LETTERATURA

Dal "PRIMATO" alle "SPERANZE D'ITALIA"
( Letteratura e Politica nel Risorgimento )

* DA MILANO A TORINO L'INDIRIZZO POLITICO IN PIEMONTE
* DAL "PRIMATO" ALLE "SPERANZE D'ITALIA"
* DIVERGENZE E ANTITESI TRA IL ROSMINI E IL GIOBERTI

Nel 1832 Antonio Rosmini scriveva intorno alle piaghe della Chiesa; undici anni dopo, nel 1843, Vincenzo Gioberti pubblicava il Primato. Nel 1844 videro la luce le Speranze d'Italia di Cesare Balbo (ne parleremo nella successiva puntata - Ndr.) , e in quel periodo comparve l'opuscolo di Massimo d'Azeglio sui Casi di Romagna. In due o tre anni vedete sorgere ed raggrupparsi una nuova scuola che si può chiamare piemontese, evidentemente legata con la lombarda. Entrambe hanno un fondo comune d'idee che si può riassumere così conciliazione della religione con la civiltà, col mondo moderno.

Ma c'é una differenza. La scuola lombarda rimase puramente letteraria, artistica, romantica e non volse la sua azione a fini politici o sociali.
Un piemontese, Silvio Pellico, appartiene a quella scuola, segue lo stesso indirizzo che Manzoni aveva dato alla letteratura. Silvio Pellico non é piemontese, di quel Piemonte che si rivelò e si affermò più tardi. Aveva scritto la Francesca da Rimini quando fu mandato allo Spielberg, senz'altro delitto che di aver scritto nel Conciliatore, non essendo egli uomo di azione. Colà scrisse le Mie Prigioni; uscito a libertà si diede, come il Tommaseo ed il Cantù, all'educazione e compose i Doveri dell'uomo. Per mostrarvi com'egli abbia la fisonomia della scuola lombarda, eccovi un suo brano:
"Il progresso sociale verrà con le virtù domestiche e con la carità vile, o non verrà in alcun tempo. Lasciamo dunque stare le illusioni della politica, facciamo cristianamente quel bene che possiamo, ciascuno nel nostro circolo; preghiamo Dio per tutti e serbiamo il core sereno, indulgente e forte" .

Invece, nel Piemonte il movimento è soprattutto politico, l'arte e la letteratura un accessorio. E ciò perché in Lombardia, sotto il dominio dell'Austria, le idee erano costrette a rimanere nel campo letterario; in Piemonte erano secondate e fecondate dallo stesso governo che se ne voleva servire come di leva per fini dinastici e nazionali.

Se coll'immaginazione ci trasportiamo nel Piemonte di quel tempo, vediamo Carlo Alberto nel 1821, semplice principe di Carignano, unirsi con i Carbonari, cospirare con essi per l'indipendenza d'Italia. Le cose andarono male, egli ripudiò i compagni, onde l'immortale ira di Berchet; ma infine quell'atto era la rivelazione del famoso programma piemontese, detto allora per ischerno del carciofo, essendo stata politica del Piemonte acquistare le terre finitime poco alla volta, come si mangiano le foglie"'di un carciofo. Si voleva avere il LombardoVeneto e formare uno Stato settentrionale che assicurasse l'indipendenza italiana: non si parlava ancora di unità nazionale.

Quel programma era fallito quando l'appoggio gli era venuto da' Carbonari, dalla parte liberale della popolazione. Il Piemonte - cioè gli uomini colti che circondavano la dinastia - pensarono di attuarlo con mezzi più sicuri. Ed anche così ridotto, era sempre un programma nazionale. Si pensava non dovesse spiacere al popolo, mirando all'indipendenza dallo straniero, la quale non potendosi conseguire coll'unità, si sarebbe ottenuta stabilendo un forte Stato a settentrione.
Non minacciava i Prìncipi che sarebbero rimasi ne' loro Stati, anzi non avrebbero più subìto l'oltraggio del dominio austriaco. E si credeva dovesse avere il favore del papa perché anche su lui pesava l'Austria; ed avendo quel programma per base la conciliazione della religione con la civiltà, il papa avrebbe rappresentato gran parte, potendo essere quasi capo spirituale di quell'impresa, di cui capo civile e laico sarebbe stato il Piemonte.

I politici piemontesi vollero mettersi all'opera senza aiuto straniero, con le sole forze italiane, assicurando gl'interessi del popolo, de' prìncipi, del papa. Così comprendete come le idee puramente letterarie della scuola lombarda, accettate in Piemonte, vi furono volte a scopo politico.

