LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1917

RITIRATA AL PIAVE
CONFERENZA RAPALLO-PESCHIERA - DIAZ AL COMANDO

DAL TAGLIAMENTO AL PIAVE - I CONVEGNI DI RAPALLO E DI PESCHIERA
IL GENERALE DIAZ SOSTITUISCE IL GENERALE CADORNA AL COMANDO SUPREMO
LA BATTAGLIA DI VIDOR


9 novembre, il generale Armando Diaz, assume il Comando Supremo

DAL TAGLIAMENTO AL PIAVE

Il 31 Ottobre fu stabilito di costituire intorno a Pordenone, sotto il comando di S. A. R. il Conte di Torino e alle dipendenze della II Armata, una massa celere di manovra, costituita dalle quattro divisioni di cavalleria, dai battaglioni ciclisti, dalle batterie a cavallo, da batterie autoportate e da compagnie di auto mitragliatrici; ma questa massa non poté dare quel rendimento che avrebbe potuto poiché le prime due divisioni di cavalleria avevano subito in quei giorni fortissime perdite e le altre due si trovavano ancora in Lombardia e in Piemonte dov'erano state chiamate per i moti dell'agosto a Torino.

Quel giorno stesso CADORNA sollecitava il Comando della IV Armata di accelerare il ripiegamento al Piave e ordinava al Comando della II di prolungare a qualunque costo la resistenza sulla sinistra del Tagliamento. Intanto il Corpo Speciale del generale DI GIORGIO andava organizzando la difesa della destra del fiume e sopra i ponti di Latisana e di Mandrisio si andavano riversando le truppe che non avevano potuto servirsi di quelli di Codroipo; mentre il Gruppo Scotti convergeva rapidamente verso Cornino e verso l'altura di Ragogna tenuta dalla brigata "Bologna".
Il 1° novembre il nemico attaccò con più forze la posizione di Ragogna e gli italiani furono costretti a far saltare il ponte di Pinzano che difendeva la posizione, ma sacrificando sulla sinistra la brigata "Bologna". Questa, che da tre giorni combatteva, si difese ancora disperatamente, ma poi buona parte fu catturata mentre altri riuscirono a disperdersi (senza per questo essere dei "codardi", visto che il Comando gli aveva letteralmente "tagliato i ponti").

Anche la testa di ponte di Latisana fu attaccata dal nemico e dovette essere sgombrata. E anche questo strategico ponte fu fatto saltare.
La sera del l° novembre il nemico occupava tutta la sponda sinistra del Tagliamento. La 94a divisione austro-ungarica, scesa in Carnia, raggiungeva la linea Ovaro-Val Degano-M.Pleros-M.Paralba
.
Quel giorno il Comando Supremo, nel suo bollettino serale annunciava che

"le nostre truppe, eludendo il piano dell'avversario con la manovra prontamente decisa e ritardandone l'avanzata col valoroso contegno dei reparti di protezione, avevano compiuto, per quanto in condizioni strategiche e logistiche estremamente difficili, il ripiegamento al Tagliamento"
.

E, quasi a fare ammenda delle ingiuste accuse lanciate nel bollettino del 28 (quello di Cadorna ricordato sopra) nei confronti di alcune unità dell'esercito grigioverde, tributava molte lodi alla III Armata, "magnifico esempio di compattezza e di forza" alla 1a e alla 2° divisione di cavalleria, specie ai reggimenti "Genova" e "Novara", "eroicamente sacrificatasi", e agli aviatori, "prodigatisi instancabilmente" che meritavano "l'ammirazione e la gratitudine della Patria".

Il 2 novembre il nemico tentò a più riprese di passare il Tagliamento; questi suoi tentativi furono intensificati la sera fra Cornino e Pinzano, e verso la mezzanotte, truppe avversarie riuscirono a mettere piede sulla riva destra allo sbocco del ponte ferroviario di Cornino e si spinsero fin verso il ponte di Flagogna sull'Arzino. Anche a sud di Pinzano, di fronte a Valeriano, forzata la linea tenuta dalla brigata "Barletta", l'avversario riuscì a passare il Tagliamento, puntando quindi su Clauzetto e Travesio.
Ora diventava tutto piuttosto serio!

Il Corpo Speciale del DI GIORGIO riuscì per tutto il giorno 2 a contenere la pressione nemica sulla linea Valeriano-Madonna del Zucco-Paludea, ma il 3, attaccato con grande violenza da forze preponderanti perse, dopo tenacissima resistenza, il mattino, Paludea e, nel pomeriggio, Travesio e fu costretto a riparare dietro il Meduna conservando Sequals come testa di ponte, mentre il nemico spingeva reparti nella Val Meduna fino a Novarons, dove si scontrarono con truppe della 26a divisione.

Il 3 e 4 novembre nuove forze nemiche entrarono in azione: le armate austro-tedesche del Trentino del maresciallo CONRAD, che cominciarono ad operare al Colbricon, alle Tre Croci e nell'alto Boite e il giorno dopo occuparono Cortina d'Ampezzo.
Quello stesso giorno iniziò il ripiegamento della IV Armata italiana, che il suo comandante, generale di ROBILANT era riluttante ad effettuare nonostante i reiterati ordini di Cadorna; e quello della III e della II Armata, che dovevano marciare, quella tra le lagune, e la strada San Vito-Ponte di Piave, questa a destra e a manca della strada Pordenone-Conegliano, con una sosta più o meno lunga sul Livenza o sul Monticano.

