LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1915


MAGGIO 1915 - PRIMO MESE DI GUERRA - LE GRAVI CARENZE

LE CONDIZIONI DELL' ESERCITO ITALIANO ALLO SCOPPIO DEL CONFLITTO EUROPEO E ALLA DATA DELLA DICHIARAZIONE DI GUERRA ALL'AUSTRIA-UNGHERIA - LA FLOTTA ITALIANA - DISLOCAZIONE DELL'ESERCITO ITALIANO - I COMANDI - AZIONE OFFENSIVA NAVALE E AEREA AUSTRIACA CONTRO LA COSTA ADRIATICA DELL' ITALIA - AFFONDAMENTO DEL "TURBINE" - L'AVANZATA ITALIANA NELLA GIORNATA DEL 24 MAGGIO - I "SILURAMENTI" - IL DUCA DI GENOVA LUOGOTENENTE GENERALE - LA PARTENZA DEL RE PER IL QUARTIER GENERALE - IL BLOCCO ADRIATICO - OCCUPAZIONE DI GRADO, AQUILEIA, TEZZE ED ALA - ALTRE CONQUISTE ITALIANE - LE OPERAZIONI DEI PRIMI VENTI GIORNI DI GUERRA

LA DICHIARAZIONE DI GUERRA
LA PRIMA VITTIMA
LE CONDIZIONI DEL NOSTRO ESERCITO ALLO SCOPPIO DEL CONFLITTO EUROPEO E ALLA DATA DELLA DICHIARAZIONE DI GUERRA ALL'AUSTRIA - LA FLOTTA ITALIANA DISLOCAZIONE DELL'ESERCITO ITALIANO - I COMANDI
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IL PRIMO COLPO, LA PRIMA VITTIMA ITALIANA

Nella sottostante ricostruzione degli eventi, la data dell'intervento in guerra dell'Italia è quella del 24 maggio, ma già nella notte tra il 23 e il 24 vi erano stata le due prime vittime italiane.
(la testimonianza e l'immagine ci è stata inviata dal sig. Dante Marsetti di Trieste).

Ecco nella foto, il monumento che si trova a Visinale sulla strada che da Prepotto porta a Cormons in provincia di Gorizia. Il testo inciso sulla lapide parla di due finanzieri italiani al confine caduti sotto i proditori colpi di un cecchino austriaco.


Più o meno alla stessa ora due finanzieri austriaci (uno di origine slovena tale Franz Caucic) morivano a Porto Buso (una piccola isoletta posta all’ingresso della laguna di Grado al confine con la laguna di Marano) colpiti da una cannonata sparata dal cacciatorpediniere Zefiro (l'episodio è citato più avanti in questa stessa pagina).

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Come abbiamo letto nelle ultime pagine del capitolo precedente, il 24 maggio, l'Italia dichiarava guerra all'Austria-Ungheria, il Re lanciava il proclama a tutte le forze armate della nazione, il Generale Cadorna muoveva lo stesso giorno le sue armate. Purtroppo il "generalissimo" (titolo arbitrario) vide venir meno le prospettive su cui -velocemente- aveva impostato un vasto piano offensivo per invadere l'impero austroungarico dalla pianura friulana e dalla Carnia; inoltre si trovò a fronteggiare anche le cattive condizioni di efficienza dell'esercito italiano. Uomini, armi, munizioni, piani strategici, tutto era carente.

In abbondanza c'era invece l'entusiasmo di tanti giovani tenentini che comandavano altrettanti giovani come loro che toccavano per la prima volta un fucile, e che per la prima volta partivano per la guerra, tutti impazienti per il suo compimento. Del resto la retorica divulgativa scolastica (sulla memorialistica garibaldina, sulle guerre risorgimentali) aveva lasciato della guerra un'immagine avventurosa ed eroica, quindi comprensibile i giovanili entusiasmi e l'impazienza.

Giani Stuparich, uno dei tanti giovani che si gettarono con slancio nel conflitto come un'impresa nobile ed esaltante (era un Triestino, arruolatisi volontario con il fratello Carlo), nel suo diario "Guerra del 1915" così scriveva dopo che l'esercito italiano nei primi giorni aveva iniziato a superare il confine, proiettandosi verso la pianura oltre l'Isonzo:

"C'è in tutti una tensione esasperata, tutti sono impazienti di percorrere presto la pianura, con baldanza e la facilità con cui s'è già passato l'Isonzo…Il più -il passaggio dell'Isonzo- è fatto. L'ha compiuto la nostra compagnia e c'è stato un morto solo e un ferito. Ora bisogna superare la pianura e varcar l'altipiano, per essere in quindici giorni a Trieste".

Dagli alti vertici fino alla truppa, la retorica, la tradizione, l'immaginazione aveva creato questi "sogni di guerrieri fanciulli".
L'Isonzo fu invece il teatro di ben diciassette battaglie; il "morto solo" diventarono tanti, 600.000; e quel percorso verso Trieste che per Stuparich - per riabbracciare la madre in terra straniera- doveva essere di soli "quindici giorni", per superarlo occorsero quattro anni, inoltre non arrivò mai a Trieste suo fratello Carlo, rimasto -su quel breve percorso- ucciso.

Quando l'Italia entrò in guerra, nei precedenti mesi sullo scenario europeo le prospettive del conflitto avevano già messo fine a tutti all'illusione su una guerra di "breve durata".
Tutti i calcoli politici ed economici (dell'Austria e soprattutto della Germania - quest'ultima forse pensava ancora alle sfolgoranti ottocentesche vittorie prussiane del 1870) avevano già smentito clamorosamente sui campi di battaglia le loro speranze e che la guerra sarebbe invece stata di "lunga durata", di logoramento e a oltranza.

SCHIEFFLEN capo di stato maggiore tedesco, quando la Germania invase fulmineamente il Belgio, era sicuro che la guerra non sarebbe stata di lunga durata e disse:
"(le guerre lunghe)...sono impossibili in un'epoca in cui l'esistenza della nazioni si basa sullo sviluppo ininterrotto del commercio e dell'industria. E se anche l'ingranaggio dell'economia industriale si arresta, una rapida soluzione dei conflitti deve consentire di metterlo nuovamente in moto. Non si possono tirare le cose per le lunghe con una strategia di logoramento, quando il mantenimento di milioni di persone richiede un dispendio di parecchi miliardi".

Viceversa accadde proprio che il carattere industriale della guerra, la sistematica mobilitazione e la moltiplicazione delle energie disponibili, resero possibile una sua trasformazione in guerra ad oltranza, e ciò a sua volta determinò una modificazione rilevante e per certi aspetti durevole degli assetti produttivi e sociali.

In Germania questo accadde già dopo i primi dieci mesi di guerra. Anzi già a settembre del 1914, dopo la resistenza e la controffensiva francese nella celebre battaglia della Marna, la prospettiva che si apriva, era proprio una guerra di lunga durata e di logoramento; e secondo l'opinione di molti storici, proprio quella resistenza dei francesi decretò il fallimento del piano strategico tedesco - che era quello di usare subito fino in fondo il maggior potenziale d'urto militare e di scongiurare nel contempo il pericolo dell'accerchiamento e del soffocamento economico- conteneva già in sé, la sconfitta degli Imperi Centrali.
Il potenziale economico, tutto l'apparato industriale, fu adeguato e si adeguò al nuovo corso degli (imprevisti) eventi, ma il problema rimase tuttavia drammatico, e alla fine del conflitto, fu addirittura catastrofico; subito, alla fine del conflitto e poi negli anni e anni che seguirono.

Torniamo alla nostra Italia con un potenziale economico (materie prime, strutture produttive, forze lavoro qualificate) enormemente inferiore a quello tedesco.
Allo scoppio del conflitto europeo, il 28 luglio 1914, anche se avessimo voluto, noi italiani non avremmo potuto partecipare alla guerra a causa delle condizioni del nostro esercito.
Avevamo - scrive il generale SEGATO- grande deficienza di artiglierie, di fucili, di munizioni; di vestiario, d'oggetti d'equipaggiamento individuale e generale e di tutti quei mezzi tecnici (e perfino banalissimi) che si sono poi dimostrati indispensabili per ottenere il successo nella guerra moderna, nè il paese aveva capacità produttiva, - per provvedere alle lamentate deficienze. Inoltre vi erano, nel nostro esercito, insufficienza numerica e qualitativa dei quadri, deficienza quest'ultima derivante dal sistema di avanzamento per anzianità con insufficiente severità nella selezione dei non idonei" e "insufficiente forza bilanciata, per l'insufficiente addestramento delle truppe, e più specialmente delle grandi unità, alla guerra manovrata, e tanto più a quella in montagna, anche pel fatto che soltanto gli alpini avevano equipaggiamento da montagna".

Chi rimediò a tutto queste deficienze del nostro esercito, in meno di un anno, e fece un discreto strumento di offesa e di difesa, inizialmente fu il generale Cadorna con il suo autoritarismo, il quale, coadiuvato (ma solo in un primo tempo) dal Ministro ZUPPELLI e dai generali DALLOLIO e TETTONI, compì veri miracoli.

LUIGI CADORNA, 64 enne (1850-1928) messo a capo unico dell'esercito, era figlio di quel Cadorna Raffaele (1815-1897) che con la Breccia di Porta Pia, aveva preso Roma nel settembre del 1870. Era un soldato tipico del vecchio stampo piemontese. Un uomo autoritario e privo di fantasia, sprezzante verso i borghesi, un devoto a casa Savoia. Alla tenacia univa una dura se non brutale concezione della disciplina, come la punizione esemplare degli insubordinati con la decimazione a caso. E che non operò certo per rendere meno sanguinosi gli enormi sacrifici cui furono sottoposti i soldati italiani nelle già sanguinose stragi negli inconcludenti attacchi alle inespugnabili trincee nemiche (alle volte 7, una dietro l'altra)

Quando fu convocato dal Re, Cadorna insistè che voleva avere mano libera, che voleva combatterla la guerra a modo suo. Cosicchè questa fino alla disfatta di Caporetto nel 1917 (del quale fu largamente responsabile per l'incapacità di prevedere una annunciata controffensiva nemica e farvi fronte) diventò la "sua" guerra. Infatti fu sempre diretta dal "suo" Stato Maggiore posto a Udine. Non quindi diretta da Roma, pur essendo una guerra sostanzialmente uscita fuori da decisioni diplomatiche presa da politici conservatori preoccupati di conservare le istituzioni liberali. Non fu proprio - anche se lo si pensa e si è anche esagerato- dovuta alle pressioni dei chiassosi, esaltati, demagoghi nazionalisti "interventisti".
Quest'ultimi anche in guerra, furono dalla vecchia casta militare (soprattutto settentrionale) guardati con sospetto e con orrore come personalità instabili o inaffidabili. E di norma esclusi anche dai piccoli comandi e dalle scuole ufficiali. (i volontari non sono mai piaciuti e nessun generale; l'esaltazione non va mai d'accordo con la disciplina).

I politici pur ben lontani dal fronte, erano stati dal Cadorna ammoniti a non mettere piede nella zona delle operazioni. Si rifiutò perfino -nell'agosto del 1916- di incontrare il ministro incaricato di mantenere i rapporti tra il governo e il comando dell'esercito. Queste reciproche ostilità (che il generale incoraggiò) furono perfino utili al Cadorna per far diventare capro espiatorio il governo quando le cose a lui gli andavano male. Restano famose le sue tre lamentele al presidente del consiglio, nel 1917, accusando il governo di essere troppo tollerante nei confronti della propaganda "sovversiva"; e che a lui - questa - rendeva impossibile mantenere la ferrea disciplina. All'allora ministro degli interni Orlando, lanciò accuse pesanti e cercò di farlo sostituire. Ma dopo Caporetto, fu proprio Orlando a prendersi la rivincita, destituendo Cadorna.

Cadorna se la prese con tutti, fuorchè con se stesso: con i Russi che avevano abbandonato la guerra rendendola a lui più difficile; con il Papa per aver detto che quella era "una inutile strage"; con i giornali accusati di disfattismo; con i suoi ufficiali "codardi" perchè si erano rifiutati di procedere alla decimazione dei "vili" soldati italiani. Non deve meravigliare se questo atteggiamento (che diventò poi un grosso "problema") contribuì ad abbassare il morale delle truppe, e a portare - dietro sua segnalazione- davanti alla corte marziale circa 290.000 soldati accusati di diserzione.
Con simili metodi, semmai ci sorprende che non fossero ancora più numerosi. L'angoscia individuale di essere scelti a caso all'interno della compagnia e del reggimento e fucilati di fronte ai loro compagni, diventò un angoscioso isterismo collettivo dagli effetti devastanti, che conduceva - direbbe oggi uno psichiatra - alla dissociazione della realtà.

Tuttavia, Cadorna, all'inizio del conflitto, alla deficienza dei quadri (aveva solo circa 15.000 ufficiali di ruolo) rimediò con ufficiali di complemento e con corsi celeri di allievi ufficiali (a fine guerra erano 160.000, di cui 15.000 morti); per aver delle forze pronte al confine orientale mobilitò gradualmente e silenziosamente, col sistema del biglietto personale, centinaia di migliaia di soldati; per ovviare alla deficienza di armi intensificò l'attività dei cantieri militari e trasformò in cantieri bellici molti stabilimenti industriali, che fornirono del copioso materiale bellico ; inoltre riordinò e completò come meglio poté i servizi sanitari, automobilistici e ferroviari e prestò alcune cure all'aeronautica.


"Nonostante tanto intelligente, energico, concorde ed alacre lavoro per preparare l'esercito, - cito ancora il Segato - cinque gravi deficienze ancora erano da lamentarsi quando entrammo in guerra:

1° La scarsità delle bocche da fuoco di medio e di grosso calibro a seguito dello forze operanti. Tutta la nostra ricchezza consisteva nel nostro parco d'assedio che, con grandi sforzi, eravamo riusciti a portare, da 128 a 236 bocche da fuoco. Più precisamente entrammo in guerra con 28 batterie di obici 140 A, 7 da 149 G, 12 batterie di mortai da 210. Di batterie di grosso calibro non ne avevamo che pochissime da 280 e da 305, costituito con ripieghi ricorrendo a materiale da costa, e per questo motivo di scarsissima mobilità. Aggiungemmo poi alcune batterie di obici da 210 G, bocca da fuoco buona ma alquanto antiquata.
Scarse in genere le munizioni; specialmente scarse quelle per le artiglierie di medio e di grosso calibro; e per scarsità di esplosivo moderno, parte delle granate era ancora caricata con polvere nera.
Come poi vedremo, o per affrettato e poco diligente caricamento dei proiettili o per altro
(Ingenuamente -non a conoscenza di queste cose- Cadorna dimenticò che uno dei più grandi gruppi bancari in Italia, che sosteneva i grandi complessi siderurgici e metallurgici subito convertiti alla produzione bellica, era... tedesco! Ndr), molte artiglierie, e proprio le migliori, scoppiarono dopo pochi colpi, riducendo ancora di più la già scarsa dotazione di bocche da fuoco di medio calibro.

2° La scarsità delle mitragliatrici; meno della metà dei reggimenti permanenti aveva le tre sezioni, organicamente loro spettanti; alcuni ne avevano una sola; quelli di milizia mobile nessuna; né eravamo in grado di prevedere quando saremmo stati in grado di distribuirle loro. E ciò mentre ogni compagnia degli eserciti germanico ed austro-ungarico ne aveva almeno una sezione.

3° Mancanza quasi assoluta di mezzi adatti per la distruzione dei reticolati ed altre difese accessorie dell'avversario, alla quale mancanza non si poteva sopperire col tiro delle artiglierie di medio calibro, data la loro scarsità o lo scarso effetto che causavano.
Unici mezzi per distruggere i reticolati: tubi di gelatina che dovevano però venire collocati sotto i reticolati e quindi accesi con i zolfanelli, che voleva dire sotto l'infuriare del fuoco nemico; e le forbici, le quali erano scarso di numero, e molto volte insufficienti allo scopo perché troppo deboli"
.
(Si requisirono sul mercato delle cesoie da giardiniere - alle reiterate e angosciose richieste dei reparti di prima linea, si rispondeva dal Comando Supremo con frasi di questo genere: "I soldati italiani sfondano i reticolati con i petti, spezzano il filo spinato con i denti" - (Alberto Consiglio: Vittorio Emanuele, il Re silenzioso) - Purtroppo i petti erano veramente squarciati dalle mitragliatrici austriache, e i corpi cadevano a grappoli sui reticolati. Ndr).

"Può sembrare strano che a questa deficienza di mezzi per la distruzione dei reticolati non si abbia provveduto prima di entrare in guerra, mentre ormai da oltre nove mesi le azioni tattiche svolte sui campi di Francia e di Polonia- in quelli di Francia specialmente - avevano provato come sui reticolati (3, 4, 5 e anche 10 barriere) si erano infranti gli attacchi meglio architettati e più vigorosi, quando non si aveva avuto a disposizione grande quantità di mezzi adatti per distruggerli.

4° Per un complesso di cause che sarebbe superfluo ora riferire, tra cui quella che fino a poco prima della guerra si era dato la preferenza ai più leggeri (dirigibili) anzichè ai più pesanti (aereoplani) l'aviazione si trovava ancora in uno stato di grave crisi quando siamo entrati in guerra. (perfino ostilità tra Esercito e Marina- vedi la storia di GIANNI CAPRONI - I suoi aerei, che conquistavano un record dietro l'altro, si costruivano su brevetto in Inghilterra e in Usa, mentre i comandi italiani acquistavano quelli esteri, non affidabili).
Un solo mese prima - il 20 aprile - delle 15 squadriglie di aeroplani allora esistenti, non erano impiegabili in eventuali operazioni di guerra che le 6 squadriglie di monoplani Blériot-Gnome, tutte dotate di apparecchi non completamente rispondenti alle necessità di quel momento. Su nessuno dei nuovi apparecchi Voisin (motore 130 HP), Aviatik (125 HP) si poteva fare assegnamento prima della fine di luglio per operazioni di guerra. E difficili, ed in uno stato di marcata inferiorità rispetto al nemico, rimasero le condizioni della nostra aviazione durante tutto l'anno 1915. In questo campo, solo dopo, nei successivi due anni furono compiuti meravigliosi progressi di qualità e quantità.
L'Italia entrò in guerra con 70 apparecchi di tipi vari ed alcuni antiquati, mentre nell'ottobre 1917 disponeva di oltre 2000 aereoplani, di cui 500 in piena efficienza e dei migliori tipi, ed oltre 1500 erano Caproni
(finalmente Caproni ebbe il suo "breve" momento di gloria; ma le ottusità e le gelosie, alle alte sfere delle tre Armi, purtroppo continuarono, fino all'entrata in guerra nel 1940. E si ripetè la stessa deficienza in qualità e quantità nell'Arma decisiva: l'Aeronautica - Vedi Caproni e Balbo).

5° Nonostante i corsi accelerati nelle scuole militari ed i corsi istituiti presso molti reggimenti per il reclutamento degli ufficiali di complemento, molte erano ancora le deficienze in fatto di quadri, fino al punto che le compagnie di fanteria non avevano, di massima, che due ufficiali; deficienze cui male si poteva provvedere con dei sottufficiali che però erano scarsissimi.
Si era poi dovuto promuovere un grande numero di giovani tenenti per provvedere al comando delle compagnie, di modo che la maggior parte dei plotoni era affidato ad ufficiali di complemento, molti dei quali ancora molto giovani ed inesperti pari ai loro coetanei sottoposti. Più sentita ancora la deficienza nell'artiglieria, cui si era dovuto provvedere ricorrendo largamente ad ufficiali di cavalleria, molti dei quali però, è giusto riconoscere, nonostante difettassero di studi tecnici e più ancora di cognizioni scientifiche tuttavia fecero dei miracoli quanto ad efficienza".

In condizioni migliori dell'esercito si trovava invece la nostra marina. La flotta italiana era buona, ma era purtroppo piccola e insufficiente a guardare gli 11.726 chilometri di costa dell'Italia e delle colonie. Se per numero di navi, per tradizione, per allenamento, per spirito bellicoso era superiore alla flotta austriaca, non era però come questa, favorita dalle condizioni della costa.
Durante il periodo della neutralità si provvide ad ovviare alle deficienze della marina. Si accelerarono i lavori delle navi in cantiere (stavano per essere ultimate le dreadnoughts Andrea Doria, Duilio, Cavour), specie degli esploratori; si comprarono all'Estero motoscafi antisommergibili; si costituì con piroscafi requisiti ai privati un gruppo di incrociatori ausiliari; si perfezionarono le basi navali adriatiche, specie quelle di Venezia e di Brindisi; in quest'ultimo porto e a Taranto furono portate le navi più vecchie e le grosse artiglierie dei forti di Genova, Spezia ed Ancona; furono allestiti treni armati a difesa della costa adriatica; s'impiantarono cinque stazioni di idrovolanti, si costruirono infine mine, pontoni torpedini e mas.

Allo scoppio della guerra le nostre forze navali erano così dislocate: a Venezia, per operare nell'alto Adriatico, stava la divisione del contrammiraglio PATRIS: 5 navi da battaglia (Sardegna, Filiberto, Saint-Bon, C. Alberto, Marco Polo), l'incrociatore Etruria, 11 cacciatorpediniere (Bersagliere, Garibaldino, Corazziere, Lanciere, Artigliere, Carabiniere, Pontiere, Zefiro, Fuciliere, Ascaro, Alpino), 30 torpediniere e 14 sommergibili (uno dei quali distaccato ad Ancona); a Brindisi, per operare nel basso Adriatico, stava la seconda squadra agli ordini del viceammiraglio PRESBITERO e composta della divisione Trifari (Brin, Margherita, Garibaldi, Varese, Ferruccio, Pisani)e della divisione Millo (esploratori Palermo, Siracusa, Messina, Quarto, Bixio, Marsala, Agordat, Liguria, Puglia, Libia), 10 cacciatorpediniere e 6 sommergibili; a Taranto, dove risiedeva il comandante supremo DUCA DEGLI ABRUZZI, stava la prima squadra, di riserva, composta della divisione Corsi (corazzate Cavour, Dante, Giulio Cesare, Leonardo da Vinci), della divisione Cutinelli (corazzate Regina Elena, Vittorio Emanuele, Napoli, Roma) e della divisione Cagni (incrociatori Pisa, Amalfi, San Giorgio, San Marco, Piemonte); in più una squadriglia di caccia, una di torpediniere e una di sommergibili.

Le forze navali nemiche erano così dislocate: a Pola la squadra principale austriaca dell'ammiraglio HAUS (12 grosse unità da battaglia, 7 incrociatori, 3 esploratori, 11 cacciatorpediniere, 46 torpediniere é 5 sommergibili); a Sebenico un incrociatore, 2 esploratori, 9 cacciatorpediniere e 10 torpediniere; a Cattaro 4 navi da battaglia, 2 incrociatori, 5 cacciatorpediniere, 13 torpediniere o 2 sommergibili. Sparsi qua e là nei porti circa 60 idrovolanti.

Alla dichiarazione di guerra noi disponevamo di 35 magre divisioni. Con queste il generale CADORNA formò 4 armate, 1 raggruppamento autonomo ed 1 riserva. La 1 Armata, comandata dal tenente generale ROBERTO BRUSATI, occupava la fronte tridentina e aveva il III Corpo (2 divisioni) dal confine svizzero al lago di Garda, e il V Corpo (3 divisioni, compresa la 15a dell'VIII Corpo) dal lago di Garda alla Croda Grande. La IV Armata, comandata dal tenente generale LUIGI NAVA, teneva la fronte cadorina ed aveva il IX Corpo (2 divisioni) fra la Croda Grande e il Pelmo, il I Corpo (3 divisioni) tra il Pelmo e il Paralba. Il Raggruppamento autonomo, agli ordini del tenente generale CLEMENTE LEQUIO, occupava la fronte carnica con due brigate del XII Corpo rafforzato da 16 battaglioni alpini. La II Armata, al comando del tenente generale PIETRO FRUGONI, stava sulla fronte orientale dal M. Magione al Torre ed era fornita dei Corpi IV (3 divisioni di fanteria, 1 di bersaglieri e 1 raggruppamento di 12 battaglioni alpini) e II (3 divisioni di fanteria). La III Armata, agli ordini prima del tenente generale ZUCCARI, poi di S.A.R. il DUCA D'AOSTA; copriva il rimanente tratto della fronte Giulia fino al mare ed era formata dei Corpi VI, già schierato, del X che si trovava sul Tagliamento e dell'XI e del VII che stavano ancora eseguendo il loro movimento ferroviario.

Infine il Comando Supremo, stabilito in Udine, aveva a sua disposizione la Riserva costituita dal XIII e dal XIV Corpo (su 3 divisioni ciascuno di milizie mobili) dislocati tra Desenzano e Verona, dalla 16a divisione con sede a Bassano, dov' era pure il comando dell'VIII Carpo e dalla 4a divisione di cavalleria, ancora in Piemonte. Il comando supremo del nostro esercito era stato assunto dal Sovrano, ma egli, con R. D. del 29 maggio, ne aveva delegato l'esercizio al generale CADORNA. Comandante generale dell'artiglieria era il tenente generale FELICE D'ALESSANDRO, del Genio il tenente generale LORENZO BONAZZI; intendente generale il tenente generale SETTIMIO PIACENTINI.
Il nemico all'inizio della guerra, aveva sulla nostra fronte solo 122 battaglioni, ma dopo alcune settimane poté schierarvi ben 26 divisioni di cui 1 germanica. II comando supremo dell'esercito austro-ungarico, suddiviso in 3 armate, era tenuto dall'arciduca EUGENIO; quello dell'armata che operava nello scacchiere tirolese dal generale VITTORIO DANKL, quello dell'Annata dell'Alto Isonzo dal generale ROHR, quello infine dell'armata posta a guardia dell'Isonzo e del Calco dal generale BOROEVIC.

Numericamente, allo scoppio della guerra, il nemico ora inferiore a noi, ma aveva il vantaggio delle posizioni ed un'enorme superiorità negli armamenti. Fu detto dagli Austro-tedeschi e ripetuto da qualcuno dei nostri alleati che noi scendevamo in campo in un momento molto propizio.
Invece le cose stavano diversamente per la situazione sfavorevole degli eserciti dell'Intesa: in Francia gl'Inglesi avevano subito molte perdite nei combattimenti di Ypres e continuavano i loro insuccessi ai Dardanelli; i Serbi, dopo la vittoriosa controffensiva contro l'armata Potiorek, rimanevano in una inspiegabile e dannosa inattività, permettendo agli Austriaci di distrarre numerose divisioni da quel fronte, infine i Russi, battuti a Gorlice, (Galizia occidentale), dove avevano lasciato nelle mani dei nemici 30 mila prigionieri, si ritiravano precipitosamente incalzati dagli Austro-tedeschi.