Nella scuola piemontese s'innalzano tre uomini che rappresentano tre partiti, Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio. Il primo appare in mezzo a quel nugolo di preti che facevano la corte a Francesco, fratello di Silvio Pellico, finito poi gesuita : già s'era costituito in Piemonte un nucleo di ciò che poi fu chiamato clero liberale. - Scoppiò la rivoluzione in Polonia: ricordate l'immortale resistenza dei polacchi contro la Russia. Gioberti fin d'allora si mostrava buon prete, buon cattolico, ma ardente, appassionato; parlava alto della rivoluzione, non celava i suoi voti per la vittoria de' polacchi; ed anche in ciò si rivelava cattolico, la Polonia essendo cattolica, la Russia scismatica. Francesco Pellico - si racconta - lo esortava a tacere, ed egli parlava sempre in modo da compromettere sé e gli altri : indizio, questo, del suo carattere.
In Piemonte l'aristrocrazia era liberale quanto può essere un'aristocrazia, cattolica, istruita. Ad essa appartenevano Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, il conte di Cavour, che la illustrò più tardi.

Chi è stato in Piemonte come me, ha veduto quali sentimenti provi un borghese accanto a quell'aristocrazia.
Gioberti era borghese; talvolta si stancava di rimanere in coda, alzava la testa e si poneva di fronte a' nobili con orgoglio. Così in lui al sentimento cattolico e nazionale si unisce un sentimento democratico che lo distingue dal Rosmini, nato in condizioni ben differenti. Esiliato, fu a Parigi, a Bruxelles, dove sentì l'influenza della civiltà europea, e specialmente l'influenza francese e germanica. Il suo orizzonte si allargò : il piccolo prete tutto teologia e cattolicesimo, fanatico per la Polonia, altero verso l'aristocrazia, chiuso sin'allora nella stretta atmosfera piemontese, a contatto dell'attività europea s'innalzò, si nobilitò.

Ricordate Manzoni che parte dall'Italia tutto Alfieri e Foscolo e Monti, tutto classicismo, e da Parigi torna romantico per l'azione che esercitarono sul suo spirito Goethe, Madame de Staél, Chateaubriand.
Per Gioberti avviene il contrario: partito dal Piemonte teologo e cattolico, con istinto democratico e liberale, in mezzo al movimento europeo sviluppa le sue forze.
Rosmini, sempre chiuso nell'atmosfera italiana, fu straniero a ciò che avveniva fuori di quella. Gioberti, se fosse rimasto nel suo paese, non so fino a che punto avrebbe potuto rivelarsi.
Ma che era quel movimento che si sviluppò dal '30 al '42, spazio in cui Gioberti si trovò a contatto con esso? Quando Manzoni andò a Parigi, dominava la tendenza teologica, la reazione pura, legittimista. Il movimento era divenuto filosofico; a Schlegel erano succeduti Schelling, Hegel, Cousin: si usciva dalle pure regioni metafisiche, si penetrava nelle questioni politiche e sociali. Augusto Comte già alzava la bandiera del positivismo, Saint Simon, Fourier, Louis Blanc, ed artisticamente il Sue, trattavano questioni sociali; la scienza pura, astratta, cedeva il posto alla scienza applicata. Il movimento era al tempo stesso filosofico, politico, sociale: là dobbiamo rintracciare il posto che spetta al Gioberti.


GIOBERTI FILOSOFO

Prendiamo innanzi tutto il filosofo. Avvolto in quell'atmosfera, cominciò a maturare le sue idee, esposte nei Prolegomeni, nel Primato, nell'Introduzione allo studio della filosofia.


(segnaliamo questa "perla"
nella sua difesa dei Principi di nobili natali (ovviamente i Savoia); scrive:
"La democrazia  è la piaga principale dell' Europa,  il vezzo prediletto del secolo; che non bada più al peso e al pregio, non si cura d'altro, che del numero....Il numero accresce la forza, ma non la crea: un branco di pecore è sempre men valido e capace del mandriano che lo guida...La sovranità la si riceve dall'investitura  ereditaria, e per diritto divino, non si fa e non si piglia; un sovrano non può essere creato dai suoi  soggetti, il principe è autonomo rispetto ai sudditi e se ricevesse da loro l'autorità, non sarebbe veramente sovrano, perchè i suoi titoli ripugnerebbero alla sua origine. La sovranità deve essere solamente tramandata, non creata dall'uomo, che non può possederla, perchè lui ne è privo, effettuandosi sempre la trasmissione dall'alto al basso, e non viceversa" "Vincenzo Gioberti, capitolo Della Politica, Studio della Filosofia, Tipografia Elvetica, Capolago, 1849)