Ricominciò lo sfilare di colonne interminabili di fanti, di carriaggi, d'artiglierie, di profughi, bersagliate inesorabilmente dagli aeroplani nemici; ma non c'era più il disordine dei giorni scorsi: in molti soldati lo scoramento aveva fatto posto alla rabbia e al desiderio di vendetta, in molti altri era sorta la convinzione che il gettare le armi e il voltare le spalle al nemico non avrebbero prodotto la pace, ma giovava solo agli avversari. Un nuovo spirito animava le truppe ripieganti e un diverso contegno tenevano anche per l'energia ferrea del generale GRAZIANI, nominato ispettore del movimento di sgombro. Non poche truppe si univano al Corpo Speciale del DI GIORGIO, altre e volentieri si offrivano per la difesa della linea del Tagliamento; ed intorno ad ufficiali attivi ed energici (ma come vedremo anche intorno a un semplice caporale) si raccoglievano soldati d'ogni arma per disciplinare il ripiegamento o improvvisare difese e resistenze; gli sbandati andavano ritrovando i loro corpi, richiamati da cartelli inchiodati su pali che indicavano il luogo di radunata. E intanto le voci più disparate correvano, prodotte forse solo dal desiderio, ma purtroppo rimasero tali, che era stata ripresa Gorizia, conquistato l'Hermada, occupata Trieste.

Altre voci, correvano fra i soldati, ma queste erano più vere e contribuivano non poco a rialzare il morale: gli Alleati mandavano aiuti e girava la notizia che le prime truppe francesi erano già giunte in Italia il 30 ottobre dopo che il generalissimo FOCH in una riunione a Treviso con CADORNA aveva preso l'impegno di inviare 6 divisioni a Mantova; e lo stesso impegno fu preso il giorno seguente dagli Inglesi disposti ad inviare 4 divisioni a Brescia comandate dal generale ROBERTSON; per essere entrambi pronti a fronteggiare sia un'invasione degli austro-tedeschi dal Trentino, sia la temuta avanzata degli stessi se cedeva il Tagliamento.
Era evidente che il compito di queste truppe fosse quello di creare una linea di copertura delle Alpi francesi, nel caso che un disastro apparisse ancora più irreparabile.
Ma erano passate solo ventiquatt'ore, quando il Tagliamento era già perso, e a fatica le armate di Cadorna riuscirono a raggiungere il Piave.

Era piuttosto triste, ma molti capirono che la ritirata stava per finire, che doveva finire lì.
Ormai non era più una questione politica o militare, ma era diventata una questione d'orgoglio di una nazione. Paradossalmente nell'ora più triste, mai gli italiani si erano ritrovati ad essere così italiani. Cominciava già la riscossa e non era ancor finito il ripiegamento. E furono questi a prendere l'iniziativa, là dove tutti, politici e militari, erano falliti.
Ognuno prese coscienza che più la fuga li portava lontani dal nemico, più mettevano in pericolo la patria, le famiglie e loro stessi.
Fu così, che la massa - soldati d'ogni regione- scoprì di avere una sua personalità e una sua forza; ignorando sia i retorici proclami, sia il disfattismo di alcuni socialisti, sia gli incitamenti intellettuali marinettiani. Loro ora sapevano cosa dovevano fare!

Alcuni intellettuali nell'ora dolorosa vollero recarsi al fronte a "dire qualcosa" (qualcuno disse che questa era la "seconda tragedia" sul fronte); quelli veramente più attenti, di ogni colore, scoprirono attoniti per la prima volta cos'era veramente il fronte, e com'era la fronte del viso rabbioso di chi aveva subito una (annunciata) disfatta. Per quest'ultimi intellettuali fu un evento traumatico e nello stesso tempo straordinario; scoprendo quale "altra Italia" era al fronte.

SOFFICI, accorso anche lui a Cividale in pieno caos, in
"La Ritirata del Friuli", 1919, così descrive quest'impatto con la realtà osservando un gruppo di Arditi, in fuga ma non vinti:

"…sopra un terrazzino, in cima alla scaletta del municipio, uno di loro, un caporalmaggiore, circondato da tre o quattro soldati sta tentando di fare un po' di silenzio per arringare i compagni. Ottenutolo, comincia a parlare. Ma non è un discorso il suo: sono frasi slegate lanciate nell'aria con voce gagliarda, incalzatisi come colpi tirati in fretta e furia a bruciapelo. Efficaci, tuttavia, perché piene di sincerità e di fuoco. Il nome d'Italia, della cara Patria, viene e ritorna continuamente, accompagnato da parole di coraggio, di fierezza e di fede. Dice che nessuno si allarmi o tema; se le notizie che arrivano da lassù sono brutte, la speranza resti viva: la gente d'Italia conosce la sciagura e sa affrontarla e superarla. I soldati d'Italia, gli arditi della Patria, son tutti pronti a morire purché viva la Madre. Il nemico non può, non deve vincere: e non vincerà.
Ed è l'anima del popolo italiano -lo sento- che in questo momento si esprime per la bocca di questo suo figlio oscuro…Una commozione indicibile s'è comunicata al mio cuore per questo spettacolo di gioventù eroica; una profonda gioia. E' la prima volta in questi anni di guerra che un fatto di questa specie, tanto semplice ma pur tanto eloquente, colpisce il mio spirito.
Adesso credo anch'io, con più forza, che nulla è perduto, poiché la mia fede è anche nell'anima della gioventù".

Curzio Malaparte, fu anche lui sgomento e nello stesso tempo sorpreso. In
"La rivolta dei santi maledetti", addirittura esalta questi soldati in rotta, le virtù umane e militari della massa dei combattenti, gli umili fanti, amareggiati solo dall'ingiustizia; ne giustifica la fuga dandone le responsabilità ai cinici e incapaci alti comandi e ai parlamentari "romani". Quanto grandissimo eroismo sprecato e sfortunato! Ma coraggioso; e la stessa capacità di lottare soltanto poche settimane dopo avrebbe animato i difensori del Piave, del Grappa, del Montello.
Eppure, come il solito, non mancarono i proclami "del terrore", come se non bastasse quello del nemico.

