Nel secolo XII scendeva
in Italia, forse seguendo il Barbarossa, BERNARDO DI VENTADORN, l'avventuroso
trovadore di Provenza, e il "canto d'amore fiorito" sulle
sue labbra, sbocciava appassionato sotto il cielo sereno della penisola.
E mentre la poesia trovadorica riempiva le città e i castelli con
le sue note nuove ed armoniose, altre note, imitanti il suono delle trombe
guerresche e il fragore cupo delle armi, erano lanciate, nelle province
del Veneto, dai Cantatores Frangicenarum.
Dietro orizzonti lontani
erano scomparse le soavissime note elegiache di Tibullo e Ovidi; verso
lidi misteriosi s'erano dileguati i sospiri appassionati di Catullo e
i sonanti carmi di Virgilio; all'apparire degli svelti trobadours e dei
gravi jongleurs, che cantavano il languore delle castellane e i fendenti
dei paladini, erano spariti per sempre gli aedi e i rapsodi che, nella
terra sacra a Saturno, avevano cantate le lodi degli dei e le glorie degli
eroi. La radiosa luce della poesia classica si era spenta.
Durante quasi tutto il Medioevo, dal tramonto dell'età augustea
fin dopo il mille, essa, come anche il pensiero latino, era rimasta a
rischiarare, in Italia e in parte dell'Europa, or con fasci luminosi,
or con deboli guizzi, le tenebre.
Roma, benché vinta,
aveva soggiogato, con il suo fascino, i vincitori e il pensiero latino,
quasi alimentato dai ruderi attestanti la passata grandezza, era stato
mantenuto vivo, con la lingua, dalle corti e dalla Chiesa, dal laicato
e dal clero, nelle scuole e nei conventi, ed era sfato tramandato ai posteri
dalle tradizioni popolari e dalle opere dei dotti.
Chi studia i libri degli scrittori dell'età di mezzo lo ritrova
in Cassiodoro e in Boezio, nelle epistole e nei poemi sacri di Ennodio,
in Gregorio Magno e in Fortunato Venanzio, nel Giovannicio e in Felice;
nei grammatici, fioriti a Milano, a Benevento, a Salerno, a Pavia sotto
gli Arichi e Liutprando, e nei lettori del Foro Traiano; in Eginardo e
in Vitichindo, in Adamo di Brema e in Eccardo di Aura, in Giovanni Imonide
e in Ilderico da Salerno, in Berengario e in Guglielmo Pugliese.
La poesia classica si era spenta, dopo di aver mostrato in lingua romanza,
gli ultimi barlumi; dopo essersi abbellita, nell'agonia, dei miti di Orfeo
e Euridice, di Piramo e Tisbe, di Pelope e di Tantalo; dopo aver fatto
rivivere per un momento, tutti gli eroi del mondo pagano: Achille, Ettore,
Priamo, Ulisse, Menelao, Paride, Enea, Alessandro, Cesare nel "Roman
d' Enéas", nel "Roman de Troie" di Benoit
de SainteMore, nel "Roman de Thèbes", nell'"Enfances
Hector" e nei romanzi su Alessandro il Macedone di Albèric
de Briancon, Lambert le Tort e Alegandre de Bernay.
Si riscontra anzi in questi
stessi poemi la morte del mondo letterario pagano; infatti, il mondo antico
non è descritto tale quale fu; esso era passato, con tutti i suoi
costumi e tutti i suoi eroi, lungo la via delle leggende medievali e,
ricco di aspetti e d'atteggiamenti diversi, acquistati durante il percorso,
era giunto al secolo XII.
Appunto per ciò nei poemi suddetti si osservano stranezze strabilianti:
le città rassomigliano in tutto e per tutto alle medievali, francesi
sono i luoghi e i costumi; gli eroi antichi hanno perduto tutta la loro
classica maestà e si sono trasformati in Paladini e in romanzeschi
cavalieri erranti, che vanno per selve simili a quelle della Francia,
fra popoli vestiti all'uso medievale, in paesi muniti di torri merlate
e di ponti levatoi. Nelle loro battaglie c' è qualcosa che ci fa
pensare alle giostre, le lotte corpo a corpo ci trasportano ai duelli
tra cavaliere e cavaliere; le donne non sono più Elena, Andromaca,
Didone, Lavinia; son donne della buona società medievale, che si
lasciano baciare galantemente la mano. Della religione pagana non rimangono
che i nomi; le istituzioni sono già cristiane e fanno un contrasto
stridente con la materia dei romanzi. Vi si trovano chiostri e chiese;
il clero è ben rappresentato; Calcante, nel "Roman de Troie",
è diventato un vescovo; gli dèi hanno ceduto il posto alle
fate ed alle streghe che fan da oracoli e da sibille, e manca nell'organismo
di ciascuno di questi poemi il "fatum" che teneva le fila degli
avvenimenti e caratterizza l'epica veramente classica. E per questo il
viaggio e le lotte di Enea nel rifacimento di Benoit non riescono cosí
importanti come nell'originale virgiliano e le figure degli eroi greci
non campeggiano come nei poemi omerici e l'epica riesce qualcosa simile
ad un poema eroicomico.
La poesia classica s'era dunque spenta e se, nelle letterature romanze,
qualcuno degli antichi eroi di Atene e di Roma si trascinava ancora in
vita, esso non era che un pallido fantasma, un tipo convenzionale della
tradizione letteraria, barcollante in mezzo agli spiriti nuovi e alle
nuove forme. La poesia classica era morta appunto perché morto
era il mondo pagano e scomparsa del tutto l'antica vita.