Il delicato momento che attraversava l'Intesa rendeva ancora più prezioso l'intervento dell'Italia, la quale con la sua dichiarazione di neutralità aveva reso possibile alla Francia invasa la riscossa della Marna ed ora, per tener fede alla sua parola, sebbene la mobilitazione non fosse terminata e non fosse provvista di sufficiente materiale bellico che le permettesse una vigorosa offensiva, entrava cavallerescamente nella grande avventura col coraggio di chi ha fede nella propria virtù, nella santità della causa abbracciata e nel compimento dei propri destini.

AZIONE OFFENSIVA NAVALE E AEREA AUSTRIACA CONTRO LA COSTA ADRIATICA DELL'ITALIA - AFFONDAMENTO DEL "TURBINE"
L'AVANZATA ITALIANA NELLA GIORNATA DEL 24 MAGGIO
I " SILURAMENTI "
IL DUCA DI GENOVA LUOGOTENENTE GENERALE
LA PARTENZA DEL RE PER IL QUARTIER GENERALE
IL BLOCCO ADRIATICO - OCCUPAZIONE DI GRADO, AQUILEIA, TEZZE ED ALA - ALTRE CONQUISTE ITALIANE
LE OPERAZIONI NEI PRIMI VENTI GIORNI DI GUERRA

La prima notte di guerra il nemico volle sferrare un'azione offensiva navale ed aerea contro la nostra costa adriatica più per produrre un effetto morale che per raggiungere un obbiettivo militare. Aeroplani austriaci gettarono bombe su Venezia, Iesi e Brindisi senza produrre grandi danni; cacciatorpediniere e torpediniere bombardarono, fra le 4 e le 6 del mattino, Porto Corsini, Ancona, Rimini, Senigallia, Barletta, Manfredonia, Pesaro, Fano, Potenza Picena, Porto Recanati e Tremiti.
I danni dell'incursione navale furono lievissimi: alcune case, qualche stazione, un casello ferroviario, un posto semaforico, il serbatoio dell'acquedotto pugliese, qualche carro ferroviario, qualche ponte, un ospedale furono colpiti; un piroscafo tedesco nel porto di Ancona, il Lambros, fu affondato, pare, dagli stessi ufficiali dopo aver fatte segnalazioni al nemico; però poche vittime e, quel che più conta, niente panico fra le popolazioni.

Mentre gli Austriaci iniziavano la guerra contro di noi bombardando città aperte e indifese, noi compievamo vere e proprie azioni di guerra sul mare e alla frontiera. Da Venezia usciva in esplorazione una pattuglia di cacciatorpediniere, un'altra puntava su Grado e Porto Buso, un sommergibile e un dirigibile partivano in esplorazione verso Pola. Da Brindisi una squadriglia di cacciatorpediniere partiva verso la foce del Drin per verificare se vi esistesse una base di sottomarini nemici, e una seconda squadriglia andava, con due sommergibili, a sorvegliare Cattaro; una terza squadriglia andava a incrociare nel canale, mentre l'esploratore Siracusa e l'incrociatore Libia andavano a tentare un colpo di mano su Pelagosa e i cacciatorpediniere Aquilone e Turbine sorvegliavano la costa italiana fino a Manfredonia.

Non molti né felici purtroppo furono i risultati delle nostre prime operazioni navali. Inutile fu l'esplorazione nell'Alto Adriatico perché già da Pola e da Sebenico erano uscite le navi austriache per bombardare la nostra costa. Di esse un caccia, una torpediniera e l'incrociatore Novara entrarono di sorpresa nel canale di Porto Corsini, ma furono danneggiati e messi in fuga dalle batterie costiere. Non diedero risultati la sorveglianza su Cattaro, l'esplorazione alle foci del Drin e il tentativo su Pelagosa; coronata invece da pieno successo fu l'azione del cacciatorpediniere Zefiro, comandato da ARTURO CIANO, il quale entrò (nella notte del 23-24 maggio, quindi prima della dichiarazione di guerra dell'Italia) a Porto Buso, distrusse (così poi si disse) "il pontile della stazione e quello della caserma, affondò tutti gli autoscafi raccolti nel porto e senza subire alcuna perdita, fece prigionieri 47 uomini del presidio".
Più o meno alla stessa ora della morte dei due finanzieri italiani (citati all'inizio) due finanzieri austriaci (uno di origine slovena tale Franz Caucic) morivano a Porto Buso (una piccola isoletta posta all’ingresso della laguna di Grado al confine con la laguna di Marano) colpiti da una cannonata sparata dal cacciatorpediniere Zefiro.
Da segnalare che sull’isola di Porto Buso c’era un solo pontile quello della caserma della Guardia di Finanza, nè poteva esserci alcuna stazione, l’isola non è più lunga di 300/400,metri con una larghezza di circa 150/200 metri.


"Nelle operazioni della prima notte (del 23-24 maggio) noi non avemmo a lamentare che una perdita sola, quella del vecchio cacciatorpediniere Turbine.
"Questo, - così narrava un comunicato del Capo di Stato Maggiore della Marina - la mattina del 24 corr., essendo in servizio di esplorazione avvistò un cacciatorpediniere nemico al quale dette immediatamente la caccia, allontanandosi così dal grosso del reparto navale al quale era aggregato; la caccia durava da circa mezz'ora, quando sopraggiunsero altre unità nemiche, tre torpediniere e l'incrociatore leggero Helgoland. Il Turbine ripiegó allora sul reparto navale a cui era aggregato, ma, colpito per due volte nella caldaia, man mano andò perdendo di velocità. Tuttavia continuò a combattere per circa un'ora, nonostante che un forte incendio divampasse a bordo. Esaurite tutte le munizioni, il comandante ordinò che fossero aperte le valvole di comunicazione col mare per affondare la nave e sottrarla alla cattura da parte del nemico. Il Turbine cominciò così ad affondare, ma, nonostante avesse cessato il fuoco e, con tutto l'equipaggio allineato a poppa, fosse in così gravi condizioni, il nemico continuò a cannoneggiarlo a distanza ravvicinata. Il comandante (che sin dall'inizio del combattimento era stato ferito) quando il Turbine stava per inabissarsi, ordinò alla gente di gettarsi in mare. I cacciatorpediniere nemici misero in mare i battellini per prestare soccorso ai naufraghi, ma in quel momento essendo comparso il reparto navale su cui si appoggiava il Turbine, il nemico, ricuperati frettolosamente i battellini, si diresse a tutta forza verso la propria costa. Le nostre navi, lanciate in mare le scialuppe per soccorrere i naufraghi, inseguirono il nemico aprendo il fuoco. Un cacciatorpediniere nemico del tipo Tatra (il Czepel) e l'Helgoland furono ripetutamente colpiti e gravemente danneggiati; del Turbine furono salvati nove uomini.
I comunicati austriaci venuti a nostra conoscenza affermano che sono stati recuperati 35 naufraghi tra i quali il comandante".

Inizio migliore ebbe la guerra terrestre. Secondo un ordine d'operazione dato fin dal 16 maggio, il XII Corpo meno le due brigate messe a disposizione del Raggrupparnento autonomo della Carnia, doveva passare a disposizione della II Armata, per operare sulla strada di Tarvis; la II e la III Armata dovevano procedere verso l'Isonzo, che sarebbe stato poi superato in un secondo balzo, avanzando più rapidamente la II dalla parte di Caporetto e la III spingendo avanti la I divisione di cavalleria del generale PIROZZI per assicurarsi il possesso dei ponti di Pieris: la I doveva procurarsi, avanzando, una buona linea di difesa, il Raggruppamento Lequio appoggiare la sinistra della II verso Tarvis e la IV raggiungere il nodo stradale e ferroviario di Toblacco.

I risultati della prima avanzata della notte sul 24 furono soddisfacenti. La I Armata occupò la forcella di Montozzo e il passo del Tonale nella Valcamonica, il ponte Caffaro nelle Giudicarie, il terreno a nord di Ferrara di Monte Baldo, Monte Corno, Monte Foppiano sul versante nord dei monti Lessini, i monti Pasubio e Baffelan alla testata della Val d'Agno e della Val Leogra e si spinse in Val Brenta e in Val Cismòn.

Nella Carnia si ebbero violente azioni delle artiglierie; nel Cadore la IV Armata occupò tutti i passi di confine. La II Armata raggiunse Monte Stole occupò Caporetto e le alture tra l'Iudrio e l'Isonzo, la III occupò Cormons, Versa, Cervignano e Terzo, preceduta con eccessiva prudenza dalla I divisione di cavalleria.
Questa prudenza eccessiva, che spesso fu accompagnata e soverchiata da perplessità e titubanza davvero inspiegabili, costò al generale PIROZZI l'esonero.
" Il generale PIROZZI - scrive il Gori - sverginò la lista degli ufficiali superiori esonerati in piena azione o, come poi si disse, silurati e che, all'ottobre 1917, raggiunse il numero di 461, di cui 217 generali. Una ecatombe! Fu malignato volesse il Cadorna, non sopravanzando in altro il JOFFRE, sorpassarlo almeno nei siluramenti. Ma il generalissimo francese adoperò la furberia di concentrare i suoi silurati (limogès) in una sola città (Limoges), dove potevano sfogarsi e consolarsi a, vicenda e non disseminarsi nel paese a screditarvi il siluratore.

"Forse il Cadorna nel percuotere i grossi papaveri, che abbatté di mano propria, fu talora ingiusto; certo eccedé di ossequio alla gerarchia nell'accettare sempre e a occhi chiusi le proposte di siluramenti, venutegli dalle armate e talvolta dal Governo. Le quali proposte non di rado nascevano da equivoci, antipatie, gelosie, dispetti, e si appoggiavano a motivazioni vacue o risibili. Alla Commissione, che più tardi esaminò quegli inspiegabili siluramenti, risultarono casi strani. Molti ufficiali superiori, e taluni decoratissimi, ebbero il siluro, perché la loro "cultura generale e professionale non garantiva che avrebbero percorso con distinzione i gradi più elevati". A silurare un colonnello, particolarmente colto e persino poeta, gli si fece anche l'addebito di non saper parlare ai soldati con proprietà di linguaggio e di dare alle parole la cadenza napoletana. Fra i motivi per silurare un generale si scrisse che, "paffuto e rubicondo, arguiva ma che non ne possedeva le necessarie capacità".
Silurarono un prode generale di divisione, perché, ricevuto con cipiglio dal suo nuovo comandante di corpo d' Esercito e richiestone con mal garbo se avesse fatto la Scuola di Guerra, aveva risposto: "Non ho fatto la Scuola di Guerra, ma ho fatto la Guerra, e bene !"
(ANTONIO MONTI, Combattenti e Silurati).

Questo grandinare di siluramenti, che non perdonava nessuno e colpiva gli alti gradi, mantenne inquieti e sospettosi i comandi, falsò i caratteri, debilitò le iniziative. Né il siluramento, con le sostituzioni portava avanti i migliori, ma si seguiva sempre l'anzianità dell'Annuario; l'inconveniente già poco efficiente all'inizio, peggiorava ancora di più con questo continuo spostamento di ufficiali che prendevano il comando delle vecchie unità o quelle che per necessità d'impiego via via si andavano formando.
Sicché i soldati spesso non sapevano neppure il nome del tenente e del capitano; quanto ai nomi degli ufficiali superiori non si incaricavano di impararli; e in quella fantasmagoria di generali, di colonnelli, di maggiori, canticchiavano: "
Un fesso è partito, un fesso è arrivato, sarà silurato senza pietà".
Questa canzonaccia non era soltanto una delle tante opinioni dei soldati espressa in forma satirica, ma era anche l'inizio di quel disfattismo fatto sovente con allusioni, epigrammi, lazzi e motti, che doveva raggiungere il punto culminante nell'autunno del 1917.

Il 25 maggio le truppe fecero altri progressi. Fu occupato l'Altissimo di M. Baldo, fu conquistato il medio Isonzo, furono occupati la Sella Prevala alla testata di Val Raccolana e gli accessi di Val Degna, a est della ferrovia pontebbana tra Chiusaforte e Pontebba, e fu conquistato alla baionetta il passo di Valle Inferno alla testa di Val Degano.
L'eroico plotone che occupò il passo cambiò in pochi minuti tre comandanti Il sottotenente CIOCCHINO e due caporali maggiori. L'ultimo di questi, il caporal maggiore ANTONIO VICO, sebbene ferito, guidò all'assalto i suoi conquistando la posizione. Riassumendo più tardi l'azione, per la quale il Re gli conferì la medaglia d'argento, il Vico così si espresse in dialetto piemontese: "I l'ouma fait pulissia (abbiamo fatto pulizia)".

Mentre gli Italiani, attraverso i bollettini del Cadorna e le relazioni dei corrispondenti di guerra, apprendevano con gioia queste notizie, il Re, il 26 maggio, indossato bustina e scarponi partiva da Roma per portarsi nel fango del Quartier Generale. Il giorno prima egli aveva nominato suo Luogotenente Generale con la cura di provvedere agli affari di ordinaria amministrazione e ad ogni atto che avesse un carattere d'urgenza, eccettuati gli affari di grave importanza, il suo amatissimo zio TOMMASO di Savoia, duca di Genova, fratello della Regina Madre Margherita, figlio del Duca Ferdinando (fratello di Vittorio Emanuele II) e della Duchessa Elisabetta di Sassonia, sposo della principessa Isabella di Baviera e padre di sei figli, dei quali Ferdinando principe di Udine era tenente di vascello e Filiberto duca di Pistoia ufficiale di fanteria.

La sera stessa della partenza del Re venne pubblicato il seguente decreto:
"Il R. Governo italiano, visto lo stato di guerra esistente fra l'Italia e l'Austria-Ungheria, considerato che alcuni posti della costa albanese servono alle autorità navali austroungariche per il rifornimento clandestino del loro naviglio sottile da guerra, dichiara:
A datare dal giorno 26 maggio 1915 sono tenuti in stato di blocco effettivo da parte delle forze navali italiane 1° il litorale austro-ungarico che si estende a nord del confine italiano sino al confine montenegrino a sud, con tutte le sue isole, porti, seni e rade o baie; 2° il litorale dell'Albania che si estende dal confine montenegrino a nord sino a Capo gephali compreso a sud.
I limiti geografici dei territori bloccati sono: per il litorale austro-ungarico limite nord 450 42'50" di latitudine N. E., 130 15'10" di longitudine E. Greenwich. Limite sud 420 6'25" latitudine N. E., 190 50'30" di longitudine E. Greenwich. Litorale albanese: limite nord 410 52' di latitudine N. E., 190 22'40" di longitudine E. Greenwich. Limite sud: 39o 54'15" di latitudine N. E., 190 45'30" di longitudine E. Greenwich.
Le navi di Potenze amiche e neutrali avranno un termine che sarà stabilito dal comandante in capo delle forze navali italiane, a cominciare dal giorno della dichiarazione di blocco, per uscire liberamente dalla zona bloccata. Contro le navi che in violazione del blocco tentassero di attraversare o avessero attraversato la linea di sbarramento costituita dalla congiungente Capo d'Otranto-Capo gephali, sarà proceduto in conformità delle regole del diritto internazionale dei trattati in vigore".

Il 27 maggio fu giornata piuttosto felice per le armi italiane. Quel giorno furono occupate Grado ed Aquileia e Tezze in Valsugana; furono fatti progressi nel territorio tra il Capo d' Idro e il Garda; bombardata da nostre aereonavi la strada ferrata Trieste-Nabrosina; fu continuato il bombardamento, iniziato al principio delle ostilità, di Monte Croce Carnico, Malborghetto e dei forti di Luserna, Busa e Spitz Verle e " truppe di fanteria, - come diceva un comunicato - rinforzate dalle guardie di finanza e da artiglieria, da Peri, per le due rive dell'Adige, avanzarono verso Ala. Espugnato il villaggio di Pileante, coperto da più ordini di trincee, si impossessarono stabilmente di Ala. Il combattimento durò da mezzogiorno a sera ".
Alla presa di Ala è legato il nome della signorina MARIA ABRIANI, trentina, abitante presso Mori, la quale nel maggio del 1915 si trovava ad Ala a passarvi qualche giorno in casa di amici. La mattina del 27, gli Austriaci, sgombrata la città, si erano trincerati fortemente nelle alture circostanti, decisi a resistere accanitamente agli Italiani i quali, entrando avrebbero dovuto attraversare la via principale, esposta alle raffiche della fucileria nemica. L'Abriani che sapeva ciò e che avrebbe potuto giovare alle truppe italiane anziché starsene nascosta con la famiglia degli ospiti nella stanza più sicura delle casa, verso mezzogiorno, mentre giungeva l'avanguardia dei nostri accolta dal vivo fuoco degli Austriaci, uscì coraggiosamente nella via e sfidano i proiettili nemici, si mise alla testa delle truppe italiane e per una scorciatoia le guidò su un'altura, da dove, i nostri, riparati, poterono rispondere al fuoco avversario e più tardi snidare il nemico dalle sue posizioni. Per otto ore l'eroica giovane rimase esposta al tiro micidiale degli Austriaci; vi rimase finché questi non furono sloggiati e la piccola città non fu libera definitivamente.

Il 28 la lotta delle nostre artiglierie del Tonale e degli altipiani di Asiago e di Lavarone continuò contro le opere nemiche. Rimasero gravemente danneggiati i forti di Laserna, di Belvedere di Busa e di Cima Vezzena. Quest'ultima posizione venne subito occupata dalle nostre truppe, che il giorno 28 si trovavano padroni anche di Cima Mandariolo e di Cima Spessa ed occupavano la borgata e la conca di Cortina d'Ampezzo o il soprastante Passo delle Tre Croci.
Meno fortunate furono le operazioni sulla fronte della II Armata, specie nella zona di Gorizia, dove il II Corpo d'Armata del generale REISOLI più volte, il 26, il 27 e il 28 diede l'assalto al Sabotino, lo prese e dovette rilasciarlo. Ala nella Val d'Adige, sull' altipiano di Lavarone e nella Val Sugana i nostri progredivano; tra la Val d'Adige e la Vallarsa occupavano il Coni Zugna; da Val Cismon, balzati oltre la frontiera, conquistavano il Monte Belvedere che domina Fiera di Primiero; al Monte Croce Carnico, gli Alpini resistevano ai contrattacchi nemici; in Val Giudicaria occupavano Storo spingendosi fin oltre Condino e collegandosi con reparti d'alpini scesi su Chiese per le balze di Val Caffaro e di Val Canonica e il 31 maggio riuscivano ad occupare saldamente il costone del Monte Nero sulla sinistra dell'Isonzo.

Man mano che, nelle prime giornate di giugno, le nostre operazioni procedevano, più il nemico opponeva resistenza alla nostra avanzata, mostrando di avere ricevuto rinforzi e di essersi consolidato su posizioni da molto tempo disposte a difesa. Dalla parte del Trentino, continuava negli altipiani di Lavarone e Folgaria la lotta delle artiglierie, veniva occupata, il 10 giugno, Podestagno, a nord di Cortina d'Ampezzo; invano il nemico attaccava, il 13, la sella del Tonale, Cima Cady, Monte Pissola, Monte Piano e il passo di Sesis. Alla fronte carnica duravano accaniti i combattimenti presso Monte Croce Carnico; il 9 i nostri alpini conquistavano il Freikofel e respingevano la notte successiva vigorosi contrattacchi nemici sia dalla stessa posizione occupata, sia da quelle di Pal Grande e Pal Piccolo; il 12 poi, ancora dagli alpini, veniva occupato il passo di Volaia. Alla fronte orientale i nostri, con operazioni compiute da forti nuclei protetti da artiglierie, tendevano ad assicurare all'esercito italiano la necessaria libertà di manovra sulla linea dell'Isonzo. Nel basso Isonzo, gettati ponti alla presenza dell'avversario, forti reparti di fanteria, preceduti da ricognizioni di cavalleria erano passati sulla sponda sinistra ed ora vi si rafforzavano. Nel medio Isonzo, dove Tolmino ci contrastava il passo con le sue formidabili trincee e con le potenti batterie di Santa Lucia e di Santa Maria, la lotta accanita, iniziata il 4 giugno e proseguita il 5 e il 6, continuava il 7 sulle creste delle pendici di Monte Nero.

Il 9 giugno c'impadronimmo di Monfalcone e di Gradisca, il 10 occupammo la rocca e le alture di Monfalcone e nella notte sul 10 la brigata Granatieri di Sardegna, riuscì ad irrompere di viva forza sulla sinistra dell'Isonzo presso Plava e mantenne posizione penosamente conquistata difendendola da drammatici contrattacchi.

Il 12 giugno l'Agenzia Stefani diramava il seguente comunicato ufficiale delle operazioni nei primi venti giorni di guerra:
"In tutti i punti dell'estesissimo fronte che dallo Stelvio va fino al mare, le qualità del soldato italiano si sono in queste prime settimane splendidamente confermate. Tutte le truppe hanno dimostrato uno slancio aggressivo che, per ragioni strategiche o tattiche, dovette essere perfino talvolta contenuto.

(All'inizio lo scritto di Stuparich lo abbiamo letto. Ma attorno a lui (che aveva validi motivi essendo di Trieste) non vi era una "nazione in armi" (metà era contadina) entusiasta e assetata di gloria, ispirata agli ideali del Risorgimento. Al contrario, c'era un esercito formato da truppe mal disposte, spesso analfabete, mal equipaggiate, strappate alle loro case, famiglie e ai loro campi per combattere in suolo straniero per ragioni a loro incomprensibili. Trento, Trieste, Gorizia e quella spianata di rocce carsiche sull'Isonzo, per questa gente (e metà di loro provenivano dal Sud) non avevano alcun significato, né lo avevano gli ideali cosiddetti nazionali. Inoltre - in questo caso sia i fanti settentrionali che i meridionali- sapevano benissimo che a casa erano rimasti moltissimi imboscati: al settentrione gli operai delle grandi fabbriche dei "pescicani", in meridione i figli di notabili o di uomini politici; entrambi al sicuro non solo da ogni rischio, ma che guadagnavano anche molto, 4, 5, 10 lire al giorno, rispetto alla misera mezza lira per fante di prima linea, e alla miserevole mezza lira data alla sua famiglia per campare (Ndr.)

Ma l' Agenzia Stefani così entusiasticamente proseguiva con il suo comunicato:
(che dobbiamo fedelmente riportare, perchè questo leggevano gli italiani sui giornali: che fra l'altro erano in mano ai proprietari delle grandi industrie belliche.


"In qualsiasi zona, su qualsiasi terreno, di fronte a qualsiasi ostacolo, il soldato italiano, fosse alpino o artigliere; fante o cavaliere, specialista o doganiere, si è comportato magnificamente sopportando le più aspre fatiche, affrontando con sereno e pertinace coraggio il fuoco più violento e le posizioni più difficili, eseguendo con disciplina e con intelligenza gli ordini degli ufficiali..
"Le truppe non combattenti addette alla poderosa organizzazione degli svariati servizi necessari ad un grande esercito si sono pure distinte per operosità, per ordine e per abilità, sicché nelle retrovie regna la più completa calma, malgrado l'intenso lavoro.
"Chi ha vissuto questi giorni di campagna fra i reparti operanti ha avuto occasione di trarre eccellenti impressioni dalle proprie osservazioni. Anzitutto la caratteristica principale del soldato italiano, cioè il buon umore, non si è smentita neanche questa volta, pur conoscendo benissimo le truppe la difficoltà del loro compito e l'aspro carattere di questa guerra; anche nei momenti in cui più grave è il pericolo, i soldati esprimono nei nativi dialetti la loro gaiezza con frasi nelle quali scintilla l'umorismo paesano. I feriti non domandano che di guarire per poter tornare sul fronte. Sono avvenuti moltissimi episodi di stoica e coraggiosa condotta anche da parte di feriti gravi.
"La guerra all'Austria è straordinariamente sentita dalle truppe, da qualunque regione provengano. Vi è in tutti i soldati una ferma volontà di vincere a qualunque costo. Si avverte un poderoso risveglio dell'istinto di razza, oltreché un fervido e cosciente sentimento di Patria. Vi sono stati, in molti punti del fronte, azioni violente e sanguinose. Il soldato ha sempre seguito l'ufficiale con quello slancio, con quella fede e con quell'obbedienza che derivano soprattutto dallo stretto e cordiale rapporto che vi è tra le truppe ed i loro comandanti. In attacchi alla baionetta con trincee formidabilmente munite, in assalti frontali sotto il fuoco delle artiglierie e delle mitragliatrici, ufficiali anche dei più alti gradi e soldati hanno combattuto con eroico coraggio, spingendosi fino alle estreme altezze del sacrificio.
"Moltissimi furono gli episodi di valore. Il colonnello DE ROSSI, comandante di un reggimento di bersaglieri operante in terreno asperrimo, caduto gravissimamente ferito, agitò in alto il cappello piumato, gridando: "Bersaglieri sempre avanti!". La ricompensa al valore datagli personalmente da. S. M. il Re, accorso al suo letto di dolore, gli fu poi di gran conforto.
Il tenente colonnello NEGROTTO, dello stesso reggimento, cadde eroicamente sul campo dell'onore. E con loro divisero la gloriosa sorte altri ufficiali e soldati
bersaglieri, alpini, fucilieri e granatieri, dando al nemico annidato in trincee preparate da lungo termpo e con ogni arte di guerra, lo spettacolo di un ardimento insuperabile.
"In questo modo furono tolte agli Austriaci posizioni fortissime; ma, per quanto talvolta i sacrifici non siano stati lievi, il cuore degli ufficiali e soldati non tremò e ognuno volenterosamente ripeté gli attacchi fino al conseguimento dell'obbiettivo. Né fu soltanto la lotta contro il nemico ma anche la lotta contro il terreno che dimostrò la ferrea resistenza delle nostre truppe specialmente di montagna. Le operazioni furono condotto su balze impervie; furono trasportati su alte e quasi inaccessibili vette grossi pezzi di artiglieria con un'abilità ed una tenacia degne del più alto elogio. Lunghe colonne di salmerie procedenti su per sentieri alpestri e addirittura tra le anfrattuosità del terreno roccioso, recarono regolarmente ai nostri combattenti sull'alta montagna munizioni e viveri.

"In alcuni punti del fronte le truppe avanzarono allo scoperto in pianura sotto il fuoco delle artiglierie nemiche piazzate sulle alture, occuparono tenacemente linee di osservazione, quantunque battute continuamente dai cannoni avversari non indietreggiarono di un passo. Cavalieri e ciclisti fecero rapide ed audaci incursioni in paesi ancora occupati dal nemico, affrontando insidie e riportando buoni frutti dalle loro ricognizioni. I pontieri si distinsero lungo tutta la lunghissima linea dell'Isonzo, gettando ponti di barche o passerelle sotto il fuoco nemico, oppure riattando e ricostruendo rapidissimamente ponti distrutti dagli Austriaci prima della loro ritirata sulla riva sinistra del fiume. Così pure funzionarono ottimamente tutti gli altri numerosi servizi del genio. Brillante fu la condotta dell'artiglieria sia pesante, sia da campagna, sia da montagna. La bella fama dei nostri artiglieri non si smentì nei lunghi duelli contro pezzi nemici sapientemente nascosti in posizioni dominanti, nel vittorioso attacco a forti corazzati, nel battere numerose linee di trincee abilmente dissimulate, nel proteggere e sostenere l'avanzata delle fanterie.