Un'ordinanza del Comando Supremo (ovviamente di Cadorna) in data del 4 novembre era piuttosto esplicita a questo riguardo:

"Il militare appartenente all'Esercito mobilitato che per qualsiasi motivo anteriormente al 1° novembre c. a. si è sbandato, ha l'obbligo di presentarsi ad un'Autorità militare qualunque entro 5 giorni dalla pubblicazione di quest'ordinanza .... Chiunque entro la zona di guerra dopo 5 giorni dalla pubblicazione di quest'ordinanza si sottrarrà o concorrerà a sottrarre alle ricerche delle Autorità il militare sbandato e gli somministrerà vitto od alloggio, favorirà il reato, e sarà punito con la reclusione da 3 a 15 anni".

Alla pena riservata al "militare codardo" non si accennava; ma conoscendo i metodi di Cadorna, non c'era da farsi benevoli illusioni per i malcapitati.

Per il valoroso contegno delle truppe del generale DI GIORGIO, di quel proclama di Cadorna non ce n'era bisogno; loro stessi disciplinarono la ritirata (non la fuga) verso il Piave. Anche se purtroppo non riuscirono a salvare la 26a e la 36a divisione del Gruppo Carnico, e la 63a che erano corse in loro aiuto da Palmanova, ma erano rimaste accerchiate mentre scendevano al piano, dalle truppe del Krobatin e da quelle del Krauss e dello Stein.
La sorte delle ultime due divisioni fu triste. Concentratesi nella conca di San Francesco, tentarono, suddivise in colonne, di raggiungere la Livenza. La colonna più forte, il mattino del 5 novembre, puntò su Clauzetto, un'altra colonna su Tramonti, una terza su Vico d'Asio; una forte retroguardia rimase a S. Francesco. Ma la prima fu costretta a schierarsi presso Case Forni e ad impegnarsi in combattimento, la seconda, attaccata da forze superiori, fu catturata. Quasi completamente accerchiate, le due divisioni furono praticamente fatte prigioniere totalmente. Il comandante della 63a, generale FRANCESCO ROCCA, con un centinaio di uomini riuscì a sfuggire alla morsa nemica; la sera del 6 si rifugiò sulla vetta del Fajet; vagò su per i monti alcuni giorni; il 9 combatté a Selis; con un pugno dei suoi uomini scese poi presso Aviano e dopo molte avventure giunse alla foce del Tagliamento e montato sopra una barca sperava di raggiungere Venezia ma fu scoperto dal nemico e catturato.

Magnifica resistenza fecero alcuni corpi della 36a divisione nelle opere fortificate di Monte Festa e Monte S. Simeone, che solo il 7 caddero in potere del nemico, dopodiché i difensori, privi di munizioni, premuti da ogni parte dall'avversario, fatte saltare le opere, e come stimolante compagna più solo la disperazione, si lanciarono alla baionetta, con il folle proposito di spezzare il cerchio che li stringeva.
Il 6 novembre, coperti dalle loro retroguardie, i corpi d'armata dislocati nella pianura continuarono il ripiegamento verso il Piave. Ripiegarono pure i corpi della IV Armata.
Premendo il Gruppo Krauss, arretravano le difese di Palla Bazzana nelle Prealpi Carniche e il nemico occupava Barcis.
Casera Razzo, presidiato da un distaccamento della 26a divisione, fu occupata dalla 94a divisione austriaca; Santo Stefano di Comelico dal Gruppo Fosser; Borea in Val Boite, Alleghe in Val Cordevole e San Martino di Castrozza in Val Cismon erano oltrepassate da reparti del XX Corpo austroungarico.

Il 7 novembre, il Corpo Speciale del DI GIORGIO, che il giorno prima si era ritirato alla Livenza, premuto dal nemico, continuò il ripiegamento e, passato i Monticano, si schierò tra S. Pietro di Feletto e Conegliano.
Quel giorno stesso il grosso della III Armata passava sulla destra del Piave, mentre il nemico superava la resistenza delle retroguardie sulla linea della Livenza a Polcenico, a Brugnera, tra Meduna e Motta e S. Anastasio e costringeva le retroguardie della II Armata a ripiegare sulla linea Colle Umberto-Pianzano-Bibano-Gaiarine-Porto Buffolè.
Nel frattempo a Pieve di Soligo si erano concentrati da qualche giorno, ridotti di numero, per i numerosi combattimenti vittoriosamente sostenuti durante la ritirata, ma sempre baldi e fieri, i sei reparti "arditi" delle "Fiamme Nere" del colonnello BASSI.
Nelle Prealpi ripiegavano su Cimolais, ma respingevano il nemico alla forcella Clautana. Lorenzago però cadeva nelle mani degli avversari.

Il 7 novembre Cadorna lanciava all'esercito il seguente ordine del giorno:
"Con indicibile dolore, per la suprema salvezza dell'esercito e della nazione, abbiamo dovuto abbandonare un lembo del sacro suolo della Patria, bagnato dal sangue glorificato dal più puro eroismo dei soldati d'Italia. Ma questa non è ora di rimpianti. È ora di dovere, di sacrificio, di azione. Nulla è perduto se lo spirito della riscossa è pronto, se la volontà non piega. Già una volta sul fronte trentina, l'Italia fu salvata dai difensori eroici che tennero alto il suo nome in faccia al mondo ed al nemico. Abbiano quelli di oggi l'austera coscienza del grave e glorioso compito a loro affidato, sappia ogni comandante, sappia ogni soldato qual è questo sacro dovere: lottare, vincere, non retrocedere di un passo. Noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove posizioni raggiunte, dal Piave allo Stelvio, si difende l'onore e la vita d'Italia. Sappia ogni combattente qual è il grido e il comando che viene dalla coscienza di tutto il popolo italiano: morire non ripiegare!".