Smembratosi l'impero,
calati i barbari in Italia, finita la lotta sorda e lenta tra il paganesimo
e il cristianesimo dalla quale s'era venuta formando una religione ibrida
in cui il concetto evangelico era fortemente compenetrato di elementi
pagani e mosaici, la vita, nel tenebroso Medioevo, aveva preso un aspetto
e un indirizzo completamente diversi dagli antichi. La luce chiara e sfavillante
della paganità si era mutata in un chiarore pallido e incerto,
il culto della forma era scomparso ed era subentrato un culto tutto interiore,
il culto dell'anima; il culto materialistico dell'antichità pagana
aveva ceduto il posto al culto idealistico della società cristiana
del Medioevo. Spento l'amore per la forma, era sorto e si era sviluppato
l'ideale spirituale che aveva, dato il bando alle voluttà del senso
e, distogliendo gli sguardi dalla contemplazione della bellezza terrena
dalle linee procaci e voluttuose, li aveva orientati verso le azzurre
regioni del Cielo.
Con il crollo delle deità pagane che rappresentavano i vari aspetti
della natura, la vita aveva perso quella nota splendida di gaiezza, di
realtà, di umanità; il firmamento, che prima era ingenua
volta all'Olimpo, si era mutato in una cappa di piombo, appunto perché
lassù era stato posto il mistero imperscrutabile della nuova religione.
La vita era diventata un'aspirazione perenne verso gli spazi infiniti
del cielo; s'era fatta monotona, grigia, contemplativa; e al cielo tendevano
gli acuti pinnacoli dei campanili. Le valli e le pendici si erano popolate
di conventi in cui l'umanità, nella privazione e nella contemplazione,
si spiritualizzava; l'incubo, l'affanno, l'ansia, la paura dell'al di
là avevano fugato l'olimpica serenità romana e, morti gli
eroi e le divinità, la fantasia aveva creato figure cupe e terribili
di demoni, di streghe, di maghi con cui aveva riempito tutto il mondo.
La grandezza dei Cesari
non era più che un lontano ricordo: ora esistevano il papato e
l'impero, il successore di Pietro e il successore di Augusto; e, fino
al giorno che entrambi non divennero due grandi antagonisti nella grande
scena politica d'Europa, quegli era il protettore morale di questo e questi
il braccio forte di quello. E all'ombra immensa di questi due poteri sovrani
erano sorte due importanti istituzioni: quella del feudalismo e quella
della cavalleria che dovevano improntare con i1 loro spirito le nascenti
letterature delle nazioni neolatine.
L'ideale cavalleresco s'era visto fondersi fortemente con l'ideale religioso,
e nelle lotte secolari tra la Croce e la Mezzaluna, che culminarono in
Oriente con le crociate e in Occidente con le guerre tra i Cristiani e
i Mori di Spagna, ancor più salda si fece questa fusione, da cui
nacque quell'ardore di fede e di entusiasmo unico nella storia. A1 contatto
dei popoli orientali si schiudeva allora all'Europa un mondo nuovo, pieno
di meraviglie ignorate, di splendori sconosciuti, di bellezze strane e
superbe, e con i guerrieri, reduci dalle battaglie combattute in Asia
per la fede, varcavano il mare i profumi acuti, i fulgori vivissimi, gli
usi esotici, le leggende fantastiche di quel mondo, che andavano ad arricchire
e a trasformare la vita interiore ed esteriore dell'Occidente, caratterizzata
da tre grandi sentimenti: la fede, l'onore e l'amore. Questi tre sentimenti
erano, infatti, il fulcro intorno cui s'aggirava l'ideale cavalleresco
e il cavaliere abbandonava le torri avite del suo castello e cavalcava
verso l'ignoto, alla ventura, in cerca di pericoli, con la Croce che gli
pendeva dal collo, per l'onore del suo nome e per l'amore della sua donna.
Questa, nell'atmosfera
spirituale del Medioevo, per il culto della Vergine e l'influsso dei costumi
germanici, aveva cessato di essere uno strumento di piacere e da schiava
s'era mutata, nel corso dei secoli, in signora, regnando in quell'aura
di dolce e poetica idealità in cui era stata innalzata. E cosí
la vita si era venuta orientando verso due religioni purissime, quella
dell'anima e quella del cuore, s'era illuminata e riscaldata della luce
e del fuoco di due fedi, quella del Cielo e quella dell'amore; della prima
era ministro il clero, della seconda la cavalleria.
Per opera di queste due
religioni la vita s'era ingentilita; alla ruvidità guerresca era
succeduta la galanteria; con l'ingentilirsi del cuore si erano svegliate
le menti; le tenebre si erano cominciate a diradare e la cultura, prima
monopolio del clero, passata, poi, alla cavalleria, era ora venuta anche
in dominio della borghesia. Erano i primi albori del rinnovamento politico
e intellettuale; la Chiesa perdeva a poco a poco la sua autorità
e, nei nuovi idiomi romanzi, come nel gaio latino degli ultimi goliardi,
accanto alla poesia d'amore e alle laudi religiose, fioriva sfrontata
e insolente la satira contro il clero.
Era questo il mondo nuovo, era questa la vita nuova quando dai fioriti
verzieri di Provenza, nella dolce lingua d'oc, s'alzava la canzone dei
trovadori e verso il cielo di Francia, nella robusta favella dell'oui,
si levava il canto sonante dei troveri e il ghigno dei "fabliaux".
