poesia si accosta e inizia il misterioso rito propiziatore dell'arte. Ma il tempio non è finito e l'architrave non corre ininterrotto sulle colonne e il sacerdote è lontano tra le nebbie del nord, alle rive del Tamigi, e pur sognando ancora nell'ultima febbre il poggio di Bellosguardo e la sua isola ionia si avvia verso un altro, verso l'estremo rifugio, nel quale troverà la pace e il riposo.

Benedetto Croce collocò il Foscolo tra i maggiori poeti dell'Ottocento e il De Sanctis chiamò i Sepolcri "la prima voce della nuova letteratura, l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo".

MA RITORNIAMO AL MONTI

Maggiore fama del Foscolo ebbe, ai suoi tempi, VINCENZO MONTI.
1754 - Nasce ad Alfonsine (Ravenna) il 19 febbraio.
1778 - Si trasferisce e Roma, dove frequenta gli ambienti della corte papale.
1797 - Si reca a Bologna, poi a Milano e aderisce alle idee della Rivoluzione francese.
1799 - Caduta la Repubblica Cisalpina, si rifugia a Parigi, dove modifica in senso moderato il suo giacobinismo.
1801 - Rientra in Italia dopo la battaglia napoleonica di Marengo.
1804 - Assume l'ufficio di poeta del governo napoleonico.
1814 - Caduto Napoleone e il Regno italico, aderisce al regime austriaco.
1828 - Muore a Milano, il 13 ottobre.

OPERE PRINCIPALI
1779 - Prosopopea di Pericle
1781 - lo bellezza dell'universo 1783 - Pensieri d'amore
1793 - Bosvilliana, (di intonazione monarchico-clericale)
1797 - Prometeo
1801 - Per la liberazione d'Italia
1806 - Il bordo della Selva Nera (scritta in onore di Napoleone)
1815 - Mistico omaggio (in cui appoggia la causa austriaca)
1817 - Proposte di alcune correzioni e aggiunte ai vocabolario della Crusca (in cui si batte contro il «fiorentinismo» linguistico dei puristi, affermando l'unità linguistica come condizione per l'unità nazionale)
1825 - Su la mitologia
1829 - Feroniade (rimasta incompiuta, iniziata nel 1784)
Come detto sopra Monti nacque alle Alfonsine di Romagna il 13 febbraio del 1754 (24 anni prima del Foscolo); fece i primi studi nel seminario di Faenza, dove rimase fino al 1771, quindi si recò a Ferrara per studiarvi legge all'Università e si fece notare per certe sue poesie di stampo arcadico e per una cantica in terzine, la "Visione di Ezechiello", che piacque al cardinale legato Scipione Borghese, dal quale nel 1778 fu chiamato a Roma.
Divenuto segretario del duca Braschi, nipote di Pio VI, ottenne il titolo onorifico di abate e una pensione papale, e ben presto, adulando, seppe guadagnarsi i favori della Curia e, cantando, procacciarsi, in vent'anni di vita romana, fama di grande poeta.
Sono del periodo romano (1778-1797) "La bellezza dell'Universo", cantica in terzine che esaltano la potenza della Beltà nella creazione delle cose e degli animali; nella "Prosopopea di Pericle", paragona l'età dì Pio VI con quella del grande ateniese; l'ode "Al Signor di Montgolfier" che celebra la prima ascensione aerea; il poemetto "Il Pellegrino apostolico", scritto in occasione del viaggio del Pontefice a Vienna; i sonetti "Sulla morte di Giuda"; i "Pensieri d'amore"; le due tragedie "Aristodemo", d'argomento classico, e "Galeotto Manfredi", di soggetto medievale, l' "Epistola" in versi sciolti ad Anna Malaspina per la stampa dell' "Aminta" e la "Musogonìa" in ottava rima.