Purtroppo continuò a dare ordini di ripiegare.

Al ripiegamento sul Piave collaborò in modo lodevole la Marina.
"Sotto l'imperversare degli elementi, dei proiettili, delle bombe durante il recente ripiegamento determinato da esigenze strategiche - scriveva in un ordine del giorno il viceammiraglio Thaon di Revel - i Presidi di Marina mantennero con salda disciplina le loro avanzate posizioni costiere fino a movimento assicurato. Adempiuta tale missione essi hanno recuperato e messo in salvo con ordine perfetto, nonostante l'incalzare del nemico e le condizioni del mare quanto mai avverse, il prezioso materiale da guerra loro affidato, ed ora è già pronto ad affrontare il nemico nelle nuove posizioni".

Il ripiegamento fu diretto dal contrammiraglio MARZOLO, il quale, nella sua relazione, elogiò il magnifico contegno dei marinai italiani:
"Né esitazioni, né scoramento ebbero i marinai; essi fronteggiarono la dura necessità con animo virile: cosicché si ebbero anche in quelle tristi giornate atti di eroismo e di abnegazione che hanno contribuito a facilitare il mio compito, in un momento in cui la delusione ed il panico avrebbero potuto mutare in disastro quella ritirata".

Ricevuto il 29 ottobre pure loro l'ordine di sgombero, le forze della Marina della zona di Grado e Monfalcone provvidero allo smantellamento delle batterie. Il materiale più pesante si trasportò per via mare; per canali interni furono avviati i galleggianti minori; alcune batterie rimasero a controbattere quelle avversarie fino a movimento assicurato; reparti di marinai, il 3 novembre, sostarono sul basso Tagliamento a protezione del ripiegamento; imbarcazioni leggere armate furono adibite su questo fiume in servizio di sicurezza; le squadriglie Animoso e Orsini incrociarono continuamente presso la costa italiana vigilando le mosse della flotta austriaca.
Nell'opera di ripiegamento si distinsero il contrammiraglio MARZOLO, i comandanti RIZZO, DENTICE, ANTONA TRAVERSI, PAOLETTI, BIANCHERI e il capo delle torpediniere di scorta, SCAPIN.

LE RIPERCUSSIONI DELLA SCONFITTA

L'esito della 12a battaglia dell'Isonzo, non era quasi più una battaglia ma una guerra perduta; e non poteva, non avere ripercussione presso gli Alleati, sui quali l'insuccesso italiano ricadeva un po' di responsabilità avendo loro sempre voluto considerare il fronte italiano come secondario, e tutte le volte che erano state richieste truppe per l'Italia, si erano rifiutati di mandarle, anzi prima dell'offensiva austro-germanica, erano state ritirate perfino le batterie che avevano in precedenza inviate.

Dopo la riunione di Treviso avvenuta il 30 ottobre, ma soprattutto dopo la ritirata sul Tagliamento, truppe francesi e inglesi erano intenzionate ad agire in Italia sotto il comando del generale FOCH. Ma non era sufficiente solo questo aiuto materiale, occorreva unificare l'indirizzo delle operazioni sui vari fronti e costituire anche un comitato di guerra interalleato; si pensò di discutere su queste delicate questioni, e di trattare gli aiuti da inviare, in un convegno degli alleati dell'Intesa, per il giorno 6 novembre a Rapallo.

I CONVEGNI DI RAPALLO E DI PESCHIERA


Questo era stato deciso il 30 ottobre, ma il 2 novembre la linea del Tagliamento era stata sfondata; Cadorna aveva già dato l'ordine di ripiegare sul Piave; e già a Roma, sgomento, il governo Orlando appena costituito, il giorno 3 novembre riunì il consiglio dei ministri e si pronunciò a favore della destituzione del generale Cadorna.
Poi seguì il 6 novembre la riunione interalleata di Rapallo e vi convennero per l'Italia il neopresidente del consiglio ORLANDO, con SONNINO, ALFIERI, BISSOLATI e il sottocapo di Stato Maggiore, GENERALE PORRO; per l'Inghilterra LLOYD GEORGE e i generali SMULTS, ROBERTSON e WILSON; per la Francia PAINLEVÉE, FRANKLIN BOUILLON, l'ambasciatore BARRÈRE e il generale FOCH.
Il disastro italiano era ormai al suo culmine e le notizie drammatiche si accavallavano di ora in ora. Al convegno i rappresentanti italiani non erano neppure in grado di dire dov'era veramente in quelle ore l'esercito italiano, né cosa aveva in mente di fare Cadorna, che seguitava ad essere ottimista, ma intanto impartiva ordini di ritirata a destra e a manca.