In pochissimi giorni di guerra il coordinamento dell'azione tra le varie armi si affermò rapidamente; il funzionamento dei comandi si palesò ottimo; la collaborazione armonica tra le varie armate secondo i piani prefissi si dimostrò eccellente. Soddisfacente fu il funzionamento del servizio sanitario, sia sul campo, sia nelle retrovie. I feriti vennero rapidamente avviati nei vicini ospedali e i più leggeri vennero successivamente trasportati nelle città più interne onde lasciar libero il posto ai feriti sopravvenienti. In generale si è riscontrata finora la grandissima prevalenza di ferite leggere, specialmente agli arti ed il buon corso dei processi di guarigione.

I servizi di intendenza si sono andati durante pochi giorni completando con buoni risultati. Eccellenti sopratutto i risultati del larghissimo impiego di autocarri; ottimo il servizio di esplorazione aerea. Insomma uno sguardo complessivo al risultato dei primi venti giorni di guerra consente di fare una soddisfacente constatazione di assieme. Oltre a rivelare la splendida condotta delle truppe che ha già ripetutamente e giustamente richiamato l'attenzione e l'elogio di S. M. il Re, il quale percorre instancabilmente il fronte, si può affermare che l'intero esercito ha dato prova fin qui di possedere una salda costituzione organica. Infatti in pochi giorni si è riusciti a compiere la mobilitazione e nello stesso tempo a portare quasi dovunque la nostre forze fuori del territorio nazionale, ponendo così felicemente le prime basi di tutto un piano d'azione che si va razionalmente e gradualmente applicando. Intanto l'imponente organizzazione dei servizi di un grande esercito si è andata ordinatamente e progressivamente completando senza intralcio allo svolgimento della vita del Paese.
Quanto alle prime mosse offensive dell'esercito, pur evitando di entrare in dettagli inopportuni e di commettere indiscrezioni dannose, se ne possono tuttavia riassumere i caratteri generali in base a dati di assoluta verità. Nella zona del Trentino le nostre forze sono risolutamente spinte innanzi, correggendo così almeno gli inconvenienti di ordine strategico di una frontiera infelice come quella impostaci dalla campagna del 1866. Le nostre balde truppe di montagna occupano valichi e vette i cui nomi ricordano le gesta indimenticabili dei valorosi combattenti, mezzo secolo or sono nel Trentino. Potenti artiglierie coronano cime ed altipiani, donde si potrà procedere ad ulteriori e maggiori occupazioni e battono efficacemente fortini nemici finora ritenuti quasi imprendibili e ne hanno già demoliti alcuni.

Nell'alto Cadore si rinverdiscono le memorie delle gesta di Pier Fortunato Calvi, mediante l'occupazione di Cortina e di altri importanti punti. Così non soltanto sono chiuse le vie ad una, del resto impossibile invasione nemica nel territorio nazionale, ma si apre gradatamente il varco a quell'azione offensiva che potrà essere ritenuta opportuna. Nella zona carnica i nostri alpini, solidamente stabiliti su valichi importanti, li tengono ottimamente respingendo ripetutamente contrattacchi nemici. Nella zona del Friuli orientale le nostre forze avanzate vanno prendendo sempre maggior contatto con il nemico superando gradatamente ostacoli non lievi.

"Questi i risultati in un così breve primo periodo di guerra, i quali costituiscono la promessa di un piano di operazioni cui l'esercito si è accinto con animo saldo e deciso a sormontare ostacoli d'ogni specie. Questi obbiettivi e le doverose constatazioni della bontà intrinseca del nostro esercito non debbono, tuttavia, indurre in errore di ottimismo circa il carattere della presente guerra che è aspra e difficile. Non si deve sopratutto dimenticare che il terreno delle operazioni è quasi completamente montuoso, che è stato da lungo tempo preparato dal nemico ed è difeso da truppe agguerrite già da undici mesi di campagna. L'esercito è deciso a superare a qualunque costo ostacoli, resistenze, difficoltà, e gli sarà soprattutto di grande conforto, nell'aspra prova, la serena, fiduciosa e paziente aspettative del Paese".


Il Paese, in effetti era calmo, anche perchè non era granché informato dalla stampa nazionale, dai vari comunicati, ed inoltre nella iniziale euforia, tutti erano convinti che la guerra sarebbe stata breve. Qualche dubbio iniziò a serpeggiare quando in agosto, in ottemperanza al Patto di Londra, l'Italia dovette dichiarare guerra alla Turchia; e rimase in sospeso -fino all'agosto del 1916- la dichiarazione di guerra alla Germania nonostante la presenza di sommergibili tedeschi nel Mediterraneo che colpiranno diverse navi italiane.

Inoltre l'Austria con l'intento di fiaccare il morale italiano, iniziò ad angosciare con le sue incursioni aeree sulle città italiane, come a Venezia.

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PRIMO MESE DI GUERRA - PRIME OPERAZIONI (2)

INCURSIONI AEREE AUSTRIACHE - LE OPERAZIONI DI GUERRA DAL 13 AL 23 GIUGNO: LA CONQUISTA DEL MONTE NERO; FLAVA - L'OPERA DELLA MARINA ITALIANA NEL PRIMO MESE DI GUERRA - IL PAESE E IL GOVERNO NEL PRIMO MESE DI GUERRA - IL DISCORSO DEL CANCELLIERE BETHMANN HOLLWEG E LA RISPOSTA DELL'ON. SALANDRA - IL COMITATO GENERALE PER L'ASSISTENZA CIVILE - GARA DEI CITTADINI ITALIANI NELL'OPERA DI ASSISTENZA - I VOLONTARI - LE DONNE - I GIOVANI ESPLORATORI - IL SECONDO PRESTITO NAZIONALE - RIORGANIZZAZIONE DELLA VITA NEI PAESI LIBERATI - TERRORISMO AUSTRIACO - LA PASSIONE DELLE CITTÀ ITALIANE SOGGETTO AL NEMICO

 

INCURSIONI AEREE AUSTRIACHE
LE OPERAZIONI DI GUERRA DAL 13 AL 23 GIUGNO
LA CONQUISTA DEL MONTE NERO; PLAVA

Il paese, in verità, mostrava una calma maggiore di quella che il nemico potesse credere, né a sminuirla valevano le incursioni aeree, fatte non per raggiungere obbiettivi militari, ma per atterrire le popolazioni e fiaccare la resistenza interna. Così, mentre noi bombardavamo il 30 maggio e il 6 giugno, con un dirigibile, la stazione, il deposito di nafta e l'arsenale di Pola con una squadriglia aerea, il 31 maggio, il cantiere di Monfalcone, con il dirigibile M. 2 alcune torpediniere nelle acque di Sebenico e con un altro dirigibile, l'8 giugno, gli stabilimenti militari di Fiume, gli Austriaci lanciavano, il 31 maggio, bombe su Bari, Brindisi e Molfetta, uccidendo un ragazzo ed un operaio, l'8 giugno su Venezia (incursioni che si ripeteranno nel corso del conflitto per 41 mesi, causando perdite di vite umane e uno scempio nel patrimonio artistico della indifesa città), il 12 giugno su Mola di Bari, Polignano e Monopoli, uccidendo una donna e ferendo un bambino, il 18 giugno su Rimini, Pesaro e Fano ferendo parecchie persone.

Intanto le operazioni continuavano su tutto il fronte. Nel Trentino, il nemico sferrava continui attacchi contro la sella del Tonale, cima Cady, Monte Pissola, Zugna Torta, e Brentonico, ma veniva sempre respinto con perdite; anche nel Cadore si accaniva in tentativi offensivi specie a Monte Piano; nella zona carnica era battuto a Pal Piccolo, a Pal Grande, al Freikofel, al passo di Volaja, al passo di Sesys, a Cima Vallone e a Pizzo Avostano; nella fronte orientale avevano luogo violente azioni di artiglieria da Plezzo al mare, e i nostri allargavano e consolidavano, dopo sanguinosi scontri, il possesso di Plava.

L'azione più importante di quei giorni fu la conquista del Monte Nero. Il 31 maggio, attaccando il Monte Nero, i battaglioni alpini Exilles, Susa e Val Pellice e la 7a batteria da montagna avevano conquistato la cresta Vrata-Vrsic-Potoce e nei giorni successivi l'avevano superbamente mantenuta contro gli attacchi del 3° e 4° reggimento Honwed e di reparti della 50a divisione austro-ugarica. La mattina del 16 giugno, sotto la direzione del generale ETNA, fu iniziata l'azione per la conquista della cima del M. Nero. Essa doveva essere attaccata prima di giorno e di sorpresa da due parti: dal Vrata e dal Kozliak. Due capisaldi controffensivi a copertura delle spalle dalle provenienze di Plezzo vennero costituiti alle testate dei valloni di Statenik e di Lepenie, e sul Polounik venne tenuta pronta la divisione speciale bersaglieri per assalire di fianco le truppe nemiche procedenti per lo Slatenik.

L'avanzata cominciò alle 2 del 16 giugno. Il maggiore TREBOLDI, che operava al di là della cresta, fece attaccare i trinceramenti nemici di Vrata-Potoce per agevolare l'avanzata degli alpini dal Vrata al Monte Nero. Nello stesso tempo, dal Kozliak, mosse il maggiore POZZI con due compagnie dell'Exilles. L'attacco del maggiore Treboldi, vigorosissimo, condusse all'occupazione di posizioni poste tra il Lemez e Monte Nero, che gli alpini difesero accanitamente. Sensibili furono le perdite nemiche, a cui altre più tardi se n'aggiunsero: difatti un battaglione ungherese che veniva a rinforzare i difensori delle trincee del Lemez attaccate dagli alpini del maggiore Treboldi, assalito di fianco dalla compagnia del capitano FABRE, fu in parte distrutto, parte fatto prigioniero e parte messo in fuga.
Non meno vigorosa fu l'azione delle due compagnie del maggiore POZZI, la 31a comandata dal capitano ROSSO e l'84a agli ordini del capitano ALBARELLO. Esse, arrampicatesi arditamente per le balze scoscese del monte, attaccarono con risolutezza alla baionetta le trincee nemiche, e dopo mischia furiosa, ne conquistarono due ordini. Nell'ultimo attacco cadde il sottotenente PICCO, che, sebbene ferito, aveva voluto continuare a combattere; cadde esclamando: "Viva l'Italia !".
Di questa operazione uno scrittore austriaco diede questo giudizio:
"Quando si parla di questo splendido attacco, che nella nostra storia della guerra viene annoverato senza restrizione come un successo del nemico, ognuno aggiunge subito: giù il cappello davanti agli alpini: questo è stato un colpo da maestro". In quell'azione lievissime furono le nostre perdite, gravi invece quelle del nemico, il quale, oltre numerosi morti e feriti, lasciò nelle nostre mani più di 600 prigionieri e moltissime armi e munizioni.

"Nel pomeriggio dello stesso giorno 16 - cito il comunicato ufficiale - un altro battaglione ungherese, proveniente da Planina Polju, pronunziò un violento attacco contro la nostra posizione di Za Kraju: fu respinto, contrattaccato, annientato".
Mentre si combatteva al Monte Nero, furiosa divampava la lotta a Plava. Di questa abbiamo i ragguagli un comunicato ufficiale del 19 giugno:

"La lotta è durata due giorni ed una notte per la conquista delle alture della riva sinistra dell'Isonzo dominanti Plava, villaggio al fondo di una gola rinserrata da pendii ripidi e boscosi, fra i quali il fiume scorre rapidissimo e profondo. Vi esisteva un ponte che fu distrutto dal nemico: con grandi sforzi ed ardimento, stabiliti i passaggi nella notte, le nostre truppe all'alba del 16 iniziarono l'attacco: questo procedette tutto il giorno con lentezza a causa della resistenza del nemico e delle grandi difficoltà del terreno accresciute da rilevanti ostacoli artificiali, solidi trinceramenti protetti da profondi reticolati di grossi fili di ferro rafforzati da spranghe e da ferri a T; numerose artiglierie di grosso calibro, anche da 305, dissimulate in punti dominanti e difficili a controbattersi.

"Tuttavia, appoggiate dal fuoco delle batterie, le nostre truppe riuscirono, con ripetuti assalti all'arma bianca, ad affacciarsi verso sera al ciglio delle prime posizioni nemiche: nel corso della notte l'avversario tentava, più volte, e con impeto, di strappare il terreno conquistatogli; ma fu sempre ricacciato. Il successivo 17 i nostri completarono il successo impadronendosi delle alture ancora rimaste al nemico. Questo concentrava su di esse un violento fuoco di artiglieria e di mitragliatrici; indi lanciava ripetutamente al contrattacco nuove truppe fresche; venne decimato e definitivamente respinto alla baionetta. Vennero fatti oltre 150 prigionieri dei quali 4 ufficiali, e conquistati numerosi fucili, munizioni ed una mitragliatrice. Le perdite nostre sono gravi, ma i risultati sono importanti: la linea dell'Isonzo in quel tratto superata a viva forza; le posizioni nemiche dominanti per natura, fortissime per arte, ad una ad una espugnate; costantemente respinte le ostinate riprese offensive di un nemico numeroso ed agguerrito; sulle alture di Plava le nostre fanterie, validamente appoggiate dal fuoco dell'artiglieria, hanno dato una nuova prova di tenacia e di valore".

Il 20 giugno, sul fronte trentino, i nostri occupavano la Punta Tasca (Valle di San Pellegrino) e dall'alto Cordevole aprivano il fuoco contro i forti di Pieve di Livinallongo; il 21 si ripetevano i vani attacchi austriaci contro il Freikofel e s'infrangevano gli attacchi nemici contro le posizioni da noi conquistate a Plava e sul Monte Nero; il 22 altri attacchi, specialmente notturni, al Monte Piano, al Pal Grande, al Pal Piccolo, sulla Cresta Verde, vennero sanguinosamente respinti.

Così terminava il primo mese di guerra (giugno 1915), durante il quale le nostre truppe avevano conseguito notevoli risultati. Uscendo dal Tonale avevamo successivamente occupato la Forcella di Montozzo e la punta di Albiole; nelle Giudicarie avevamo preso Ponte Caffaro, Cima Spessa, Monte Pissola e il costone fra Condino e Bezzecca, portandoci sotto i forti di Lardaro; nella Val d'Adige ci eravamo impadroniti dell'Altissimo di Monte Baldo, di Monte Foppiano, di Ala, di Brentonico, di Serravalle, del Coni Zugna dello Zugna Torta e, verso destra, del Pasubio e del Baffelan; sugli altipiani avevamo ridotto al silenzio i forti di Spitz Verle, di Vezzena e di Luserna e conciato in malo modo gli altri; in Val Sugana eravamo giunti a pochi chilometri da Borgo; in Val Cismon avevamo occupato il Belvedere; nella valle di San Pellegrino avevamo conquistato la Punta Tasca; ci eravamo resi padroni di tutta la conca di Cortina d'Ampezzo fino a Podestagno e al Passo di Falzarego; tenevamo saldamente tutti i passi da quello di Monte Croce di Comelico a quello di Vall'Inferno e di Monte Croce Carnico, le cui vette circostanti erano in nostro potere, mentre dalla zona di Pontebba le nostre artiglierie sbrecciavano il forte Hensel che sbarrava la strada di Tarvis e dalle testate di Val Raccolana e di Val Dogna disturbavano i movimenti nemici a nord del Passo del Predil.

Nel fronte orientale avevamo passato il basso Isonzo, ci eravamo stabiliti a Gradisca e a Monfalcone e ci eravamo aggrappati alle ultime pendici del Carso; avevamo forzato il passaggio del medio Isonzo a Plava occupando le alture circostanti; avevamo occupato tutto il massiccio del Monte Nero, spingendoci a nord verso Plezzo e minacciando a sud Tolmino.
Questi risultati erano tanto più notevoli in quanto erano stati conseguiti da truppe scarsamente armate, inferiori al nemico per artiglierie e per posizioni, non ancora allenate ad un genere di guerra, che richiedeva tenacia, costanza, prudenza, pazienza, sangue freddo, qualità tutte di cui si credeva - a torto - che gl'Italiani fossero privi.

 

L'OPERA DELLA MARINA ITALIANA NEL PRIMO MESE DI GUERRA

Meno appariscenti, ma non meno attive di quelle dell'esercito erano le operazioni della Marina, costretta ad agire contro un nemico prudentissimo e favorito da ottime basi e dalla natura della sua magnifica costiera. Mantenere il blocco, proteggere la lunga e indifesa costa adriatica, cooperare all'azione dell'esercito, disturbare i movimenti dei naviglio nemica molestare le basi avversarie e tentare di attirare a battaglia le riluttanti forze navali austro-ungariche erano i compiti della nostra flotta, ed essa li assolse con intelligenza, attività, spirito di sacrificio, ardimento ed eroismo.

Il 27 maggio due nostre torpediniere sostennero uno scontro con una torpediniera e due sommergibili austriaci. "Uno di questi, ripetutamente colpito, emanò un denso fumo nero, sollevò una colonna d'acqua e con un forte boato scomparve, lasciando larghe chiazze d'olio alla superficie", come narrava un comunicato. Le nostre torpediniere tornarono incolumi alla loro base. Lo stesso giorno il dirigibile M. 2 bombardò efficacemente alcuni caccia nemici ancorati a Sebenico, e venne catturato presso la foce del Po di Volano un idrovolante austriaco.
Il 31 maggio, una squadriglia di nostre torpediniere bombardò il cantiere di Monfalcone, arrecandovi gravissimi danni. Nel suo ritorno sorprese e distrusse alcuni barconi carichi di farina. Il 1° giugno, una squadra leggera italiana della divisione Millo bombardò gl'impianti radiotelegrafici di Lissa e le stazioni di vedetta di Curzola e Meleda, distruggendo i fari e i semafori. Lo stesso giorno due idrovolanti nemici, che avevano volato presso le nostre coste, furono catturati.

Il 5 giugno, alcuni esploratori e cacciatorpediniere italiani e alleati, operarono contro la costa dalmatica, i canali interni e le isole di Meleda, Lagosta, Giupana e Curzola, distruggendo stazioni di segnalazione, basi di rifornimento, fari, cavi telegrafici e danneggiando la linea ferroviaria Cattaro-Ragusa.
Il 7 giugno, una squadriglia di cacciatorpediniere tornò a bombardare Monfalcone e incendiò il castello di Duino presso cui erano piazzate alcune batterie nemiche. Una aeronave nostra attaccò le opere militari di Pola e tornò incolume alla base, ma il giorno dopo il nostro dirigibile P. 4, comandato dal tenente di vascello conte CASTRUCCIO CASTRACANE di Fano, dopo avere bombardato a Fiume il cantiere Danubius, il silurificio e il cantiere Whitehead, di ritorno fu costretto per avarie a calare sul mare presso l'isola di Lussin e s'incendiò. L'equipaggio fu purtroppo fatto prigioniero.

Il 9 una squadra leggera cannoneggiò la costa a sud di Cattaro; il 16, batterie natanti appoggiarono l'azione delle truppe di terra in direzione del Carso e un dirigibile, sorpassando campi trincerati nemici, lanciò bombe sull'importante nodo ferroviario di Divacco, producendovi gravi danni. Quel medesimo giorno il sommergibile Medusa, che aveva compiuti ardimentosi servizi di esplorazione, veniva sorpreso, silurato e affondato presso Venezia. Il comandante VITTURI e quasi tutti l'equipaggio, eccettuati un ufficiale e quattro marinai, vi persero la vita.
Il 18 un nostro dirigibile bombardò una fabbrica militare presso Trieste ed altre aeronavi eseguirono incursioni in territorio nemico, bombardando efficacemente le posizioni di Monte Santo, i trinceramenti di fornte a Gradisca e la stazione di Oveja Draga sulla linea Gorizia-Dornberg, Quel giorno un cacciatorpediniere austriaco silurò ed affondò il piccolo piroscafo mercantile Maria Grazia. Un reparto navale nemico, presentatosi alla foce del Tagliamento, fu contrattaccato e respinto da una squadriglia di nostri. cacciatorpediniere.

Il 19 giugno, l'incrociatore inglese Dublin, mentre tornava dalle foci della Bojana, dove aveva scortato rifornimenti destinati al Montenegro, pur essendo scortato da parecchi cacciatorpediniere, venne silurato da un sommergibile austriaco; ma, essendo l'allagamento localizzato, riuscì a rientrare con i propri mezzi a Brindisi.

IL PAESE E IL GOVERNO NEL PRIMO MESE DI GUERRA
IL DISCORSO DEL CANCELLIERE BETHMANN HOLLVEG E LA RISPOSTA DELL'ON. SALANDRA
IL COMITATO GENERALE PER L'ASSISTENZA CIVILE
GARA DEI CITTADINI NELL'OPERA DI ASSISTENZA
I VOLONTARI - LE DONNE - I GIOVANI 'ESPLORATORI
IL SECONDO PRESTITO NAZIONALE

Mentre dallo StElvio al mare l'esercito ci si batteva con coraggio e bravura e nell'Adriatico marinai e navi si logoravano in una guerra silenziosa ma faticosa, il Paese seguiva con fiducia lo svolgersi delle operazioni e, abbandonata l'illusione che l'intervento italiano avrebbe risolto in pochi mesi il conflitto, si apprestava a sostenere con un'organizzazione civile adeguata l'azione guerresca.
Insieme con l'illusione della durata breve della guerra era caduta fin dai primi giorni quella che la guerra nostra sarebbe stata combattuta contro un solo nemico: l'Austria. Difatti la stampa germanica, dal 23 maggio, non aveva mai cessato dal vomitare ingiurie contro l'Italia e a queste, il 28 maggio, si aggiungevano quelle ufficiali, pronunciate al Reichstag dal cancelliere BETHMANN HOLLWEG, che accusava l'Italia di perfidia e di tradimento.
Alle accuse del cancelliere germanico e a quelle contenute nel manifesto di FRANCESCO GIUSEPPE rispose il ministro SALANDRA il 2 giugno, inaugurando in Campidoglio i lavori del Comitato Romano di Preparazione Civile, con un discorso lungo, documentato, composto, infiorato qua e là di fine sarcasmo, e qua e là reso più vigoroso da nobile e fiero sdegno. Dopo avere esposti sommariamente i negoziati corsi durante il periodo della neutralità, l'on. Salandra si domandava:

"Dov'è dunque il tradimento, dove l'iniquità, dove la sorpresa se, dopo nove mesi di sforzi vani per arrivare ad un'intesa onorevole, la quale riconoscesse in equa misura i nostri diritti e tutelasse i nostri interessi, noi riprendemmo la nostra libertà d'azione e provvedemmo come l'interesse della Patria consigliava? Sta invece in fatto che Austria e Germania credettero fino agli ultimi giorni di avere a che fare con una Italia, imbelle, rumorosa ma non cattiva, capace di tentare un ricatto, non mai da far valere con le armi il suo buon diritto; con un'Italia che si potesse paralizzare spendendo qualche milione e frapponendosi con inconfessabili raggiri fra il Paese e il Governo".

Dimostrata la costante ostilità dell'Austria verso l'Italia durante il trentennio della Triplice e specie nel tempo della guerra italo-turca, dimostrata l'insufficienza delle concessioni austro-ungariche e venendo a parlare della "dibattuta questione dell'esecuzione dell'accordo", l'on SALANDRA così si esprimeva fra i consensi dei presenti:

"Ci si oppone che dell'esecuzione non avremmo dovuto dubitare, perché ci sarebbe stata la guarentigia della Germania. Supponiamo questa guarentigia data con perfetta intenzione di eseguirla. Supponiamo che la Germania, alla fine della guerra, fosse stata in condizione di poter mantenere la parola data, ciò che non è sicuro. Quale sarebbe stata la nostra condizione dopo questo accordo? Vi sarebbe stata una nuova Triplice, una triplice rinnovata, ma in ben altre ed inferiori condizioni di quelle di prima, poiché noi avremmo avuti uno stato sovrano e due Stati vassalli. Il giorno in cui una delle clausole del Trattato non fosse stata eseguita, il giorno in cui, dopo breve tempo, dopo anni, l'autonomia, municipale di Trieste fosse stata infranta da un qualsiasi decreto imperiale o da un qualsiasi luogotenente, a chi avremmo potuto rivolgerci ? Avremmo dovuto ricorrere al comune superiore, alla Germania.
Ora, signori, io voglio dirvi che della Germania non intendo parlare senza ammirazione e senza rispetto. Io sono Primo Ministro d'Italia, non cancelliere tedesco; e non perdo il lume della ragione. Ma con tutto il rispetto dovuto alla dotta, alla potente, alla grande Germania, mirabile esempio di organizzazione e di resistenza, in nome del mio Paese debbo dire: vassallaggio no, protettorato no, verso nessuno. Il sogno dell'egemonia universale è stato infranto, Il mondo è insorto, la pace e la civiltà dell'umanità futura debbono fondarsi sul rispetto delle compiute autonomie nazionali fra le quali la grande Germania dovrà assidersi pari alle altre ma non padrona".

Al fiero, chiaro, realistico, discorso dell'on. Salandra applaudiva tutto il Paese, che rispondeva concorde ed entusiasta all'appello per la mobilitazione civile. A Milano si costituì un Comitato Generale per l'assistenza civile per provvedere ai bisogni nati dalla chiamata alle armi di tanti capi di famiglie proletarie, e dietro l'esempio di Milano altri comitati sorsero in ogni centro d'Italia, sorretti e guidati dalle autorità governative, specie dai prefetti, ai quali il presidente dei Ministri, con una circolare in data del 7 giugno, forniva le direttive seguenti: "Non si tratta di burocratizzare, assoggettandolo a criteri uniformi, il movimento spontaneo della carità nazionale; occorre invece che esso si svolga multiforme, secondo la varia natura dei bisogni locali. Ma tale criterio non esime i rappresentanti del Governo dall'esercitare tutta la loro influenza per stimolare, organizzare ed integrare le spontanee energie caritative. Anche la raccolta dei mezzi deve farsi non rivolgendosi ai Governo Centrale, che ha altri doveri e le adempirà, ma facendo intendere alle amministrazioni locali e ai cittadini delle classi agiate che in questo periodo di supremo sforzo nazionale è comune l'obbligo civile di consacrare ogni disponibilità, non più a spese che possono essere risparmiate e differite o a consumi di lusso, bensì ad alleviare le preoccupazioni, i disagi, i danni inevitabili delle case dei poveri. Nessun Comune del Regno dovrebbe rimanere senza il suo Comitato, ed in ognuno una pubblica sottoscrizione dovrebbe essere aperta".

Quella di Milano si aprì con una prima somma di 1 milione e 200 mila lire, che il 13 giugno giungeva a quella di 3 milioni e il 26 di 4 milioni e mezzo.