Che c'è di europeo? Che vi rimane di quell'attività estranea all'Italia? Che c'è di originale, di suo? In quel tempo tutta la filosofia, sotto il punto di vista negativo e polemico, aveva un solo colore: era battaglia contro il sensismo, diventò poi lotta contro la stessa psicologia. Principalmente furono segni al bersaglio Locke e Condillac, più tardi si andò fino a Cartesio che diventò il primo peccatore, l'autore della riforma, il padre della filosofia moderna finita al sensismo. Quindi dispregio verso gli psicologi ed i sensisti, guerra accanita a Cartesio ed ai suoi seguaci, vituperati come empirici. Capite che questa polemica non si volgeva solo contro la teoria cartesiana, ma anche contro il metodo cartesiano, - cioè contro l'analisi e l'induzione, cui si dà oggi tanto valore, contro l'esperienza e la riflessione sulle cose sperimentate.

Quest'indirizzo polemico domina in Gioberti, sempre accanito contro i sensisti e gli psicologi: apre batterie contro Cartesio, come aveva fatto Vico. Tutta questa parte dei suoi scritti, piena di splendore e di bile, era riflesso del movimento europeo.
Se dunque bisogna mettere da parte Cartesio e il cogito ergo sum; se tutta la filosofia da lui fino a Condillac non é che la natura e l'uomo emancipati dal soprannaturale e dalla fede, affermati come ragione; se tutto questo deve andar giù, è necessario trovare fuori dell'uomo e della natura la verità necessaria, sostanziale, non relativa al pensiero umano. La reazione contro il naturalismo e l'umanismo, contro la natura e l'uomo separati da ogni elemento soprannaturale, doveva riuscire a fondare qualche cosa al disopra. dell'uno e dell'altro, o ciò che si chiamò l'assoluto.

Questa fu anche la base della filosofia del Gioberti un combattere sensisti, psicologi, umanismo puro, tendente a stabilire sull'uomo e sulla natura l'essere ideale, l'assoluto. Ma qui comincia la divergenza, appare qualche cosa propria del Gioberti che si stacca dalla filosofia europea e da Hegel che allora la dominava. Volendo trovare qualche cosa fuori del pensiero, fuori dell'uomo, che avesse la sua ragione di esistere in sé, - la verità indipendente dallo spirito, l'obiettività, come allora si diceva; la filosofia europea pigliava a base la ragione, non intesa nel senso di Cartesio, ma in senso nuovo. Gioberti prese a fondamento dell'assoluto un'altra facoltà, l'intuizione. Per gli uni la ragione era non la facoltà che distingue, divide, analizza, poiché l'analisi era da essi considerata insufficiente; ma una facoltà apposta, la quale riconoscesse che ciò che é nella natura è anche nello spirito, e che le leggi dello spirito sono le leggi medesime della natura. Di qui la celebre identità fra lo spirito e la natura, fra l'essere e il conoscere.
Gioberti respinse questa teoria che menava al panteismo, all'idea assoluta, o, meglio, - e questo è vero - -come quella ch'era un umanesimo mascherato, l'uomo con la maschera di Dio. Tutto questo negava la sua teologia e fu da lui rigettato, e cercò un'altra base che assicurasse l'esístenza: dell'Ente creatore.

Non intendo entrare nel merito di queste questioni. L'Ente creatore di Gioberti, assicurato dall'intuizione, era stato fino allora verità di fede, non ancora verità filosofica; e la novità in Gioberti è l'aver voluto render filosofico ciò che i santi padri avevano affidato alla fede. Egli stesso dice: sono con sant'Agostino; ma il santo, quando tutti credevano, non ebbe bisogno di filosofare, e oggi, in mezzo all'incredulità, bisogna mettere quella formula sotto l'egida della filosofia.
L'Ente creante, che per i teologi era incomprensibile, è dichiarato da lui comprensibile per mezzo dell'intuizione. Ma lascio lo sviluppo di questa teoria dell'Ente che crea con la sua libera volontà tutto l'esistente: non voglio vedere se quest'ipotesi filosofica diventò poi una tesi; ciò ci porterebbe troppo lontano. Importa invece vedere il cammino di quella mente in relazione con le scuole piemontese e lombarda.