"Nel convegno di Rapallo - sono parole dell'on. Orlando - i nostri alleati intesero innanzi tutto formarsi un concetto della gravità del disastro che ci aveva colpiti e della possibilità di portarvi rimedio; il che, dal loro punto di vista, significava sapere se convenisse di distrarre un certo numero di forze dal loro fronte per portarle al nostro. Furono quelle per noi ore di vera angoscia ! Negli Stati maggiori alleati si riproduceva il vecchio contrasto: già nella primavera e nell'estate del 1917 a Roma si era discusso se conveniva portare tutti gli sforzi dell'Intesa sul fronte italiano per cercare di aver ragione definitivamente dell'esercito austriaco.
E' noto, che LLOYD GEORGE, a Roma sostenne quest'ultima risoluzione, che però era stata avversata dal generale ROBERTSON aiutato dal Comando francese, il quale preferiva che nessuna forza fosse distratta dal proprio fronte. Sotto un altro aspetto, e in condizioni assai più gravi per noi, tale dissenso si ripeteva a Rapallo. Prevalse l'opinione che fu sostenuta anche da FOCH, di consentire l'invio in Italia di truppe alleate, ma la risoluzione di massima lasciava sempre aperte molte questioni particolari la cui gravità non era certo minore e che era relativa al numero delle truppe da inviare, il momento di farle entrare in azione, ed infine il comando. Tra queste perplessità, si ritenne opportuno dai Capi di governo e degli stati maggiori alleati di conferire con il Re e fu così indetta una riunione a Peschiera, come in un luogo in un certo modo intermedio tra Rapallo ed il fronte".

Nel convegno di Rapallo prima di chiuderlo, fu decisa la costituzione di un Consiglio Supremo di guerra, composto del primo ministro e di altri membri del Governo di ciascuna delle grandi potenze occidentali belligeranti, che doveva vigilare la condotta della guerra, formulare le proposte da sottoporsi alla decisione dei Governi, esaminare i piani generali elaborati dalle competenti autorità militari e proporre le modifiche, e riunirsi mensilmente a Versailles.
Nello stesso convegno fu deciso anche l'esonero del generale Cadorna da capo di Stato Maggiore dell'Esercito italiano. Però fu poi nominato delegato italiano nel Consiglio Supremo di Guerra, carica che prima Cadorna rifiutò e che poi a seguito delle vivissime preghiere del Re e dei ministri accettò.

Nel convegno di Peschiera, che avvenne tre giorni dopo, l'8 novembre, VITTORIO EMANUELE III illuminò i convenuti sulle condizioni dell'esercito italiano, spiegò con grande lucidezza le cause dell'insuccesso riconducendone alle giuste proporzioni le conseguenze e precisando il carattere di esso, affermò con commossa parola le virtù militari sel suo esercito, ne escluse la dissoluzione, ne confermò i propositi di resistenza e di rivincita, dichiarò che per il momento la difesa sulla linea del Piave sarebbe fatta da sole truppe italiane ed espresse con tanto calore la propria fede nel risveglio della coscienza nazionale che tutti coloro che l'ascoltavano ne furono impressionati e convinti.

Di quest'incontro, ci piace riportare questa versione di Alberto Consiglio, in "Vittorio Emanuele, il re silenzioso". Rizzoli, Le 11 puntate su "Oggi", 1950, poi uscito in volume):

"Si è ripetutamente affermato, da parte di autorevoli scrittori e giornalisti, l'Ojetti per esempio, e Ostello Cavara, che fu il Re a Peschiera, che riuscì a rassicurare gli alleati e a persuaderli a prestare gli aiuti necessari per la resistenza sul Piave. In seguito, questo decisivo intervento di Vittorio Emanuele fu negato, e si volle sostenere che a Rapallo la decisione di porre la linea di resistenza sul Piave fu presa senza che in essa influisse il parere del Re. Si comprendono le ragioni polemiche di questo disconoscimento. Guardiamoci dal lasciarci trascinare dall'opposto zelo polemico e teniamoci alla più autorevole e serena e disinteressata delle testimonianze: quella di LLOYD GEORGE, il quale narra come Robertson e Foch fossero nettamente contrari, a Rapallo, ad ogni aiuto all'Italia e come lui stesso avesse avuto un' "impressione negativa" dalla esposizione della nostra situazione militare fatta dal generale Porro (che passava per essere un gran cervello di guerra).
A Rapallo venne sì preso in "considerazione" il proposito di stabilire la difesa sul Piave: ma gli alleati non riuscirono ad ottenere informazioni adatte sulle quali fondare delle decisioni che implicavano l'impegno e il rischio di numerose divisioni, sottratte alle riserve del fronte occidentale.

Comunque nelle sue memorie, Lloyd George narra che la conferenza venne "interrotta" a Rapallo e "ripresa" a Peschiera alla presenza del Re. Quindi, nessuna "decisione" era stata presa a Rapallo. Inoltre Lloyd Gorge, che aveva dato solo fugaci riassunti della conferenza di Rapallo, pubblica invece integralmente il verbale dell'incontro di Peschiera, che definisce "storico".
Da questo verbale risulta che Vittorio Emanuele III fece una diffusa e approfondita analisi della situazione, indicando minuziosamente le cause della disfatta e le possibilità di recupero e di resistenza.
Se in Italia in quei momenti, esercito, politici, comandanti, avevano perso la testa, solo lui (che era rimasto in silenzio quasi tre anni senza mai interferire - del resto Cadorna non lo permetteva) fu l'unico in quelle ore ad avere le idee chiare.