Privati e ditte inviavano somme cospicue da esser date in premio ai combattenti più valorosi. Si moltiplicavano i comitati e le istituzioni ognuno dei quali aveva scopi ben definiti: assistere i soldati alla partenza, durante il viaggio e al fronte; assistere i feriti, i mutilati, gli invalili, gli orfani, le famiglie dei richiamati; provvedere calze, maglie, scaldarancio, passamontagna, maschere per gas, doni; organizzare uffici d'informazioni intermediari tra i combattenti e le famiglie e comitati di vigilanza contro l'insidia delle spie; raccogliere libri per soldati. Ma era solo l'inizio di un lungo calvario.

Nella gara di offrire e di rendersi utili per i bisogni della guerra parve in questi primi mesi che fossero scomparsi i partiti politici e le classi sociali. Il presidente onorario del Comitato milanese per l'assistenza civile era il sindaco socialista CALDARA; la Confederazione Generale del Lavoro diramava alle organizzazioni operaie una circolare in cui si davano istruzioni sull'opera da svolgere per alleviare i danni della disoccupazione; la Federazione Nazionale Lavoratori della terra, d'accordo con la Società Umanitaria di Milano, istituiva un ufficio di collocamento nazionale per i contadini; la maggiore attività possibile esplicavano i marinai mercantili, i postelegrafonici e i ferrovieri, dei quali ultimi vennero, come premio, amnistiati quelli che erano stati puniti per lo sciopero dei 1914; coloro che avevano parteggiato per la neutralità ora si sbracciavano in favore della guerra, deputati socialisti si arruolavano volontari. Fu un momento magico della solidarietà dell'italiano

Quello dei volontari era davvero uno spettacolo meraviglioso; accorrevano sotto le bandiere cittadini di ogni età e di ogni condizione e spesso giovincelli imberbi falsificavano le proprie generalità per dimostrare di avere i requisiti voluti per gli arruolamenti. E non solo di Italiani residenti nel regno si ingrossavano le schiere dei volontari, ma di Italiani residenti all'Estero che rimpatriavano sia per rispondere alla chiamata alle armi, sia per offrire spontaneamente il loro braccio alla causa santa della redenzione.
Non minore entusiasmo degli uomini dimostravano le donne, le quali, se in parte non furono mosse da spirito di sacrificio e di patria, ma da vanità e qualche volta da libidine, senza distinzione di età né di ceto, accorrevano in generale volentieri a prestar l'opera loro pietosa e patriottica alle stazioni, sui treni, negli opifici, nei comitati di soccorso, negli ospedali delle retrovie e dell'interno e a sfidare la morte negli ospedaletti da campo esposti ai bombardamenti nemici (delle donne parleremo ancora).

Nè, in questa rapida e sommaria rassegna delle forze operanti del paese debbono essere dimenticati i giovanissimi. Infatti, i Giovani esploratori - tra i quali fece il suo tirocinio il principe Umberto - furono mobilitati e a loro si affidò l'incarico di distribuire ai cittadini ordini ed avvisi delle autorità, di portare dispacci di Stato e fare segnalazioni, di raccogliere informazioni, di organizzare e mettere in esecuzione i provvedimenti emanati dalle autorità per i soccorsi pubblici, di aiutare personalmente le famiglie i cui uomini erano stati chiamati alle armi, sostituendo nel lavoro i combattenti, assistere gli ammalati e i feriti, stabilire i posti di pronto soccorso, dei ricoveri e dei dispensari nei locali delle loro sedi di sezione, di far da guida nelle loro circoscrizioni, di occuparsi dei servizi riguardanti alloggi delle truppe e di raccogliere e portare a destinazione i messaggi lasciati cadere da aeroplani e dirigibili in perlustrazione.
Nell'agosto, i più forti dei Giovani esploratori di circa quindici anni furono adibiti a servizi di vigilanza costiera.
Anche dal lato finanziario il Paese rispose all'appello del Governo. Durante la neutralità era stato emesso un prestito nazionale per 1 miliardo, che sottoscritto tra il 4 e l'11 gennaio del 1915 aveva fruttato 1 miliardo e 280 milioni, 500 dei quali sottoscritti da 240 enti bancari. Il 17 giugno fu emesso un secondo Prestito Nazionale, a 95, col tasso netto del 4.50, rimborsabile entro venticinque anni. La chiusura della sottoscrizione fu fissata al 15 luglio, ma con decreto luogotenenziale fu protratta, di tre giorni. Il prestito raggiunse la cifra di 1 miliardo 145 milioni 862.700 lire. Vi parteciparono 245.474 sottoscrittori in Italia e non pochi connazionali residenti all'estero; e se il risultato non fu proprio magnifico, esso non deluse l'aspettative del Governo anche per la larga partecipazione dei piccoli risparmiatori.

Ma il prestito non risolse i gravi problemi finanziari. Né li risolse, quando inizia a incassare il primo prestito di 50 milioni di sterline concesse dall'Inghilterra. E' il primo, il secondo a dicembre; poi seguiranno gli altri fino al termine del conflitto; procurandosi l'Italia -pur vincitrice- quello spaventoso debito con l'Inghilterra; che offriva buona parte denari americani, ma era l'Inghilterra a garantire gli Usa per la riscossione. Restituzioni dilazionate fino al 1988. Nella critica situazioni in cui si venne poi a trovare l'Italia del dopoguerra; e a fascismo già iniziato, l'Inghilterra propose agli Usa la cancellazione o una riduzione del debito a vinti (Germania) e vincitori (Italia). Ma gli Usa - entrati poi pure loro in crisi nel 1929, furono sordi. Famosa la frase del Presidente Usa: "I soldi li hanno ricevuti? Allora paghino!".

Le enormi spese militari, soprattutto iniziali, causeranno già in settembre preoccupazioni in seno al governo. SALANDRA farà pressioni su Cadorna perché riduca le richieste di stanziamenti e di materiale bellico. Cadorna farà qualcosa, ma non avrà il potere di fare miracoli.

 

RIORGANIZZAZIONE DELLA VITA CIVILE NEI PAESI LIBERATI
IL TERRORISMO AUSTRIACO
LE CITTA' ITALIANE SOGGETTE AL NEMICO

"Parallelamente allo svolgersi delle operazioni militari, - così scriveva un comunicato ufficiale del 18 giugno - Il Comando Supremo attende a rianimare la vita civile sui territori occupati ed a sollevare le popolazioni stremate in conseguenza della lunga guerra europea. Tale compito è esercitato dal Comando mediante il Segretariato Generale per gli affari civili istituito fin dall'inizio della guerra sotto la direzione del Commendatore D'ADAMO, ispettore generale del Ministero dall'Interno. Compito del predetto ufficio, oltre la collaborazione con Stato Maggiore nelle funzioni di carattere politico ad esso spettanti nell'ambito della zona di guerra, è principalmente l'organizzazione dei servizi nei territori occupati.
E' cura del Comando di destinare nei singoli distretti politici, appena le esigenze militari lo consentano, un funzionario fra quelli che il Governo centrale ha posto a sua disposizione, scegliendoli fra il personale delle Prefetture. Detti funzionari alla dipendenza delle autorità militari operanti nei vari settori e del Segretariato Generale svolgono già un'opera bene apprezzata dalle popolazioni. Sono in funzione commissari civili a Cormons, a Cervignano, a Caporetto, ad Ala, a Condino, ed altre nomine sono in corso per il governo di altri sette comuni già occupati. Sono state organizzate dappertutto, mediante alacre opera dell'Intendenza Generale, che si è valsa dei larghissimi rifornimenti predisposti per le truppe, distribuzioni di viveri di prima necessità sotto la sorveglianza dei commissari civili. E poiché anche gli abbienti non era loro possibile fare acquisti, per l'assoluta mancanza di generi, l'Intendenza ha in vari comuni provveduto alla vendita di essi a prezzi di gran lunga inferiori e quelli in corso prima della nostra occupazione".

"Basta ricordare, ad esempio, le farine, le quali avevano raggiunto il prezzo di 400 corone per quintale. Rifioriscono ora i mercati normali dopo che hanno cominciato nuovamente a circolare nelle province di frontiera i treni di derrate; funzionano i primi uffici postali e telegrafici; si stanno impiantando gli spacci di privative e già sono stati riforniti quelli esistenti. Dovunque le amministrazioni comunali, con gli amministratori già in carica e con persone del luogo all'uopo delegate, sono in funzioni. Si provvede con medici locali e con ufficiali delle sanità militare all'assistenza sanitaria, a larghe provviste di disinfettanti e di medicinali; sono distribuite le provvidenze di carattere igienico che hanno larga applicazione per la necessaria tutela della popolazione civile e delle truppe; la moneta italiana è dappertutto accettata o ricercata, stante la progressiva ed impressionante svalutazione di quella austriaca.

"Un senso di fiducia si diffonde. Con plauso e pubbliche manifestazioni è stato accolto il provvedimento generoso di continuare a concedere a favore delle famiglie dei richiamati il sussidio che loro veniva concesso sotto il regime austriaco. Prove non dubbie di attaccamento e di gratitudine sono ogni giorno segnalate. A Cervignano in dieci giorni si sono raccolte 2600 corone a favore della popolazione. Il Presidente del Consiglio se ne compiaceva con un nobile telegramma subito divulgato nell'intero distretto. Anche a Monfalcone, che è ancora così prossima all'azione del fuoco nemico, vi sono state offerte per la Croce Rossa Italiana e per i nostri feriti in guerra. Si va svolgendo così intensamente il programma del Governo che alla gloriosa avanzata delle nostre truppe intende far seguire immediatamente un ordinamento amministrativo che, per quanto provvisorio durante l'occupazione, deve manifestarsi solido e benefico, inteso al rispetto dei diritti individuali ed al benessere delle popolazioni redente".

Tanto più era necessaria nei paesi liberati l'opera dell'amministrazione italiana in quanto il nemico, ritirandosi, desolava il territorio che era costretto ad abbandonare, portando via tutto ciò che poteva avere valore, lasciandovi però spie ed emissari, che fornivano informazioni al nemico, tendevano agguati ai nostri, specie gli ufficiali, organizzavano nei boschi bande che colpivano alle spalle le nostre truppe o assalivano le salmerie e infine spargevano abilmente nelle popolazioni la diffidenza e il terrore.
Certo queste popolazioni pur essendo di lingua "italiana", non vedevano di buon occhio gli Italiani, sia perché avevano i loro più validi uomini sotto le bandiere austriache o internati nell'Impero, sia perché erano convinti che non saremmo riusciti a vincere e temevano poi le rappresaglie degli Austriaci a guerra finita.
Questo non significa che erano animate, come da qualcuno fu detto, da sentimenti antitaliani. Poté essere scambiata per sorda ostilità la loro diffidenza, che, ricambiata ad usura, da noi, diede origine a molte leggende, a non poche esagerazioni e solo col tempo e con l'opera avveduta delle nostre autorità scomparve, dando luogo a manifestazioni commoventi d'italianità e di fratellanza.
Non meglio delle popolazioni dei territori che gli Austriaci dovevano poi abbandonare, furono trattate quelle del Trentino, dell'Istria e della Dalmazia di nazionalità italiana.
Nelle città vennero sciolte le amministrazioni comunali le quali furono sostituite con commissari governativi, che cercarono in tutti i modi di cancellare il carattere italiano di esse, sostituirono con nomi tedeschi quelli italiani delle vie, cercarono di dare all'insegnamento elementare un indirizzo austriaco, e obbligarono a scrivere in tedesco la corrispondenza indirizzata alle autorità governative.
Nelle principali città adriatiche che vivevano del commercio, ora completamente rovinato dalla guerra, le autorità austriache cercarono di volgere il malcontento del popolino contro il Governo italiano, rappresentandolo come il responsabile del prolungarsi della guerra ed ottenendo, con la loro istigazione, furiose rivolte.
Il 23 maggio, a Trieste i cosiddetti "leccapiattini", opportunamente istigati contro gli averi e le persone del partito nazionale italiano, saccheggiarono, devastarono, incendiarono molti negozi italiani, deturparono il monumento a Giuseppe Verdi e diedero fuoco all'edificio del giornale il "Piccolo. Altre dimostrazioni ostili agli Italiani furono provocate a Fiume, a Capodistria e in altre città, dove della plebaglia strumentalizzata e pagata cantava canzonacce oltraggiose verso l'Italia, contro Salandra, contro Cadorna.

Nè questo era tutto. Il Governo austroungarico, col pretesto dello stato di guerra, arrestò e deportò tutti i regnicoli che non erano riusciti a rimpatriare e moltissimi nativi di Trieste, di Fiume, di Zara, di Trento e delle altre città italiane della Monarchia. I deportati, d'ogni età, sesso e condizione, esposti agli insulti del popolaccio, furono internati in fortezze e in campi di concentramento al centro o agli opposti confini dell'impero e qui soffrirono la prigionia, i disagi, l'affronto di promiscuità vergognose, non di raro la fame, e molti morirono di stenti e qualcuno si diede volontaria morte.
Nelle città italiane furono proclamate lo stato d'assedio e la legge statuaria; furono sciolti circoli e società, si proibì di spedire lettere chiuse, s'impose il coprifuoco; qualche città, come Pola ed altre dell'Istria, fu fatta sgombrare dalla popolazione civile; altre città, comprese nella zona d'operazione e divenute per la loro posizione luoghi di passaggio e di concentramento di truppe e di servizi, ebbero sorte peggiore, perché furono esposte alle ingiurie della soldataglie: così Trento, dove a stento furono sottratte, nascondendoli, alla furia dei soldati i busti del Prati, del Verdi e del Carducci, e non si sa come, non venne fatto oltraggio al monumento di Dante; così Gorizia, la bella e ridente Gorizia, di cui furono allontanati i patrioti e dove per più d'un anno spadroneggiò la bestiale burbanza delle soldatesche imperiali, quasi sicuri che (con le loro formidabili difese) gli Italiani non avrebbero mai colpito con le loro artiglierie la regina dell'Isonzo.

Ma peggio di tutte stavano le città vicinissime al fronte, cadute o in procinto di cadere nelle nostre mani; su queste il nemico sfogò la sua rabbia inviando sopra di esse il piombo distruttore dei suoi cannoni: così conobbero tutto il barbaro livore degli Austriaci, Rovereto, Gradisca, Monfalcone e, per non citare, molti altri paesi, Cormons, che, sebbene lontana, per mesi ricevette il quotidiano quantitativo di granate di grosso calibro.
In questo primo mese di guerra, gl'Italiani rimasti nelle vicine città, specie a Trieste, o che erano sfuggiti agli arresti ed alle deportazioni, vissero inenarrabili ore di ansie, di trepidazione, di speranze. Videro fuggire autorità, palpitarono di gioia ogni volta che più distinto si faceva il rombo dell'artiglieria italiana, guardarono con appassionato desiderio le ali tricolori che spesso attraversavano il cielo della loro patria oppressa per seminare la distruzione sulle opere miliari,; sperarono nell'imminente liberazione tutte le volte che la sagoma di una nave o una colonna nerastra di fumo si staccava dal verde dell'Adriatico.
Ma a poco a poco, dal cuore di questi fratelli, la speranza di esser presto liberati scomparve. La speranza di uno sbarco italiano tramontò e tramontò pure quella di una rapidissima avanzata delle nostre truppe approfittando dello scarso numero di quelle nemiche.
Le posizioni austriache resistevano, dagli altri fronti giungevano quotidianamente reggimenti e cannoni e la possibilità che gl'Italiani avessero facilmente ragione della resistenza austro-ungarica svaniva. E più che l'angoscia, subentrava un senso di rabbiosa amarezza.

Anche sul fronte italiano la guerra, come altrove, si era trasformata in lotta di posizione, con la sfibrante attesa nelle trincee, con i logoranti assalti a quote martoriate dai proiettili, con costruzione continua di camminamenti, di piazzole, di ricoveri, e acquistava il grigiore e la monotonia di una vita, che però qualche volta si illuminava d' una luce radiosa e mostrava, tra il fragore delle artiglierie e gli urli dell'assalto, esempi impensati di eroismo, che si moltiplicheranno nei mesi e negli anni successivi, facendo scrivere le innumerevoli pagine gloriose della nuova storia d'Italia.

Abbiamo qui terminato giugno, primo mese di guerra; abbiamo ora davanti il secondo mese…

o meglio la "guerra dell'estate 1915

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OFFENSIVA - ISONZO 1 - SPERANZE

IL CINQUANTESIMOSESTO ANNIVERSARIO DI SOLFERINO COMMEMORATO IN FRANCIA: DISCORSI POLITICI DI TITTONI E DEL SENATORE PICHON - LE OPERAZIONI DI GUERRA SUL FRONTE TRENTINO E IN CARNIA - LE DIFFICOLTÀ DELLA LINEA DELL' ISONZO - LE VIRTÙ MILITARI DEL NOSTRO ESERCITO - VANI ATTACCHI NEMICI - VISITA DELL'ON. SALANDRA AL FRONTE - L'OPERA DEL GENIO - LENTI, MA CONTINUI PROGRESSI ITALIANI DALLO STELVIO A PLEZZO - LA PRIMA BATTAGLIA DELL' ISONZO - IL VALORE DELLE NOSTRE TRUPPE ELOGIATO DA UN COMUNICATO UFFICIALE - IL "VOTO DI CALAIS" - INTENSA ATTIVITÀ DELLE NOSTRE ARMI NELLA SECONDA METÀ DI LUGLIO SULLA FRONTE TRENTINO-CARNICA - LA SECONDA BATTAGLIA DELL'ISONZO: SANGUINOSE GIORNATE DI LOTTA A MONTE SEI BUSI, AL SAN MICHELE, DI FRONTE A GORIZIA, A PLAVA E AL MONTE NERO; I NOSTRI PROGRESSI, LE PERDITE DEL NEMICO - LA NOSTRA AZIONE DELLE PRIME TRE SETTIMANE DI AGOSTO NEL TRENTINO E NELLA CARNIA -


Le barriere dei fili spinati e dei fossati da superare (anche 8) degli sbarramenti austriaci sull'Isonzo

L'inizio del secondo mese di guerra (Luglio 1915) coincidendo col cinquantesimo sesto anniversario della battaglia di Solferino, fu festeggiato A Parigi con una manifestazione franco-italiana, al Trocadero, a beneficio delle opere assistenziali italiane per la guerra. Parlarono il senatore RIVET e il presidente della Camera francese DESCHANEL, che inneggiarono all'unione delle due nazioni sorelle; quindi l'ambasciatore italiano TOMASO TITTONI pronunziò un importantissimo discorso, cui tenne dietro quello del senatore francese PICHON, che va qui riportato essendo in esso contenute delle affermazioni, le quali a distanza di pochi anni a Versailles la Francia poi dimenticherà:

"L'era delle diffidenze e dei disaccordi è chiusa. Gli alleati del '59 si ritrovano nella guerra, marciano insieme alla vittoria, saranno insieme nella pace. Non sono soltanto i legami di consanguineità che li riuniscono, ma la concezione identica dei diritti e dei doveri dei popoli liberi, lo stesso disgusto della tirannia, lo stesso orrore dei procedimenti coi quali una razza invasata d'orgoglio pretende di imporre la sua onnipotenza, lo stesso attaccamento ai compatrioti asserviti, i quali rivendicano fieramente la Patria perduta. Dopo la guerra, resterà tra la Francia e l'Italia con la loro parentela d'origine anche la comunanza dei loro bisogni. Quello da loro concluso nel 1915 non è un patto di famiglia, ma un accordo che, riposando sulle più nobili preoccupazioni e inspirandosi alle più sante delle cause, quelle del diritto, della giustizia, della libertà tende nel tempo stesso allo sviluppo mutuo e solidale delle forze di cui i contraenti dispongono.
In Europa, in Africa, in Oriente vi ha posto per lo sviluppo parallelo delle Potenze latine. Esse possono estendersi e prosperare senza complicare i loro rapporti con ingiustificabili gelosie. Anche per il successo delle loro imprese nazionali devono essere d'accordo e sostenersi a vicenda. Con questi intenti gli amici dell'Italia, tanto numerosi in Francia, salutarono la fine della Triplice Alleanza. Essa si sciolse da sé come un accoppiamento mostruoso, il giorno in cui, per la cospirazione dell'Austria e della Germania, si trovò bruscamente dinanzi alla necessità dell'azione. L'unione militare e diplomatica che le succede è un atto di ragione, di patriottismo e d'armonia che ha per scopo di vincere e per obbligo di persistere. Gettando dall'alto del Campidoglio la parola della liberazione alla Patria come il Doge gettava il suo anello ducale all'Adriatico, per suggellare l'alleanza della Repubblica di Venezia col mare che portava la sua fortuna, l'on. Salandra ha rialzato la bandiera sotto la quale gli eserciti alleati avevano combattuto a Solferino, che ora riconduce sui nuovi campi di battaglia e all'ombra della quale si raggrupperanno vittoriosi, per completare l'opera della guerra con l'irradiazione delle opere di pace"

In un telegramma, letto dal Deschanel, GABRIELE D'ANNUNZIO faceva sentire la sua parola in cui era la sua fede in una futura, intima collaborazione tra le due nazioni:
"Fra poco, quando avremo finito di battere quello stesso nemico che fuggiva sul Mincio innanzi agli alleati, penso che avremo l'orgoglio di mescolare nuovamente il nostro sangue più da vicino, sui campi più vasti. La speranza è ormai certezza e il volere è compimento".

Quello stesso 24 giugno, il bollettino Cadorna così dava conto delle operazioni di guerra:

"Nella regione del Tirolo-Trentino e in Cadore, mentre procede metodica l'azione delle artiglierie, manteniamo l'attività lungo tutto il fronte mediante ricognizioni di piccoli reparti. Abbiamo così avuto fortunati scontri a Carzano, in Val Cismon, e verso l'altipiano di Vezzena. Anche in Carnia è continuato intenso il tiro delle artiglierie, specialmente contro Malborghetto; una cupola del forte Hensel è stata oggi sfondata. Nella notte del 23 si rinnovarono i consueti vani attacchi nemici contro le nostre posizioni di Pal Grande e Pal Piccolo. Nella zona del Monte Nero abbiamo ampliato la nostra occupazione verso nord sino alle pendici orientali del Javorcek prendendovi 57 prigionieri. Da tale zona si è iniziato il tiro contro la conca di Plezzo. Lungo l'Isonzo procediamo gradualmente ad affermarci sulle posizioni di riva sinistra del fiume. Abbiamo così occupato Globna, a nord di Plava, e sul basso Isonzo ci siamo impadroniti del margine dell'altopiano di Sagrado e Monfalcone".

Il bollettino del giorno seguente parlava ancora di vani attacchi nemici in Carnia e segnalava sul fronte trentino, cadorino e carnico: "...un aumento di forze e una crescente attività del nemico in lavori di rafforzamento e di postazione di nuove batterie".
Nella regione dell'Isonzo affermava che l'azione nostra si andava sviluppando metodica e misurata in relazione alle molteplici difficoltà naturali del terreno e dei numerosi ostacoli artificiali, nonostante i quali, appoggiate dal fuoco delle batterie campali e pesanti, le nostre fanterie avanzavano con valore e tenacia.
All'incirca le stesse cose dicevano i bollettini del 26 e del 27 giugno. Sempre attacchi austriaci alle nostre posizioni della Carnia, specie al Freikofel e a Monte Croce, ad occidente del quale i nostri avevano occupato la cima dello Zellonkofel. Più intensa sul fronte alpino si era fatta l'attività delle opposte artiglierie. Reparti alpini avevano guastato l'impianto idroelettrico del Ponale sul Garda, e quello sull'Isonzo; mentre i nostri progressi si svolgevano con lentezza ma incessantemente, un reparto del genio, per far decrescere più rapidamente l'allagamento del fiume, aveva sotto il fuoco nemico, ostruito arditamente il canale di Monfalcone.

Il 28 giugno si sentiva il bisogno di diramare, per mezzo dell'Agenzia Stefani, un comunicato ufficiale sulle difficoltà della linea dell'Isonzo quasi a giustificare la lentezza dei progressi delle nostre truppe, delle quali venivano -in altri comunicati- esaltati lo slancio e la tenacia:

"Le operazioni che si svolgono sull'Isonzo stanno a dimostrare, con l'eloquenza dei fatti, in quale situazione strategica è posta l'Italia dalla delimitazione di confini che seguì la campagna del 1866. L'Austria fa oggi una disperata difesa sulla linea dell'Isonzo, minuziosamente preparata con tutti i più moderni mezzi bellici: un fiume largo, rapido e profondo, un lungo sistema di grandi alture sulla riva sinistra, alcune alture sulla riva destra e una pianura innanzi, costituiscono, infatti, gli elementi più favorevoli per una linea strategica. Ed è contro tale linea che il nostro esercito, con forte e sicuro animo, combatte gagliardamente, affrontando e superando gradualmente gravi ostacoli, con una tenacia, e un valore superiore ad ogni elogio. Tutti i reparti impegnati nell'aspra lotta offrono continuamente prova di un ardimento, di una volontà e di un'abnegazione che non conoscono limiti. Possiamo dire con orgoglio che le nostre fanterie sono di saldissima tempra.

Sono note le gesta degli Alpini sul Monte Nero. Bersaglieri e fanteria hanno validamente combattuto contro solide difese del versante occidentale del Monte Nero affrontando sacrifici non lievi. La fanteria ha compiuto nella regione di Plava veri prodigi. Passato l'Isonzo sotto il fuoco nemico, i nostri fucilieri hanno conquistato, con ripetuti e sanguinosi assalti alla baionetta, alture formidabilmente munite, strappando di viva forza agli austriaci importanti posizioni; si sono rafforzati sul terreno sfidando le artiglierie nemiche; hanno costantemente respinto violenti e ripetuti attacchi nemici e hanno allargato le loro posizioni sempre vincendo, con slancio e sacrifici, solidi trinceramenti e intricate difese accessorie e sopportano serenamente il fuoco dei cannoni nemici. Vi sono stati numerosi episodi di vero eroismo, dei quali il più agguerrito esercito sarebbe orgoglioso. Nel sistematico attacco alle posizioni austriache della destra dell'Isonzo prospicienti Gorizia, si è più luminosamente provato il coraggio tenace delle nostre fanterie. Anche qui i fucilieri hanno lottato gagliardamente contro trinceramenti assai bene disposti, espugnandone alcuni, portandosi contro altri a poche decine di metri e ivi rafforzandosi, nonostante il persistente fuoco d'artiglieria d'altre posizioni.
Lo spirito combattivo delle truppe deve talvolta essere frenato, tanto è l'entusiasmo por l'attacco nonostante le gravi perdite subite e il pericolo gravissimo. In alcuni punti le due linee sono a così breve distanza che gli austriaci possono abbandonarsi a stolte invettive contro i nostri, le quali non fanno altro, del resto, che far ribollire il generoso slancio nelle vene dei nostri soldati; e al momento opportuno anche le volgari provocazioni saranno punite.

