HENRI SANSON - "LE MEMORIE DEI CARNEFICI DI PARIGI"


LIBRO NONO
LA MIA GIOVINEZZA

( da pag. 367 a pag. 407 )

La mia prima esecuzione
Louvel
I quattro sergenti della Rochelle
Le mie esecuzioni
Epilogo

Io sono nato nel 1799. Da lungo tempo già l'arma sanguinosa che il mio avo aveva ereditato dai suoi antenati riposava nel fodero; lo strumento di morte che le si era fatto succedere, non usciva che raramente dall'arsenale di supplizi dove lo si era relegato: la pena di morte indietreggiava, come presa da una specie di vergogna e di spavento davanti al ricordo dei suoi abusi.

Là nostra situazione finanziaria era buona. Malgrado le notevoli perdite che il disordine delle finanze ci aveva fatto sopportare sotto la monarchia, noi avevamo goduto sempre di una relativa agiatezza. L'esercizio empirico della medicina era stato sempre per la casa una risorsa molto redditizia, che le permetteva di sostenersi in modo conveniente. Quanto ai salari e alla competenze del nostro sinistro mestiere, essi erano stati sempre, sotto l'ancien régime, apparenza più che sostanza, e solo dopo la Rivoluzione, e sotto i successivi governi, noi ricevemmo puntualmente il trattamento molto ridotto riconosciuto alle nostre funzioni. Comunque sia, il patrimonio che m'aspettava era largamente sufficiente per assicurare la mia indipendenza ed esonerarmi, dal punto di vista materiale, dall'obbligo di guadagnarmi il pane col ferro della ghigliottina. La mia famiglia avrebbe potuto dunque dà questo lato vagheggiare la chimera di un altro avvenire per me.

Non avevo ancora raggiunto il mio settimo anno quando mio nonno morì.
- Enrico - aveva egli detto a mio padre nei suoi ultimi istanti - io sto per rendere i miei conti a Dio; porto con me la consolazione d'aver fatto qualche bene nella vita, e non mai alcun male... se non quello della professione nostra - aggiunse egli quasi facendo uno sforzo su sé stesso. - Ma quello... non -credo che il Supremo Giudice possa imputarmelo a colpa. Ho avuto dubbi crudeli negli ultimi anni a questo proposito; mi sembra che essi dileguino in questa ora estrema. Man mano che io m'avvicino al momento in cui la giustizia di Dio mi illuminerà su quella degli uomini, mi sento meglio rassicurato. Lo so, figliomio, che voi avete avuto sempre un'avversione segreta per lo stato in cui alla Provvidenza è piaciuto di farvi nascere, come aveva fatto nascere me stesso : credo di lasciarvi un buon esempio: restiamo là dove la sorte ci ha collocati. Cercherete invano, voi o i vostri, di rientrare nella società; essa vi volterebbe le spalle con orrore e non vi assolverebbe mai della vostra origine. Credetemi, non segnate né per voi né per vostro figlio condizione diversa da quella dei vostri padri; sareste come il soldato che diserta il suo posto ed è trattato dovunque da transfuga.

Questo singolare testamento d'un vecchio, ascoltato religiosamente nella nostra casa, aveva prescritto il mia destino. La notte, nel piccolo letto accanto alla stanza di mia madre dove mi si era messo a dormire, io udii una conversazione, di cui tutte le parole mi ritornano oggi alla memoria come il lutto della mia esistenza sacrificata.
- Giulia - diceva mio padre - colui che abbiamo perduto aveva ragione: non culliamoci fra le chimere; non pensiamo a sottrarre Enrico alla fatalità ereditaria della sua razza. Non voglio che mio figlio arrossisca di suo padre. Diamogli tutte le consolazioni che l'uomo può desiderare quaggiù: una educazione ampia e liberale, tutte le arti che la sua agiatezza gli permetterà di coltivare, tutti i piaceri della vita; ma rimanga egli il figlio dei << Messieurs de Paris », e non venga meno alle sue origini.

Mia madre s'arrischiò a qualche timida osservazione: ma mio padre le combattè con fermezza.
Fu quella la prima intuizione che io ebbi dell'avvenire che m'aspettava; e si sa che simili rivelazioni non si cancellano.
Era un uomo di un carattere dolce e calmo, mio padre; non aveva conosciuto le tempestose passioni che agitarono qualcuno dei suoi antenati. Non cercando egli che l'oscurità e l'isolamento in mezzo a quelli che egli amava. Nessuno condusse vita più semplice, più modesta e più sedentaria. Egli seguiva automaticamente le vecchie tradizioni in cui era stato educato, e non rubava alla felicità di sentirsi vivere in famiglia che i momenti consacrati ai malati che talvolta venivano a sollecitare le sue cure.
E' vero che il loro numero non era più quello di una volta. Dopo la riorganizzazione della scuola e della facoltà di medicina, il rigore con cui si esigeva che i praticanti avessero i loro diplomi ci aveva tolto gran parte della nostra clientela. Tuttavia mio padre fu forse quegli che seppe trarre il miglior partito dal formulario di ricette, che era la nostra proprietà di famiglia. Egli aveva ottenuto effetti curativi così notevoli che il rumore ne era giunto fino ai principi della scienza, e Dupuytren, Roux e Lisfranc non disdegnarono di mandargli qualche malato.

Eppure fu lui che una sera mi condusse nel suo gabinetto per parlarmi con molta solennità.
- Sono nato io stesso - mi disse - nella condizione in cui voi siete nato; alla vostra età mi trovai dirimpetto a mio padre nella stessa situazione in cui voi vi trovate dirimpetto a me. Vi sono, mio caro ragazzo, in tutte le società umane leggi che proteggono l'ordine sociale e puniscono le criminose intenzioni di quelli che hanno tentato di turbarlo; queste leggi, al cospetto di alcuni delitti, osano sancire una pena che per la sua irrevocabilità sembrerebbe non possa essere inflitta che da Dio. La società si arroga il diritto di punire di morte chi l'ha oltraggiata a tal punto che essa giudica necessario di reciderlo per sempre dal suo seno. Vi sono Corti di giustizia che non esitano a pronunciare queste formidabili sentenze; bisognava ci fosse un uomo incaricato di eseguirle. Fu questa la parte che toccò ad uno dei vostri antenati: egli l'ha trasmessa fino ad oggi ai suoi discendenti. Non vi creo illusioni, figlio mio. Non soltanto la nostra carica esige forze sovrumane, ma essa é anche pagata dalla più nera ingratitudine. Noi viviamo nella vergogna, e moriamo nell'obbrobrio; non si tiene alcun conto della nostra devozione; i nostri servizi ci sono rimproverati come azioni basse e disonoranti. La magistratura non s'associa certamente a queste manifestazioni dell'animosità pubblica; ma la timida protezione che essa ci accorda è impotente a difenderci contro il disprezzo che ci perseguita dovunque. Ho spesso cercato la causa di questa anomalia, e filosoficamente non ne trovo altra che questa : la pena di morte, che ferisce la coscienza umana, è un fardello di cui ciascuno a sua volta cerca di rifiutare la responsabilità finché essa venga a cadere sulle spalle di chi la esegue.