Idee chiare anche sulla questione del perché non aveva nominato all'alta carica il popolarissimo duca d'Aosta. (Una personale tragedia che si celava dietro la sua gelida calma). Il Re dette la spiegazione a Bissolati (che la riferisce nel suo diario di guerra). Nel caso disperato egli avrebbe abdicato per sé e il figlio. E l'uomo adatto a salvare la dinastia e a stipulare una pace separata, sarebbe stato proprio il duca d'Aosta. E non voleva rischiare la popolarità del comandante della Terza Armata in una nuova, irreparabile disfatta.
Lloyd Gorge dice testualmente: "Io sono stato molto impressionato dalla calma e dalla forza che egli dimostrò in un'occasione come quella, in cui il suo Paese e il suo trono erano in pericolo. Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito fosse fuggito, e trovava mille scuse e giustificazioni per questa ritirata".
C'era un precedente. E il Re cominciò con il dichiararsi addolorato che la conferenza di Roma non avesse seguito il consiglio di Lloyd George. Costui replicò dichiarandosi spiacente che il Re non fosse stato presente alla conferenza nella quale lui aveva sostenuto la necessità di concentrare gli sforzi sul fronte italiano. A questo punto il verbale riferisce che il Re d'Italia osservò che "... non aveva sempre l'opportunità di vedere effettuate le sue idee".
E' da questo documento che noi abbiamo la misura dell'interessamento, diremo così, professionale che il re portava alla direzione della guerra, ma abbiamo anche una nuova prova dei limiti rigorosamente costituzionali che gli imponeva alle sue opinioni.

E' evidente che il convegno di Peschiera venne richiesto dagli alleati. Le decisioni sarebbero state prese a Rapallo, se Lloyd Gorge e Painlevè avessero avuto dei sicuri elementi di giudizio; che i politici italiani presenti in quel momento non avevano, così lontani e assenti dal fronte).
Il Re parlò con calma, con chiarezza, con equilibrio, senza esagerare né nell'ottimismo, né nel pessimismo. Lloyd George e Painlevé riconobbero in quel piccolo italiano un uomo dalla testa quadra e dai nervi saldi di cui potevano fidarsi, al quale potevano affidare le loro preziose divisioni.
A lui, non ad altri, Vittorio Emanuele, con grande lealtà di soldato, aveva cercato di temperare il giudizio che gli alleati avevano espresso su Cadorna. Lui e non altri aveva scelto il successore di Cadorna nel generale ARMANDO DIAZ. Bisognava avere fiducia nella sua scelta; va bene questo Diaz non era che un comandante di un Corpo d'Armata; aveva, sì, diretto un dipartimento del Comando Supremo, ma non si era distinto per azioni particolarmente brillanti o clamorose; ma il re lo scelse non per meriti particolari ma per le sue doti umane. Uno dei due sottocapi di stato maggiore, che gli erano stati assegnati, BADOGLIO, era sì molto brillante, ma aveva comandato proprio il Corpo d'Armata che teneva il settore del fronte dove si era prodotto lo sfondamento: e l'inchiesta successiva sulla sua azione di comando in quel frangente, non pronunciò un giudizio del tutto favorevole".
(di questo parleremo in altre pagine, comprese quelle del periodo del fascismo - Ndr).


LA SOSTITUZIONE DEL GENERALE CADORNA
IL GENERALE DIAZ NUOVO COMANDANTE SUPREMO

 

Gli zelatori dello stato maggiore consumeranno poi molto inchiostro per dimostrare che Cadorna, sì, era un grande stratega, e che Diaz era una "nullità". D'accordo. Ma chi studia sui documenti e nelle testimonianze il carattere di questo generale napoletano, si accorge del perché della preferenza. E indubbiamente, quel Re silenzioso, che si aggirava nei campi di battaglia, Diaz lo aveva conosciuto per quelle doti, che non avevano nulla a che vedere con i piani di battaglia. E dato che il "marmittone" reale, "re soldato per caso", era un attento (e molto introverso) osservatore (il suo ferreo tirocinio di "militare fanciullo" lo aveva fatto sotto l'autoritario "filo-prussiano", colonnello Osio) sapeva che i soldati avevano di che motivare la loro ostilità verso Cadorna e verso tutti quelli che erano come il "generalissimo", come fu poi definito, dal "sadismo mistico".

Davanti ad un esercito non professionista ma di massa, i comandanti più che farsi capire da chi non poteva capire, dovevano loro, che erano in grado di comprendere cercare di capire. Era più importante la questione "psicologica" che non quella "militare". E i fatti successivi diedero ragione di questa scelta.

Il piccolo sovrano piemontese, dopo la sanguinosa esperienza del rigido e spartano Cadorna, come lui settentrionale, volle un napoletano. Non era un genio della strategia? Non importava gran che. Si trattava di fabbricare un muro di sbarramento: un muro che non poteva avere altro fondamento che il "morale" dei soldati. I piani di battaglia li fanno i giovani tenenti colonnelli di stato maggiore freschi di studio e di entusiasmi. Mentre il nuovo comandante doveva occuparsi di ben altro.
Il Re probabilmente conosceva quella frase che ripeteva spesso Federico II quando visitava i suoi principi vassalli che trattavano i propri contadini all'occorrenza soldati, come bestie e con la frusta. Il Re di Prussia li rimproverava "...trattateli come uomini, non come animali addomesticati; perché quando avrete bisogno di veri uomini, non troverete in loro degli amici, ma troverete solo degli animali addomesticati, sempre pronti a fuggire da voi come davanti al nemico".

"Il verbale del convegno di Peschiera riferisce che ad un certo punto Lloyd Gorge e Painlevé chiamarono sir William Robertson e Foch e impartirono le necessarie istruzioni. Questa è la storia.
Nei tre momenti culminanti della vita del nostro Paese, dopo il regicidio, nel "maggio radioso", nella crisi di Caporetto, il giudizio del Re aveva avuto una funzione decisiva (A. Consiglio)".


E poche ore dopo parlando alla Nazione, il tono fu quasi lo stesso, ben diverso dal duro comunicato di Cadorna che giustificava la disfatta alla "viltà" e alla "codardia" dei soldati italiani.
Il Re per ridimensionare Caporetto, iniziò col dire
"…il nemico favorito da uno straordinario concorso di circostanze…ecc. ecc." (il resto lo leggeremo più avanti) respingendo un allarmistico esordio propostogli invece da Orlando.