LA LETTERATURA
DI FRANCIA E DI PROVENZA
POESIA POPOLARE AMOROSA E RELIGIOSA
LA POESIA CAVALLERESCA E TROVADORICA IN ITALIA
La materia tutta della
letteratura occitanica delle origini rispecchia fedelmente questa vita,
questo mondo in cui - come dice il Bartoli - "tutto prende
un colorito fantastico. Gli uomini dell'antichità come i contemporanei,
se appena si sollevino dal livello comune, hanno subito la loro leggenda,
la loro storia poetica, che la tradizione ingrandisce, abbellisce, trasforma,
e dove si abbracciano fraternamente gli anacronismi più grossolani
e le più strane invenzioni".
La materia delle letterature francese e provenzale si aggira intorno alla
cavalleria; da Carlomagno in poi, nella Francia settentrionale, è
tutta una fioritura rigogliosa di leggende e di saghe intorno ad eroi,
le quali, ridotte in "lais" e in canzoni, sono cantate
dai troveri. Sono le imprese guerresche di Carlo e dei suoi paladini,
sono le meravigliose avventure dei cavalieri della Tavola Rotonda raggruppati
intorno alla leggendaria figura di Re Arturo; sono le gesta dei cavalieri
normanni e le rievocazioni degli eroi classici, di cui abbiamo parlato,
che formano l'oggetto dell'epopea romanzesca di Francia. I vari cicli,
il carolingio, il brettone, il normanno, il classico, s'incontrano, si
raggruppano, si fondono insieme portando l'uno all'altro le caratteristiche
del proprio spirito e formando un organismo variamente stupendo. Nel ciclo
carolingio il protagonista ideale è il grande imperatore, ma l'eroe
vero è Rolando; il ciclo è grave e severo, intriso tutto
di sentimento religioso e rappresenta l'epopea vibrante delle lotte tra
la Cristianità e gl'infedeli.
"La Chanson de
Roland", che narra l'epica battaglia di Roncisvalle e la morte
eroica del maggior paladino, è il monumento più antico e
più grande; altri poemi romanzeschi narrano le avventure di Carlo
e dei suoi paladini: "Berte an grans pies" di ADENEZ
LE ROY, "Flor et Btanchefleur", Huon de Bordeaux,
Doolin de Mayence, Ogier le Danois, Fierabras e il Roman de Lohérains".
Del ciclo normanno il poema più antico e più celebre è
il "Brut d'Angleterre" di ROBERTO WACE, autore anche
del "Roman de Rou" e "des Ducs de Normandie";
il più popolare è "Robert le Diable".
Del cielo brettone la figura più grandiosa è quella del
Re Arturo di Bretagna e intorno a lui si aggirano gli ardimentosi cavalieri,
che girovaghi per il mondo in cerca di avventure e d'amore, ciclo fatto
di meraviglie e di stranezze, ricco di paesaggi stupendi e di imprese
portentose, d'incantesimi e di sogni, di bellezza e di mistero, ciclo
in cui sono immortalate le gesta di Lancillotto e gl'incanti di Merlino,
gli avventurosi viaggi di Perceval e gli eterni amori di Tristano ed Isotta;
materia questa quanto altra mai vaga e bella, dalla quale nacquero la
"Queste du Graal" di ROBERTO di BORON, il "Lancelot"
di GUALTIERO MAP, il "Merlin", il "Percevat",
il "Chevalier au Lyon", l'"Erec", il
"Cligès", e il "Lancelot du lac"
di CRISTIANO di TROYES.
Ma non è solo lo
spirito cavalleresco che informa la letteratura dell'antica Francia; quando
l'ideale della cavalleria comincia ad affievolirsi e ad impallidire sorgono
i favolisti, sorge la satira e i componimenti didattico-allegorici; dilagano
i beffardi "fabliaux", nasce il "Roman de Renart"
(il romanzo della Volpe) spunta il "Roman de la Rose"
" où Part d'amor est tote enclose". Sono i segni
palesi dello spirito e della società francese che si rinnova e
in questo mutamento risuonano come dolcissime voci di un mondo che muore
i soavi canti di Maria di Francia, che ci trasportano, con l'essenza del
loro profumo appassionato, alla soave terra di Provenza, ove l'ideale
cavalleresco aveva fatto nascere e sviluppare un altro genere di poesia
non meno bello e suggestivo.
La poesia trovadorica nasce dal medesimo spirito cavalleresco che informa
i poemi del ciclo brettone; l'arte di questi però è oggettiva,
mentre l'arte di quella è essenzialmente soggettiva e si esplica
meravigliosamente nei "sirventesi", nelle "tenzoni",
nelle "canzoni" e nelle "albe". Nei
primi è il canto robusto che magnifica le imprese dei principi
e degli imperatori o la satira mordace che sferza i signori e sale fino
ai troni e alla curia pontificia; nelle tenzoni sono i problemi sottili,
la cui soluzione era l'oggetto delle famose "corti d'amore";
nelle canzoni è l'avventura e l'amore, l'eterno amore che sboccia
fra il verde della divina Provenza e manda i suoi profumi acuti, per l'aria
pura, al cielo sereno e radioso, e riscalda i cuori e sparge in ogni luogo,
a ondate soavissime, come un'atmosfera di sogno. La lirica amorosa dei
trovadori non è l'espressione sincera di sentimenti individuali,
ma è l'espressione comune dello spirito e del sentimento cavalleresco
della società del tempo; di individuale, in essa, non esiste che
la forma intrinseca; il contenuto poetico è il prodotto della moda
cavalleresca che ha educato i cuori e le menti col convenzionalismo raffinato
dei suoi codici. Da tutto ciò risulta una monotona uniformità
di forma e di pensiero, un'arte in cui, sotto la leggiadria della favella
e la squisita grazia degli atteggiamenti poetici, non palpita un cuore,
non si trova l'ansia vera di un'anima, non si scorge quasi nulla d'umano.