--- Non è la seduzione del salario che compete alle nostre funzioni - continuò mio padre quello che condusse su cotesta via la nostra famiglia. Voi troverete dopo la mia morte, tra le mie carte, delle note dei vostri antenati che vi illumineranno sulle circostanze fatali per cui la nostra casa, che era nobile in origine, fu trascinata a questo triste destino. Voi vi vedrete pure che noi possedevamo e possediamo dei beni; e io vi giuro che sacrificherei volentieri la meta di quanto ci resta purché la pena di morte fosse abolita, e voi non aveste nè ad accettare nè a rinnegare il mestiere dei vostri padri : vi resterebbe abbastanza da vivere in onesta agiatezza. Con questo intendo dirvi che voi dipendete solo dalla vostra volontà, e che sarete libero di prendere la decisione che vi sembrerà conveniente. E' un errore il credere che il nostro impiego sia ereditario, e che il figlio o il genero di chi lo esercita sia obbligato a succedergli. Se tale impiego si é mantenuto nella nostra casa, ciò fu sempre per la volontà ferma e ben deliberata dei figli di rimanere nelle condizioni stesse dei loro padri.

Io mi permisi a questo punto di dire qualche parola.
- Padre mio - dissi - siate persuaso che se io approfittassi della libertà che voi mi concedete di sciogliermi dalle funzioni da voi esercitate, ciò non sarebbe per alcuna opinione personale su tali funzioni o sulle questioni sociali ad esse inerenti. Io non mi sento ancora in età di giudicare di questo, e non dò peso ai disdegni della gente. Ma una cosa c' é che mi fa temere ben più vivamente di non essere degno di succedervi : ed é che io mi credo incapace di posseder mai il coraggio che occorre per dare freddamente la morte ad un uomo.

Mio padre sorrise con amarezza.
- All'età vostra - egli riprese - io pensavo come voi. Ho fatto un lungo e crudele tirocinio; ma se non sono arrivato nemmeno oggi a compiere il mio terribile ministero freddamente, come dite voi, per lo meno ho acquistato sufficiente padronanza su me stesso per contenere ogni mia commozione e non mancare ad alcuno dei miei doveri. Del resto, non bisogna delle nostre funzioni farsi, come il volgo, un' idea esagerata. Noi non facciamo, figlio mio, che presiedere all'esecuzione delle sentenze, in modo che la giustizia segua il suo corso rispettando per quanto è possibile le leggi dell'umanità. Una volta, quando le esecuzioni capitali si facevano a mano armata, ci voleva nell'esecutore quel gran coraggio di cui parlavate ora. I vostri padri hanno avuto e ci hanno trasmesso il ricordo di orribili supplizi. Ma oggi che la pena di morte è uniforme per tutti e delegata ad un meccanismo, la missione dell'esecutore è tutta di preveggenza e d'umanità.

Io, vedete, non sono mai salito sul patibolo. Resto ai piedi di esso, vegliando a che tutte le cose sieno in regola, tutti gli uomini al loro posto, pronti, all'ora indicata, affinchè quando arriviamo sud luogo dell'esecuzione, nessun ritardo possa prolungare l'agonia dello sciagurato paziente o aumentare l'orrore dei suo supplizio. All'ultimo momento un cenno dell'occhio mi basta perchè l'aiutante collocato presso il pilastro di sinistra distacchi l'asticella che tien sospeso il coltello: in un minuto secondo tutto è compiuto. E' vero che arditi pensatori hanno considerato la pena di morte come un assassinio giudiziario: ma quando una società l' ha iscritta sul frontespizio delle sue leggi, chi potrebbe rendere responsabile l'avvocato generale, i giurati, il presidente, insomma tutti quelli che concorrono ad applicarla? Perchè dunque insozzare d'ignominia l' umile esecutore della sentenza? Perchè costringerci a rientrare in casa perseguitati dalle maledizioni della folla e da quel lungo grido sinistro - Il boia! Il boia! - che, vibra ai miei orecchi come le trombe dei giudizio finale?

Mio padre concluse con il viso inondato di pianto.

LA MIA PRIMA ESECUZIONE

I miei ricordi di giovinezza, coi loro studi, coi loro viaggi in Italia, sul Reno, in Svizzera, in Olanda, coi loro facili amori, si chiudono col mio matrimonio. Il primo anno dopo le nozze trascorse calmo e felice. Con mia grande sorpresa, la mia fidanzata, anziché incoraggiarmi nelle mie velleità di emancipazione dalla sorte dei padri, mi aveva esortato a rassegnarmi alla situazione in cui ero nato. Il sacrificio che ella mai faceva d'essermi compagna in una via così aspra e rude infervorò la mia immaginazione e mi spinse a comunicare a mio padre la mia risoluzione di non avere altro stato che il suo. Egli parve venir meno per la commozione; era per lui una felicità insperata.

- Rifletti ancora! -- egli mi disse con voce soffocata. - Tu sei giovane ancora; hai le vie aperte davanti a te. lo sono ben colpevole di aver avuto l'aria di spingerti a questo sacrificio; non lo voglio accettare.
lo mi gettai nelle sue braccia.
- La una decisione è presa irrevocabilmente : io sarò esecutore come voi, come mio nonno, come i nostri vecchi.
Di quella promessa non si parlò più dopo quel giorno; ma invero non c'era bisogno che mio padre me la ricordasse perchè I' impegno preso mi fosse presente allo spirito: era l'unico pensiero importuno che turbasse la mia felicità. Qualche volta io guardavo con melanconia la mia giovane sposa, pensando che un giorno, come tutte le donne della nostra casa, sarebbe stato inevitabile che ella divenisse alla sua volta "Madame de Paris".

La scadenza della mia fatale promessa era purtroppo più vicina che io non pensassi. Nell' inverno del 1819 mio padre cadde malato seriamente di pleurite. La sua costante preoccupazione, tra le sofferenze del male, era una sentenza di morte pronunciata dalla Corte d'Assise del dipartimento della Senna nell'udienza del 13 gennaio. Un cacciatore della Guardia Reale, di nome Pietro Carlo Rodolfo Foulard, accasermato a Versailles, aveva assassinato due donne per rubar loro un miserabile orologio e due orecchini doro. Non aveva egli che vent'anni; ma le circostanze del delitto erano così atroci da escludere ogni speranza di grazia reale. Mio padre già si preoccupava della necessità di far appello ad uno dei suoi colleghi di provincia, ciò che non era senza inconvenienti, ora che si sapeva al tribunale che io dovevo succedergli. Dopo il mio matrimonio io m' ero imposto di accompagnare mio padre nelle poche esecuzioni che si erano fatte; ma ero rimasto testimonio muto e impassibile ai piedi del palco, non senza reprimere una commozione profonda : non avevo ancora avuto alcuna parte attiva in quelle cerimonie sanguinose.