Purtroppo non si potevano cambiare le cose in poche ore, e il giorno stesso in cui avveniva il convegno di Peschiera, continuava il ripiegamento dell'esercito grigioverde. Le retroguardie dell'ala destra si ritiravano dalla Livenza al Piave; quelle della sinistra rimanevano ancora fra Conegliano e la Val Mareno per agevolare il ripiegamento della IV Armata, che col XVIII Corpo si era già schierata da Col Moschin al Monte Tomba e copriva la ritirata in Val Sugana, fra Grigno e Fonzaso, con il IX stava tra Monte Tomba e Vidor e del I aveva una divisione presso il Montello e l'altra, coi resti della 26a con le truppe della fortezza Cadore-Maè, ancora in Val Piave tra Feltre e Longarone.

Il giorno 8 novembre, il bollettino del Comando Supremo riportava:

"Nella giornata di ieri è proseguito il ripiegamento della nostra linea. Il movimento dei grossi reparti ha potuto compiersi indisturbato. Le truppe di copertura, con numerosi combattimenti valorosamente sostenuti, tra le colline di Vittorio e la confluenza del Monticano nel Livenza, hanno ritardato l'avanzata dell'avversario. I nostri aviatori, vincendo l'accanita resistenza degli aerei nemici, rinnovarono i bombardamenti delle truppe avversarie sul Tagliamento. Risultarono abbattuti 5 apparecchi nemici".

Fu questo l'ultimo comunicato del generale Cadorna, il quale quel giorno stesso lasciò il comando al generale napoletano ARMANDO DIAZ che da colonnello aveva combattuto valorosamente in Libia, rimanendovi ferito, e dal giugno del 1916 era comandante del XXIII Corpo della III Armata. A sostituire PORRO sottocapo di Stato Maggiore, furono chiamati il generale GIARDINO, ex ministro della Guerra e il generale BADOGLIO, comandante fino allora del XXVII Corpo d'Armata.

Il 9 novembre le truppe di BOROEVIC avevano raggiunto il basso Piave, e le paludi del Grisolera; quelle di BELOW, Fadalto, Serravalle, Collalto, Susegana, Col fosco; quelle di KROBATIN Longarone, e quelle di CONRAD Forno di Zoldo, Agordo e Monte Parione.
Alla sinistra del Piave, nel tratto settentrionale del fronte italiano, erano rimasti i sei Reparti d'assalto del Colonnello BASSI: il I, il II, il III, il V e il VI aveva tenuto impegnato il nemico il giorno 8 sulla lunga linea che da Corbanese va a monte di Nervesa; nella notte del 8-9 avevano ripiegato sulle alture che da Refrontolo, per Pieve di Soligo e Collalto, corrono fino a Falzè di Piave, e il 9 avevano ripreso contatto con il nemico sostenendo per molte ore un accanito combattimento a Pieve di Soligo.
La sera e la notte dello stesso giorno si erano ritirati oltre il Piave. Il IV Reparto d'Assalto era rimasto a Vidor, per difendere quella testa di ponte insieme con gli alpini del 12° e 14° Gruppo.
Oltre il basso Piave, a Campagna di Cessalto, la retroguardia del XIII Corpo d'Armata, composta di alcuni squadroni del "Piemonte Reale", di un reparto di arditi, di un battaglione di bersaglieri e di alcune compagnie di fanti, comandata dal colonnello FRANCESCO ROSSI, veniva attaccata da soverchianti forze nemiche e perdeva il valoroso comandante; dopo una disperata resistenza riceveva l'ordine di ritirarsi.

Il 10 novembre il Re lanciava dal Quartier Generale alla Nazione e all'Esercito il seguente -non allarmistico- ordine del giorno già accennato sopra:

"Italiani ! Il nemico favorito da uno straordinario concorso di circostanze, ha potuto concentrare contro di noi tutto il suo sforzo. All'esercito austriaco, che in trenta mesi di lotta eroica il nostro esercito aveva tante volte affrontato e tante volte battuto, è giunto adesso l'aiuto, lungamente da loro invocato ed atteso, di truppe tedesche numerose ed agguerrite. La nostra difesa ha dovuto ripiegare; ed oggi il nemico invade e calpesta quella fiera e gloriosa terra veneta da cui lo avevano ricacciato l'indomita virtù dei nostri padri e l'incrollabile diritto dell'Italia.
Italiani ! Da quando proclamò la sua unità ed indipendenza, la Nazione non ebbe mai ad affrontare una più difficile prova. Ma come non mai né la mia Casa né il mio popolo, fusi in uno spirito solo, hanno vacillato dinanzi al pericolo, così anche ora noi guardiamo in faccia all'avversità con virile animo impavido. Dalla stessa necessità trarremo noi la virtù di eguagliare gli spiriti alla grandezza degli eventi. I cittadini, cui la Patria aveva già tanto chiesto rinunce, privazioni, dolori, risponderanno al nuovo decisivo appello con un impeto ancora più fervido di fede e di sacrificio. I soldati, che già in tante battaglie si misurarono con l'odierno invasore, e ne espugnarono i baluardi e lo fugarono dalle città con il loro sangue redente, riporteranno di nuovo avanti le loro lacere bandiere gloriose, al fianco dei nostri Alleati fraternamente solidali. Italiani, cittadini e soldati ! Siate un esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d' Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siamo pronti a dare tutto per la vittoria e per l'onore d' Italia".

Mentre il Re lanciava il suo proclama, il generale ARMANDO DIAZ dirigeva alle truppe un laconico comunicato:
"Assumo la carica di Capo di Stato Maggiore, e conto sulla fede e sull'abnegazione di tutti".
Stop!