L'amore è un'etichetta e la donna una figura che ha perso le linee
voluttuose della persona e si è quasi spiritualizzata e mutata
in un'impalpabile figura angelica.
Qualcosa di vero e d'umano troviamo invece nelle albe soavi, canti di
risveglio composti quasi per avvertire il cavaliere che l'aurora di rosa
imporpora il cielo ed è tempo oramai di svincolarsi dall'amplesso
appassionato della dama con cui egli ha trascorso la notte, di darle l'ultimo
bacio e di allontanarsi furtivamente dal castello. Nelle albe non più
il convenzionalismo imposto dalla moda, quella vaporosità di figure
e di sentimenti avvertita dianzi; qui è la vita vera, c' è
la natura viva, si sente, nei baci, nei sospiri, nelle parole, la passione
della donna e dell'uomo, che inviano il loro pianto all'alba, che tronca
troppo presto le loro ebbrezze.
Ma la vera poesia provenzale più che dai canti è costituita
dalla vita stessa dei trovadori, vita di avventure e di amori, di gioie
e di pianti, materia essa medesima d'alta e nobile poesia, con l'incanto
dei castelli turriti, la pensosa bellezza delle castellane, le audacie
dei cavalieri. Tra i trovadori troviamo i baroni più famosi di
Provenza, i conti di Tolosa, i duchi di Aquitania, i principi di Orange,
i conti di Foig; troviamo Guglielmo conte di Poitiers, crociato, poeta
ed amante; Bernardo di Ventadorn che rapisce il cuore della viscontessa
di Ventadorn, di Giovanna d' Este e di Eleonora di Poitiers; Jaufrè
Rudel che s'innamora, per fama, della contessa di Tripoli, veleggia sul
mare diretto ai lidi orientali e spira nelle braccia di una sconosciuta;
troviamo Pier Vidal, Pietro d'Alvernia, Bertran del Bornio, Raimondo di
Tolosa, Arnaldo Daniel, Rambaud de Vagneiras "figure - come
dice il Bartoli - dal profilo ardito o malinconico, re, servi,
paggi, baroni, consiglieri di principi, guerrieri arditi, giovani avventurosi,
che chiedono tutti l'ispirazione e la felicità all'amore".
Mentre la letteratura occitanica
era nel suo splendore, in Italia si continuava a scrivere in latino, in
quel latino che da quasi quattro secoli, e forse più, nessuno più
parlava nella penisola. E la ragione c'era. Roma, come abbiamo detto,
benché non era più quella di una volta, esercitava un fascino
irresistibile col suo nome e la memoria del suo passato glorioso; il pensiero
latino non s'era spento attraverso i secoli del Medioevo e gli Italiani,
quasi per consolarsi nella miseria in cui erano piombati, si tenevano
tenacemente aggrappati alla tradizione romana, l'unico vanto di cui negli
infelici tempi che volgevano potessero far pompa. Per loro, l'idioma latino
era un sacro retaggio, forse il solo che rimanesse del gran patrimonio
scomparso nella notte della storia e ci tenevano a rivestirne il loro
pensiero, quantunque esso non fosse che un pallido fantasma, direi quasi
una parodia di quello già fiorito in bocca a Cesare, a Cicerone
e a Virgilio.
Questa ostinata persistenza
del latino fece sí che in Francia e in Provenza, assai prima che
in Italia, sorgesse e si sviluppasse la letteratura e fu causa alla, nostra,
nel suo sorgere, di una mancanza assoluta di originalità. Pur essendo
stata la nostra terra teatro d'immani lotte e d'importantissimi avvenimenti
storici, mancò a noi quella fioritura di leggende che formano l'epica
di un popolo. Le scarse leggende intorno a Desiderio e i suoi ultimi Longobardi,
ad Attila ecc. furono strozzate sul nascere, e mentre in Francia il popolo
si commuoveva al racconto della morte di Orlando e delle gesta dei paladini
e al canto delle canzoni epiche si andava formando il carattere e la coscienza
nazionale, in Italia si riesumavano le decrepite figure di Enea e di Scipione
e si componevano storie, cronache e scheletri informi di poemi in quella
lingua che la tradizione imponeva, la Chiesa perpetuava e le scuole insegnavano.
Ma già il latino
agonizzava; negli scritti stessi ecclesiastici e giudiziari era compenetrato
dal volgare, da quella lingua, o, per meglio dire, da quei dialetti che
si parlavano e che erano derivati dal "sermo rusticus" corrottosi
al contatto degli idiomi barbari. Di questa compenetrazione abbiamo esempi
in atti del VII secolo, in un documento cassinense del IX secolo e in
una carta sarda; ma questi dialetti volgari non sono usati come espressione
letteraria; si tenta, è vero, di usarli in un'iscrizione del Duomo
di Ferrara del 1355, in un canto giullaresco del 1197, nel famoso "Ritmo
cassinese" del secolo XIII, in qualche strofe di una poesia di
RAMBAUT de VAQUEIRAS del secolo medesimo; ma tutto ciò non è
ancora lingua letteraria e non è arte, come non sono lingua né
arte i tentativi poetici, o meglio, ritmici dell'Italia settentrionale,
i due poemetti "De Jerusalem celesti" e "De Babilonia
infernali" di FRA GIACOMINO da VERONA, il poemetto su la "Passione
e la Resurrezione" d'ignoto autore veronese, i versi del PATECCHIO
"De Taediis" e sui proverbi di Salomone; gli ammaestramenti
morali e religiosi di UGUCCIONE da LODI, la "Istoria"
di PIETRO da BARSEGAPÈ, le leggende religiose, i contrasti morali
e le cinquanta cortesie della tavola di FRA BONVESIN da RIVA ed altri
contrasti e laude in dialetto bolognese, modenese e genovese.