Dal 12 febbraio io sapevo che la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso di Foulard, e nella giornata del 16 ci giungeva l'ordine dell'esecuzione per l'indomani. Mio padre era in convalescenza solo da qualche giorno. Benchè potesse appena reggersi in piedi, egli manifestò subito l'intenzione di accudire egli stesso al suo doloroso ministero. Non c'era più il tempo di ricorrere alla prestazione d'uno dei colleghi di provincia. Io vedevo bene che, se per ritardare a me l'adempimento della mia promessa, mio padre si fosse recato sulla piazza di Gréve, egli sarebbe giunto esausto sul luogo del supplizio e non ne sarebbe ritornato che per mettersi sul letto di morte.

Non c'era dunque da indietreggiare: bisognava sottomettersi al destino. La mia risoluzione fu presa in un istante. Mi recai nella camera di mio padre.
--- Vengo a prendere i vostri ordini e le vostre istruzioni per domani, gli dissi entrando, con la maggiore semplicità che mi fu possibile e cercando di frenare il tremito della mia voce.
Egli mi guardò con occhi stupiti.
- Ma, Enrico, perché tanta premura, amico mio? lo sono ora ristabilito. Posso andare in persona dove il mio dovere mi vuole. Non ho mai pensato che tu dovessi incaricarti di queste cose finchè io vivo. Sarà già abbastanza che tu ti prenda il fardello dopo di me.

Mio padre contrastò un poco; ma finì con cedere. Egli mi indicò i vari ordini da dare ai carpentieri per l'allestimento della macchina; mi designò i due più vecchi e più devoti nostri aiutanti, facendomi conoscere le mansioni di ciascuno; li chiamò a sè per far loro una piccola allocuzione prima di affidarmi a loro.
Tutta la notte trascorse per me nelle visioni di una doppia agonia: quella dello sfortunato che domani doveva morire, e quella dell'uomo che la legge designava ad ucciderlo, e che doveva per la prima volta immergere le mani nel sangue d'un proprio simile.
All'alba, gli aiutanti mi attendevano nel cortile. Montai smarrito nella vecchia carrozza, che ostentava sullo sportello lo scudo con la campana fessa : ero anch'io senza voce come quella campana.
Intimai al secondino della Conciergerie di consegnarci il condannato. Fummo condotti in una sala bassa la cui volta a crociera indicava l'antica destinazione religiosa di quell'anticamera di prigione. Poco dopo comparve Voulard, accompagnato dall'abate Montés. Rimasi colpito di costernazione alla vista del disgraziato fanciulllo : aveva vent'anni appena; era pieno di vita, di forza e di salute; chi sa quanti anni gli avrebbe riservato Iddio per il rimorso ed il pentimento.
Fauconnier, il mio primo aiutante, che seguiva sul mio viso le tracce del mio combattimento interiore, s'affrettò ad avanzarsi, pregando Foulard di sedere per procedere al taglio dei capelli. Quegli obbedì senza far parola, e sentì sulla nuca l'acciaio delle forbici, sinistro precursore
della mannaia.

Salimmo quindi nella carretta. L'abate Montès, mentre continuava a prodigare le esortazioni al suo penitente, si accorse senza dubbio che anch' io ero in uno stato di sofferenza, e rivolse pure a me qualche buona parola.
Foulard era rimasto dapprima taciturno; ma nel momento che noi sboccavamo sul fiume, una grande esaltazione s' impadronì di lui, e levandosi parecchie volte sul banco, egli gridò con voce stridula alla folta assiepata
- Padri e madri! vedete dove conduce l'abbandono della famiglia? Sì, io sono colpevole, ma la colpa é dei miei genitori, che mi hanno abbandonato a me stesso senza appoggio e senza educazione.
L'abate lo scongiurava di cessare quelle amare recriminazioni; ma per un certo tempo egli parve non tenere alcun conto di quelle suppliche. Allora il santo uomo si curvò verso di me e mi disse:
- Signore, era convenuto tra me e vostro padre che egli avrebbe dato il segnale solo quando avesse sentito il disgraziato pronunciare queste parole di riconciliazione con Dio: Signore, metto la mia anima nelle vostre mani . Si tratta di salvare un'anima; posso sperare che voi pure consentirete a questo riguardo?
Atterrito ed ammutolito, io mi limitai a tare un segno d'assenso.

Eravamo arrivati sulla piazza di Grève. Foulard si era calmato subito. Una notevole folla s'addensava sulla piazza, e molti erano i curiosi, attratti alla finestra dallo spettacolo di sangue. Sceso a terra, Foulard si gettò nelle braccia dell'abate Montès e baciò il Crocifisso; poi, riconoscendo nel pubblico un brigadiere della sua compagnia. lo apostrofò vivacemente
- Avvicinati, mio vecchio - gli gridò. - Se non posso fare i miei saluti a tutti i camerati, vieni a riceverli tu per tanti.
Il vecchio soldato non esitò. Egli venne ai piedi del palco ad abbracciare il morituro, e io vidi due grosse lacrime solcargli il viso e cadere sui suoi fitti mustacchi.
Foulard, sempre più animato, russo in viso, pareva preso da una specie di delirio febbrile. Egli si volse a un tratto verso di me.
- Venite che abbracci anche voi -- egli disse. - Voglio mostrare che non ho rancori, che perdono a tutti per essere perdonato da Dio.

Per me, fu quello l'ultimo colpo: indietreggiai sbigottito. La vittima perdonava all' esecutore; l'esecutore non poteva perdonare a se stesso. Credo che se questo disgraziato mi avesse toccato con le sue labbra, non avrei avuto mai la forza di dare il segnale di morte.
Ma che dico? Quel segnale io non lo diedi. I miei aiutanti, che avevano veduto il mio subitaneo movimento di ritrosia, compresero l'imminenza del pericolo. Essi spinsero Foulard verso il patibolo, ed egli ne ascese i gradini con passo fermo. In meno tempo che io non ci metto a scriverlo, egli fu attaccato sull'asse, che fece il suo movimento d'altalena, e una voce, il cui accento vibrò lungamente nel mio cervello, aveva appena fatto sentire quelle parole : « Mio Dio, metto la mia anima nelle vostre mani », quando un rumore sordo, che mi agghiacciò le midolla, si fece sentire. Fauconnier non aveva atteso il segnale, vedendo bene che io ero incapace di darlo.