Stabilito che l'uomo è dotato d'intuito, cioè della visione diretta dell'Ente creatore, la quale non vi aggiunge nulla di suo - mentre la ragione vi aggiungeva il raziocinio - e che perciò l'Ente rimane obbiettivo, assoluto; - il Gioberti ha l'illusione che questa filosofia sia nuova e, soprattutto, italiana, anzi privilegio d'Italia. Grida perciò contro gl'imitatori dei forestieri, contro la filosofia forestiera, dimenticando quale influenza essa ebbe su lui e sulla sua dottrina.

E cosa fa? Comincia da un'ipotesi: - Gl'Italiani discendono dagli antichi italo-pelasgi; Pitagora ebbe appunto quella dottrina, a modo suo; imitata poi e allargata da Platone.
Il cattolicesimo, che venne dopo, è quella grande facoltà dell'ideale, la visione dell'ente lumeggiata e presentata come centro della civiltà. La riforma è una deviazione, come le sette filosofiche venute dopo, che caddero in grandi errori. Ma l'Italia fu la sola nazione che si tenesse ferma sul terreno del cattolicesimo, sul terreno dell'ideale : Bruno, Vico mantennero la tradizione pitagorica.
Ma perché solo l'Italia conservò quella dottrina? Come la provvidenza ha attribuito al Gioberti la missione di diffondere la dottrina stessa - com'egli finì col credere, - così l'Italia ebbe la missione di essere la terra dell'ideale, della sintesi, dell'intuizione chiara e diretta. Perciò essa ebbe il primato con i Romani, poi il primato nel Medioevo, e lo riavrà sulle genti europee se sarà.... fedele alla sua dottrina.

LA PRASSI POLITICA DI GIOBERTI
Un uomo invasato da quelle idee, che avesse creduto trovare qualche cosa di nuovo, un vero filosofo, avrebbe cercato di stabilire la nuova dottrina, e di diffonderla. Parliamoci chiaro: vi ho mostrato che la filosofia giobertiana in gran parte è eco della filosofia europea: ed il nuovo elemento ch'egli crede avere scoperto è il primo versetto della Genesi: Deus creavit coelum et terram.
Egli dunque tenne nascosta la parte teorica, pubblicata poi come opera postuma, la Protologia. Invece, patriota ardito, uomo politico, piemontese, esule, legato a tutta l'effervescenza d'idee in Italia e fuori, pubblicò il Primato, dove la parte filosofica é appena adombrata, e tutto è rivolto all'applicazione, al modo di ricostituire il primato italiano.
Nella ricostituzione del primato italiano Gioberti distingue due epoche; chiamando la prima Risorgimento, la seconda Rinnovamento. Base della prima è un metodo per cui l'Italia deve uscire dallo stato di servitù; della seconda un metodo per cui l'Italia, liberata, deve ritrovare se stessa nello spirito, nelle istituzioni, nell'industria, e via di seguito. - La prima parte dell'opera, il Risorgimento, fu pubblicata nel 1842, la seconda quando, fallita l'impresa italiana nel 1848, Gioberti andò a Parigi, e là continuò a lavorare, meditando i modi di rinnovare il tentativo.

Il Risorgimento ebbe immenso successo in Italia. Non così il Rinnovamento, scritto con animo adirato contro il Piemonte, che l'autore accusava di tradimento, contro i prìncipi, che non avevan assecondato l'impresa, contro il papa, al quale rimproverava aver disertato la causa italiana: le speranze di libertà erano lontane, l'ingegno di Gioberti era quasi esaurito, il libro non ebbe lo splendore e il calore del Risorgimento. Pubblicato come opera postuma, ebbe pochissima influenza: similmente pochi sono che abbiano letto la Protologia.
Se la base della filosofia per Gioberti è l'Ente che crea l'esistente, la base della sua politica è il papa rigeneratore d'Italia. Il Dio della filosofia ha riscontro nel papa, rappresentante della divinità in terra.
Innanzi tutto, Gioberti pone che il papa ha avuto da Dio la missione di conservare in terra l'idea divina, e poi la missione accessoria di ridare all'Italia il suo primato.


Ma in che modo egli dovrà rigenerare l'Italia? Prima di tutto, mediante un moto intellettuale, cercando convertire gli italiani, allontanandoli dalle dottrine straniere, unendo tutti intorno alla formula dell'Ente creatore. Quando questa prima educazione avrà prodotto i suoi frutti e tutti gl'italiani saranno d'accordo in quel moto intellettuale, tutti crederanno o per fede o per filosofia a quella formola, seguirà un moto educativo politico, civile, religioso, applicando nella realtà della vita tutte le idee che saran divenute patrimonio comune degl'italiani. Così l'Italia sarà rinnovata, non più scissa e discorde, non più le popolazioni basse ignoranti, la borghesia incredula: avremo un'Italia credente intorno al papa, il papa riconciliato con la civiltà.