Per trovare qualcosa di
artistico, anche se ancora in dialetto, dobbiamo portarci nell'Italia
meridionale e nella centrale ad ascoltare i versi della poesia popolare
amorosa e religiosa, e sentire in essa accenti veraci ed originali. Della
poesia popolare amorosa del mezzogiorno della penisola non ci rimane gran
copia di monumenti; ma essa dovette fiorire rigogliosa, piena di passione
e impregnata di realismo e spontaneità, benché, qualche
volta, con reminiscenze francesi, fra quel popolo caldo e vivace. Ed è
poesia in cui non si riscontra niente di quel manierismo, di quell'artificio,
di quei sentimenti stereotipati che, calati dalla Francia, informeranno
più tardi l'arte della scuola siculoprovenzaleggiante. Qui è
il popolo che parla, il popolo non viziato da alcun influsso che esprime,
col linguaggio naturale del cuore, i propri sentimenti e nulla cela e
tutto dice con quella sincerità propria dell'anima popolare; è
il popolo che, commosso dal tripudio della natura, canta la primavera
e le feste del maggio ridente di raggi e di fiori, canta e ricanta nei
suoi strambotti i suoi desideri, le sue speranze, le sue ansie; è
l'innamorato che invia, col canto, tutta l'anima alla fanciulla del suo
cuore e del suo pensiero; è la donna nel fiore dell'età
che si lagna acerbamente con la sorte la quale l'ha legata per sempre
ad un marito canuto, o piange per l'abbandono del suo garzone volato ad
altri amori, o per la partenza dello sposo che si reca ai campi di battaglia.
Questa poesia è il grido sincero dell'anima popolare che si fa
ora gaio, ora doloroso, ora disperato, sovente satirico; la natura tutta
vive in questi canti di poeti oscuri in tutta la sua crudezza, spoglia
di veli e di finzioni, nelle "albe", negli strambotti
e nei contrasti, tra cui è famoso quello di Cielo dal Camo, composto
sotto il regno di Federico II di Svevia:
Rosa fresca aulentissima
ch'appari 'nver la state
Le donne te desiano pulzelle e maritate.
Né meno spontanea
e sincera è la poesia religiosa, nata e fiorita nella verde Umbria,
quella regione serena e meravigliosa dove debbono ricercarsi le origini
prime delle sacre rappresentazioni. La lirica religiosa in Italia nacque
col Cristianesimo e "cantò - dice il Bertoni - pianse
e sperò nei ritmi della plebe, ben diversi, col loro succedersi
d'accento e di rime, dai metri dell'aurea latinità. Raccolse l'estremo
palpito del martire come trasvolò sul capo della prima vergine
convertita, scese nei freddi e oscuri anditi della catacombe, come si
effuse più tardi nelle pompose cerimonie, e diede infine all'umanità
e alla letteratura alcuni canti sublimi, quale l'inno di un ignoto fedele
condannato alla crocifissione, o lasciò poesie grandiose e dolorose
d'infinita pietà, come lo "Stabat mater" di JACOPONE
da TODI. Dapprima in latino, poi in volgare; codesta lirica fu l'interprete
dei tumulti, degli sconforti, dei dolori e dei fantasmi, della vita interiore,
da quando risuonò sulle bocche dei martiri fino a quando echeggiò
fra le schiere dei disciplinati, per finire in parte tra le compagnie
degli sconfitti e in parte evolversi e diventare elemento costitutivo
della sacra rappresentazione".
Con la comparsa di S.
Francesco il misticismo s' intensifica e la religione par che ritorni
a quell'umile semplicità delle sue origini. La figura del Santo
(1081-1226) giganteggia solenne e riempie di sé l'Italia centrale.
Il suo corpo, castigato dai digiuni e dalle penitenze, acquista una magrezza
austera e quasi quasi scompare, e la sua figura ci appare come un tenuissimo
velo dello spirito, ci appare tutta anima e manda una vivissima luminosità;
luce fatta di religione e poesia che offusca ogni altra. La religione
del Santo è materiata di poesia e questa è vivificata dalla
religione; l'una è compenetrata dall'altra ed entrambe assumono
un aspetto meraviglioso ed emanano un profumo soavissimo. La parola di
S. Francesco si spande come un canto d'altri mondi e predica la fede pura,
l'oblio della carne, l'abbandono dei beni, l'umiltà; lui è
un giullare nuovo, è il giullare di Dio, la cui dama è la
Povertà, i cui compagni di fede sono i paladini, egli è
un nuovo trovadore e cavaliere che inizia la cavalleria mistica, la cavalleria
della fede e della pietà ed è tutto pieno d'amore per la
sua natura, creazione di Dio, per le creature tutte, cui rivolge commosso
e ispirato il dolcissimo sermone, fra cui si compiace vivere, con cui
ama innalzare al cielo la preghiera e la lode:
Altissimo, onnipotente bon Signore,
Tue son le laude, la gloria e l'onore et omne benedietione".