Involontariamente volsi gli occhi verso la violenta scena, e vidi uno degli aiutanti che trascinava lestamente i panieri, mentre l'altro, con una spugna, asciugava il sangue che era colato sul patibolo e filtrava attraverso gli assiti sui selciato della piazza.
Credetti di svenire. Fuggii spaventato, in preda a una orribile allucinazione. Ma pareva che quel cadavere m' inseguisse, e che tutta la moltitudine si unisse a lui. Incominciai a liberarmi dall'ossessione appena quando fui giunto ai Campi Elisi. Ma continuai a camminare, come un ubriaco, quasi fino a Neuilly. Non ero solo, poichè portavo dentro di me un interlocutore formidabile : la mia sconvolta coscienza.

LOUVEL

Se non è vero, come afferma la saggezza dei popoli. che il primo parso sia il solo che costa, per lo meno bisogna riconoscere che esso è quello che costa più di tutti. Da quando ebbi impresso il mio piede sulla via di sangue tracciata dai miei padri, non posso dire che io mi fossi abituato a quelle sinistre funzioni, ma nel mio orrore e nel mio disgusto, non provavo però più emozioni fortissime come quelle della mia prima esecuzione.
Da quel momento, continuai a sostituire mio padre o ad accompagnarlo regolarmente in tutte le esecuzioni. Due volte in quell'anno ci portammo a Beauvais, e il 20 maggio 1820 giustiziammo in piazza di Gréve un domestico ventenne che aveva assassinato il padrone.

Parigi e tutta la Francia erano occupate in quel momento di ben altro dramma. Tre mesi prima, giorno per giorno, uno dei principi di Francia, il solo che paresse dover continuare la dinastia del ramo anziano dei Borboni, il Duca di Berry, era caduto, uscendo dall'Opera, sotto il ferro dell'assassino. L' uomo, arrestato mentre prendeva la fuga dopo I' odioso attentato, aveva dichiarato d'esser Luigi Pietro Louvel, operaio sellaio, nato a Versailles, di 36 anni. Interrogato sui motivi della sua azione, aveva risposto che gli avvolgeva la mente già da parecchi anni e che solo l'occasione gli era mancata per compierla.

Colpito verso le undici di sera, il disgraziato principe non visse che una notte di agonia. Malgrado le cure abili e devote dei dottori Bougon e Dupuytrein, accorsi al suo letto, egli rese I' ultimo sospiro alle sei e mezza, domandando la grazia del suo assassino ed esortando la coraggiosa sua moglie a consacrarsi al bambino che ella portava nel seno, ultimo rampollo d'una illustre famiglia.

Louvet, quella mattina, veniva, chiuso alla Conciergerie. Risultò dai suoi primi interrogatori che egli aveva concepito il disegno fin dal 1814, quando aveva saputo che i Borboni stavano per tornare in Francia per risalire sul trono.
«Da quel momento -- egli disse - io giurai la loro morte; poichè ai miei occhi il più grande delitto che un francese possa commettere è quello di tornare in patria con l'aiuto degli stranieri. Del resto, i Borboni avevano già preso le armi contro la Francia, ed io non potevo loro perdonarlo; ero pronto ad affrontare tutti i supplizi per effettuare il mio piano.
« Ho aspettato l'occasione per sei anni interi, spiando il momento favorevole, mancandovi talvolta per caso e talvolta per debolezza; ma infine il colpo é fatto, e voi mi vedrete tranquillo sul patibolo come son qui e come sono stato tranquillo al mio mestiere ».

L'inchiesta sugli antecedenti di Louvel non rivelò nulla di straordinario. Orfano, educato repubblicanamente nella casa di una sorella maggiore, soldato di Napoleone. La epopea imperiale lasciò nella sua immaginazione anche maggiori tracce che i ricordi repubblicani della sua prima
età. Testimonio delle due catastrofi di Fontainebleau e di Waterloo, egli concepì verso i Borboni un risentimento implacabile.
Già egli aveva fatto aguzzare il pugnale di Bruto, e lo portava sempre sul petto, pretendendo trafiggerne il cuore dei successori del nuovo Cesare. Riuscì ad entrare nelle scuderie del re, ciò che doveva agevolare la riuscita della sua macchinazione. Per quattro anni egli seguì la prima vittima che s'era proposto d'immolare, il Duca di Berry, alle cacce, alle passeggiate, agli spettacoli, perfino nelle chiese. Dopo di lui - così egli ripetè in tutti gli interrogatori - avrebbe ucciso il Duca dAngouléme, e poi il Conte d'Artois, e finalmente il re : forse a questo punto si sarebbe arrestato, giacche non aveva deciso se avrebbe continuato negli altri rami della famiglia reale il corso dei suoi assassinii.
L'istruttoria non avendo rivelato alcun complice, i dibattimenti s'apersero il 5 giugno davanti alla Corte dei pari, presieduta dal cancelliere Dambray. Essi non richiesero più di due giorni, data l'evidenza del fatto e la pienezza delle confessioni. Louvel, dopo che il difensore ebbe parlato, si alzò e lesse col massimo sangue freddo una memoria su quello che egli chiamava il suo sistema.

« Secondo me - egli diceva -- non posso vietarmi di credere che, se la battaglia di Waterloo fu così fatale alla Francia, ciò avvenne perché a Gand e a Bruxelles c'erano francesi che hanno portato nell'esercito il tradimento e hanno portato soccorso ai nemici.
"Secondo me e secondo il mio sistema, la morte di Luigi XVI era necessaria, poché la nazione vi acconsentiva. Se ci fosse stato un pugno di briganti, che si fosse portato alle Tuileries e gli avesse tolto la vita in un istante, sarebbe stata altra cosa; ma poiché Luigi XVI e la sua famiglia sono rimasti in carcere per molto tempo, non si può concepire che ciò non fosse con l'assenso della nazione; dimodoché, se contro di lui non fossero stati che alcuni uomini, egli non sarebbe perito; la nazione intera vi si sarebbe opposta ».

Il « sistema » di Louvel fu poco gustato dall'illustre assemblea. Quell'apologia dottorale del regicidio dopo quella dell'assassinio, quei freddi insulti alla famiglia regnante dopo aver trucidato uno dei suoi membri, fecero correre un fremito d'orrore. La deliberazione non fu lunga : a voti unanimi l'accusato fu condannato alla pena di morte. La sentenza gli fu letta in carcere, ed egli l'ascoltò con calma.
Gli si offersero i conforti della religione.
- Perchè fare? - egli rispose sogghignando. - Per andare in paradiso? Mi potrebbe toccare d'incontrarvi il Duca d'Enghien, che avendo portato anche lui le armi contro la Francia, fu punito come meritava: noi non andremmo mai d'accordo.