Solo allora - dice Gioberti - potrà venire un movimento politico: il papa si metterà alla testa di un'Italia che crederà in lui, raccoglierà i principi intorno a sé in una lega di cui egli sarà capo.
Notate quanto cammino bisognava fare, quanto si doveva aspettare secondo il Risorgimento. Era il 1843, tutti disperavano delle sorti del nostro paese. Non fa meraviglia dunque che Gioberti rimandasse il movimento politico a tempo indefinito.
Costituita la lega italiana col papa alla testa, si potrà dare addosso allo straniero? Non ancora. Allora il papa ed i prìncipi daranno le riforme, applicando nella vita civile ciò che già esisterà nella vita ideale, nella dottrina. Gioberti non va al sistema elettorale, si contenta del sistema consultivo, secondo il quale uomini eminenti darebbero consigli al governo - primo passo ad una emancipazione politica. Per la parte sociale - e qui vedete l'influenza del movimento europeo, - crede che le forme debbano mirare a rendere il popolo più agiato e più istruito. Riconciliato il popolo con la borghesia, il basso con l'alto clero, effettuate le riforme politiche e civili, uniti i prìncipi intorno al papa, - l'Italia sarà abbastanza potente da fare da sé. - Così l'impresa che allora era aspirazione ardente di tutti e divenne poi il moto subitaneo del '48, per Gioberti doveva essere il risultato di tutta questa lunga preparazione.

È spiegabile l'influenza del Primato nel Piemonte e nel resto d'Italia. Poca fede si aveva in Mazzini, la letteratura lombarda era considerata come un'Arcadia, non c'era speranza d'intervento straniero, specialmente da che l'Assemblea francese aveva, detto che" il sangue francese si doveva versare per interessi francesi".
Unica speranza era che si unissero prìncipi e papa, in modo che l'Italia fosse abbastanza potente per lottare sola contro l'Austria, poiché la coscienza della propria debolezza era in tutti. Un metodo che prometteva conciliare le forze italiane e dirigerle contro lo straniero, doveva dare grande influenza a Gioberti.

Se Rosmini aveva tentato di operare sui prìncipi e sul papa, Gioberti ebbe azione sulla parte liberale del popolo, giunse a convertire anche molti mazziniani. Non già che pigliassero per moneta sonante tutto ciò che diceva Gioberti; ma pensavano che quel metodo fosse veramente utile. L'ardore dello stile, lo splendore dell'immaginazione, l'accento di convinzione, l'eloquenza innegabile di un ingegno superiore, - tutte queste qualità formali dovevano avere grande ascendente sugli animi degli Italiani, così immaginosi, aperti alla parte sensibile del vero, nemici dell'astrazione.
E quando nel '46 fu papa Pio IX che parve scosso dal sistema di Gioberti, e gli Albertisti, cioé i piemontesi seguaci di Carlo Alberto, soffiavano nel fuoco, capite quale grande entusiasmo si destasse in Italia e come la rivoluzione del '48, che pure era contraria elle idee di Gioberti, sembrasse l'attuazione della profezie d'un ingegno superiore e cominciasse al grido di: Viva Gioberti!

Non credo necessario indicarvi ciò che di gratuito e d'ipotetico è in questo sistema, soprattutto ciò che di astratto è nel metodo proposto. Si può suggerire un metodo per un'azione popolare? Non si tratta di filosofie, di idee che potete disporre come volete. Gli uomini non sono pezzi di scacco che si possano situare in modo da dare scacco al re, scacco allo straniero. Chi così pensasse, mostrerebbe essere utopista, non uomo di Stato. Si può dire ad un popolo: per rigenerarti devi attendere trenta, quarant'anni? Bisogna che prima ci sia questo, poi quest'altro? -
Che avvenne? Appena avuto il primo anello - un papa liberale, - il popolo italiano percorse tutte la catena, scoppiò subito quelle guerra che, secondo Gioberti, doveva venire dopo chi sa quanto, e l' impresa, non essendo preparata, fallì.
Nel Rinnovamento Gioberti dice : guardate! si sostiene che io abbia colpa nel non essere riuscito il moto del '48. Me perché non si è voluto seguire il mio metodo? -eppure le colpe sono sue, avendo creduto regolare la vite d'un popolo a priori, con un metodo logico, confondendo le logica con le storie. Nelle storia entrano gli umori, gli interessi, le passioni, il caso, che perturbano le logica.