E' il "Cantico
del Sole", una prosa ritmica nella forma, ma una vera ed alta
poesia nella sostanza, in cui il Santo poeta, nella febbre della fede,
loda Iddio per l'opera immensa e sublime della creazione, per tutte le
sue creature che chiama sorelle, per il sole, per la luna, per le stelle
"clarite et pretiose et belle", per il vento, per l'aria
e le nubi e il sereno, per l'acqua, "pel fuoco, per soro nostra
matre terra, - la quale ne sostenta e governa", per tutti coloro
che perdonano nell'amore divino e per "sora nostra morte corporale".
La soave serenità della poesia mistica di S. Francesco di
Assisi si trasforma e si muta in ebbrezza folle e scomposta, in delirio,
nella poesia di JACOPONE da TODI. Già i tempi sono mutati; un vento
di follia mistica, spirato dall'Umbria, si abbatte violento per le regioni
d' Italia con l"'Alleluia" e i moti dei "Flagellanti".
RANIERI FASANI, esaltato dal fanatismo religioso, predica, si formano
corporazioni; i "Disciplinati" iniziano le loro processioni
(1258), flagellandosi e innalzando laude. E' un fatto patologico importantissimo,
il cui esponente artistico è il canzoniere di Jacopone. Egli è
il seguace di S. Francesco d'Assisi e, come il Santo, ha la sua leggenda.
La sua conversione alla vita ascetica è dovuta al miracolo; è
il cilicio trovato infisso nelle candide carni della bella e pia moglie,
morta durante una danza, che gli fa abbandonare la vita allegra e gaudente
e lo fa dedicare completamente a Dio. Nell'umile frate di Todi la religione
diviene fanatismo, la pietà passione; le meditazioni ascetiche
lo esaltano e il suo misticismo si risolve in febbre, in delirio, ispirandogli
canti.
"Sono i canti - per dirla col De Sanctis - di un Santo, animato
dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori, o di codici d'amore:
questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio
di lingua e di stile, anzi affetta parlare con quello stesso piacere con
che i Santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare sfogo ad un'anima
traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche
teologia e filosofia, e non ha niente di scolastico".
La poesia di Jacopone è un frutto spontaneo del suo sentimento;
non ha pretese d'arte, ma, a volte, quando il suo cuore è tranquillo
e la sua mente è serena, quando l'esaltazione non lo conturba,
escono dalle sue labbra canti delicatissimi, soavi nel loro motivo popolare.
Così la poesia alla Madonna è un quadretto stupendo e il
poeta, con verità e con affetto, sorprende meravigliosamente la
Vergine in atto di allattare e di cullare il Divino Figliuolo e ce la
descrive in un modo così evidente e semplice che innamora.
Altrove Jacopone ha accenti che commuovono, come quando, ad esempio, dice
alla Vergine,
Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
Le mie lagrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
E tu noi puoi negare.
Però questi intervalli
di lucidezza, e di serenità sono rari al cuore e alla mente del
povero frate e questi accenti dolcissimi non formano la caratteristica
della sua poesia. Jacopone è sempre un esaltato; l'amore divino
gli sconvolge la mente, gli mette nel cuore un tumulto immenso; il poeta
vuole spogliarsi della sua umanità, ma non riesce a spiritualizzarsi;
il mondo lo vede così com'è; le sue stesse passioni sembrano
passioni ispirate dalle gioie terrene; eppure egli macera il suo corpo
e disdegna di coltivar l'intelletto; raccomanda la sua fama "ad
somier che va ranghiando" e promette "perdonanza più
d'un anno" a chi lo ingiuria; egli vuole essere umile, povero;
egli aspira alla vita dello spirito, ai godimenti ultraterreni, desiderando
per sé i mali più terribili.
Jacopone prega e la sua preghiera è un uragano; sospira, si contorce,
delira nell'impeto irresistibile della passione che lo sconvolge, poi
è assorbito tutto da visioni, da allucinazioni e allora il suo
accento ha qualcosa di profetico, di cupo, che impressiona, come quando
egli rappresenta la fine del mondo e il giudizio universale:
Tutti li, monti saranno abbassati,
E l'aire stretto e i venti conturbati,
E il mare muggirà da tutti i lati.
Con l'acque lor staran fermi adunati
I fiumi -ad aspettare.
Quest'ultimo verso è
una pennellata magistrale che dà tutta la forza di rappresentazione
al quadro. E' uno di quei tocchi meravigliosi che danno alla poesia di
Jacopone una suprema bellezza, un vigore insolito, l'effetto artistico
dell'intensità della visione; l'intensità della passione
produce nel frate altri effetti non meno artistici. Cosí nel grido
immenso d'amore, il delirio, da cui il poeta è agitato, si risolve
in una linea potente di affetto, fatta di ripetizioni bellissime che terminano
in un verso sublime il quale è come la sintesi di tutti i desideri
di Jacopone:
"Amore amor penar tanto mi fai,
Amore amore nol posso patire,
Amore amore tanto mi ti dai,
Amore amore ben credo morire;
Amore amore tanto preso m' hai,
Amore amore fammi en te transire,
Amor dolce languire,
Amor mio desioso,
Amor mio delettoso,
Anegami en amore ...."
In questi versi, pieni
di quella musicalità propria dei motivi popolari, si nota la foga
della passione che erompe, cresce, straripa, e, giunta al suo più
alto grado d'intensità nel quinto verso, s' illanguidisce nella
molle soavità degli ultimi quattro versi, col felice trapasso dell'endecasillabo
nel settenario, fino a morire nel sublime "anegami en amore"
che è come un supremo anelito.