Tuttavia egli acconsentì a ricevere l'abate Montès, e con l'unico pensiero di non cagionare troppo dolore a quel degno prete, egli fece anche un simulacro di confessione.
Conforme agli ordini ricevuti; mio padre ed io ci recammo il 7 giugno alla Conciergerie, accompagnati da quattro aiutanti. Una tolta immensa aspettava il condannato. Quando la fatale toilette fu terminata, egli, col pretesto della calvizie, domandò che gli si mettesse in capo il cappello.
Arrivammo ai piedi del patibolo. Il condannato si accingeva a salire il primo gradino, quando l'abate Montés lo fermò dolcemente per il braccio, e gli disse:
-- Inginocchiatevi, figlio mio, e chiedete perdono a Dio d'aver commesso un tale delitto.
-- Mai, signore! - egli ribattè con alterigia. - Non rimpiango quello che ho fatto, e ricomincerei se fosse da rifare.
-- Tuttavia, amico mio, ho ricevuto la vostra confessione; voi non avete da fare che un ultimo sforzo per guadagnarvi il cielo. Andiamo, un atto di contrizione, e voi piegherete la misericordia di Dio.
-- Io andrò in cielo come voi, se ce n'è uno: ma vi prego, spicciamoci : quell'affare m'aspetta.
E con un gesto mostrava il patibolo.
-- Mio caro ragazzo, ve ne scongiuro -- riprese l'abate Montès - in questo momento così breve e così decisivo, penate alla salute della vostra anima: dite che vi siete pentito d'aver offeso Iddio!
-- Ho già fatto parecchie cose per farvi piacere - rispose Louvel con impazienza crescente - debbo aggiungere che mi duole d'averlo fatto? Figuratevi che io lo abbia detto.

Vedendo di non poterne ottenere di più, il rispettabile elemosiniere si decise a dargli l'assoluzione: e dopo avergli imposto le mani, volle fargli baciare il Crocifisso. Louvel trasse indietro la testa, e nei suoi occhi scintillò la collera di non poter meglio mostrare alla moltitudine che egli si rifiutava a questo atto di pietà.
Due volte, con voce sonora, egli ripetè : - Questo mai! Questo mai!
E si slanciò sui patibolo con passo così fermo e così rapido che gli aiutanti furono obbligati a trattenerlo perché non arrivasse prima di loro. Egli si collocò spontaneamente sull'asse fatale. Noi aspettammo invano le parole convenute con l'abate Montés : « Mio Dio, metto la mia anima nelle vostre mani ». Louvel non volle dare al vecchio prete che lo aveva accompagnato la consolazione di quest'ultimo pegno della.riconciliazione di un' anima smarrita col Signore.
Il primo tocco delle sei, che suonavano all'orologio dell'Hotel de Ville, ci confuse col rumore sinistro del coltello: la testa del grande colpevole era caduta.

Noi conducemmo subito i suoi resti insanguinati al cimitero della barriera del Maine, dove li deponemmo nella fossa comune in presenza di gran numero di curiosi. Ma quando la folla se ne fu andata, venne un ordine del prefetto di polizia, che disponeva l'esumazione del cadavere di Louvel e il suo seppellimento in altro luogo sconosciuto da tutti.
Il segreto di questa nuova sepoltura non fu conosciuto che dall'esecutore e dai suoi aiutanti, trasformati questa volta in affossatori.

I QUATTRO SERGENTI DELLA ROCHELLE

II 21 settembre 1822 una missione ben triste ci conduceva alla Conciergerie e sulla piazza di Gréve. Si trattava di quattro disgraziati giovani, vittime del fanatismo politico e dei maneggi sotterranei dell'irrequieto partito che s'agitò nell'ombra, durante tutto il periodo della Restaurazione, per scalzare il trono dei Borboni. Non è qui il luogo di fare la storia della misteriosa setta dei carbonari, che formava un'immensa catena, della quale si poteva bene afferrare un anello, ma di cui era impossibile raggiungere l'insieme.
L'esercito, e fu questa la disgrazia di quel governo, non fu mai affezionato alla Restaurazione. Lo spirito militare, affascinato dai ricordi eroici dell'impero, non potè riconciliarsi con una bandiera che s'era piegata soltanto in seguito ai nostri rovesci. Nel 1822, la recente morte di Napoleone a Sant'Eletta faceva di lui una trasfigurazione, una specie di Prometeo, una individualità leggendaria che elettrizzava i soldati. Gli abili orditori del carbonarismo non si lasciarono sfuggire questa occasione per iniziare un lavoro sordo nei reggimenti, mirando a estendere nell'elemento militare le loro cospirazioni.
Essi riuscirono anche troppo bene col 45° di linea, che aveva nei quadri alcuni veterani dell' armata della Loira, ex sottufficiali che la Restaurazione aveva rifiutato di mantenere nei loro gradi. C'era pure in quel reggimento un giovane sergente, di forte tempra di elevate aspirazioni, che esercitava sui suoi camerati l'irresistibile ascendente di una superiorità incontestata. Bories - era il suo nome - si lasciò iniziare con ardore alla carboneria, e organizzò ben presto, nel 45°, una "vendita" » militare, che doveva offrire al movimento insurrezionale in preparazione il suo prezioso concorso. Egli consegnò a parecchi suoi camerati il pugnale del carbonaro, che questi serrarono sul petto, senza badare alla contraddizione con la spada che portavano al fianco.

Malgrado la religiosa fedeltà con cui i congiurati custodivano il loro segreto, certe apparenze li resero sospetti. Troppo giovani per fare i cospiratori, essi non seppero dissimulare i loro sentimenti. Nel momento dell'abortito tentativo del generale Berton su Saumur, Bories era già arrestato per vaghe induzioni formatesi sul suo conto. Finalmente il tradimento venne a coronar l'opera: uno degli indiziati, più debole di spirito e più pronto allo scoraggiamento che gli altri, Goupillon, si lasciò strappare dal colonnello il segreto della "vendita". La sera stessa di questa rivelazione, tutti gli altri congiurati furono arrestati nella camerata e condotti alla prigione della città.
Quasi tutti, pur senza cadere nella debolezza di Goupillon, fecero confessioni più o meno complete; il solo Bories persistette in un sistema di negazione assoluta, spiegando i conciliaboli e l'associazione evidente con l'affermare che essa aveva avuto soltanto scopi di filantropia e di mutualità. Il processo si tenne davanti alle Assise della Senna e durò quindici giorni; gli accusati erano venticinque, soldati ed ex soldati, alcuni chiamati a rispondere di complotto contro la sicurezza dello Stato, altri di aver conosciuto il complotto e di non averlo rivelato entro le ventiquattr'ore.