Un altro brillante passaggio di viva forza oltre l'Isonzo è da registrarsi nella regione di Sagrado, dove il fuoco delle artiglierie nemiche non ha potuto impedire alle nostre fanterie di prendere saldo piede sulla riva sinistra e di occupare, con irresistibili attacchi alla baionetta, Castelnuovo, spezzando la difesa di solidi trinceramenti. Anche qui il coraggio personale dei nostri soldati, la loro noncuranza del pericolo, il loro slancio fulmineo hanno avuto ragione di gravi ostacoli. Con lo stesso metodo si sono occupate altre posizioni sui margini dell'altipiano carsico fra Sagrado e Monfalcone. A Monfalcone, oltre le prime brillantissime operazioni d'attacco, condotte con grande slancio da granatieri e fucilieri, questi hanno incrollabilmente tenuto ed esteso le posizioni occupate, sempre nonostante il fuoco delle artiglierie e delle trincee nemiche. Ed anche in questo punto il nostro sistematico attacco alla baionetta procede bene. Dovunque l'artiglieria validamente contribuì al successo della fanteria, fortemente ed abilmente appoggiandola. L'investimento delle numerose e forti posizioni nemiche sull'Isonzo ha dunque messo in bella luce le virtù militari delle nostre fanterie. Alpini, bersaglieri, fucilieri e granatieri hanno confermato la loro fama. Tutti hanno fornito e danno prova di fulgido valore, di imperturbabile serenità, di ferrea resistenza alle fatiche ed ai disagi. Il Paese non può che essere orgoglioso di questi suoi figli, che danno così generosamente il loro contributo di sangue per la causa nazionale".

Alle difficoltà del terreno sulla fronte dell'Isonzo si era, negli ultimi giorni di giugno, aggiunto il maltempo, che imponeva alle nostre truppe "una nuova prova di resistenza", ma non impediva al nemico di sferrare attacchi contro le nostre posizioni ad est di Plava e contro Castelnuovo, sull'altipiano di Sagrado. Nel Trentino gli Austriaci il 29 giugno tentavano di toglierci le posizioni di monte Civaron, ma erano respinti e in Carnia un attacco nemico allo Zellonkofel subiva la stessa sorte. Continuavano i duelli delle artiglierie e scontri a noi favorevoli avvenivano il giorno dopo in Val Chiese, fra Castello e Condino, e a Porta Manazzo, in Val d'Asse.
Confortante per noi era il bollettino del l° luglio, che così diceva:


"Nella zona del Tonale le nostre artiglierie aprirono il fuoco sulle posizioni di Monticello e di Saccarano disperdendovi reparti nemici intenti a lavori di apprestamenti e difesa. In Val Padola pattuglie di ufficiali, arditamente spinte sul Seikoff, vi accertarono la costruzione per parte del nemico, di trinceramenti con reticolati, che la nostra artiglieria batté poi con efficacia. In Carnia il nemico ha tentato numerosi attacchi notturni contro le nostre posizioni del Passo di Monte Croce e del Pal Piccolo, aiutandosi con razzi e riflettori e lanciando bombe contenenti gas asfissianti. Fu in entrambi i punti respinto.
Disperdemmo, mediante tiri di artiglieria, nuclei di lavoratori apparsi sulle pendici settentrionali del Freikofel e del Pal Grande e lungo la mulattiera di Val Bombasch. Fu ripreso con buoni risultati il tiro sul forte Hensel. Alla testata di Valle Resia l'importante posizione di Banjski Skedenj, dominante la conca di Plezzo, venne da noi solidamente occupata. Nella zona dell'Isonzo l'avanzata delle nostre truppe pur ininterrotta, procede lentissima per la necessità di strappare all'avversario a palmo a palmo il terreno e di rafforzarlo ad ogni sosta contro i suoi ritorni offensivi. Le perduranti piogge accrescono le difficoltà dell'avanzata e trasformano le trincee in torrenti di fango. Anche nella passata notte l'avversario tentò con ripetuti ma vani attacchi di toglierci alcuni punti recentemente da noi conquistati. Continuano le molestie degli aviatori nemici che fanno qualche vittima anche fra le popolazioni. I nostri aviatori bombardarono con efficacia una colonna di truppe e carriaggi presso Oppacchiasella e la stazione ferroviaria di San Daniele".

Dal 28 al 30 giugno l'on. SALANDRA aveva visitato in compagnia del Re il fronte e in un comunicato del 1° luglio informava il Paese di avere ricevuto simpatiche accoglienze dalle popolazioni della zona di guerra, di aver costatato l'alto spirito militare e le ottime condizioni morali e sanitarie delle truppe, di aver preso diretta visione del buon andamento di tutto l'imponente complesso dei servizi e di avere preso nei suoi incontri con i generali CADORNA e PORRO le opportune intese e concordato le relative provvidenze per tutto ciò che riguardava lo sviluppo dei servizi, anche di carattere civile, necessari alla condotta della campagna.

Continuava intanto la metodica opera di distruzione delle nostre artiglierie, specie nella Carnia, dove era efficacemente aperto il fuoco contro le opere del Predil.
Trincee nemiche in costruzione sulla sella di Prasnik e a Strehica erano battute e sconvolte. Il villaggio di Koritnica, ad est di Plezzo, dov'erano ingenti depositi di materiale, munizioni e vettovaglie, era colpito dalle nostre granate e incendiato. Il nemico si accaniva in tentativi contro nostre posizioni che a lui premeva di riprenderci; ma ogni suo sforzo era vano. Due forti attacchi contro posizioni da noi occupate sull'altipiano carsico furono respinti e la stessa sorte avevano due altri attacchi contro un trinceramento occupato dagli alpini il l° luglio sul versante settentrionale del Pal Grande.

In questa lenta e tenace avanzata tutti i corpi erano animati da nobile gara e il Comando non mancava di elogiarli. Il 3 luglio era la volta del Genio, così encomiato da un comunicato ufficiale:

"Grandi servizi ha reso finora all'esercito l'arma del Genio con tutte le sue specialità. La lotta contro un nemico che si è costituito la sua prima linea di difesa su un fiume largo, rapido e profondo come l'Isonzo, ha letteralmente messo alla prova i nostri bravi pontieri che l'hanno ottimamente superata. Dovunque fu operato il passaggio sull'Isonzo, e cioè a Caporetto, a Plava, a Sagrado, a Pieris, il Genio costruì con perfetta perizia, con sollecitudine e con vero valore, ponti fissi, ponti di barche e passerelle, lavorando assai spesso sotto il fuoco nemico e nonostante l'impetuosa corrente. Così fu possibile ai nostri reparti di truppa di passare sulla riva sinistra del fiume, forzando in più punti la linea della difesa nemica. Ma il Genio ha anche compiuto una bella opera di carattere stabile: la ricostruzione del ponte in legno di Pieris. Gli austriaci lo avevano bruciato, ritirandosi sulla riva dell'Isonzo. Persino i pali delle sfilate erano arsi tutti fino a raso delle ghiaie e fino all'acqua. Lavorando giorno e notte, disturbati spesso dai fuoco delle artiglierie nemiche, i nostri soldati del Genio, coadiuvati anche da operai borghesi, hanno ricostruito il ponte in venti giorni Si tratta di un ponte lungo 510 metri, largo 6, in 50 campate, con travature metalliche. Il passaggio sul nuovo ponte fu inaugurato da S. M. il Re, che ha avuto parole di alto compiacimento per la bella condotta dei reparti del Genio. Ed è anche a buon punto e sarà fra qualche giorno condotta a termine, la riparazione del ponte della ferrovia a Pieris, che il nemico aveva gravemente danneggiato, facendo saltare una pila e due delle sette travate di 50 metri ognuna. Si è rifatta la pila in muratura e si sono sostituite le due travate. Parecchi altri ponti sul territorio nemico da noi occupato fatti saltare dagli austriaci sono stati ricostruiti dai reparti del Genio, ristabilendosi ovunque la normale, viabilità. Fu anche costruito dal Genio in soli diciotto giorni un nuovo grande ponte sul Tagliamento, lungo 1100 metri, su pile in parte, in calcestruzzo e in parte di palafitte, a 15-20 metri di profondità. Sicché anche in questa importantissima parte del nostro organismo militare, il Genio si è dimostrato all'altezza del suo arduo compito".

Il bollettino del 3 luglio parlava dell'azione dell'artiglieria, specie contro le opere di Malborghetto e del Predil e di violenti contrattacchi austriaci, respinti dalle nostre truppe, sull'altipiano carsico. Quello del 4 luglio accennava al persistere dell'azione delle artigliere sul fronte trentino e carnico e parlava di due furiosissimi attacchi nemici ributtati con gravi perdite dell'avversario:
"Nel versante settentrionale del Pal Grande, il nemico tentò nella notte del 4 luglio un nuovo attacco, sostenuto da un vivace fuoco di artiglieria allo scopo di riprenderci le trincee conquistate dalle nostre truppe alpine il giorno 2. Esso fu ancora una volta respinto. Si rinnovarono ieri, con particolare violenza, contrattacchi nemici contro alcuni tratti delle posizioni da noi conquistate nell'altipiano carsico. Nonostante il durissimo e intenso fuoco di artiglieria e di mitragliatrici, i contrattacchi furono respinti con gravi perdite. Il nemico lasciò nelle nostre mani circa 500 prigionieri, 2 cannoni da campagna, numerosi fucili, munizioni, un lanciabombe su affusto e molto materiale per mitragliatrici".

Sul fronte trentino, il 5 luglio il nemico attaccò la Forcella di Col di Mezzo, ad occidente delle Tre Cime di Lavaredo, ma fu respinto; il 7 assalì, in Val Daone, la nostra posizione di Passo di Campo, ma fu ributtato con gravi perdite; il 9, nell'Alto Cordevole, altri due attacchi nemici sferrati contro le nostre posizioni del vallone di Franza, furono parimenti respinti. I nostri alpini invece, scalato il Monte Tofana, dalla parte del Boite, conquistavano una posizione nemica in valle Travenanze. Il 10 luglio altro inutile attacco nemico in Val Daone contro Cima Boazzola, da noi tenuta, e contro la nostra posizione di Malga Leno. Per contro, in Val Terragnolo, un nostro reparto di Fanteria, spintosi fino alle posizioni nemiche di Malga Sarta e Costa Bella, se ne impadronì di sorpresa.

Sul fronte carnico, il 5 luglio il nemico tornò all'attacco del trinceramento a nord del Pal Grande, ma fu contrattaccato e respinto con considerevoli perdite. Anche un attacco al Pizzo Avostano fu ributtato; il 7, furono respinti attacchi nemici a Pal Grande, a Passo Promosio e a Monte Scarnitz; l'8 altro attacco respinto tra lo Zellenkofel e Cresta Verde.
Sul fronte dell'Isonzo dal 4 al 7 luglio continuava a svolgersi lenta ma tenace la nostra avanzata sebbene il nemico contrastasse con accanita resistenza e con violenti contrattacchi i nostri inesorabili progressi. In una settimana di sanguinosi combattimenti sull'altipiano carsico cadevano nelle nostre mani più di 1.400 prigionieri. Così aveva termine, con nostro vantaggio, quella che, cominciata il 23 giugno e finita il 7 luglio, fu chiamata la prima battaglia dell'Isonzo.

Il 10 luglio, un lungo comunicato ufficiale, illustrando le difficoltà che presentava la fronte dell'Isonzo, metteva in rilievo le virtù militari del nostro esercito:
"Le belle doti dell'ufficiale e del soldato italiano si affermano sempre più a mano a mano che si sviluppa la nostra contrastata azione nell'aspra zona dell'Isonzo. Molte volte linee nemiche formidabilmente protette dai reticolati, da trincee, da batterie, sono state conquistate alla baionetta grazie al valore delle nostre truppe e dei loro comandanti.
Si può pertanto affermare con piena sicurezza, come non vi siano pericoli di fronte ai quali il nostro esercito recede.
I reticolati anzitutto, hanno messo a dura prova i nostri reparti. Trattasi di veri ordini di protezione in grossi fili d'acciaio contro cui si sono fatte spedizioni arrischiatissime di volontari offertisi con magnifico slancio. Tali missioni sono state serenamente e spontaneamente accettate dalla grande maggioranza. E nel rude lavoro di demolizione dei reticolati, fatto sotto continue raffiche di fuoco nemico, si sono ancora una volta fraternamente accomunati ufficiali e soldati. In altri casi i reticolati sono stati distrutti e sconvolti dal tiro preciso ed efficace della nostra artiglieria pesante ed hanno poi finito di abbattere le nostre fanterie incuranti del fuoco delle mitragliatrici, dei fucili e dei cannoni.
"Tutto quanto è stato detto circa i lavori di fortificazione degli Austriaci per conservare il possesso delle loro posizioni non è che una pallida idea della realtà. Alle numerose e successive distese di reticolati fanno complemento fogate, bocche da lupo, abbattute. Dietro sono scavate trincee coperte per mitragliatrici e per cannoni, cammini coperti portano dai luoghi di raccolta al sicuro fino alle trincee. Eppure, come si è detto, in molti punti queste insidiosissime formidabili posizioni sono state sconvolte dalla nostra artiglieria per poi essere conquistate dalla nostra fanteria. Ormai è constatato che la fanteria nemica raramente può resistere in campo aperto alla fanteria italiana. Alcune volte agli ufficiali austriaci è riuscito a condurre reparti al contrattacco contro posizioni prese dai nostri. Ma tali ritorni offensivi, anche se violentissimi, sono stati sempre senza alcuna eccezione respinti o col fuoco o con le baionette, e ci hanno procurato molti prigionieri come nelle giornate dal 3 luglio in poi, nelle quali sono stati catturati complessivamente nella zona del Carso 1400 soldati nemici.
Per quanto i progressi ottenuti con il continuo affrontare le munitissime linee nemiche ci siano costati non lievi sacrifici, tuttavia le nostre truppe hanno sempre e dovunque mantenuto le posizioni conquistate e con loro la loro saldezza d'animo e il loro spirito aggressivo. In vari punti le trincee nostre distano da quelle nemiche poche diecine di metri e si deve durare fatica a trattenere i nostri soldati che vorrebbero finirla con le stolte provocazioni verbali del nemico alle quali, del resto, la naturale giocondità delle nostre truppe non manca di opporre salaci risposte. Di splendido e costante
esempio alle truppe sono in questa campagna, come già in quella di Libia, gli ufficiali, sprezzanti del pericolo, primi sulla linea del fuoco, sempre pronti a pagare di persona. I comandanti esercitano grande prestigio sui loro reparti, dai quali ottengono tutto ciò che è umanamente possibile. Questa eroica condotta degli ufficiali d'ogni grado è, del resto, nelle cavalleresche tradizioni dell'esercito italiano ed è pari alla cura affettuosa che essi hanno delle loro truppe ed all'amore col quale sono ricambiati.

"Merita di essere ricordata la brillante ed efficace azione che svolge l'artiglieria in appoggio alla fanteria. In taluni combattimenti si è dovuto all'abilità e precisione dei bravi cannonieri se i fucilieri hanno potuto aver ragione di reticolati e di trincee, conquistando posizioni disperatamente difese dal nemico. Senza parlare dei continui duelli di artiglieria che avvengono per noi in condizioni non facili, data la minuziosa cura con la quale gli Austriaci avevano preparato i nascondigli delle loro batterie e la profonda conoscenza del terreno da loro precedentemente inquadrato. Un particolare vantaggio traggono gli austro-ungarici dal numero e dalla qualità dei loro aeroplani; ma i nostri aviatori, nonostante la temporanea deficienza del materiale, operano sempre con ardire e con abnegazione costante, fornendo prova di impareggiabile spirito di sacrificio nelle brillanti operazioni compiute.
"La natura montuosa del terreno non ha finora permesso alla nostra cavalleria di compiere le efficaci azioni che da essa si aspettano; tuttavia, piccoli reparti vengono sempre impiegati dando prova di coraggio, di abilità e, in più occasioni, anche di alto spirito di sacrificio. In questo modo il terreno nell'aspra zona dell'Isonzo è faticosamente conquistato, si può dire, a palmo a palmo dalle nostre truppe, che si mostrano superiori ad ogni elogio".

 

IL "VOTO DI CALAIS"
INTENSA ATTIVITA DELLE NS ARMI NELLA SECONDA META DI LUGLIO SUL FRONTE TRENTINO-CARNICO
LA SECONDA BATTAGLIA DELL'ISONZO: SANGUINOSE GIORNATE DI LOTTA A MONTE SEI BUSI, AL S. MICHELE, INTORNO A GORIZIA, A PLAVA E AL MONTE NERO;
I NOSTRI PROGRESSI; LE PERDITE NEMICHE
LA NOSTRA AZIONE DELLE PRIME TRE SETTIMANE DI AGOSTO NEL TRENTINO E NELLA CARNIA
RIASSUNTO UFFICIALE DELLE OPERAZIONI DI GUERRA FINO AL 21 AGOSTO

A Calais, in una riunione, avvenuta nella prima settimana di luglio, tra i generalissimi francese e inglese e ministri francesi, JOFFRE fece adottare un voto, in cui era detto che l'interesse comune esigeva che l'esercito italiano continuasse l'iniziata offensiva.
Se gli Italiani temevano sul loro fronte un attacco tedesco, potevano provvisoriamente limitarsi a guadagnare le regione Lubiana-Klagenfurt donde poi avrebbero proseguito l'offensiva sulle capitali dell'Austria e dell'Ungheria. Il voto diceva inoltre essere necessario che l'esercito serbo iniziasse immediatamente l'offensiva e, muovendo lungo la Sava, si unisse agli Italiani.

Il voto di Calais evidentemente si basava sui piani concordati prima dello scoppio delle ostilità italo-austriache, non sulle condizioni attuali della guerra. Teoricamente gli eserciti italiano e serbo avrebbero dovuto darsi la mano in Croazia, ma praticamente questa unione non era molto vicina, data la dura resistenza di Gorizia che ci sbarrava la via di Lubiana, e poiché Serbi e Montenegrini, anziché invadere l'Erzegovina e la Croazia secondo le convenzioni militari stipulate con l'Italia, erano intenti a guadagnar terreno in Albania dove il 27 giugno il Montenegro aveva occupato Alessio e Scutari.

Il generalissimo Joffre comunicò al Governo Italiano e a CADORNA il voto di Calais raccomandandone la piena e sollecita esecuzione, ma la risposta dell'uno e dell'altro, portata personalmente dal generale PORRO, fu che l'Italia, anche per le speciali difficoltà del proprio fronte, non poteva spostare il suo esercito dai suoi fini immediati. Il Porro però promise di tener viva l'azione sull'intero fronte e di effettuare forti offensive in autunno, quando l'esercito e in particolar modo l'artiglieria avrebbero raggiunta una notevole efficienza.

Attivissima, infatti, si mantenne durante l'estate l'azione dell'esercito italiano. Nella seconda metà di luglio, i nostri sferrarono ovunque vigorosi attacchi e molestarono con tiri continui le opere nemiche. Sul fronte trentino, il 15 luglio, scontri a noi favorevoli a M. Seikoff e alla cresta del Burgstall e occupazione della cima di Falzarego; il 16 tentativo austriaco fallito contro le nostre posizioni presso il rifugio Garibaldi e conquista da parte nostra dei passi di Venerocolo e di Brizio nell'alta Val Camonica; inoltre "superando le gravi difficoltà del terreno e la tenace resistenza del nemico, fu raggiunta la linea che dal colle dei Bois e dalla Cima di Falzarego per la testata del vallone Franza giunge alle pendici del Col di Lana. Sopratutto brillante fu l'azione delle nostre fanterie per la conquista dei contrafforti che dal Col di Lana scendono a Salesei e ad Agai nel Vallone di Andraz. Sotto il micidiale fuoco dell'avversario conquistarono alla baionetta i trinceramenti nemici più avanzati".
Il 19, nell'alta valle dell'Ansiei, nostri reparti sloggiarono il nemico trincerato presso il ponte della Margua e conquistarono alla baionetta tre blockhouses; il 26 combattimenti aspri ma a noi favorevoli avvennero nelle alte valli del Cordevole e del Boite, ma il giorno prima, a Fontana Negra, nella regione delle Tofane, mentre andava in esplorazione era caduto colpito da due palle nella fronte, il generale degli alpini ANTONIO CANTORE che in Libia si era acquistato e sulle Alpi aveva confermato fama di condottiero valoroso e temerario.
Attacchi respinti, il 24, al Monte Piana e completamento della nostra occupazione della Tofana; il 27 furono occupati Monte Lavanech e Cima Pissola e fu respinto un attacco nemico alle nostre posizioni del vallone di Travenazes; il 28 e il 30 nella Valle San Pellegrino furono respinti due attacchi in forze e la stessa sorte ebbero reparti nemici che il 29 tentarono di strappare, nell'Alto Cordevole, le cime di Pescoi e del Sasso di Mezzodì e di avanzare in Valle Padola. Il 30 luglio azioni di piccoli reparti con esito a noi favorevole a Pregasina, sulla sponda occidentale del Garda, e a nord-ovest di Marco, in Val d'Adige. Nella Val Camonica un secondo tentativo nemico contro il rifugio Garibaldi fallì ma riuscì pienamente ai nostri di occupare Forcella Cianalot e il Pizzo Oricutale, nell'Alto Dogna.

Sul fronte della Carnia, il 16 luglio, il nemico, premuto dai nostri, abbandonò i trinceramenti delle alture che costituiscono il versante meridionale del torrente Angeri; il 19 fu iniziato il bombardamento del forte Hermann, a nord-est di Plezzo: il 28 il nemico, con il favore della nebbia, tentò un'azione contro le nostre posizioni del passo del Cacciatore, fra monte Ciadenis e Monte Avanza, ma fu prontamente respinto; per contro, nostri reparti alpini attaccarono alcune trincee nemiche antistanti alle posizioni di Pal Piccolo e ne conquistarono la maggior parte; il 29 fu sfondata un'altra cupola del forte Rensel e in Val Fella nostri reparti alpini occuparono gli speroni che dalla dorsale del versante sinistro della valle scendono verso Lusnitz; il 30 per due volte il nemico attaccò le nostre posizioni del Freikofel, ma fu respinto; nostre fanterie invece nella zona del Pal Piccolo espugnarono alcuni trinceramenti austriaci e li difesero gagliardamente, la sera, da un violento contrattacco.

Ma nell'estate del 15 il fronte trentino-carnico era diventata teatro secondario di guerra. Era sul fronte orientale che il Comando Supremo concentrava i maggiori sforzi, iniziandovi la seconda battaglia dell'Isonzo. L'offensiva nostra fu sferrata il 18 luglio, e il giorno dopo il bollettino ne dava così l'annunzio e i primi ragguagli:

"Lungo la frontiera dell'Isonzo l'offensiva che le nostre truppe con lenta, ma aspra e diuturna lotta vi svolgono da qualche tempo, ha ieri conseguito sensibili successi. Dopo risoluta e sanguinosa azione durante la quale l'accordo tra l'avanzata delle fanterie e l'appoggio delle artiglierie pesanti, e campali si rilevò perfetto, la nostra occupazione sull'altipiano del Carso potè progredire. Più ordini di trincee solidamente blindate e protette da reticolati furono successivamente presi d'assalto ed espugnati; 2000 prigionieri, tra cui 30 ufficiali, 6 mitragliatrici, 1500 fucili, e grandi quantità di munizioni restarono nelle nostre mani".

Un altro comunicato della mattina del 19 luglio, annunciava che "...lungo tutto il fronte dell'Isonzo l'attacco era stato ripreso con rinnovata energia e un bollettino del 20 luglio comunicava che il giorno prima era proseguita l'offensiva vigorosa con progressi specialmente sull'altipiano del Carso e che alla fine della giornata erano state espugnate altre trincee e presi ancora 500 prigionieri. Il comunicato concludeva: "Nonostante le fatiche per la lotta, durata aspra ed ostinata fino a sera, le nostre truppe riuscivano a rafforzarsi rapidamente sulle posizioni conquistate ed a resistere poi ai contrattacchi portati dal nemico durante la notte".

Il bollettino del 21 luglio, recava nuovi particolari e nuove notizie:
"....Nella zona dell'Isonzo la lotta diviene sempre più intensa. A Plava l'avanzata fece qualche progresso molto contrastato. Verso Gorizia fu guadagnato un tratto nella linea di alture che dalla riva destra coprono la città ed i ponti sull'Isonzo. Sull'altipiano carsico il nemico fu cacciato da alcune trincee. L'azione si protrasse aspra ed ostinata anche durante la notte. Oltre a mitragliatrici, fucili e munizioni in quantità tuttora non determinata, caddero nelle nostre mani numerosi altri prigionieri.
Questi in totale, per le tre giornate del 18, 19, 20 luglio, ammontano a 3478, dei quali 76 ufficiali e cadetti. Dichiarazioni concordi dei prigionieri hanno attestato che le perdite subite dal nemico sono gravissime e ciò è provato anche dalla quantità di cadaveri trovati nelle trincee. Le nostre truppe perseverano instancabili nella lotta".

La battaglia continuava. Uno dei suoi principali obiettivi era Gorizia, che col suo formidabile campo trincerato sbarrava la via di Lubiana; Gorizia, che protendeva fin sulla destra dell'Isonzo le sue terribili difese: il Sabotino, Oslavia, il Peuma, il Grofenberg, il Podgora, il Calvario, e a sua protezione aveva il S. Michele, il San Marco, il S. Gabriele e il San Daniele.
Contro le formidabili difese di questo campo l'esercito nostro prodigava tutto il suo impeto, tutto il suo valore, tutta la sua energia, in una battaglia che si faceva sempre più accanita e di cui appena s'intravede la violenza nei sobri bollettini del generale Cadorna.

Il suo bollettino del 22 luglio diceva: "Sul fronte dell'Isonzo la nostra offensiva continuò ieri a svilupparsi in tutta la zona dal Monte Nero all'altipiano del Carso. Qui, nonostante un ritorno offensivo del nemico, che mirava a staccare la nostra sinistra dai ponti dell'Isonzo, abbiamo conservato ovunque le nostre primitive posizioni ed avanzato notevolmente in parecchi punti. Abbiamo di nuovo fatto prigionieri, circa 500 austriaci, e prese molti armi e munizioni. Esplorazioni aeree e dichiarazioni di prigionieri segnalano l'arrivo al nemico di rinforzi che, secondo i prigionieri, sarebbero inviati frettolosamente e alla spicciolata sul fronte per riparare alle grandissime perdite subite dal nemico".

E quello del 23 luglio: "La battaglia continua lungo tutto il fronte dell'Isonzo e il successo delle nostre armi si viene sempre meglio delineando. Nella zona del Monte Nero le truppe alpine iniziarono l'avanzata lungo l'aspra dorsale di Luznica. Il nemico oppose vigorosa resistenza, ma i nostri, riuscirono a strappargli taluni punti più avanzati infliggendogli forti perdite e prendendo anche un centinaio di prigionieri. Di fronte a Plava ed a Gorizia continuarono i nostri lenti progressi. Furono conquistati altri trinceramenti e catturati un cannone lanciabombe, una mitragliatrice, fucili, munizioni ed altro materiale da guerra. Nel Carso, durante la notte sul 22, il nemico sferrò numerosi atta-
chi, tutti falliti. Al mattino poi, sopraggiuntigli nuovi ingenti rinforzi, dopo avere eseguito un'intensa preparazione con fuoco di artiglieria, irrompeva con dense masse sul nostro fronte, specialmente in corrispondenza della nostra ala sinistra. Le nostre truppe di prima linea, pur duramente provate dalla lunga lotta precedente, riuscirono, grazie al valido concorso delle proprie artiglierie, a sostenere e poi ad arrestare l'urto violento. Il successivo pronto accorrere dei nostri rincalzi, permise quindi di sferrare una vigorosa controffensiva che finì con una vera rotta per l'avversario. Mentre le artiglierie con tiri precisi e celeri falciavano le colonne nemiche, le fanterie le incalzavano da vicino e, con manovra avvolgente s'impadronivano di 1500 prigionieri dei quali 76 ufficiali. Il terreno dell'azione, ricoperto di cadaveri attestava le enormi perdite dell'avversario".