Ma Jacopone non è un asceta che vive lontano dal mondo tutto intento
nelle sue meditazioni e nelle penitenze; c' è anche in lui qualcosa
che ci fa presentire il Savonarola; c' è il Santo che si scaglia
con veemenza, a viso aperto, con parole franche, senza paura, contro gli
stessi capi della Chiesa e ammonisce aspramente Celestino V, e scrive
in versi una tremenda requisitoria contro Bonifacio VIII
Non trovo che ricordi
Papa nullo passato
Che in tanta vanagloria
Si sia delectato.
Sono i soli accenti originali
della nostra letteratura delle origini questi canti amorosi e religiosi;
quasi tutto il resto è imitazione di ciò che ci viene dalla
Francia e dalla Provenza. Dalla Francia, con le Crociate e coni Normanni,
le leggende eroico-cavalleresche avevano già molto tempo prima
invasa l'Italia; come in Lombardia e in Veneto, a causa della loro vicinanza
che risentono l'influenza francese. I trovadori - come abbiamo detto -
allietano con i loro racconti le corti e il popolo; la lingua d'"oui"
è compresa, è diffusa, è quasi parlata dalle regioni
dell'Italia settentrionale; i nostri dialetti del nord hanno molta affinità
con essa e ciò influisce molto allo svilupparsi della letteratura
cavalleresca francese nel Lombardo-Veneto. Oltre a ciò il francese
è la lingua letteraria della poesia cavalleresca così come
il provenzale è quella della poesia trovadorica; e noi vediamo
che, in Italia, BRUNETTO LATINI scrive in francese il suo "Tresor";
sul finire del secolo XIII RUSTICHELLO da Pisa scrive nella medesima lingua
la sua goffa e lunga compilazione dei romanzi della Tavola Rotonda e,
nel 1298, in una prigione di Genova, verga in francese il Milione che
MARCO POLO, anche lui prigioniero, gli detta.
I cicli cavallereschi,
passati in Italia, si ampliano e si trasformano, si mescolano con le scarse
leggende di origine italiana. Gli scrittori nostri che trattano questa
materia sentono il bisogno di mettere qualcosa che riguardi la loro patria,
e così Desiderio ha molta parte nelle imprese di Carlo; Berta e
Milone, scacciati dall'imperatore si rifugiano in Italia, in Italia nasce
Orlando e compie le sue prime imprese; per di più è divenuto
un senatore romano ed ha ricevuto dal Papa un esercito di ventimila uomini.
Trapiantatesi nell'Italia settentrionale, queste leggende dei cicli d'oltr'Alpe
diedero origine ad una fioritura di poemi cavallereschi ed allegorici
e satirici ("le Storie di Raimondo ed Isengrino") che
furono comunemente designati col titolo di letteratura franco-veneta.
Questi poemi, alcuni in parte, sono copie di originali francesi, come
l'"Aspremont", l'"Aliscaris", e il "Gui
de Nanteuil"; altri - come dice il Gaspare - non sono
"semplici traslazioni di poemi francesi; ma sono o trasformazioni
che hanno il loro fondamento nella tradizione orale, soltanto, dell'originale,
o realmente addizioni o nuove invenzioni", come la celebre compilazione
che si trova nel Ms. XIII della Marciana, che contiene il "Bueve
de Hantone" intramezzato dalla storia di Berta "de li
gran piè", il "Kardeto", "Milone
e Berta", "Orlandino", "Ogier"
e "Macabre" dovuti forse alla penna di un solo scrittore,
e in cui il francese che ne forma il fondo linguistico è fortemente
italianizzato; altri ancora scritti in un francese che mostra l'influenza
dei dialetti italiani, sono di pura invenzione italiana come "l'Entré
de Spagne", "la Prise de Pampelune" e il "Roman
d' Hector" o d' "Hercules".
Nell' Italia settentrionale
la letteratura cavalleresca franco veneta non ebbe breve vita ed ora in
dialetto veneziano contaminato di parole o desinenze galliche, come nel
"Buovo d'Antona" e nell'"Ugo d'Alvergna",
ora in barbaro francese, come nell'"Anita" di NICCOLÒ
da CASOLA, si prolungò fino al '400, verso il quale anno fu scritto
da RAFFAELE MARMORA l'"Aquiton de Bavière". Ma
già, allora, il poema cavalleresco era passato in Toscana e la
materia cavalleresca che appassionava il popolo riempiva di sé
la letteratura italiana e preparava i capolavori del BOIARDO e dell' ARIOSTO.
Prima ancora della poesia cavalleresca francese era venuta nell'Italia
del Nord la poesia trovadorica. Le comunicazioni tra la penisola e la
Provenza erano facili; e le numerose corti allettavano col loro sfarzo
e con la loro munificenza i trovadori avidi di avventure e di glorie,
ansanti di peregrinare di città in città, di castello in
castello. E così, fin dal secolo XI, la musa dolce di Provenza
fa sentire i suoi canti soavi al di qua delle Alpi. Dapprima è
qualche trovadore, poi sono parecchi, poi molti e infine, quando la terra
ridente della poesia è devastata dalla furia sanguinaria della
crociata bandita contro gli Albigesi, è una vera invasione di poeti
che lasciano dietro di sé la patria e cercano tra noi asilo e libertà.