Quando i dibattimenti furono chiusi, il presidente, prima di pronunciare il suo riassunto, chiese agli accusati se non avevano nulla da aggiungere a loro difesa; Bories soltanto domandò di dire qualche parola. Fedele fino all'ultimo al suo generoso sistema di assumere tutto su di sè, egli si alza e pronuncia con voce ferma e grave queste parole
- Signori giurati, voi avete sentito l'atto d'accusa, i testimoni e le contestazioni; e dopo ciò, siete stati certamente sorpresi di sentire il pubblico ministero esclamare "Tutte le potenze dell'oratoria non saprebbero sottrarre Bories alla pubblica vendetta". Egli mi ha designato come il capo. Ebbene. io accetto. Felice se la mia testa, rotolando sul patibolo, può far pronunciare l'assoluzione dei miei camerati.
La giuria aveva già deciso d'essere spietata. I veri quesiti che avrebbero dovuto esser posti nel processo, quelli che avrebbero ridotto l'embrionale complotto alle sue giuste proporzioni, furono respinti malgrado l'insistenza dei difensori. Bories, Pommier, Raoulx e Goubin, essendo stati dichiarati colpevoli d'aver negli ultimi mesi del 1821 o nei primi mesi del 1822, partecipato a un complotto concertato fra vari individui e tendente allo scopo sia di distruggere o di cambiare il Governo, sia di mutare l'ordine di successione al trono, sia d'eccitare i cittadini a prender le armi contro l'autorità reale, sia d'eccitare alla guerra civile armando o persuadendo ad armarsi i cittadini gli uni contro gli altri, furono condannati a morte. Degli altri accusati, alcuni furono assolti, altri condannati a pene più o meno severe.

È impossibile non osservare i termini vaghi di questa sentenza, che doveva far rotolare quattro giovani teste sul patibolo. Essa non fissava con precisione nè l'epoca del complotto ordito, nè gli scopi di esso, accennati con quattro ipotesi. E' l'eterna storia dei processi politici, dove non si fa mercato della morte.
Bories, Goubin, Raoulx e Pommier ascoltarono pronunciare la loro sentenza di morte con perfetta calma. Il primo si chinò verso il suo difensore e, togliendosi alcuni oggetti preziosi che portava addosso, li consegnò a lui con la preghiera di farli avere a una persona di cui gli indicava l'indirizzo.
Il segreto di questo toccante messaggio fu tradito non dall'avvocato, ma dalla destinataria del funebre legato. Per più di quarant'anni, dopo il supplizio di Bories e dei suoi compagni, si è veduta una donna, dapprima giovane, poi di età matura, poi giunta alla vecchiezza, attraversare a piedi quasi tutta Parigi per portare ogni giorno sul tumulo che copriva le ossa di Bories e dei suoi tre compagni, il suo mazzolino di fiori di fidanzata.

Il 21 settembre, mentre si stava facendo la toilette dei condannati, esortati da Bories al coraggio col grido di "Viva la Libertà", il Consiglio dei ministri deliberava sull'opportunità di un atto di grazia. Il re Luigi XVIII, si dice, inclinava alla clemenza; il conte d'Artois e i suoi consiglieri vi erano contrari. Quest'opinione fu sostenuta in seno al Consiglio dal conte Peyronnet, allora guardasigilli, ed essa finì col prevalere. Intanto si faceva qualche ultimo tentativo presso i condannati per indurli a rivelazioni, promettendo la salvezza della vita a chi facesse confessioni complete e palesasse tutte le ramificazioni del complotto. Essi rimasero incrollabili.

Alle cinque convenne pure decidersi a partire, essendo i condannati rimasti muti; il Consiglio dei ministri aveva deciso l'esecuzione della sentenza. Il convoglio funebre si avviò rapidamente e senza ostacoli. L'affluenza era bene notevolissirna; ma si era spiegato un apparato militare così grandioso che la libertà del passaggio potè essere facilmente mantenuta. Si assicura altresì che fu questo lusso di precauzioni a far rinunciare i correlligionari dei quattro sergenti alla speranza di liberarli durante il trasporto, come ne avevano concepito il disegno.

Arrivati ai piedi del patibolo, essi persistettero nel rifiuto di prestare orecchio alle esortazioni dell'ecclesiastico che li aveva accompagnati. Bories apparteneva, del resto, alla religione protestante. Essi si unirono ancora una volta tutti e quattro in un ultimo e supremo abbracciamento; poi Raoulx si distaccò primo dal gruppo, dicendo:
-- Andiamo, povero Raoulx, tocca a te, benchè tu sia il più giovane, dare l'esempio.
Egli ascese i gradini con passo fermo. Due aiutanti s'impadronirono di lui, e mentre lo si legava sull'asse, egli gettò come addio ai suoi amici il grido col quale Bories li aveva accolti quando si erano ritrovati alla Conciergerie
- Viva la libertà!
Poi salì Goubin, che non mostrò minore coraggio, e anch'egli morì con quel grido. Pommier fu il terzo giustiziato, e silenzioso fino a quel momento, ruppe il silenzio per gettare il grido dei suoi camerati. Infine venne la volta di Bories. La vista dei tre supplizi aveva finito con lo scuotere l'anima stoica del giovane sergente; i suoi occhi erano pieni di lacrime; ma quando fu giunto sul patibolo, egli riprese tutta la padronanza di sè, e fissando sulla folla uno sguardo profondo, egli pronunciò a voce alta queste parole:
- Fratelli, se io piango, non è per la mia sorte, ma per quella dei miei camerati, che sono stati trucidati sotto i miei occhi. Dandovi il nostro sangue, noi vi leghiamo la nostra vendetta; ricordatevi del nostro ultimo grido : Viva la liberta!
Lo si trascinò sull'asse mobile; la sua testa cadeva dopo un istante.

LE MIE ESECUZIONI

Le esecuzioni che seguono sono così oscure o così conosciute che non mi soffermerò su di esse a particolari circonstanziati. Dalle vittime politiche, sempre interessanti per la nobiltà del movente che le aveva spinte ad agire e per l'elevatezza generale dei sentimenti, noi siamo per ricadere tra i delinquenti volgari che formano il contingente abituale della ghigliottina.