Nel 1791 il 36enne abate Monti sposò la bellissima Teresa Pikler, che doveva più tardi far parlare molto di sé; nel 1793 a Roma, come già accennata all'inizio, fu ucciso dalla furia popolare Hugon di Bassville, propagandista della rivoluzione, e il poeta compose un poemetto in terzine in cui immagina che, per espiare le sue colpe, l'anima dell'ucciso accompagnata da un angelo, sia spettatrice degli orrori di quella rivoluzione che voleva diffondere. La "Bassvilliana" rimase incompiuta ed è assai lontana dalle altezze della Divina Commedia che il Monti imita nel metro e nella forma di visione; eppure "...c'è in essa gran vigoria descrittiva e, se - come scrive il De Sanctis- fa difetto il calore della passione, c' è quella ricchezza, forse superflua, di colori e di suoni che contribuì in grandissima parte fortuna della poesia montiana".

La sera del 3 marzo del 1797, il Monti, che fino allora era stato il poeta della tradizione fieramente avverso alla democrazia rivoluzionaria, partì improvvisamente da Roma con il generale Marmont, inviato dal Bonaparte al Papa per la ratifica del trattato di Tolentino, e, prima a Firenze, poi a Bologna e infine a Milano, si mostrò ardente fautore delle nuove idee, sforzandosi di far dimenticare agli altri il suo passato, e la tanto applaudita e arcinota "Bassvilliana", anzi cercando di far credere che a Roma l'aveva cantata solo per paura.
Messosi sulla nuova via, "esaltò quel che aveva detestato e vilipese ciò che aveva lodato" nelle terzine sonanti delle cantiche "Il fanatismo", "La Superstizione", "Il pericolo". A Milano cominciò a adulare il Bonaparte nell'incompiuto poema in endecasillabi, "Prometeo", e nel gennaio del 1799 con un inno da cantarsi al teatro della Scala "Il tiranno è caduto. Sorgete", - all'opposto di come aveva fatto prima, glorificò il regicidio, infierendo contro il "vile Capeto" che, alcuni anni prima, aveva, esaltato nei versi della Bassvilliana. Ma il trasformismo non era ancora finito!

Venuti gli Austro-russi in Italia, il Monti, per sfuggire alle vendette, riparò in Francia, e a Parigi compose la sua terza tragedia, d'argomento romano, "Caio Gracco". Poi dopo la vittoria di Marengo di Napoleone, rivalicò le Alpi, salutando la patria con l'ode famosa "Bell' Italia, amate sponde", e la tranquillità della vita gli ispirò un magnifico poemetto in terza rima "In morte di Lorenzo Mascheroni", qui per bocca dell'autore dell' "Invito a Lesbia Cidonia", salito in Cielo e conversante con il Parini, con il Beccaria e con Pietro Verri, deplora gli esaltati e i demagoghi.
Avuta la cattedra d'Eloquenza e Poesia all'Università di Pavia, tenne per un anno l'insegnamento, ma nel 1804 interruppe le lezioni ed accettò l'ufficio di poeta del Governo Italiano. In realtà da allora fu il poeta di Napoleone, che celebrò in parecchi componimenti, fra cui "Il beneficio", "Il Bardo della Selva Nera", "La spada di Federigo II", "La palingenesi politica".
Intanto era nominato "Storiografo del Regno Italico" e nel 1810 portava a termine la meravigliosa traduzione dell 'Iliade, che può considerarsi il suo capolavoro.

Caduto Napoleone, il Monti fece buon viso agli Austriaci e cercò d'ingraziarsi con cantate ed azioni drammatiche quali "Il mistico omaggio", "Il ritorno d'Astrea", "L'invito a Pallade". Dai nuovi padroni -forse un po' diffidenti- , ebbe dei vantaggi, ma non certo come quelli ricevuti da Napoleone e passò gli ultimi anni della sua vita lontano dalla politica, tutto immerso nei suoi studi e tutto dedito alla Musa.
Sono di quest'ultimo periodo della sua attività l'idillio mitologico "Le nozze di Cadmio e di Ermione"; alcuni ritocchi alla "Feroniade" poemetto in versi sciolti cominciato a Roma e dove esaltava l'inizio della bonifica delle Paludi Pontine dovuta a Pio VI; il celebre "Sermone sopra la Mitologia" in difesa del classicismo; ed alcune liriche piene di dolcezza di sentimento; accettò la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca, in cui difende con calore "i diritti della lingua universale italiana contro le arroganti pretensioni dei Toscani, che alla lingua scritta e illustre, comune a tutta la nostra bella penisola, vogliono di sostituire il dialetto particolare che si parla al Mercato Vecchio o nel Casentino".