Il metodo di Gioberti oggi ci fa ridere di compassione; non ce ne rimane che un'aspirazione indefinite di un cattolicesimo liberale; tutto il resto è svanito.
Mi è uscita une parola grave: ridere di compassione di un uomo di tanto ingegno. Ma i suoi concetti sono facili utopie che lo legano a Campanella, anche lui utopista, ed a Rosmini. Però Rosmini, in fondo aristocratico, voleva servirsi delle democrazia per ristabilire l'oligarchia religiosa e civile.
Gioberti, in fondo, ha tendenza prettamente democratica, si vuole servire del papa e dei prìncipi come mezzi all'indipendenza nazionale. Questo suo fine lo distingue del Cantù, dal Rosmini, del fratello di Camillo Cavour, da altri che sono retrivi rispetto e lui. Quella tendenze adombrata e velata nel Primato, dove era costretto a far la corte ai principi, al papa, e perfino ai gesuiti, si presente alla svelata nel Rinnovamento, scritto con maggiore libertà, senza riguardi ad alcuno, e di cui il succo è questo : il primato italiano deve avere a base il primato della coltura, dell'ingegno e il riscatto delle plebi. Certo, tutto questo è ancora estratto; ma pure mostra come Gioberti sia il più spinto delle scuole lombarda e piemontese.

LA CULTURA DI GIOBERTI - LO SCRITTORE
Che è Gioberti, per coltura, per ingegno, per forma? Cosa sopravvivrà di lui, che pure eccitò tanto rumore ed esercitò un'azione così meravigliosa in Italia?
Aveva delle cose italiane conoscenze superiore a quella stessa dei puristi e di Pietro Giordani, che in questa materia si credeva privilegiato. Chi legge il Primato, il più elaborato de' suoi scritti, vedrà quanti studi egli abbia fatto sugli scrittori del trecento, con che arte maneggi la lingue italiana e sappia foggiare nuovi vocaboli secondo l'indole di essa lingue. Della coltura straniera aveva conoscenze sufficiente, non profonda, come si vede da ciò che pensa di Schlegel e di altri.
La sua erudizione delle cose orientali e dell'antichità classica è superficiale e sospetta : non fu presa in seria considerazione allora che gli studi filologici che erano in fiore; i suoi italopelasgi sono svaniti innanzi alla moderna archeologia. Ancorchè avesse gran numero de notizie, tutta quella roba non fu da lui nè seriamente studiata, nè seriamente analizzata, e non lascia niente di profondo nello spirito del lettore.

Paragonate Vico e Gioberti. Anche in Vico il concetto fondamentale é sbagliato, il corso e ricorso è stato confutato, la teologia che getta i suoi raggi sulla metafisica è sfatata. Eppure c'é lì un immenso materiale di cui gran parte sopravvive, perché Vico aveva profonda conoscenza del diritto romano in cui fece delle vere scoperte, grande forza di analisi e attitudine psicologica - la quale spiaceva tanto al Gioberti. - Le sue degnità sono capolavori, rimasti vivi. Aveva tale serietà d'indagini che ad ogni passo scopriva, intuiva qualche cosa di nuovo, aprendo la via a tante discipline fiorite dopo sue.
L'immenso materiale de Gioberti non rimarrà vivo, perché non costituisce seria coltura per lui. L'ingegno è gran cosa, ma per produrre qualcosa di stabile in filosofia, in storia, in politica, deve essere accompagnato da seria cultura.
Vi sono molte idee azzardate. Quando leggo Gioberti sento questa impressione: - non vi è idea che come Giano non abbia varie facce: lo scrittore serio, e che analizza, non getta innanzi un'idea senza averne veduto tutte le facce.

Gioberti, meno filosofo che oratore, fa come gli avvocati: piglia dell'idea quella faccia che giova all'argomento e getta nell'ombra le altre. Impressionato d'un punto di vista, vedete subito l'oratore, talvolta anche l'artista : v'incalza come già avesse trionfato, giunge anche a colmarvi di villanie, attacca con vivacità tutto ciò che gli si oppone. Vi soggioga, e voi credete quella sia la verità. Rifate il cammino e troverete che quella è un'idea mostrata da un solo aspetto. Ecco perchè a torto egli se la piglia con l'analisi: ciò che chiama sintesi, non è vera sintesi, è una faccia sola de un'idea non analizzata.