L'azione del 22 luglio, svoltasi nella zona del S. Michele, durante la quale il nemico era venuto all'attacco con un'intera divisione, mirava a gettare dal Carso la sinistra del nostro schieramento oltre l'Isonzo. "Da un ordine di operazione trovato indosso a un ufficiale austriaco prigioniero - informava il bollettino del 24 luglio - è risultato che l'attacco da noi respinto il giorno 22.... ebbe carattere di azione generale e risolutiva, diretta a ricacciare la sinistra della nostra occupazione al di qua dell'Isonzo. Esso fu guidato da parecchi generali fra i quali Boog, Schreitter e principe di Schwarzenberg e fu eseguito in parte da unità già precedentemente impegnate contro di noi e soprattutto poi da truppe giunte fresche sul luogo dell'azione".

Lo stesso bollettino inoltre informava che nella zona di Monte Nero proseguiva la nostra avanzata lungo la cresta di Luznica e che sul fronte dell'Isonzo, con attacchi notturni tutti falliti, il nemico aveva cercato di disturbare i nostri lavori di rafforzamento sulle posizioni conquistate e, nella mattina, del 23, aveva tentato anche di avanzare in forza contro l'ala destra della nostra occupazione sul Carso, ma era stato obbligato a ripiegare con forti perdite.

Nè la lotta aveva tregua. Così diceva il bollettino del 26 luglio:
"Ieri nel basso Isonzo, dopo la consueta ed efficace preparazione fatta col fuoco di artiglieria, le nostre fanterie avanzarono risolutamente, riuscendo a compiere sensibili e rapidi progressi. All'ala sinistra (ovest) fu conquistata una vasta estensione di terreno boschivo da noi designata col nome di bosco del Cappuccio e furono espugnati alcuni trinceramenti a difesa della Sella di San Martino del Carso. All'ala destra il Monte dei Sei Busi fu più volte conquistato e perduto, restando infine in gran parte in nostro possesso. La lotta fu molto accanita specialmente nei boschi, ove il nemico si era fortemente, trincerato e donde dovette essere snidato alla baionetta. L'avversario fece anche uso di bombe e granate producendo gas asfissianti, dai quali le nostre truppe si protessero con le maschere. Alla fine della giornata circa 1600 prigionieri, dei quali 30 ufficiali, erano nelle nostre mani".

E il bollettino del 27 annunciava:
"Nella zona del Monte Nero prosegue accanita la lotta, nonostante la nebbia che impedisce l'efficace concorso delle artiglierie. Nel settore di Plava le operazioni tendenti all'ampliamento della testa di ponte si svolgono favorevoli. Sul Carso la battaglia continuò ieri vivacissima. Lungo tutto il fronte le nostre truppe avanzarono con grande slancio ed ordine riuscendo verso l'ala sinistra a conquistare la fortissima posizione di San Michele che domina gran parte dell'altipiano, ma fatte qui segno di violenti tiri incrociati e di numerose batterie nemiche di ogni calibro dovettero ripiegare poco sotto la cresta ove si sostengono tuttora. Al centro si progredì verso la Sella di San Martino espugnando alla baionetta le trincee ed i ridotti che la coprono verso l'ala destra. Sul cadere del giorno, grazie a un'azione brillante per l'accordo perfetto tra l'avanzata delle fanterie e il fuoco delle artiglierie, fu portata a compimento la conquista della posizione di Monte Sei Busi, scacciandone a palmo a palmo il nemico, che vi si era fortemente trincerato. Circa 3200 prigionieri, tra i quali un tenente colonnello ed altri 41 ufficiali, 5 mitragliatrici, 2 cannoncini lancia-bombe, numerosi fucili, munizioni, viveri e materiali da guerra, rappresentano i trofei della sanguinosa giornata".

Il giorno 28 luglio, un lungo comunicato ufficiale, diramato dall'Agenzia Stefani, illustrava sinteticamente le notizie dei bollettini Cadorna:

"L'energica e risoluta ripresa offensiva, che le nostre incomparabili truppe conducono da più giorni sulla linea dell'Isonzo e specialmente sull'altipiano del Carso, dev'essere cagione di fierezza e d'orgoglio per la patria. Nei sanguinosi combattimenti, che hanno segnato costanti e progressivi successi, si sono splendidamente riaffermate la grande bravura dell'artiglieria, l'indomito valore delle fanterie.
"La costante, intelligente e fraterna collaborazione fra le due armi ha quasi sempre avuto ragione dell'accanita resistenza del nemico cui un anno d'esperienza di guerra ha dato certamente una grande abilità tattica, se non un'infrangibile robustezza morale. L'impiego del cannone pesante e da campagna per la preparazione e l'agevolamento degli assalti delle truppe non avrebbe potuto dare, anche per concordi testimonianze dei nemici prigionieri, migliori risultati. Gli austriaci, annidati nel dedalo delle loro trincee, favoriti dalle posizioni dominanti o boscose, impegnati da ordini tassativi a non ritirarsi a nessun costo sono stati anzitutto fulminati dal tiro preciso, rapidissimo e abbondante delle nostre artiglierie e quindi assaliti e scompaginati dall'impeto irruente, irresistibile, eroico delle nostre fanterie. I prigionieri fatti in grande quantità in ogni giornata di combattimento attestarono che il fuoco dei nostri numerosi pezzi fu quasi sempre terribile e micidiale. Un ufficiale ungherese ha dichiarato: "Non credevo che con i cannoni da campagna si potesse tirare con tanta rapidità quasi come con le mitragliatrici". Un altro ufficiale prigioniero ha affermato: "Al fuoco dell'artiglieria italiana non si può resistere. Restare sotto quella pioggia di granate significa morire o impazzire". Infatti i nostri bravi artiglieri seppero sconvolgere i reticolati, coronare di proiettili le trincee nemiche fin quando queste furono poi ritrovate ricolme di cadaveri massacrati dalle esplosioni; stendere innanzi alle fanterie avanzanti cortine di fuoco, e proteggere le truppe, una volta conquistate le posizioni avanzate avversarie, dai ritorni controffensivi del nemico.

"Gli Austriaci, sloggiati dalle loro trincee tentarono varie volte contrattacchi in grandi masse e con l'ordine perentorio di ricacciarci a qualunque costo oltre l'Isonzo; ma anche in questi casi le nostre artiglierie crearono ampie zone di fuoco e non consentirono più al nemico né l'attacco né la ritirata. E le nostre fanterie, con magnifici assalti alla baionetta compirono l'opera annientando interi riparti e facendo larghe retate di prigionieri. Alle belle azioni dei bravi cannonieri corrispose pienamente la risoluta offensiva degli eroici fucilieri. Nelle avanzate necessariamente fatte per lo più allo scoperto e sotto il fuoco dei fucili, delle mitragliatrici e dei cannoni, la fanteria italiana fornì prova di fulgido valore, prendendo di viva forza e a prezzo di sanguinosi sacrifici molti ordini di trincee, lottando all'arma bianca dentro gli stessi trinceramenti; rimanendo sulle posizioni nonostante lo smascherarsi di nuove batterie avversarie; ricacciando impetuosi contrattacchi nemici; sopportando con serenità, fermezza e abnegazione le non lievi perdite.

"Anche delle nostre truppe di linea i prigionieri nemici dovettero riconoscere l'indomito valore. Ciò che più li stupì fu l'impeto degli attacchi alla baionetta e l'eroica condotta degli ufficiali, contrastante con il metodo tattico degli ufficiali austro-ungarici. Furono soprattutto queste ripetute azioni portate a fondo della fanteria italiana che grossi reparti nemici, con molti ufficiali, dovettero arrendersi e che ad ogni passo davanti alla nostra sistematica offensiva corrisponde generalmente la cattura di molti nemici. L'importanza dei nostri successi è dimostrata dalla pertinacia con cui il Comando austriaco volle contrastare la nostra avanzata e riconquistare le posizioni sull'altipiano del Carso. Molte masse di truppe fresche ci furono lanciate contro nella speranza di spezzare le nostre linee e di ricacciarci dal monte nella valle e oltre il fiume. Ma questi conati finirono con grandi massacri, dovuti specialmente al nostro fuoco di artiglieria e con la resa di numerosi soldati di ogni razza del policromo Impero. Reparti, reduci per lo più dal fronte orientale, furono così annientati e decimati, e la vigorosa controffensiva, voluta dal Comando austriaco a prezzo di qualunque sacrificio, miseramente fallì.

"Innumerevoli furono gli episodi di valore militare; ufficiali e soldati attraversarono impavidi le raffiche di fuoco, continuarono ad avanzare quantunque feriti, vollero ritornare sulla linea appena medicati e diedero alla patria l'estremo pensiero, le ultime parole. Nei posti di medicazione, nelle colonne di feriti, negli ospedali non un lamento, non un'imprecazione, ma la più serena compostezza, il più fiero stoicismo. Commovente la solidarietà affettuosa tra ufficiali e soldati. Gli ufficiali furono sempre e dovunque in mezzo ai soldati senza risparmiarsi, desiderosi di confortare con la loro presenza, con il loro consiglio, nei momenti più difficili, i propri dipendenti; i soldati rischiarono e immolarono la vita per salvare i loro ufficiali feriti e per ricuperare le salme gloriose.

" Quanta differenza tra questa solidarietà fraterna, che è una delle più belle caratteristiche del nostro esercito, e il regime di terrore con il quale è inquadrato l'esercito nemico! Pronto e felice il servizio di rifornimento delle truppe combattenti sulle alture compiuto attraverso il fiume su passaggi obbligati, spesso bersagliati dal fuoco nemico nelle zone più battute. Rapida e ampia l'assistenza sanitaria sia sulle linee del fuoco sia sulle retrovie. Anche gli ufficiali medici e i portaferiti divisero il pericolo con i reparti combattenti, e si prodigarono negli ospedali. Audace e continua l'osservazione aerea, sia con i velivoli, sia con i palloni frenati. Ferrea e tenace la resistenza di tutte le truppe alle fatiche e ai disagi. Le prove fornite dall'esercito italiano nel sistematico e progressivo investimento della fortificatissima linea dell'Isonzo possono ascriversi fra le migliori date dai vari eserciti nella guerra europea. La soddisfazione espressa da S. M. il Re ai combattenti, la sua costante presenza sul fronte di battaglia non possono che suscitare echi di consenso nel cuore degl'Italiani".

Ma -mentre si scriveva questo resoconto- la seconda battaglia dell'Isonzo purtroppo non era ancora finita. La giornata del 27, sul Carso, fu quasi tutta impiegata nel rafforzare le posizioni conquistate il giorno prima; "tuttavia, al centro furono compiuti altri notevoli progressi mediante la conquista di talune trincee nemiche fortemente occupate e difese".
Il 28 il nemico, appoggiato da violento fuoco di artiglieria, sferrò sul Carso un furioso attacco con forze rilevanti con lo scopo evidente di ricacciarci dalle posizioni conquistate nei giorni precedenti; ma ogni suo sforzo s'infranse davanti la superba resistenza dei nostri e, dopo di aver subite gravi perdite, fu costretto e ripiegare. Un reggimento di Landessehiitzen (alpini) tirolesi fu quasi interamente distrutto. Quel giorno e il giorno precedente furono fatti 1485 prigionieri dei quali 27 ufficiali.

"Il 29, sul Carso, il nemico si limitò - diceva il bollettino del 30 luglio - "a contrastare la nostra avanzata senza per altro riuscire ad arrestarla. Sotto l'intenso fuoco di fucileria ed artiglieria furono da noi conquistati nuovi tratti di trincee". Pattuglie avversarie, nella notte del 29, tentarono d'incendiare il bosco Cappuccio, ma la vigilanza delle nostre guardie sventò il tentativo".

La stampa austriaca, naturalmente, mutava le sconfitte in vittorie; le citava e le esaltava l'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE, che da Vienna, in data del 29 luglio, rivolgeva il seguente ordine del giorno ai suoi soldati di terra e di mare che combattevano contro l'Italia:

"Da settimane, voi, miei valorosi di ogni parte della Monarchia, sostenete una grave lotta contro un nemico superiore di numero. Ufficiali e soldati d'ogni grado, uomini maturi e giovani combattenti fanno a gara nello sfidare la morte con valore; sulle cime delle montagne, nel difficile terreno del Carso e sui mari stanno compiendo azioni degne dei vostri antenati che combatterono e vinsero lo stesso nemico. Voi avete distrutto il suo folle proposito di penetrare facilmente nella nostra cara patria trascinando grandi masse nella lotta. Voi avete di fronte ancora un compito duro da risolvere; se però delle truppe
eccellenti, condotte in modo meraviglioso e animate da vero entusiasmo, faranno quanto sta in loro, anche i compiti più difficili saranno superati con vostro onore e per la salvezza della patria. Col cuore pieno di gratitudine ricordo le vostre splendide gesta: con ammirazione la patria guarda i suoi eroici figli che combattono per terra e per mare, piena di fiducia guarda a voi che siete la sentinella fedele a Mezzogiorno e ad occidente".

Ma il giorno dopo gl'italiani rispondevano con altri autentici successi a quelli immaginari di Francesco Giuseppe. Nella testa di ponte di Plava la nostra occupazione si allargava a sud-est lungo le falde del Monte Kuk nei pressi di Zagora; e nel Carso le nostre truppe iniziavano l'attacco della seconda linea nemica, progredendo sensibilmente al centro. Il 31 luglio, col favore delle tenebre, il nemico organizzava un vigoroso attacco verso la nostra ala destra, nella zona di Monte Sei Busi, ma era ricacciato con gravi perdite.
Ora gli austriaci si accanivano contro le nostre posizioni del Monte Sei Busi. Le assalivano con grandi forze all'alba del 31 luglio, ma erano fermati, contrattaccati di fronte e di fianco, sbaragliati e messi in fuga, rimanendo quasi interamente distrutto un reggimento di Kaiseryager; le attaccavano ancora nella notte sul 2 agosto o più volte durante il giorno, ma il loro attacco s'infrangeva contro la resistenza dei nostri che rimaneva salda anche la mattina del 4 contro i furiosi attacchi nemici.

Quel giorno fu ripresa sull'altipiano Carsico la nostra avanzata, e l'ala sinistra aggrappatasi al San Michele e il centro fecero qualche progresso. Nell'intento di arrestare da queste parte la nostra avanzata, nel pomeriggio del 4 il nemico pronunciò un violento attacco contro le nostre posizioni di Bosco Cappuccio; sostennero bravamente l'urto, quindi, passate vigorosamente al contrattacco, riuscirono ad espugnare un fortissimo ed esteso trinceramento, detto il trincerone, che dominava lo sbocco orientale del bosco e gli accessi a San Martino del Carso. A tarda sera, dopo un violento cannoneggiamento, il nemico tentò un nuovo sforzo contro le nostre linee, ma fu respinto.

Il 5 agosto, CADORNA segnalava altri progressi e la cattura di altri prigionieri, da, parte nostra, sul Carso. Nel settore di Plava, la notte del 6, il nemico tentava due attacchi, appoggiandoli con intenso fuoco di numerose artiglierie; ma queste erano ridotte al silenzio e quelli respinti. Sul Carso la lotta, continuata per tutto il giorno 6, si chiudeva a sera con sensibili successi delle nostre armi, specialmente al centro, dove era conquistato in parte il margine dell'avvallamento che scende verso Doberdò.
Ma il giorno seguente, mirando ad ostacolare i progressi dei nostri lavori d'approccio; il nemico sferrava frequenti e piccoli contrattacchi subito respinti e tentava di collocare reticolati mobili davanti le nostre linee. Nella zona di Plava un comunicato del 9 agosto, annunciava che
"le nostre truppe hanno occupato alcuni trinceramenti nemici verso Zagora e Paljevo e che nel Carso l'azione nostra continua a svilupparsi favorevolmente".

Il bollettino del 10 agosto annunziava altri combattimenti ed altri successi italiani riportati il 9 e il mattino successivo. Infatti, "...presso Plava un duplice attacco austriaco sferrato la sera del 9 era stato respinto nettamente sebbene appoggiato da nutrito bombardamento; sul Carso i nostri, dopo di avere ricacciato, durante la notte, un attacco nella zona di Sei Busi, avevano, il mattino del 10, contrattaccato vigorosamente conseguendo, in alcuni tratti, sensibili vantaggi. Lo slancio della fanteria era stato tale che due compagnie erano riuscite a conquistare alla baionetta un'altura fortemente trincerata situata molto dentro nel fronte nemico. A causa del potente e concentrato fuoco dell'artiglieria e di un vigoroso contrattacco dell'avversario, la posizione non poté poi essere mantenuta; tuttavia la resistenza delle truppe retrostanti, forti nelle posizioni conquistate, valse ad infrangere il contrattacco nemico".

"Il 12 agosto, scriveva il bollettino
"....il nemico svolse sull'Isonzo azioni dimostrative facilmente respinte contro le nostre posizioni sul contrafforte di Sleme e Mrzli, nel massiccio del Monte Nero e contro le alture da noi recentemente conquistate ad est di Plava. Sul Carso, nella notte del 12, imperversando un violento temporale tentò varie azioni di sorpresa, ma nessuna di loro riuscì. Non riuscì neppure, il 14, un attacco austriaco contro l'estrema ala destra delle nostre posizioni a sud-est di Monfalcone, tentato con un treno blindato armato di artiglierie leggere; ma, riuscì a noi, quel giorno stesso, nella conca di Plezzo e nella zona del Monte Nero, di progredire sensibilmente ma senza concludere nulla".

Solo a metà agosto la seconda offensiva sull'Isonzo terminò; programmandone però un'altra in ottobre. Le tre battaglia causarono la perdita di un quarto dell'intero contingente mobilitato.

... di questi avvenimenti e altro (la Marina, la posizione della Chiesa), parleremo

nel prossimo capitolo che segue.

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ISONZO 2 - LA MARINA - D'ANNUNZIO - LA CHIESA

RIASSUNTO UFFICIALE DELLE OPERAZIONI DI GUERRA FINO AL 21 AGOSTO - LE OPERAZIONI NAVALI NELL'ESTATE DEL 1915: IL SILURAMENTO DELL' "AMALFI" E DEL "GARIBALDI". - IL DISCORSO DI D'ANNUNZIO AI SUPERSTITI DELL'"AMALFI" - OCCUPAZIONE DELL'ISOLA DI PELAGOSA - AZIONE CONTRO L'ISOLA DI LAGOSTA - BOMBARDAMENTI AUSTRIACI CONTRO LA COSTA ADRIATICA - ASSALTO AUSTRIACO A PELAGOSA RESPINTO - AFFONDAMENTO DEL SOMMERGIBIIE "NEREIDE" - DUE SOTTOMARINI NEMICI AFFONDATI - PERDITA DEL SOMMERGIBILE "IALEA" - SECONDO ATTACCO AUSTRIACO A PELAGOSA E SUCCESSIVO SGOMBRO DI QUEST'ISOLA - CONSIDERAZIONI SULLE OPERAZIONI NAVALI - L'ATTIVITÀ DELLE FORZE AEREE - II VOLO DI G. D'ANNUNZIO SU TRIESTE - LE RELAZIONI TRA IL GOVERNO ITALIANO E LA SANTA SEDE - IL VESCOVO CASTRENSE - TRATTATIVE TRA IL VATICANO E IL GOVERNO PER UN ACCORDO - L' INCIDENTE PER L' INTERVISTA LATAPIE - IL COMITATO LOMBARDO DI PREPARAZIONE PER LE MUNIZIONI - IL COMITATO SUPREMO DELLE ARMI E DELLE MUNIZIONI - IL SOTTOSEGRETARIO DELLE ARMI E DELLE MUNIZIONI - II PROBLEMA DELLA MANO D'OPERA - IMBOSCATI E PESCECANI


Nelle retrovia dell'Armata. Nelle Valli Giudicarie

Alla metà d'agosto, la seconda battaglia dell'Isonzo accennava a finire, ma come aveva accennato il bollettino del 12 agosto "le posizioni erano sensibilmente progredite ma senza concludere nulla".
Gli ultimi modesti nostri progressi di questo periodo della seconda offensiva si ebbero sul Carso, il 17, il 18, il 20 e il 21 agosto. Azione più intensa invece fu svolta nell'alto Isonzo. Infatti, il 16, nel settore del M. Nero furono espugnate alcune trincee nemiche presso Vrsic e fu respinto un successivo contrattacco contro questa posizione; nella zona di Tolmino, lo stesso giorno, fu svolta una brillante offensiva contro le colline di S. Maria e S. Lucia, dove le nostre fanterie strapparono al nemico una linea di robusti trinceramenti e presero 17 ufficiali, 547 uomini di truppa, 4 mitragliatrici e numerose munizioni; il 17 un nostro reparto, avanzando per la cresta di Vrsic in direzione del Javorcek, conquistò, dopo una mischia, alcune trincee, ed altre ne furono occupate sull'altura di S. Lucia; nella notte del 18 respingemmo vigorosi contrattacchi stella zona di Tolmino, che, rinnovatisi, il 20, furono egualmente respinti; infine un esteso e forte trinceramento sulle falde settentrionali del costone di Vrsic cadde il 20, dopo aspra lotta in potere dei nostri e furono vani tutti i tentativi avversari per riprenderlo.

Mentre si combatteva in agosto la seconda battaglia dell'Isonzo, su gli altri fronti negli stessi giorni la guerra non riposava. Le artiglierie tenevano sotto il loro efficace tiro gli sbarramenti austriaci dell'Alto Cordevole, dell'alto Boite, di Landro e della Val Sugana, la tagliata di Ruaz presso Livinallongo, e le opere militari di altri punti del fronte trentino-carnico, e le nostre truppe con opportuni attacchi s'impadronivano di trincee nemiche, consolidando così ed estendendo sempre di più alcune posizioni.
Aveva annunciato il bollettino del 30 luglio
che era stato conquistato in Carnia il Monte Medetta, a nord-est di Cima Cuestalta e che "...Il nemico si era fortemente annidato e disponeva anche del valido appoggio di vicine batterie; aspro il terreno dell'azione; la via d'accesso alla vetta rappresentata da un solo ed erto canalone. Dopo lungo bombardamento, svoltosi con alterna vicenda, i nostri alpini, appoggiati dai tiri efficaci e precisi di retrostanti artiglierie, riuscirono, con grande valore ed ardimento, a sloggiare dalla posizione l'avversario. Ricevuti i rinforzi, questo pronunciava poi violenti ritorni controffensivi, e solo a sera la contrastata vetta poteva dirsi in nostro saldo possesso".

Il 1° agosto il nemico tentò un nuovo ritorno offensivo contro la Cima di Medetta, ma fu respinto con gravi perdite; il 2, col favore della nebbia, attaccò di sorpresa le nostre posizioni di Scarnitz e Monte Cuestalta, ma anche questo fu respinto.
Il 4, sotto l'intenso fuoco avversario, le nostre fanterie, sostenute efficacemente dalle artiglierie, espugnarono un fortissimo trinceramento che difendeva la parte alta del costone di Col di Lana. Tre giorni dopo, all'alba, avanzando arditamente sulla difficile cresta rocciosa che si erge da sud su Val di Noce, reparti di alpini sorpresero e dispersero truppe austriache trincerate a sud-est di Punta di Ercavallo. Nel giorno stesso nostre artiglierie da montagna, issate a più di 3000 metri d'altezza sulle rocce di Ercavallo, cacciarono con tiri precisi altri nemici trincerati a Malga Paludei, e in Carnia un nostro reparto conquistò e difese da violenti contrattacchi le trincee austriache fronteggianti il Passo del Cavallo tra il Pal Grande e il Freikofel.

Il giorno 8, nell'alto Comelico, Cima Undici cadeva in nostro potere; il 9 le nostre truppe respingevano un attacco in Val di Segten contro la fonte del Rimbianco e un'avanzata in forze dal Seikoff; la notte del 9 veniva respinto un duplice attacco austriaco alle nostre posizioni della testata della Valfurva; la notte del 12 un attacco violento pronunziato contro le nostre nuove posizioni sul costone del Col di Lana s' infrangeva davanti la mirabile resistenza dei nostri: per contro le nostre truppe snidavano il nemico dalle pendici occidentali del Monte Piana e il 13, tornando questo al contrattacco, lo respingevano con gravi perdite, mentre in Val di Segten occupavano e rafforzavano la vetta dell'Oberbacher Kauzel. Il 14, in Val d'Adige, un treno nemico blindato ed ornato con artiglierie di piccolo calibro e con mitragliatrici, tentava un'incursione contro la nostra stazione di Serravalle, ma era respinto. Uguale sorte avevano piccoli attacchi contro le nostre posizioni di Monte Maggio e un attacco in forze contro le posizioni da noi recentemente conquistate in Val Popena.

In Carnia, nella notte del 15 agosto, il nemico sferrava un violento attacco contro le nostre posizioni del Pal Piccolo, del Pal Grande e del Freihofel. Il fermo contegno delle nostre fanterie valeva a respingere su tutto quel tratto di fronte il nemico, infliggendogli gravi perdite. Quella notte stessa gli Austriaci sferravano un furioso contrattacco alle trincee perdute il giorno prima sul Baherbach e sul Bódenbach, ma anche qui furono ricacciati con perdite rilevanti.

Nelle altissime quote, fra la Lombardia e il Trentino Alto alto Adige, nella zona dell'Ortles-Gran Zebrù (Gruppo del Cevedale) la notte del 16 agosto, un nostro reparto alpino moveva dalla Capanna Milano, traversava, diviso in cordate, il Passo dei Camosci (3084 m.) e la Vedretta di Campo, quindi scalava la cima ghiacciata del Tuckett Spitz (3469 m.) sorprendendovi un drappello nemico. Dopo di ciò si dirigeva sulla Hintere Madastch Spitz (3432 m.) tenuta da un distaccamento nemico, lo assaliva e lo disperdeva occupando saldamente la vetta.
Il 17 agosto, nella zona dolomitica, le nostre fanterie occupavano, nell'alta Rienz, il Settele Berg (m. 2296) e in Valle Bacher una seconda linea di trinceramenti; il 18 veniva espugnata una ridotta sul Monte Paterno e conquistata una linea di trincee presso la Drei Zinnen Hutte (rifugio delle Tre Cime di Lavaredo); mentre il 20, in Val Sugana le nostre truppe avanzavano fino al torrente Maso, appoggiando la sinistra al Monte Civaron e la destra ai monti di Cima e di Cimon Rava; nella zona dell'alto Rienz e del Bodenbach la nostra occupazione raggiungeva le falde degli Innichriedel Knoten; infine, sull'altipiano a nord-est di Arsiero, i nostri con vivi attacchi, si impadronivano di un'importante ridotta austriaca sul costone ad occidente di Monte Maggio.