Afflitto dalla perdita del genero Giulio Perticari, dalle maldicenze contro la bellissima figlia Costanza, da una malattia degli occhi che gli tolse la gioia del lavoro e infine da una paralisi che lo costrinse quasi all'immobilità, il Monti cessò di vivere a Milano il 13 ottobre del 1828. Un anno dopo il Foscolo.

Come uomo il Monti fu fino all'inizio del Novecento giudicato molto severamente; oggi si cerca, forse con eccessivo impegno, di riabilitarlo attenuandone i difetti. Come poeta la fama di cui godette è di gran lunga superiore ai meriti. "La sua arte - scrive il Cesareo, forse un po' esagerando - è una continua menzogna. Per parer sincero dà in iperboli sgangherate; per parer magnifico cerca amplificazioni ventose; per parer ispirato sfoggia figurazioni eccessive; per parer armonioso riesce uniformemente sonoro. Fu un tenace assimilatore, ma dei grandi poeti, che egli imitò, non ritenne se non le abitudini esterne: della Bibbia l'accento profetico, di Dante il cipiglio vendicativo e la terza rima, del Klopstock la decorazione soprannaturale, dell'Ossian la falsa sublimità. Come tutti gli immaginifici, vale a dire i falsi poeti, ogni sua cura egli rivolse alla tecnica, e se ne rese veramente signore. Seppe la varia ricchezza della lingua italiana, trattò tutti metri con agile maestria, fu elegante e spesso potente coloritore d' immagini sparse, ebbe 1a frase pronta e fedele. Appunto per ciò riuscì molto meglio in qualche sonetto, come quello per il ritratto della figliuola, il cui pensiero si compie tutto dentro un'immagine sola; nel poema didascalico della "Feroniade" ove per la natura stessa dell'argomento ciascuna immagine sta da sé e nelle traduzioni, in quella dell' "Iliade" e nell'altra più bella, quantunque meno famosa, della "Pulcella d'Orléans", in cui non si tratta che di lucidare, con perspicacia evidenza, l'espressione dell'originale…"

Qui termina l'incontro-scontro tra il Foscolo e Monti, e qualche critica, ma il giudizio finale sul Monti mi piace darlo proprio con le parole del Foscolo:
Quando fu attaccato con satire ed epigrammi da maligni avversari e dal Monti, con lui il Foscolo ruppe ogni rapporto, rispose alle accuse e, consapevole della sua indole dignitosa fino all'estremo, rivolse allo stesso Monti queste memorabili e schiette parole:

"Discenderemo entrambi nel sepolcro, voi più lodato certamente, io forse più compianto; il vostro epitaffio sarà un elogio; sul mio si leggerà che, nato e cresciuto fra tristi passioni, ho serbato la mia penna vergine di menzogne."
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Vedi qui un'altra dettagliata biografia,
di UGO FOSCOLO
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Giunti a questo punto ora andiamo oltre il Foscolo e il Monti.

Tra l'ultimo decennio del Settecento e i primi dell'Ottocento, si cominciò a chiamare romantico un orientamento culturale che abbracciava ormai ogni ambito dell'attività intellettuale, dalla filosofia alla scienza, dalla letteratura alle arti fugurative, alla musica.
Se in Germania rappresentò la reazione intellettuale della nazione tedesca all'oppressione francese,
i primi colpi di una stessa battaglia (l'oppressione era quella austriaca) ben presto si fecero sentire anche in Italia, ed ebbe il suo pro e contro.
Ed è il prossimo capitolo che segue, che come al solito, più che un'analisi della letteratura, sono pagine legate ai particolari anni della storia d'Italia.

Fonti,  testi e citazioni
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof. PAOLO GIUDICI - STORIA di ROMA e D'ITALIA 
IGNAZIO CAZZANIGA ,  STORIA DELLA LETTERATURA LATINA, 
Nuova Accademia Editrice, Milano 1962).
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

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