Il 6 dicembre 1823, dopo alcune esecuzioni di minor conto, avemmo a giustiziare uno di quei grandi colpevoli, che si potrebbero chiamare i lions del delitto, per il privilegio che hanno di eccitare più particolarmente l'attenzione pubblica: voglio parlare di Edme Samuele Castaing, dottore in medicina, ventisettenne, nato ad Alencon. E' noto il singolare legame che era riuscito a stabilirsi tra il discepolo d'Esculapio e i due fratelli Ballet; come egli fosse riuscito ad accattivarsi la loro confidenza fino a punto di far fare loro un testamento a proprio favore, del quale egli non volle attendere che la morte naturale dei due fratelli gli permettesse di raccogliere i benefici. Sono noti gli avvelenamenti della Tète Noire e la perfidia con cui Castaing abusò del suo titolo d'amico e di medico per assicurare il successo alla causa del suo doppio delitto; è nota l'infernale pazienza con cui egli seguì il compimento del suo orribile piano, e la sola causa che tuttora meraviglia, è l'accecamento della sua seconda vittima, Augusto Ballet.

La Provvidenza non lasciò impuniti così orrendi delitti; malgrado le ipocrite proteste d'innocenza, Castaing fu condannato a morte il 17 novembre.
Quando il condannato fu condotto dinanzi a me e a mio padre, ci domandammo come un'anima così nera si poteva nascondere sotto un esteriore così seducente. Castaing uomo di media figura, aveva una fisionomia dolce ed espressiva, capelli biondi con sopracciglia dello stesso colore perfettamente arcuate, una fronte sviluppata e intelligente, naso ben fatto, piccola bocca, occhi azzurri la cui limpidezza nulla avrebbe lasciato a desiderare se lo sguardo fosse stato meno mobile e, all'incrociarsi con un altro, meno pronto a sfuggire.
Quando egli ci scorse, il suo viso già animato prese ancora maggior colore. Egli parve temere che nei preparativi che eravamo per fargli subire, vi fosse qualche cosa che generasse il dolore fisico : questo per lo meno ci disse egli stesso dopo aver represso un primo moto d'involontario spavento.
- Sopra tutto, non mi fate male - egli disse sedendo per il taglio dei capelli. - Voi mi ucciderete fra poco; è inutile di farmi soffrire.
Mentre i capelli cadevano, egli esclamò facendo allusione alle vittime
- Oh, miei poveri amici! se mi vedeste qui, che direste? Mi si accusa della vostra morte : me, che avrei dato la vita per salvarvi!
Queste parole mi commossero profondamente. Ero giovane; non potevo credere che l'uomo potesse mentire in faccia alla morte. Ci volle quello che udii più tardi, perchè non mi facessi di Castaing un nuovo Lesurques.

Durante tutto il percorso dalla Conciergerie alla piazza di Grève, Castaing non cessò di rinnovare, con una voce dolente e melliflua, le sue proteste d'innocenza. L'abate Montès lo ascoltava con aria poco convinta e lo scongiurava, al contrario, di non conservare alcun infingimento in quegli istanti supremi.
Noi sboccammo sulla piazza di Grève. La vista del patibolo cagionò a Castaing un fremito convulsivo; i suoi tratti si decomposero. L'aspetto sinistro dello strumento dei supplizi fece su questa natura molle ed affeminata una impressione più profonda che quella in essa prodotta dalla stessa idea della morte. Tutta la serenità fittizia che egli aveva mostrata fino a quel punto, svanì; e quando fu il momento di scendere dalla carretta, i due aiutanti furono costretti a sorreggerlo.
Strano fenomeno! Era bastata la sinistra macchina e il suo ripugnante coltello per richiamare questo avvelenatore, che aveva un temperamento da donnina, al sentimento della realtà. Tanto vicino al passaggio dalla vita alla morte, il terrore del grande ignoto si era impadronito di lui. Allora si rivolse verso quel Dio, il cui nome era stato fino a quell'istante dal confessore invocato invano. Egli cadde a ginocchi sul primo gradino del patibolo e tendendo verso l'abate Montès, che a quel segno s'era avvicinato, le mani supplicanti :
- Assolvetemi, padre mio - egli esclamò con una voce lamentosa io sono colpevole! Dio potrà perdonarmi?

Il pio ecclesiastico fece un segno di benedizione e avvicinò a quelle labbra, da tanto tempo insozzate dalla menzogna, l'immagine sacra del Cristo.
Quanto a me, ero rimasto muto di stupore. La repentinità di quella confessione mi aveva ghiacciato di spavento. Compresi, per la prima volta, la piccolezza dell'uomo sbattuto tra quei due infiniti, il nulla e l'eternità, e temendo di varcare il periglioso passaggio senza deporre la sua ultima maschera e umiliare il suo ultimo orgoglio.
Nell'istante che Fauconnier imprimeva all'asse il suo movimento d'altalena, sentii Castaing mormorare ancora con voce spenta
- Mio Dio! metto la mia anima nelle vostre mani.

Continuiamo lo spoglio di questi archivi sanguinosi.
Il 24 gennaio 1824, sono una madre e suo figlio che salgono il patibolo; istigato dalla madre, il giovane sarto Lecouffe aveva assassinato una vecchia per derubarla di panni e d'argenterie. Sulla via della ghigliottina, il giovane omicida rimproverava alla madre in termini ignobili di averlo condotto a quel passo, e la miserabile gli rispondeva con acerbe e sordide recriminazioni che empivano il cuore di disgusto. Non si riconciliarono nemmeno nell'istante supremo, e perfino ai piedi del patibolo si scagliarono reciproche maledizioni.
Il 22 maggio di quell'anno il romano Antonio Brocchetti quarantenne, sodomita, accusato di aver tentato d'uccidere dapprina un prete, poi, condannato ai lavori forzati, un secondino dell'ergastolo, che gli contrastava di cercare anche in carcere la soddisfazione del suo vizio immondo. Poi nello stesso anno, il giardiniere Dagron, che aveva avvelenati la moglie e il figlio: e via via, Papovoine, giustiziato ii 24 marzo 1825, per aver assassinato due fanciulli nel bosco di Vincennes, sotto gli occhi della madre: delinquente d'eccezione, che pure obbedisse a un'oscura monomania, e morì pentito: Cipriano Ninonet, ortolano, e Adelaide Autrot, sua moglie, giustiziati insieme il 21 aprile 1827 sulla piazza di Provins, per aver tentato d'uccidere la vedova Carpedonne, loro vicina, e ucciso la sua nuora, a scopo di furto; Giambattista Asselineau, garzone presso un mercante di vini, giustiziato l'8 maggio 1827 sulla piazza di Grève.
Questo condannato aveva una faccia oltremodo intelligente e simpatica; nondimeno, da più di due anni era perduto nel turbine del delitto. Nel 1825 e nel 1826 egli aveva accumulato un gran numero di falsi, coprendo gli uni con gli altri e moltiplicando, sui valori che egli creava, le firme immaginarie, fino a che giunse il momento della contraffazione di firme reali. Di là al delitto, non c'era che un passo egli lo superò assassinando, nella notte dal 21 al 22 febbraio 1877, un uomo a cui aveva dato il nome d'amico, Giambattista Brouet, per impossessarsi del denaro, dei gioielli e dei valori che quest'ultimo possedeva. Per trar partito di questi valori, tra i quali si trovarono degli effetti di commercio e un titolo di rendita, egli dovette ricorrere a nuovi falsi, e questo lo perdette, facendo scoprire in lui l'autore dell'omicidio commesso su Brouet.
Suscitò stupore l'avidità precoce di questo giovane che a diciassette anni, già esordiva nella carriera del delitto, fabbricando banconote false e facendo false operazioni di Banca: erano i segni riconoscibili di un'intelligenza fuorviata che non si sarebbe fermata a quegli esperimenti, e non doveva stupire il vederla, avviluppata nei propri intrighi, annegare nel sangue e giungere fino all'assassinio.
Quando andammo a prendere questo sciagurato alla Conciergerie, egli si mostrò calmo e rassegnato e subì con dolcezza i preparativi. Non pareva preoccupato che dell'onore della sua famiglia e dell'obbrobrio che le lasciava. Nel momento di andarsene, prima che gli si legassero le mani, egli mi consegnò un foglietto piegato in quattro. pregandomi con malta cortesia di leggerlo e di esaudire il voto d'un morente.
Copio testualmente questo biglietto
"Prego tutti questi signori di voler consegnare al signor Morel, sarto, via Montorgueil, N. 31, il mio vestito e i miei pantaloni che ho comperato da lui qualche tempo prima del mio arresto e che non gli ho pagato. Penso che egli non sia in posizione di perderli. Facendo ciò, si contenterà un disgraziato. G. B. Asselineu »
Quando noi prendemmo il vestito per portarlo al sarto, dalla saccoccia sfuggì un'altra carta, dove egli spiegava la sua caduta fatale, mescolandovi allegazioni immaginarie di altri furti e d'altri falsi per i quali rilasciava una ricevuta di quasi un milione. Egli portò con sè il segreto di questo suo testamento bizzarro, che poteva far supporre in lui una monomania.