Cosi, distruggendo metodicamente gli sbarramenti nemici sui passi alpini, impadronendoci con audaci scalate di posizioni credute imprendibili sugli altissimi ghiacciai, occupando ridotte e trincee e respingendo ogni contrattacco degli Austriaci dallo Stelvio alla conca di Plezzo e scardinando con poderose spallate la difesa nemica sulla fronte orientale, dal Monte Nero al mare, l'esercito italiano si avviava fiducioso nelle proprie forze verso il quarto mese di guerra.
Il 22 agosto 1915, il Governo italiano, anche per dare una smentita ai bollettini austro-ungarici e alla stampa austro-germanica, che non facevano altro che parlare delle sconfitte nostre, pubblicava un riassunto ufficiale delle operazioni guerresche, che integralmente e fedelmente qui riportiamo:

"Austriaci sulla difensiva lungo tutto il fronte".
1° L'esercito austro-ungarico combatte in modo assolutamente difensivo lungo tutto il fronte di operazione. I suoi rari atti offensivi sono affatto parziali, oppure tentativi per riprendere posizioni perdute. La frontiera, irta di ostacoli di ogni genere, e notoriamente potentissima per difese naturali, è stata varcata quasi dappertutto dalle truppe italiane. Appena dichiarata la guerra, l'esercito italiano si è impadronito, talora con vittoriosi combattimenti, talora senza colpo ferire, di numerose importanti posizioni oltre confine nel Trentino e nel Cadore, correggendo le infelicissime condizioni di una frontiera creata nel 1886 ad esclusivo beneficio dell'Austria. In alcuni punti l'esercito italiano ha preferito non spingersi oltre la frontiera come avrebbe potuto per usufruire delle migliori condizioni locali; ma gli austro-ungarici non hanno osato penetrare in territorio italiano, mentre tutti i loro forti di sbarramento di prima linea stanno sotto il tiro dei nostri cannoni pesanti, e gran parte del loro territorio è nelle nostre mani. Basta ricordare le alture di riva destra del Chiese (Val Daone), Condino in Val Guidicaria. Tiarno e la Val di Ledro tenute sotto il nostro fuoco, il Monte Altissimo, parte dell'altipiano di Brentonico, Ala e Serravalle in Val d'Adige, buona parte della Vallarsa con le alture laterali fin sopra Rovereto, il Monte Maggio, parte dell'altipiano di Vezzena, la Val Sugana fino ad Ospedaletto, le conche di Bieno e di Pieve di Tesino, le pendici meridionali di Cima d'Asta, Fiera di Primiero con le alture circostanti, il Passo di San Pellegrino, Pieve di Livinallongo, il Colle di Lana, il Passo di Falzarego, le Tofane e Podestagno, con la restrostante conca di Cortina d'Ampezzo.
Sugli alti monti del Comelico e dalla Carnia la nostra occupazione corre presso a poco sulla linea del confine ivi segnata dall'altissima dorsale alpina. Circa la linea dell'Isonzo, ove fino ad ora si sono svolte le nostre principali azioni offensive, è detto diffusamente qui appresso.

"Sull'Isonzo"
2° L'Austria è stata costretta ad abbandonare nel Friuli Orientale una vasta estensione di territorio le cui condizioni naturali sarebbero state molto favorevoli per una difesa e si è limitata ad occupare la linea più potente e preparata di lunga mano dell'Isonzo. Essa otteneva così di porre tra il suo e l'esercito italiano un fiume rapido, non guadabile e soggetto a rapide inondazioni, nonché un sistema di posizioni montane assolutamente formidabili, come dichiarò l'arciduca Eugenio nel suo proclamo alle truppe divulgato dalla stampa. Orbene, le truppe italiane varcarono l'Isonzo in tutte le località militarmente importanti: Caporetto, Plava e tutto il basso corso da Gradisca a valle. Il passaggio del fiume fu compiuto a viva forza gettando e rigettando fino a tre volte i ponti sotto il fuoco dell'avversario e lottando anche contro le piene subitanee note a chiunque non sia affatto ignorante delle condizioni geografiche della regione. Varcato il fiume e rimanendo con questo minaccioso ed infido elemento dietro le spalle, l'esercito italiano ha osato la conquista del terreno ovunque dominante di riva sinistra. Sull'alto Isonzo fu strappata al nemico la più gran parte del poderoso massiccio di Monte Nero. La piazza di Tolmino fu investita da presso ed è battuta dal fuoco della nostra artiglieria. Più a Sud, fra Tolmino e Gorizia, fu creata una forte testa di ponte a Plava, dove le nostre truppe, avanzatesi con ardimento, che ha colpito gli stessi avversari, coprono dalla riva sinistra i nostri ponti e costantemente rigettano i contrattacchi del nemico. Davanti a Gorizia le formidabili posizioni che l'avversario occupa ancora sulla destra del fiume sono strette dai nostri approcci fino a poche centinaia di metri, talora a pochi passi, tanto che per dichiarazioni della stessa stampa nemica il nostro tiro di fucileria giunge fino ai caseggiati di Gorizia.

"Sull'Altipiano del Carso"
Ma dove l'offensiva italiana ebbe anche un più largo successo, fu sull'altipiano del Carso, il quale costituisce il baluardo più potente della piazza di Gorizia. Qui in poche settimane le nostre truppe espugnarono da prima su delle alture da Gradisca a Monfalcone, quindi sfondarono la poderosa linea di difesa nemica sull'altipiano stesso dalla Sella di San Martino a Monte Sei Busi e alle alture della rocca di Monfalcone, indi ancora iniziarono e stanno portando innanzi con lento ma continuo progresso l'attacco delle linee successive di difesa dell'avversario.

"Le perdite italiane e le perdite austriache"
3° Questi risultati che in definitiva non hanno potuto essere negati dai bollettini ufficiali del nemico, furono naturalmente conseguiti a prezzo di sangue, ciò che prova il valore e lo spirito offensivo delle nostre giovani truppe. Ma è folle parlare come fanno gli austriaci di 180.000 e 300.000 italiani messi fuori combattimento. Tali cifre sono assolutamente fantastiche. Le vere perdite non raggiungono la sesta parte delle cifre che la stampa nemica ha inventato (in effetti con la terza battaglia in ottobre, le perdite italiane furono di 62.000 morti e 170.000 feriti. Un quarto del contingente mobilitato. Ndr.). E' invece sicuro che il nemico abbia lasciato nelle nostre mani circa 18.000 prigionieri, nonostante i nostri attacchi abbiano sempre dovuto svolgersi frontalmente, mentre i prigionieri da noi perduti sommano a poche centinaia, tanto che mai se ne trova traccia nei bollettini del nemico. Le perdite degli Austriaci, per concorde dichiarazione dei loro numerosi ufficiali prigionieri, furono straordinariamente gravi.

"L'offensiva si sviluppa malgrado le difficoltà"
L'offensiva italiana continua ed il nemico non riesce, malgrado i continui rinforzi ricevuti, ad arginarla. I violenti suoi contrattacchi tentati anche con grandi forze sono stati ovunque respinti. La nostra offensiva si sviluppa costantemente, quantunque urti contro i maggiori mezzi di difesa che la tecnica odierna abbia consentito al nemico di addensare in 10 mesi su di un terreno ripido, intricato, sparso di profonde colline, talora boscoso, talora scoperto e desertico; formidabili ostacoli che le truppe italiane superarono con spirito di sacrificio e magnifico coraggio. Chiunque si sia fatta una lontana nozione di ciò che è la guerra moderna, deve rimanere colpito dinanzi ai risultati fino ad ora ottenuti, poiché deve conoscere che qualunque possa essere la superiorità numerica dell'attaccante straordinariamente potente è la difensiva appoggiata ad una simile organizzazione e ad un tal terreno.
Questi i caratteri generali ed i risultati delle operazioni offensive italiane che non possono essere diminuiti da nessuna campagna di stampa. Essi sono controllabili sul posto. I valorosi avversari che ci fronteggiano li conoscono assai meglio dei gazzettieri e la storia imparziale li dovrà un giorno se non oggi stesso affermare".

 

LE OPERAZIONI NAVALI NELL'ESTATE DEL 1915:
IL SILURAMENTO DELL' "AMALFI" E DEL "GARIBALDI"
IL DISCORSO DEL D'ANNUNZIO AI SUPERSTITI DELL'"AMALFI"
OCCUPAZIONE DI PELAGOSA -
AZIONE CONTRO L'ISOLA DI LAGOSTA -
BOMBARDAMENTI AUSTRIACI DELLA COSTA ADRIATICA
ATTACCO NEMICO A PELAGOSA RESPINTO
AFFONDAMENTO DEL "NEREIDE" E DEL "IALEA"
DUE SOTTOMARINI NEMICI AFFONDATI - SECONDO ATTACCO AUSTRIACO A PELAGOSA E SGOMBRO DELL'ISOLA
CONSIDERAZIONI SULLE OPERAZIONI NAVALI
ATTIVITÀ DELLE FORZE AEREE
IL VOLO DI G. D'ANNUNZIO SU TRIESTE

Mentre si svolgevano le operazioni terrestri che abbiamo appena accennate, la Marina italiana non stava oziosa, ma si logorava in uno snervante e continuo servizio di vigilanza, d'escursioni, d'agguati, d'attacchi alle coste avversarie, di tentativi di provocare a battaglia la flotta nemica, registrando purtroppo di tanto in tanto, dolorose perdite.
Una di queste fu il siluramento dell'incrociatore "Amalfi". Divenendo sempre più intensa l'attività nostra e del nemico nell'alto Adriatico, si era ritenuto utile inviare a Venezia alcune unità che potevano eventualmente sostenere con efficacia il naviglio leggero qui dislocato e vi si era mandata una divisione composta dei quattro incrociatori corazzati Pisa, San Giorgio, San Marco, e l'Amalfi, che vi era giunta il 19 giugno.

All'alba del 7 luglio alcuni cacciatorpediniere furono mandati in ricognizione verso il golfo di Trieste e per dare a loro un pronto sostegno nel caso di un attacco nemico fu fatto uscire da Venezia l'"Amalfi" (comandante RIANDO), il quale, a poche miglia da Venezia fu silurato dal sommergibile austriaco U26. "Il comandante, - così scriveva il bollettino dello Stato Maggiore della Marina nel dare l'annunzio della sciagura - prima di ordinare alla gente di gettarsi in mare, ha lanciato il grido Viva il Re ! Viva l'Italia !, cui ha fatto eco tutto l'equipaggio allineato a poppa con ordine e con mirabile disciplina. Il comandante ha abbandonato per ultimo la nave scivolando sul fianco ancora emerso dell'incrociatore, che poco dopo è affondato. Con i nostri mezzi fu salvata la quasi totalità dell'equipaggio e degli ufficiali".

L'equipaggio della nave, condotto a Venezia armato di cannoni da sbarco e messo sotto il comando del capitano di corvetta SAVINO, formò il terrestre "Gruppo Amalfi", il quale si distinse poi in molte azioni nel basso Isonzo.
Lo stesso giorno del siluramento dell'Amalfi perdemmo una torpediniera; un'altra l'avevamo persa il 3 luglio. Perdite dolorose per noi erano queste, ma non tali da interrompere le nostre operazioni navali o da menomare l'efficienza della nostra flotta. Questa, coadiuvata dalla scarsa forza aerea di cui si disponeva, continuava a svolgere alacremente la sua attività.
Il 7 luglio, dirigibili e idrovolanti bombardavano uno stabilimento militare presso Trieste, il 14 cacciatorpediniere austriaci nel canale di Fasana, il 16 la stazione di Gragnano e la ferrovia Trieste-Monfalcone, il 22 San Polaj e Nabresina, il 23 la stazione ferroviaria di Riva di Trento.

Il 17 luglio, mentre idrovolanti austriaci bombardavano Bari e Barletta, partiva, da Brindisi una divisione navale, guidata personalmente dal DUCA DEGLI ABRUZZI, e diretta alla costa dalmata. A proposito dell'azione che questo reparto navale doveva svolgere, il capo di Stato Maggiore della Marina dava al Paese, il 19, l'annunzio di una, sciagura con un comunicato, in cui fra l'altro era detto:

"All'alba del 18 corrente la divisione di nostri vecchi incrociatori corazzati Varese, Ferruccio, Garibaldi e Pisani", ha avvicinato le acque di Cattaro, rendendo palese la sua presenza col bombardare e danneggiare seriamente la ferrovia presso quella località. Nello stesso tempo navi sottili agivano contro Gravosa, distruggevano il deposito delle macchine, caserma e vari edifici militari, ed eseguivano mediante sbarchi una ricognizione nell'isola di Giuppana. Le corazzate nemiche, rifugiate nella base di Cattaro - le quali, benché di tipo non moderno, avrebbero potuto affrontare la nostra divisione d'antichi e modesti incrociatori - non sono uscite dal porto, pure possedendo le macchine pronte. Mentre le nostre navi si allontanavano sono state attaccate da sommergibili e il "Garibaldi", dopo aver evitato un primo attacco, è stato colpito da un siluro ed è affondato. L'equipaggio si è comportato con perfetta calma e disciplina, levando più volte il grido di Viva il Re prima di gettarsi in mare, secondo l'ordine ricevuto, ed è stato salvato nella massima parte".

Il sommergibile austriaco che silurò il "Garibaldi" era l'U6. L'incrociatore era stato varato nel 1898 ed era entrato in squadra nel 1901, la sua stazza era di 7350 tonnellate e la sua velocità di 19 nodi e mezzo. Era armato da un cannone da 254 mm, 2 da 203, 14 da 152, 10 da 76, 6 da 47, una mitragliatrice e 4 lanciasiluri. Aveva circa 560 uomini di equipaggio, di cui si salvarono i quattro quinti, compreso il comandante FORTUNATO NUNES FRANCO.
La notizia dell'affondamento del Garibaldi fu serenamente accolta dal Paese e rese più maschia la voce di GABRIELE D'ANNUNZIO quando, il 20 luglio, il poeta parlò ai superstiti dell'"Amalfi", che da equipaggio di una nave si trasformavano in cannonieri di terra.

Lo riportiamo qui fedelmente e integralmente; per testimoniare il clima ancora molto euforico in questi primi tre mesi di guerra. Che nonostante tutto, per l'Italia, non era stato per nulla negativo, anche se poco concludente.

"Marinai e soldati d'Italia ! - disse il poeta - Or è troppi anni, quando una squadra italiana non aveva ancora osato entrare neppure per parata in questo nostro mare dopo la sciagura che sempre ci morde, un poeta italiano levò un canto di numero guerresco "A una torpediniera nell'Adriatico" e risuscitò sotto un cielo di nembo e di presagio i sommersi di Lissa.
Fu ieri il giorno anniversario della battaglia trista, e per tutta la notte abbiamo cercato invano il nemico dalle acque di Grado a quelle di Pola e dalla Punta di Salvore alla Punta Maestra.
I padri nostri credevano di riconoscere l'apparizione dei due divini eroi gemelli nei Fuochi di Sant'Elmo fiammeggianti in cima agli alberi delle navi. Noi abbiamo creduto che i due comandanti eroici, il FAÀ DI BRUNO e il CAPPELLINI, ci apparissero e ci segnassero la rotta. Ma ancora una volta il nemico ha evitato di combattere in mare aperto.
Ed ecco che stamani abbiamo il grande onore e il grande orgoglio di salutare i superstiti gloriosi della gloriosa "Amalfi", non meno eroici di quei loro fratelli che, allineati sul ponte della "Palestro", mentre la nave colava a picco, gridarono con un'anima, sola: Viva l'Italia
Oltre questo grido, oggi non v'è se non il silenzio nell'azione. Non è più tempo di parole. La parola era santa quando valeva a propagare quella verità che oggi è il nostro sole spirituale, che oggi è la fede e la luce d'Italia. Mentre voi partite, mentre io vi saluto, il sangue della Patria sgorga, scorre, impregna il suolo liberato. Il sangue fugge e il sangue si rifà, sempre più rosso e più puro. E ciascuno di noi non vale se non per la ricchezza delle sue vene, se non per il vigore della sua volontà, se non per la costanza del suo coraggio.
O marinai, voi non avete più la vostra nave. Come la "Palestro", ella giace nel fondo dell'Adriatico. Era bella e voi l'amavate. Ma, nell'abbandonarla al suo destino, voi sentiste che nulla era perduto; poiché tanto indomito ferro rimaneva in voi, nella vostra intrepidità, nella vostra resistenza più forte della sorte e della morte. Sempre il fermo cuore dell'uomo è l'arma che non vien meno e che non falla.
Voi lo sapete, o marinai. Non avete più la vostra nave; ed ecco vi trasformate in cannonieri di terra. Portate con voi le vostre batterie laggiù, su la linea del fuoco. E l'anima della vostra nave sarà là dove si mostrerà il vostro coraggio. L'anima dell'"Amalfi" vibrerà nel rombo dei vostri cannoni, brillerà nel lampo di ogni colpo mandato a segno. O naufraghi meravigliosi, fu necessità abbandonare il bordo; e forse taluno di voi pensa con alta malinconia a quei compagni che restarono sepolti nella camera delle munizioni, a quei fratelli che la nave amata hanno per sepolcro. Ma per nulla al mondo voi abbandonerete l'affusto. Basta guardarvi, per esserne certi. L'affusto di questi nuovi cannoni aderisce al vostro valore meglio che le vostre ossa alla vostra carne.
Per ciò noi vi salutiamo due volte eroi. Come già foste eroi davanti alla morte, voi sarete domani eroi incontro alla vittoria. Viva l'Italia ! Viva il Re !".

Una settimana dopo, e precisamente il 26 luglio, un comunicato ufficiale divulgava notizia dell'occupazione di Pelagosa, isoletta tra il Gargano e la osta dalmata:

"Le operazioni navali contro la costa nemica - diceva il comunicato - ebbero per obiettivo di togliere al nemico il mezzo di valersi delle isole più avanzate verso la nostra sponda, delle quali più agevolmente potevano essere sorvegliati i movimenti delle nostre navi e rappresentavano stazioni di rifornimento di siluranti o di aeroplani più prossime a noi. Fin dall'inizio delle ostilità l'isola di Pelagosa era stata più volte bombardata, ma ciononostante continuava a rimanere in comunicazione ottica con la costa dalmata; cosicché fu necessario occuparla definitivamente e scovare e fare prigionieri dopo minuziose ricerche gli uomini che la presidiavano e si tenevano nascosti nelle numerose e profonde anfrattuosità di grotte dell'isola. L'occupazione fu compiuta di nottetempo e con gran celerità dai nostri cacciatorpediniere e navi ausiliarie, poiché fu necessario provvedere gli sbarcati non solo di tutto quanto occorreva per una efficace difesa, ma anche per ogni necessità della vita. I tentativi successivamente fatti dal nemico contro la nostra occupazione non hanno sortito effetto e l'isola, importante per la sua posizione strategica, è in nostro potere. Contemporaneamente una squadriglia di cacciatorpediniere francesi, scortata ed assistita da un nostro incrociatore leggero era incaricata di agire contro l'isola di Lagosta, tagliando il cavo subacqueo telegrafico e distruggendo le stazioni di rifornimento per sommergibili ed aeroplani che si sapevano essere in quell'isola. L'operazione, la quale presentava difficoltà non lievi, militari e marinaresche, fu compiuta dai cacciatorpediniere francesi con molta accortezza ed ardimento; specialmente il "Magon" e il "Bisson" si distinsero nel compito di tagliare il cavo e distruggere le stazioni di rifornimento. Un manipolo di marinai di quest'ultimo, sbarcato a terra, fu fatto segno, mentre era sulla via del ritorno, ad intenso fuoco di fucileria del nemico, ma sostenuto e protetto dai tiri del Magon non ebbe a lamentare che la perdita di un uomo".

"Quasi come risposta all'azione nostra e francese su Pelagosa e Lagosta, la mattina del 27 luglio un incrociatore leggero e quattro cacciatorpediniere austriaci bombardarono alcuni punti della ferrovia litoranea adriatica tra Senigallia e Pesaro. Contemporaneamente due idrovolanti nemici lanciarono bombe su Ancona. I bombardamenti navali ed aerei non fecero vittime e produssero danni di lievissima entità. Non contento di questo, il nemico, il 29 luglio, tentò di rioccupare l'isola di Pelagosa, bombardandola con due incrociatori leggeri e sei cacciatorpediniere, mentre reparti di marinai sbarcavano nell'isola. Gli assalitori furono respinti con perdite e alcuni furono costretti a raggiungere a nuoto le torpediniere".

Il 5 agosto un nostro sommergibile, il "Nereide", inviato nelle acque di Pelagosa per contrastare eventuali nuovi attacchi da parte di navi nemiche, sorpreso in emersione da un sottomarino austriaco, fu silurato ed affondato. Il 9 agosto il presidio dell'isola fu rifornito e rinforzato. L'11, cacciatorpediniere austriaci bombardarono Bari, Santo Spirito e Molfetta, uccidendo una persona e ferendone sette. Quello stesso giorno, nell'alto Adriatico, il sommergibile austriaco U12 fu silurato ed affondato da un nostro sottomarino, non salvandosi nessuno dell'equipaggio. La mattina del giorno dopo un nostro incrociatore ausiliario, in crociera nel basso Adriatico, fu attaccato dal sommergibile austriaco U3, che gli lanciò due siluri senza colpirlo e fu investito dalla prua della nostra nave, la quale però non riuscì ad affondarlo. Una squadriglia di nostri cacciatorpediniere di cui faceva parte il caccia francese "Bisson" fu mandata a dar la caccia all'U3.

Nel pomeriggio del 13 il "Bisson" riuscì a rintracciare il sommergibile nemico, che era avariato, e lo affondò a cannonate, salvando e catturando il comandante in seconda ed undici uomini dell'equipaggio.
Il 16 agosto perdemmo il sommergibile "Ialea", affondato per urto di mine al largo della costa d'Istria. Lo comandava GIOVANNETTI, che perì con quasi tutto l'equipaggio.
Il 17 agosto, venti unità navali austriache, tra caccia ed esploratori, oltre un idrovolante, attaccarono l'isola di Pelagosa, distruggendo con furioso bombardamento quasi tutte le sistemazioni logistiche e difensive del presidio. Non fu però tentato alcuno sbarco.
Dopo quest'attacco contro Pelagosa, costando troppo la difesa dell'isola, da cui del resto non era possibile arrecare seri danni al nemico, il Capo di Stato Maggiore della Marina ordinò che fosse sgombrata.

"Lo sgombro di Pelagosa - scrive il Ginocchietti - segnò virtualmente l'inizio di un nuovo periodo nella condotta delle nostra guerra in Adriatico. L'attività invero assai notevole da noi dimostrata nei mesi estivi ci aveva costato la perdita di alcune unità senza apportarci in apparenza alcuna contropartita salvo l'affondamento di un paio di sommergibili nemici. Tutta l'importanza delle caratteristiche geografico-strategiche del teatro di operazioni adriatiche ci si era rivelato con i fatti non inferiore a quello che era facilmente prevedibile. Invece di logorare il nemico, ci eravamo logorati noi stessi, non altrimenti di quanto era avvenuto e doveva ancora avvenire sui fronti terrestri, ove gli attaccanti, non ancora provvisti di mezzi idonei, subivano perdite assai più gravi in numero e qualità di quelle da loro causate ai difensori.

" Occorre però mettere in rilievo i vantaggi morali che ci vennero dall'avere adottato all'inizio delle ostilità una condotta decisamente offensiva. In primo luogo nella marina si andò sviluppando e consolidando le spirito offensivo, che è sempre frutto di nobili tradizioni, scritte col sangue. Una marina giovane come l'Italiana, che non possedeva alcuna grande tradizione, non poteva iniziare la sua prima grande guerra assumendo una condotta passiva nella attesa che il nemico si fosse prestato a giocare la partita suprema nel canale di Otranto. Ne sarebbe probabilmente derivato un logorio morale molto più grave di quello materiale che subimmo. Chi ha studiato la storia della marina germanica nel conflitto mondiale ben conosce le conseguenze dell'attitudine passiva assunta dalle sue forze principali fin dall'inizio della guerra e sa che, quando il comando della flotta fu assunto da un abile e valoroso ammiraglio, VON SCHEER, questo cercò di risollevare gli spiriti depressi dei suoi stati maggiori ed equipaggi con frequenti uscite nel mare nel Nord, sfidando la strapotente flotta britannica che profittando di qualche favorevole occasione poteva avvolgerlo in una stretta suprema.

"Questo nostro primo periodo di attività fu quindi senza dubbio grandemente salutare al morale della nostra marina che si mantenne poi altissimo in tutte le alterne vicende del conflitto. Inoltre, pur fornendo al nemico l'occasione di riportare quei suoi pochi successi di qualche importanza, la marina italiana gli mostrò che le sue incursioni nell'Adriatico medio non erano esenti da rischi e lo indusse a diradarle, dando così tempo alla sistemazione difensiva costiera di solidificarsi. Gli mostrò altresì che qualsiasi sua incursione nel basso Adriatico sarebbe stata grandemente ostacolata e pertanto coprì così indirettamente la zona del Canale d'Otranto in cui con mezzi forniti dagli italiani e dagli alleati si andava ogni giorno più intensificando la posa d'ostacoli contro il transito dei sommergibili tedeschi che ormai avevano posto la loro base a Cattaro ed infestavano il Mediterraneo. Il tributo del noviziato pagato dalla nostra marina a quella avversaria, già agguerrita per essere entrata da più tempo in conflitto, non fu dunque del tutto vano. Ma da esso derivarono fra i nostri organi direttivi ed esecutivi del tempo, diversità di concezioni sui nuovi metodi di guerra marittima e tale contrasto indusse il Capo di Stato Maggiore della Marina a chiedere ripetutamente l'esonero dalla sua alta carica: esonero che egli ottenne nell'ottobre 1915.
La carica di Capo dello Stato Maggiore venne fusa con quella di ministro e data al vice ammiraglio CORSI. THAON di REVEL fu nominato comandante del dipartimento di Venezia e delle forze navali del basso Adriatico.