Gioberti è uno degli scrittori italiani che abbiano maggior vigore di speculazione, ed è da tenersi in pregio solo che si guardi quanti pochi filosofi abbia l'Italia, alcune involti ancora nella scorza scolastica, altri troppo aridi, troppo analitici. C'è doppia speculazione : quella che sta nello sviscerare un argomento e avere la potenza de sviscerarlo guardandolo dall'alto e da lontano; - e quella che consiste nel vederlo dall'alto e da lontano senza avere la forza di sprofondarsi in esso e sviscerarlo. Hegel, per esempio, ha certo ingegno speculativo nel primo senso : non ha solo vista aquilina, non guarda solo dalle sommità, scende ne' più minuti particolari ove mostra senso del reale e del concreto.
Gioberti ama molto una parola che rivela il carattere del suo ingegno, intuizione. È un ingegno intuitivo. Non ha grande forza di raziocinio e vigore di logica, ma chiara intuizione, la quale spesso, quando egli non è appassionato, coglie nel vero, - intuizione critica, filosofica, politica. Guarda le cose dall'alto, non scende nel concreto di cui gli manca il senso. A quell'altezza diventa eloquente, anche artista, senza essere filosofo, perché non segue la serie delle idee, giunge d'un tratto agli ultimi risultati, vede in blocco un'idea come il poeta una forma. Quella sua visione si presenta piena di calore, specialmente quando è aiutata dall'amor di patria, dall'ardore della lotta, da tutte quelle piccole passioni alle quali egli era molto accessibile, alle quali i posteri non guardano e che pure hanno avuto gran parte nella sua ispirazione, come nel Gesuita Moderno e negli Errori di Rosmini. La sua speculazione è visione, l'attività del pensiero impeto oratorio.

Ma anche un oratore, un artista è qualche cosa d'importante. Si trovano ne' suoi scritti pagine eloquenti; ma c'è veramente eloquenza e forma artistica nelle apparenze che si presentano alla sua intuizione? Sarebbe vero che l'Italia, la quale non ebbe mai prosa eloquente - come lamentano tutti i critici italiani, - l'abbia acquistata in lui ? - Per la eloquenza non basta l'immaginazione, - anche il Segneri aveva immaginazione. Perchè si abbia eloquenza che lasci vestigia e produca durabile impressione, è necessario che di sotto ci siano serie convinzione, profondi studi, e soprattutto un carattere superiore di uomo.

In Gioberti domina un semplice calore d'immaginazione. Quando egli accumula epiteti d'ingiuria, quando voi tentate dare due passi addietro, temendo l'incontro d'un uomo così arrabbiato, non vi spaventate: tutto quello é calore esteriore, non profondo impeto d'immaginazione. Si andava da Gioberti e si trovava un uomo placido, sereno, nervoso, eccitabile, capace di alzare la voce ad un tratto e abbassarla subito. Era distratto spesso, anche nella conversazione. Un uomo serio piglia un discorso e lo conduce fino all'ultimo, Gioberti si distraeva; e fu così anche nello scrivere, lasciando spesso un'idea per correre dietro ad un'altra.
Dietro lo scrittore immaginoso, splendido, pieno di ricche forme spesso originali, da lui trovate, secondo il genio italiano, non vedete il profondo pensatore, né l'uomo di Stato.

Il povero Gioberti ne fece prova. Nel 1848 rappresentò una parte attiva e si vide quanto gli mancava; un uomo nervoso, irritabile, impressionabile, non é nato per essere uomo di Stato. Gli mancava la conoscenza degli uomini e delle cose, la tattica dei maneggi, quell'arte volpina di cui un politico ha bisogno.
Il vecchio Gioberti una volta si fece corbellare dal giovane Urbano Rattazzi, che allora entrava nella vita politica. Gli mancava la forza di animo di resistere anche alla corrente popolare; e quando volle fare qualche cosa di simile, sbagliò il momento e dovette lasciare il Piemonte.

Quando il Primato giunse in Piemonte, fece piacere, senza dubbio, alla scuola piemontese, che vedeva il suo programma stabilito su basi così larghe. Ma c'era un punto nero. Essi volevano indurre gl'italiani a cacciare lo straniero, Gioberti cominciava col papa, col moto intellettivo, educativo, colle riforme, e all'ultimo metteva il moto per l'indipendenza, che per essi era il porro unum necessarium. Il programma, così trattato, parve troppo lungo, con base troppo larga. Sorse allora un uomo di Stato piemontese, e, come sogliono fare i ministri e le maggioranze pratiche, fece del programma come d'un dramma: cercò di accorciarlo, ordinarlo, adattarlo alle circostanze, lo capovolse mettendo prima il porro unum necessario.
Capite che parlo di CESARE BALBO e delle sue Speranze d'Italia.