Il giorno prima S. A. R. il Duca d'Aosta -sulla stessa lunghezza d'onda del Re, aveva rivolto ai soldati della III Armata un proclama, da cui si aveva notizia di assalti di nemici respinti:
"Il nemico ha nuovamente tentato di aver ragione delle nostre difese sulla Piave; ma la sua audacia è stata rintuzzata dai vostri energici contrattacchi, che lo hanno ributtato oltre il fiume, obbligandolo a lasciare nelle nostre mani più di un migliaio di prigionieri e numerose mitragliatrici. Chiamati all'azione, voi avete dato ancora una volta forte prova di quello spirito aggressivo che io ben conosco, e all'avversario, voi avete mostrato che siete sempre quegli stessi che lo hanno vinto in tante battaglie e che sapranno vincerlo ancora quando verrà l'ora della riscossa. Questo dico a voi, o gloriosi veterani del Carso; ma anche a, voi, o giovani soldati - fioritura della perenne primavera italica - io rivolgo il mio vivo encomio; tutti avete combattuto con entusiastico ed eroico slancio meritandovi la riconoscenza della Patria che, con l'animo commosso, apprenderà questa nuova, gloriosa impresa. Ma il mio plauso non si limita ai reparti impegnati nelle recenti azioni; esso va a tutte le mie truppe, che con animo invitto hanno saputo compiere, in breve tempo e in condizioni difficili, fra i più aspri disagi, poderosi lavori difensivi, che ci daranno nuovo mezzo per resistere a qualunque costo sulle posizioni prescelte. Miei soldati! Il sole della vittoria risplende ancora sulle vostre lacere bandiere dissipando la nebbia delle grigie giornate trascorse; ma già fin d'ora, ancora una volta, io vi confermo la fiducia che ho nelle vostre virtù guerriere: con queste voi saprete contrastare il passo al nemico e il suolo d'Italia non subirà più oltre l'onta del piede straniero. In alto i cuori, o compagni d'armi; per la Patria, per la libertà".

Cominciava già la riscossa e non era ancor finito il ripiegamento. Lo stesso 10 novembre, un violento combattimento sul pianoro del Consiglio, impegnava con forze nemiche di molto superiori, il battaglione Alpini "Belluno" che fu quasi interamente distrutto. Il nemico superava le difese dei passi di Fadalto e di Sant' Osvaldo e scendeva a Ponte delle Alpi e a Longarone. Qui, nel pomeriggio di quel giorno, stava sfilando una nostra colonna di circa dodicimila uomini costituita da reparti del I Corpo (gen. PIACENTINI) della IV Armata, dai resti della 26a divisione e dai presidi dei forti Longarone-Maè, quando fu da posizioni sovrastanti attaccata da numerose truppe del Gruppo Stein. Circa duemila uomini con molto materiale furono catturati; riuscì a scampare il generale NASSI, che con un vigoroso contrattacco riuscì a trascinarsi dietro un paio di migliaia di soldati fra cui il battaglione alpino "Moncenisio".

Di altre azioni svoltesi il 10 parlava il bollettino di guerra dell' 11 novembre:
"All'alba di ieri, dopo una preparazione di artiglieria, cominciata la sera precedente, il nemico, oltrepassata la nostra linea di osservazione nei pressi di Asiago, attaccò i retrostanti posti avanzati di Gallio e di Monte Ferragle (quota 1116), riuscendo dopo viva lotta ad impadronirsene. Il XVI Reparto d'Assalto e reparti delle brigate "Pisa" (29° e 30°), "Toscana" (77° e 78°) e del 5° reggimento bersaglieri, con un successivo contrattacco riconquistarono le posizioni, ricacciando l'avversario catturando un centinaio di prigionieri. Un'avanguardia nemica spintasi fino all'abitato di Pezzo, in Valsugana, fu prontamente attaccata e anche questa fatta prigioniera".


LA BATTAGLIA DI VIDOR


Le sole truppe italiane che la mattina del 10 novembre si trovavano alla sinistra del Piave erano gli Alpini del 12° e 14° Gruppo e le "Fiamme Nere" del IV Reparto d'Assalto della II Armata, che difendevano la testa di ponte di Vidor, debolissima perché costituita da una ristrettissima zona, sprovvista di artiglierie e dominata dall'Alpe di S. Croce. La testa di ponte, investita il mattino dalle avanguardie di una divisione germanica, ebbe ben presto a sostenere l'urto del grosso del nemico che disponeva di numerose mitragliatrici e di molte artiglierie.
Per tutta la giornata dalla borgata di Bigolino al paesello di Vidor, i due punti estremi della testa di ponte, la battaglia infuriò accanita. Il nemico lanciò a colonne serrate numerosi attacchi, insistendo specialmente alle Fornaci e a Vidor; ma gli Alpini si mantennero fermi nelle trincee e gli Arditi con impeto irresistibile contrattaccarono molte volte causando ai tedeschi gravissime perdite.
Verso sera purtroppo avevano esaurito le munizioni e si disponevano a resistere con le sole baionette quando giunse l'ordine di ritirarsi alla destra del Piave. Primi a passare il fiume furono gli Alpini. Rimasto solo, il IV Reparto d'Assalto fu attaccato in forze dal nemico, ma lo respinse, quindi sotto un nutritissimo fuoco riuscì a passare il ponte di Vidor, che, poco dopo, fu fatto saltare.

Superato lo sgomento, iniziò la resistenza, sugli Altipiani, sul Grappa, e sul Piave:
Ma il bilancio di questa ritirata fu gravissimo.

Di entrambi i due argomenti parleremo nel prossimo capitolo

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