"Se numericamente eravamo superiori agli Austriaci nelle forze navali, eravamo inferiori nelle forze aeree. Il nemico si valse di questa superiorità, oltre che per raggiungere obiettivi militari anche per gettare il panico nelle nostre popolazioni con frequenti barbare incursioni su città indifese. In luglio bombardò: il 2 Castelfranco Veneto, il 5 Cividale, l'8 Venezia e S. Giorgio di Nogaro, il 23 Fossaciesa, Chieti, San Vito Chietino, Cupramarittima, Ortona a Mare; il 24 Grottammare, il 25 Verona, il 27 Fano e Ancona, che ebbe 90 morti e 67 feriti; in agosto bombardò: l'11 Bari, il 15 ancora Venezia e Schio, il 20 e il 21 Udine, il 24 ancora Schio, il 25 Cividale e Brescia, il 27 Sinigallia, Fano e Ancona.
Anche noi esplicammo per via aerea un'encomiabile attività, ma al contrario del nemico, risparmiammo la popolazione civile. In luglio borbardammo: il 5, colonne di truppe e carriaggi presso Oppacchiasella, la stazione ferroviaria di San Daniele e lo Stabilimento Tecnico triestino; il 6 e l'8 il campo d'aviazione austriaca di Aisovizza e la stazione di Nabresina, il 12 un accampamento presso Gorizia, il 14 caccia austriaci raccolti nel canale di Fasan, il 17, con due dirigibili, le opere militari intorno a Gorizia e un accampamento presso il San Michele, il 22, con dirigibili, San Polaj e la ferrovia di Nabresina, il 23 la stazione ferroviaria di Riva di Trento; in agosto bombardammo il 6, con dirigibili, accampamenti nemici presso Doberdò, il nodo ferroviario di Opema e le opere militari di Pola (il dirigibile che volò su Pola cadde in mare e l'equipaggio fu catturato); il 20 e il 21 il campo austriaco di aviazione di Aisovizza".

Gran rumore levò il volo di GABRIELE D'ANNUNZIO su Trieste. Il velivolo, che portava il poeta, pilotato dal comandante MIRAGLIA, si alzò alle 15.30 del 7 agosto e giunse nel cielo di Trieste un'ora dopo salutato da nutrito fuoco di cannoni e mitragliatrici. Fece due lunghi giri sulla città: nel primo furono lanciati bandiere italiane appesantite da piombi e messaggi chiusi in sacchetti impermeabili, alcuni dei quali caddero tra la Piazza Grande e San Giusto, altri fra il Campo Marzio e la caserma nuova, altri ancora fra Scorcola e Rojano; nel secondo furono gettate bombe sull'Arsenale di Artiglieria, sui quattro bacini e su altre opere militari. Due idroplani austriaci si levarono dal vallone di Muggia, per dar la caccia al velivolo italiano, ma furono messi in fuga da altri due apparecchi italiani, volati al soccorso di quello del d'Annunzío, che rientrò alla sua base alle 18.25.
Ecco il testo del messaggio lanciato dal poeta ai Triestini:

"Coraggio, fratelli! Coraggio e costanza ! Per liberarvi più presto, combattiamo senza respiro. Nel Trentino, nel Cadore, nella Carraia, su l'Isonzo, conquistiamo terreno ogni giorno. Non v'è sforzo del nemico che non sia rotto dal valore dei nostri. Non v'è sua menzogna impudente che non sia sgonfiata dalle nostre baionette. Abbiamo già fatto più di 20.000 prigionieri. In breve tutto il Carso sarà espugnato. Io ve lo dico, io ve lo giuro, fratelli: la nostra vittoria è certa. La bandiera d'Italia sarà piantata sul Grande Arsenale e sul colle di San Giusto. Coraggio e costanza. La fine del vostro martirio è prossima. L'alba della nostra allegrezza è imminente. Dall'alto di queste ali italiane, che conduce il prode Miraglia, a voi getto per pegno questo messaggio e il mio cuore, io Gabriele d'Annunzio".

 

LE RELAZIONI TRA IL GOVERNO ITALIANO E LA SANTA SEDE - IL VESCOVO CASTRENSETRATTATIVE SEGRETE TRA IL VATICANO E IL GOVERNO PER UN ACCORDO
L'INTERVISTA LATAPIE -
IL COMITATO LOMBARDO DI PREPARAZIONE PER LE MUNIZIONI
IL COMITATO SUPREMO DELLE ARMI E DELLE MUNIZIONI
IL SOTTOSEGRETARIO DELLE ARMI E DELLE MUNIZIONI
IL PROBLEMA DELLA MANO D'OPERA
GLI IMBOSCATI E I PESCICANI

L'intervento dell'Italia nella grande guerra compromise in un primo tempo le relazioni tra il Governo italiano e la Santa Sede. Il Governo italiano dichiarò al Vaticano che avrebbe rispettato le guarentigie papali e specialmente la piena libertà e il segreto epistolare dei rappresentanti diplomatici presso la Santa Sede purché questa facesse sì che quelli non abusassero né della libertà né del segreto; ma il Vaticano non ritenne di impegnarsi ad esercitare vigilanza sui rappresentanti diplomatici dell'Austria, della Prussia e della Baviera e questi lasciarono Roma protestando e giustificando di andarsene per non menomare la loro dignità.
Dopo la dichiarazione di guerra all'Austria gl'imperi centrali tentarono di metter contro il Governo italiano e la Santa Sede e di riaprire la mai risolta "questione romana", facendo gridare dalla loro stampa che l'intervento italiano aveva dimostrato come la famosa legge delle guarentigie non assicurasse in alcun modo al Pontefice il libero esercizio della sovranità spirituale; e sulla "questione romana"
"...solo una vittoria degli Imperi centrali avrebbe potuto riaprirla e risolverla, ripristinando il potere temporale".

Intanto la Santa Sede cercava di rimanersene neutrale e, poiché le sue invocazioni di pace non avevano prodotto nessun effetto, cercava di moderare le attività della guerra sollecitando dalle nazioni belligeranti provvedimenti a favore dei prigionieri e degli invalidi.
In verità il Pontefice, pur volendo considerare come suoi figli, eguali nel suo cuore, i cattolici tutti delle potenze in conflitto, non nascondeva una certa simpatia per gl'Italiani. Il 25 maggio, in una lettera al cardinal decano, aveva chiamato diletta l'Italia e aveva annunciato di aver
"fornito i cappellani militari di amplissime facoltà, autorizzandoli a avvalersi per la celebrazione della Messa e dell'assistenza ai moribondi dei privilegi che solo in circostanze eccezionalissime possono essere concesse".

Il 4 giugno, con decreto della Sacra Congregazione Concistoriale, fece istituire la carica di Ordinario Castrense, vale a dire del vescovo di campo e a tale carica chiamò monsignor ANGELO BARTOLOMASI, ausiliario dell'Arcivescovo di Torino. Richiesto però di interessarsi per imboscare i giovani della nobiltà clericale, si rifiutò affermando che "...anch'essi, come italiani, dovevano immolare la vita in difesa della patria".
Inoltre il Vaticano collaborava col Governo per rendere più agevoli l'opera degli "Uffici per notizie alle famiglie dei militari", e per alleviare le condizioni dei prigionieri e degli ammalati. Infine la Santa Sede fece dai vescovi raccomandare al clero e al popolo di sostenere la giusta causa dell'Italia.
Dal canto suo il Governo italiano non mancò di ricambiare il contegno amichevole del Vaticano, spalleggiato dal generale Cadorna e dal generale Porro, cattolici osservantissimi. Infatti esentò i parroci dal servizio militare, pose nella sanità o in altri corpi non combattenti gli ecclesiastici chiamati alle armi, trattò bene i cappellani e, a monsignor BARTOLOMASI riconobbe il grado di maggior generale. Padre SEMERIA fu chiamato alle funzioni di Cappellano maggiore, con il Padre GEMELLI, presso il Comando Supremo.

A nessuno sfuggiva la cordialità delle relazioni tra il Governo italiano e la Santa Sede, ma pochissimi sapevano di segreti approcci che avvenivano tra fiduciari dell'uno e dell'altra per un accordo. Da parte del Vaticano si chiedeva una legge, riconosciuta da tutte le potenze, che gli concedesse la "sovranità indipendente" della città leonina e di una striscia di terra al mar Tirreno con un proprio porto.

Da parte del Governo si offrivano modifiche alla legge delle guarentigie, abolizioni d'ogni traccia di giudizio giurisdizionale, ricostituzione autonoma delle proprietà ecclesiastiche, istituendo in enti morali le congregazioni religiose, sistemazione e consolidamento della finanza pontificia e riconoscimento di Stato indipendente ai presenti possessi papali; infine l'accordo avrebbe dovuto concludersi direttamente tra la Santa Sede e il Governo italiano.
Ai negoziati prese parte TITTONI il quale riuscì a concordare il punto essenziale, che cioè la legge delle guarentigie rimarrebbe una legge interna italiana, alla quale accederebbe più tardi con un atto proprio la Santa Sede. Il Governo italiano desiderava che la Santa Sede dichiarasse pubblicamente, quasi a smentire le contrarie asserzioni della stampa austro-tedesca, che la legge delle guarentigie aveva dato buona prova ed era suscettibile di miglioramenti, ma il Vaticano stranamente non volle fare una dichiarazione simile specie quando il ministro belga gli propose di schierarsi in favore dell'Intesa.

L'intervento dell'Intesa nei negoziati tra Santa Sede e Governo italiano minacciò di turbare le buone relazioni; ma ancora di più minacciò di turbare i buoni rapporti una intervista concessa dal Pontefice ad un giornalista francese, LUIGI LATAPIE, pubblicata dal giornale "La Liberté" il 21 giugno del 1915. Secondo questa intervista, a Latapie che aveva detto al Santo Padre essersi la Francia penosamente turbata nel sapere che la Santa Sede si adoperava per mantenere l'Italia nella neutralità, BENEDETTO XV avrebbe risposto:
"Riconosco nettamente che eravamo neutralisti; abbiamo dato istruzioni in questo senso ai nostri amici e ai nostri giornali. Volevamo la pace per tre ragioni: anzitutto perché sono rappresentante di Dio sulla terra. Dio vuole che la pace regni tra gli uomini; il Papa non può volere, non può predicare che la pace. Secondariamente siamo in Italia: volevamo risparmiare a questo paese che amiamo le sofferenze della guerra. Infine non possiamo nascondere che abbiamo pensato anche agli interessi della Santa Sede. Lo Stato di guerra mette tali interessi in pericolo. Siamo attualmente in una situazione incerta"

E alla domanda se il Papa non poteva forse sotto la legge delle guarentigie esercitare la sua missione, il Pontefice avrebbe dichiarato:
"Debbo riconoscere che il Governo italiano ci fornisce prova di buona volontà. I nostri rapporti sono migliorati, ma le cose non procedono ancora con nostra piena soddisfazione. Non si poteva per esempio lasciare intatta la mia guardia? Ho bisogno di garantire la sicurezza materiale della mia persona, delle ricchezze che mi circondano, e mi sono state prese venti guardie, parecchi ufficiali, impiegati che non posso facilmente sostituire e sono state mobilitate delle guardie nobili. Ma questo è poco accanto al grave inconveniente di non poter comunicare con i miei fedeli. Il Governo aveva offerto la libertà del cifrario segreto ai rappresentanti delle Potenze accreditate presso di noi, ma sotto il controllo e la responsabilità della Santa Sede. Era troppo pericoloso: ci sarebbero state attribuite indiscrezioni relative a cose di guerra. Ho rifiutato quel nodo e mi è stata promessa libertà di corrispondere fuori il controllo della censura, ma al mio segretario di Stato hanno portato stamattina una lettera del patriarca di Venezia i cui suggelli erano stati spezzati. Il Tribunale della Penitenzeria, che si occupa di affari privati concernenti i fedeli che sottomettono casi individuali di coscienza, ricevette parecchie lettere aperte. Udiamo un solo suono di campana. I rapporti con le Nazioni nemiche dell'Italia sono praticamente soppressi. I rappresentanti di esso accreditati presso di noi hanno dovuto lasciare l'Italia. Le nostre garanzie, i nostri mezzi sono indeboliti. Abbiamo fiducia nel Governo attuale, ma paventiamo di vederci esposti alle incertezze della vita pubblica italiana. Roma è un focolare in perpetuo fermento. Direte forse che sarebbe stato assurdo temere ultimamente una giornata rivoluzionaria. Che accadrà domani ? Come accoglierebbe il popolo una sconfitta? Come si comporterà nella vittoria? Tutti i movimenti di questo popolo che è il più mobile della terra hanno qui il loro contraccolpo e noi oggi ci sentiamo meno protetti. Comprenderete ora perché ci opponevamo con tutte le nostre forze alla rottura della neutralità italiana: l'avvenire è oscuro".

L'intervista che esprimeva anche sentimenti poco benevoli per l'Intesa, produsse naturalmente enorme impressione e suscitò vivace discussione nella stampa e proteste da parte dei Governi dell'Intesa.
Il Governo italiano, il 23 giugno, dall'ufficiosa Agenzia Stefani fece diramare il seguente comunicato a rettifica di alcune dichiarazioni pontificie:


"E' stato pubblicato da un giornale francese il resoconto di una intervista che viene attribuita a S.S. BENEDETTO XV e in essa si fa dire al Pontefice che, per effetto della guerra, i rapporti della Santa Sede con le nazioni nemiche dell'Italia sono in realtà soppressi. Ora, per quanto ci riguarda, fino dalla dichiarazione della guerra si ebbe cura di applicare scrupolosamente e con larghezza di criteri la legge delle Guarentigie, la quale vuole che il sommo Pontefice corrisponda liberamente con l'Episcopato e con tutto il mondo cattolico. Perciò furono date precise istruzioni all'Ufficio di censura della Posta estera che tutte le lettere da e per Sua Santità e il Segretario di Stato fossero senz'altro trasmesse all'indirizzo. Queste disposizioni si estesero anche alla corrispondenza diretta alle varie Congregazioni, come la Penitenzeria, la Concistoriale, il Santo Ufficio ecc. Fra tutte le centinaia di lettere che quotidianamente arrivano alla Santa Sede e da questa partono, due sole furono, per errore, aperte: una diretta alla Segreteria di Stato; l'altra alla Penitenzeria. Ambedue provenivano, non dall'estero, ma dalla zona italiana di guerra. Anche agli Uffici di censura di colà venne quindi dato ordine di far passare liberamente le corrispondenze dirette dalla Santa Sede all'Austria-Ungheria ed esse furono puntualmente spedite per la via della Svizzera. Ma fu l'Austria che non volle riceverle. Due lettere col bollo della Segreteria di Stato - di cui una diretta a monsignor Scapinelli, nunzio a Vienna - che erano state puntualmente spedite in Austria, via Svizzera, furono restituite con dichiarazione scritta sulle rispettive buste che dall'Austria si respingevano perché "provenienti da Paese in guerra". Né vi può essere dubbio intorno al cammino di queste lettere perché avevano impresso il bollo dell'Ufficio postale di Zurigo, il che mostra che l'Italia le mandò in Austria, via Svizzera. Se, dunque, i rapporti fra la Santa Sede e l'Austria sono soppressi o resi difficili, la colpa deve unicamente attribuirsi all'Austria-Ungheria".

Come c'era da aspettarsi non mancarono le attenuazioni e le smentite. Lo stesso 23 giugno la Corrispondenza, di ispirazione vaticana, scriveva che, se il colloquio era vero nella sostanza di alcune affermazioni era inesatto nella forma e nei dettagli; e l'"Osservatore Romano" dichiarava che "il pensiero del Santo Padre intorno al conflitto era stato espresso nei documenti ufficiali (encicliche, allocuzioni concistoriali, e lettere a cardinali e prelati), di cui la Santa Sede assumeva intera responsabilità, e non in private pubblicazioni, che potevano contenere e contenevano inesattezze".
Non bastando queste attenuazioni e parziali smentite a troncare le polemiche e a calmare gli animi, il 28 giugno, il cardinale GASPARRI, segretario di Stato, si lasciava intervistare da un redattore del cattolico "Corriere d'Italia", al quale dichiarava che il Latapie aveva inventato di sana pianta non poche e assai gravi asserzioni, smentiva categoricamente alcuni punti dell'intervista, dei quali faceva rilevare l'illogicità, e a proposito dei rapporti tra la santa Sede e il Governo italiano precisava nel modo seguente il pensiero del Santo Padre:
"E' ben vero che la Santa Sede desiderava che l'Italia rimanesse estranea al conflitto europeo, fatte però dall'Austria opportune concessioni che rimovessero ogni motivo di attrito fra le due Nazioni, e ciò sia perché il Santo Padre, invocando il ristabilimento della pace, non poteva, naturalmente, desiderare che l'incendio invece si estendesse sia perché desiderava che alla diletta Italia nella quale vive, venissero risparmiati i disagi e gli orrori della guerra, sia finalmente perché era preoccupato della situazione delicata in cui si sarebbe trovata o poteva trovarsi la Santa Sede se l'Italia fosse entrata nel conflitto. L'espressione di "popolo più mobile della terra" applicata al popolo italiano è di creazione del signor Latapie. Quando la storia pubblicherà ciò che in proposito ha fatto la Santa Sede, la Nazione italiana ne avrà, non un sentimento di rancore, ma piuttosto un sentimento di amore e di riconoscenza. La guerra, invece, fu dichiarata; e da allora Sua Santità si è stretto, anche per il conflitto italo-austriaco, nella più assoluta neutralità, non dimenticando nel dolore che i combattenti delle due parti sono suoi figli. Allo stesso tempo, però, non solo ha ostacolato in modo alcuno ai cattolici italiani di comportatisi come i migliori fra i cittadini, ma ha provveduto all'assistenza morale e religiosa dei soldati e ha consentito caritatevolmente che in locali dipendenti dalla Santa Sede i soldati malati o feriti potessero trovare cura e assistenza. Riconosciamo che il Governo ha posto buona volontà nell'attenuare non poche difficoltà che la Santa Sede prevedeva inevitabili in tempo di guerra per la forza stessa dell'attuale sua situazione. Così, per restringerci alla corrispondenza, esso ha dato ordine affinché fosse esente da censura la corrispondenza col Santo Padre, con la Segreteria di Stato e con alcuni altri dicasteri pontifici; e noi non facciamo alcun caso di alcune lettere, non molte in verità, che, nonostante l'ordine del Governo e senza sua colpa, sono giunte aperte dalla censura.
Ma dovrà dedursi da ciò che l'attuale situazione della Santa Sede sia normale e che il Papa debba definitivamente accettarla ? No certo, perché Sua Santità, per rispetto alla neutralità, non intende punto creare imbarazzi al Governo e mette la sua fiducia in Dio, aspettando la sistemazione conveniente della sua situazione, non dalle armi straniere, ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia, che auguro si diffondano sempre più nel popolo italiano in conformità del verace suo interesse".

Con queste dichiarazioni e, più tardi, con una lettera dello stesso BENEDETTO XV al cardinale AMETTE, che fu pubblicata il 29 luglio, si chiudeva l'incidente provocato dal Latapie. Il giorno prima della pubblicazione della sua lettera, nell'anniversario dello scoppio del conflitto, il Pontefice rivolse un appello ai popoli belligeranti e ai loro capi, esortando questi ultimi a iniziare uno scambio di vedute allo scopo di giungere alla pace; ma l'appello non sortì l'effetto desiderato e allora il Santo Padre, afflitto ma rassegnato all'insuccesso della propria iniziativa, scrisse al presidente degli Stati Uniti pregandolo di farsi mediatore fra le potenze di quella pace che la Santa Sede e il mondo desideravano.
La pace però sembrava che volesse allontanarsi sempre di più e, dovunque, era un fervore straordinario di opere intese ad alimentare il mostro voracissimo che era la guerra e che ben presto, anche e specialmente in Italia, faceva quel mostro drammaticamente crescere: creando il problema della produzione bellica e delle munizioni, il problema scientifico, quello tecnico, quello economico e quello sociale. Per quello politico, il problema era ancora più drammatico e continuò e diventò ancora più grave a guerra finita e nei tre anni che seguirono.

Allo scopo di studiare e di risolvere i problemi accennati sopra, per iniziativa del Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Milano e della sezione milanese dell'Associazione Elettrotecnica Italiana, si costituiva il Comitato Lombardo di preparazione per le munizioni, il quale si proponeva "di svolgere, in collaborazione ed in subordine con l'autorità militare, un'azione intesa a promuovere e coordinare la capacità produttiva delle officine meccaniche della regione lombarda e limitrofe, con particolare riguardo alle officine minori, in modo da assicurare regolarità e continuità nella produzione delle munizioni in genere e dei proiettili d'artiglieria in specie".

Ma non soltanto dall'iniziativa privata poteva essere risolto un così grave problema. Non poteva disinteressarsi il Governo, che infatti, il 5 luglio, pubblicava un decreto, firmato dal Re al Quartier Generale il 26 giugno, il quale disponeva quanto segue:

Art. 1 - Durante la guerra, per assicurare gli approvvigionamenti resi dalla guerra necessari, saranno applicate le disposizioni contenute negli articoli seguenti:
Art. 2 - Per le provviste delle munizioni e di tutti gli altri materiali da guerra il Governo ha facoltà di imporre o far eseguire le opere occorrenti per aumentare la potenzialità di quegli stabilimenti dell'industria privata la cui produzione sia, in tutto o in parte, ritenuta necessaria per gli acquisti e i rifornimenti riguardanti le amministrazioni della Guerra e della Marina.
Art. 3 - Per l'applicazione del disposto dell'art. precedente saranno presi, con chi di ragione, gli opportuni accordi d'indole tecnica e finanziaria. Mancando l'accordo, la decisione sarà deferita al Collegio arbitrale di cui all'art. 10.
Art. 4 - Allo scopo di accertare il grado di potenzialità degli stabilimenti di cui all'art. 2, è fatto obbligo al personale comunque addetto, o che vi abbia interesse, di fornire ogni e qualsiasi informazione fosse ad esso richiesta. I colpevoli di rifiuto, reticenza o falsità saranno puniti con la reclusione fino a tre mesi o con la multa da lire 50 a lire 1000.Le informazioni per tal modo assunte sono coperte dal segreto d'ufficio.
Art. 5 - L'autorità militare può ordinare a qualsiasi stabilimento la costruzione di macchine e di oggetti su disegni di un'altra ditta alla quale sarà dato, volta per volta, conforme avviso. Tali disegni rivestiranno i caratteri di documenti segreti d'ufficio e alla ditta cui esse appartengono spetterà un'indennità da stabilirsi in equa misura con le norme previste dal regio decreto 29 gennaio 1915 n. 49 per l'espropriazione dei diritti di privati.
Art. 6 - Restano ferme, per quanto riguarda le requisizioni, tutte le disposizioni del regio decreto 22 aprile 1915 n. 506, salvo quella per la determinazione dell'indennità per le prestazioni personali, che saranno stabilito senz'altro dalle autorità militari competenti.
Art. 7 - Gli industriali non si possono rifiutare alla fabbricazione e fornitura del materiale necessario agli usi di guerra. Nel caso che essi richiedessero prezzi eccessivamente elevati dovranno accettare i corrispettivi che saranno dall'Amministrazione stabiliti per ciascuna fornitura o prestazione, salvo diritto a reclami che saranno giudicati dal Collegio arbitrale composto come all'art. 10.
Art. 8 - E' data facoltà al Governo di dichiarare soggetto alla giurisdizione militare, in tutto o in parte, il personale degli stabilimenti che producono materiale per l'esercito o per l'armata ogni qualvolta ciò occorra per assicurare la continuità e lo sviluppo della produzione richiesta dalle esigenze della guerra.
Art. 9 - I nostri ministri della Guerra, della Marina e del Tesoro emaneranno, di concerto fra loro, gli opportuni provvedimenti per l'attuazione delle disposizioni del presente decreto.
Art. 10 - Ogni controversia, che fosse per derivare dall'applicazione del presente decreto, è demandata al giudizio di un Collegio di tre arbitri, uno designato dall'Amministrazione, un altro dall'industriale e il terzo nominato con decreto, su proposta del Presidente del consiglio dei Ministri. Le discussioni del Collegio arbitrale non sono soggette ad appello né a ricorso né a qualsivoglia altro gravame".

Con decreto regio del 9 luglio fu pure istituito un "Comitato Supremo delle Armi e Munizioni", formato dal presidente del Consiglio e dai Ministri degli Esteri, del Tesoro della Guerra e della Marina. Vi potevano far parte altri ministri quando il Comitato avrebbe dovuto deliberare sopra argomenti attinenti alle loro rispettive competenze e potevano esservi chiamati, senza diritto di voto, funzionari civili e militari o persone di alta e riconosciuta competenza militare, industriale e commerciale.
Ne faceva parte altresì, con voto consultivo, il Sottosegretario di Stato per le Armi e Munizioni, istituito con lo stesso decreto presso il ministero della guerra. Questa carica, con decreto regio di pari data, veniva conferita al ten. gen. ALFREDO DALLOLIO.
Contemporaneamente veniva costituito a Roma sotto la presidenza del senatore generale ROBERTO MORRA di Lavriano, un "Comitato nazionale per il munizionamento", che si metteva in relazione con il già accennato Comitato lombardo, il quale intanto svolgeva un'attività encomiabile mandando ingegneri nei centri industriali della Lombardia e delle province vicine per costituirvi nuclei di costruttori.

Il problema delle munizioni e delle armi portava con sé un altro problema, quello della mano d'opera. Per risolvere questo secondo problema era necessario rimandare dall'esercito alle officine gli operai meccanici mobilitati; ma questa operazione richiedeva un certo tempo per esser compiuta; e intanto si verificavano due deplorevoli inconvenienti: gli stabilimenti industriali si contendevano gli operai offrendo condizioni inverosimilmente ottime, e molti millantati meccanici improvvisati si imboscavano nelle officine per non andare al fronte. Vi era anche di più: si aprivano e si improvvisavano perfino delle officine di munizionamento per dare rifugio a chi aveva poca o nessuna voglia di lavorare e di combattere.

Questa degli imboscati fu una tristissima e vergognosissima piaga della guerra, che non poté mai essere sanata, che fu causa di rovinosi malcontenti fra i combattenti, indusse moltissimi, andati in licenza, a disertare, e costituì una classe di "sovversivi" la quale riceveva altissime paghe e, non contenta di salvare la pelle, imprecava e nutriva un profondo disprezzo nei confronti dell'esercito e della guerra.

Più tardi, "disboscato" il Paese in parte, porterà in zona di guerra, fra i soldati stanchi, i tristi germi del dissolvimento e del disfattismo che, fortunatamente, non diedero frutti copiosi.
Né fu, del resto, la sola piaga. Un'altra piaga non meno vergognosa fu quella dei pescecani, grossi e piccoli, gente senza scrupoli e senza patria, che con le industrie di guerra, con le forniture allo Stato, con le mediazioni d'ogni specie, arricchì in poco tempo e durante e dopo la guerra diede non solo di sé uno spettacolo ripugnante a quanti in trincea rischiavano o avevano rischiato la vita per la redenzione della Patria, ma crearono forti tensioni sociali.
Ma di questo parleremo molto più avanti, negli anni del dopoguerra.

Dobbiamo ora in questo 1915, mentre in Italia si combatte, fare una parentesi (la cronaca la riprenderemo dopo) ed occuparci, delle conquiste fatte in precedenza in Africa, in Libia, e della impossibilità di occuparsi il Governo della salvaguardia della colonia; fronteggerà in qualche modo la nuova situazione, ma alla fine fu costretto a dichiarare guerra alla Turchia.

Lo leggeremo nel prossimo capitolo.....

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