DIVERGENZE E ANTITESI
TRA IL ROSMINI E IL GIOBERTI e... CESARE BALBO)
Rosmini e Gioberti furono i filosofi di quella scuola della quale Cesare Balbo doveva essere lo scrittore politico e lo storico. L'uno, Rosmini, lo vedete insieme con Manzoni apparire al principio del movimento cattolico; l'altro, Gioberti, nella confusione del movimento, prima che giungesse l'istante dell'azione.
L'uno ricorda il 1815, l'altro il 1840. Di qui le differenze tra i due scrittori; è lo stesso movimento, che, tra i furori della reazione, comincia come destra e va a finire come sinistra.

Dapprima, quando Rosmini concepiva la sua filosofia, e nutriva i germi della sua riforma cattolica, erano vive e forti le impressioni della reazione; e ricordo che tali erano veramente negli anni miei giovanili. I giacobini, la rivoluzione, il 1793, il papa allontanato e carcerato, tutto questo era allora così orribile come sarebbe ora - tornando le stesse cose sotto altri punti - la Commune, i petrolieri, le petroliere, la bandiera rossa, ecc.
Poi venivano su tutte le idee già proscritte e si proscrivevano tutte le idee dominanti : la proscrizione riguarda non solo uomini ma idee, delle quali gli uomini hanno bisogno per coprire le loro passioni. Quindi il papato, la monarchia, la nobiltà, l'alto clero, che prima erano stati segno agli attacchi, divennero oggetto di adorazione; il popolo fu oppresso e deriso. Comprendete perciò il cattolicesimo opposto alla Dea Ragione, Manzoni e la sua scuola, Rosmini.

Volgetevi ora al 1840 e vedete che cammino la rivoluzione aveva fatto di nuovo. Di teologia non si parlava più, il movimento teologico era divenuto filosofico, democratico, sociale: gli stessi uomini che avevano cominciato come destra, poggiavano a sinistra. Victor Hugo, Lamartine, Lamennais, Bernier e Montalembert si facevano perdonare l'uno il legittimismo, l'altro il clericalismo con larghe professioni di fede in senso liberale. L'aria era mutata: i legittimisti erano battuti in Spagna, in Francia, in Portogallo; all'indipendenza della Grecia seguiva quella del Belgio; l'alleanza occidentale tra l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo sorgeva dirimpetto alla Santa alleanza. L'aria, nella sfera delle idee, era già impregnata della rivoluzione che doveva scoppiare pochi anni dopo. L'Italia era solcata di società segrete.

Qui appare Gioberti, e voi capite perché, pur mantenendo i fini di Rosmini, ponga a base del suo Rinnovamento il primato dell'ingegno e della coltura, il riscatto delle plebi, - una base democratica. E la democrazia non è per lui l'astratta democrazia cristiana di Rosmini e di Manzoni, ma democrazia effettiva, conseguenza della civiltà cristiana ancora giovane - secondo Gioberti, - ancora al principio del suo svolgimento negli ordini politici e sociali.
Comprendete pure perché ciò che preoccupa di più Rosmini sia la riforma religiosa, mentre ciò che preoccupa di più Gioberti è l'indipendenza italiana. Nell'uno prevale il cattolico, nell'altro il cittadino e l'italiano.

Questi due uomini, presto o tardi, dovevano urtarsi. La gran lotta fra Rosmini e Gioberti non fu solo fatto privato, come pure può parere a qualcuno : era nella natura delle dottrine. Quantunque il tronco fosse il medesimo, i rami divergevano, l'uno verso la restaurazione delle alte classi e dell'alto clero, l'altro verso la democrazia. Un po' di ruggine era fra i due scrittori, quando l'occasione la fece trasparire. Nel 1846, divenuto papa Pio IX, Rosmini fu chiamato a Roma, ove acquistò grande importanza, e si lasciò dire: "Gioberti mi guasta le uova, arieggia troppo il Lamennais". Questi era stato scomunicato : dire così di Gioberti, era rovinarlo. Di qui l'ira di Gioberti, il quale per Rosmini non era abbastanza cattolico, corretto, moderato: di qui i volumi che quegli scrisse su Rosmini : di qui anche la conciliazione. Rosmini si rassegnò a porsi sotto gli ordini di Gioberti, divenuto ministro del Piemonte.

nella prossima puntata:


* IL POLITICO DELLA SCUOLA MODERATA: CESARE BALBO
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Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -(5 vol. Nerbini)
VISCADI - Storia Letteratura (i 50 vol.) Nuova Accademia
DE SANCTIS - Storia della Letteratura Italiana, Einaudi
Dizionario Letteratura Italiana, (3 vol) - Einaudi 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DALLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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