Nelle corti di Monferrato,
di Savoia, dei Del Carretto, dei Malaspina, degli Estensi, dei Da Romano
essi trovano accoglienze festose ed ospitalità munifica. Alla corte
dei Monferrato, attirati dalla cortesia di Bonifacio I, convengono i poeti
erranti della Provenza e noi vi troviamo PIERRE VIDAL reduce dalla Spagna,
da Cipro e da Costantinopoli; FALQUET DE ROMAN, ELIAS CAIREL, GAUCELM
FAIDIT, AIMERIC de PEGUILHAN; vi troviamo RAMBALDO di VAQUEIRAS, divenuto
amico inseparabile del principe ed amante della principessa Beatrice che
sotto il nome di "Bel Cavaliere" magnifica in versi smaglianti
nel suo celebre "Carroccio". Bella figura di poeta e
di cavaliere, che fa dell'arte e dell'amore la sua religione, della bellissima
donna il suo idolo, che tiene in non considerazione la sua vita e muore
accanto al suo amico e signore in Palestina, inviando l'ultimo suo canto
alla memoria dell'amata che dorme l'ultimo sonno sotto il cielo sereno
d' Italia. Nella corte di Savoia dimorano RAIMON di TOLOSA ed UGO di SAIN
CIRE; PALAIS e FALQUET in quella di Otto del Carretto; ALBERTET DE SISTERON,
AIMERIC DE PEGUILHAN ed altri in quella dei Malaspina. Aimeric fu anche
nella corte degli Estensi ed ammirò e magnificò in versi
la bellezza della figlia di Azzo VI e nella medesima corte brillarono
pure PEIRE WILLEMS e GUILHEM RAIMON.
Tutti questi poeti scesi
in Italia s'interessano alla vita politica della penisola e, sovente,
i loro canti sono pieni di allusioni alle glorie e alle miserie nostre;
sovente, oltre che alla bellezza delle dame, dedicano le loro canzoni
al valore dei loro signori. Fra i principi italiani che sono oggetto della
poesia trovadorica, campeggia la superba figura di Federico II, del grande
imperatore; campeggia, nei canti di FALQUET de IDOMAN, di AIMERIC de PEGUILHAN,
di Gui-
lhem Figueira, di Peire Bremon, di Guilhem Augier, di Joan d'Albasson,
di GUILHEM de LUSERNA e campeggerà ancora nei versi di molti trovadori
italiani, scritti nella dolce lingua d'oil o che nell'Italia settentrionale
era considerata come la lingua ufficiale della poesia nuova. In lingua
provenzale e con perizia meravigliosa cantano MANFREDI II LANCIA, ALBERTO
MALASPINA, PIETRO de la CAVARANA, il conte UMBERTO di BIANDRATE, il bolognese
RAMBERTINO BUVALELLI, SORDELLO di GOITO, il famoso Sordello, immortalato
da Dante.
Figura interessante questa
di Sordello che sciupa la sua giovinezza fra i bagordi, che si azzuffa
a colpi di fiaschi, in una bettola di Firenze, con alcuni giullari provenzali,
che offre i suoi servigi a Ricciardo di S. Bonifacio signore di Verona,
che ama Cunizza sorella di Ezzelino da Romano, sposa di Ricciardo, quella
Cunizza da lui rapita al marito e accompagnata alla casa del fratello;
di Sordello, che vagabonda per la Spagna, per la Provenza, per il Portogallo
e finisce alla corte di Carlo d'Angiò e compone un trattato di
morale cavalleresca, "Insegnamento d'onore", e il celebre
sirventese in morte di Blacas, il barone senza macchia e senza paura.
I poeti italiani che cantarono
in lingua occitanica, ora si moltiplicano. Ne abbiamo in Genova una schiera
numerosa. LANFRANCO CIGALA, l'amante cortese di Berlenda Cibo, la cui
poesia tutta armonia, semplicità e gentilezza passa, con accenti
bellissimi di sincerità, dal realismo all'idealismo; LUEDETTO GUTTILUSIO,
SCOTTO SCOTTI, LUCA GRIMALDI, GIACOMO GRILLO, SIMONE DORIA, BONIFACIO
CALVO, autore della famosa rampogna in rime rivolta ai suoi genovesi;
PERCIVALLE DORIA che magnifica, in un sirventese, la bionda figura di
Manfredi di Svevia; CALEGA PANZANO che accompagna col suo canto gagliardo
Corradino in viaggio verso Napoli, ed altri ancora, fra cui BARTOLOMEO
ZORZI, veneziano, uno dei migliori trovadori italiani la cui poesia, un
po' rude, è piena di sentimento e di originalità, di ispirazione
e di amor di patria, soffusa tutta di un dolce pessimismo che innamora.
Il gusto provenzale allarga, con la favella, i confini e dal nord scende
nell'Italia centrale, nella Toscana, ove troviamo TERRAMAGNINO da PISA,
PAOLO LANFRANCHI da Pistoia e DANTE da MAIANO; e forse forse - quantunque
non ci rimangano prove - la lingua gentile di Provenza doveva essere usata
da qualche poeta anche in Sicilia, alla corte di Federico II ove già,
in volgare italiano, la musa cortigiana levava in alto la sua voce, che
è come un eco fedele della poesie provenzale.
SECONDA PARTE
LA "SCUOLA POETICA SICILIANA"
- LA LIRICA TOSCANA PROVENZALEGGIANTE - LA POESIA ALLEGORICA, REALISTICA
E SATIRICA - LA PROSA NEL SECOLO XIII
IL "DOLCE STIL NUOVO" - GUINIZZELLI, FRESCOBALDI, GIANNI ALFANI,
LAPO GIANNI, CINO DA PISTOIA, GUIDO CAVALCANTI - LA POESIA GIOVANILE DI
DANTE ALIGHIERI