Ecco ancora una delle rare figure che hanno qualche interesse in questo museo della ghigliottina : Onorato Francesto Ulbach, l'assassino della piccola Amata Millot, soprannominata la pastorella d'Ivry. Ulbach era un povero orfanello entrato come garzone presso un mercante di vino della barriera di Fontainebleau. Egli si distinse per la sua docilità e per il suo zelo fino al momento che fu preso dal più tenero amore per una giovane, la Millot, che era al servizio d'una signora del luogo e veniva qualche volta a far pascolare le capre della sua padrona non lontano dal fondaco di vini. Relazioni molto oneste, ma non perciò meno appassionate, si stabilirono tra il garzone del vinaio e quella che si chiamava la pastorella.
Da quel momento Ulbach neglesse il suo lavoro e scontentò il suo padrone, il quale finì per licenziarlo; ma non fu il licenziamento quello che lacerò più profondamente il cuore del povero ragazzo. Anche Amata diede il congedo al giovane, consigliata dalla padrona, che non vedeva nulla di buono in quel legame, benchè Ulbach avesse dimostrato le intenzioni più oneste. Il disgraziato amante, avvilito, fece quanto potè per far recedere Amata da una risoluzione che lo metteva alla disperazione; ma vedendo che gli era impossibile, e attribuendo la resistenza di lei a una supposta simpatia per un altro giovane, una furibonda gelosia lo accecò ed egli colpì cinque volte col coltello colei per cui avrebbe dato la vita.

Così finì il romanzo dei due poveri ragazzi : Ulbach aveva vent'anni; Amata diciannove. Ella non sopravvisse che pochi momenti alle sue ferite; egli si costituì otto giorni dopo al commissariato di polizia. Alle Assise confessò tutto; negò soltanto la premeditazione. Ma quando la padrona di Amata, che era tra i testimoni, venne a fare la sua deposizione, egli non potè trattenere un movimento d'odio e borbottò parole di sorda minaccia. La sua asserzione di aver agito senza premeditazione non fu nemmeno ascoltata; egli fu condannato alla pena di morte. Ascoltò la sentenza senza impallidire, e non avrebbe voluto nemmeno ricorrere in Cassazione, se non fossero stati il suo difensore e l'ecclesiastico che lo visitava in carcere. II ricorso fu però respinto. Il 10 settembre Ulbach fu giustiziato. Parecchi testimoni uditi al processo avevano detto che egli aveva il
presentimento di questa sua tragica fine, e che fin da quando il suo fatale amore aveva incominciato a fargli provare le torture della gelosia, egli aveva detto parecchie volte
- Non ci resisterò; sento che morrò sul patibolo.

I1l 28 ottobre 1828, si giustiziarono a Versailles due donne per due differenti cause: Rosalia Gabriella Jallagnier, vedova Pitron, per aver assassinato suo marito, e Angelica Caterina Darcy, di trentasei anni, per aver strangolato sua madre in una stalla. Quest'ultima doveva subire la pena dei parricidi, cioè l'amputazione della mano prima di aver tagliata la testa. Mio padre aveva inventato per questa complicazione di supplizio, fortunatamente rarissimo, un apparecchio che, fissando il polso del paziente, vi comprimeva la circolazione del sange in moda da attutire notevolmente la sensibilità. Il dolore immediato doveva essere dunque meno vivo che non si poteste supporre, e tra quella amputazione e la decollazione non passava intervallo di tempo abbastanza considerevole perchè la sensibilità si risvegliasse. Tuttavia Caterina Darcy cacciò urla spaventose: ma poichè ella aveva fatto altrettanto durante tutto il tragitto, è più verosimile attribuire questa recrudescenza di furore alla sua natura violenta e alla rabbia della disperazione che non alla sofferenza fisica.

Dopo la rivoluzione di luglio, a tutto l'anno 1831, non vi fu a Parigi nemmeno una esecuzione capitale; e la ghigliottina stessa, dalla piazza di Grève, fu relegata alla lontana barriera di San Giacomo. Soltanto il venerdì 3 febbraio 1832, dopo un'interruzione di diciotto mesi, noi rimettemmo in piedi il patibolo a Parigi. Anche l'odiosa carretta aveva fatto il suo tempo; il condannato di quel giorno fu il primo che si conducesse al supplizio in una vettura chiusa.

Il 30 agosto di quell'anno noi giustiziammo, colpevole di due omicidi, Federico Bénoît, figlio d'un onorato giudice di pace della Ardenne. Rinvio alle interessanti "Cause celebri" di A. Fouquier quelli che vorranno conoscere i particolari di questa faccenda, una di quelle che diedero maggior rilievo alla mostruosità di certe nature depravate. Ci basterà dire che il primo dei delitti imputati a Bénoit era l'assassinio della propria madre, da lui scannata per derubarla di 4000 franchi in monete d'oro. Egli aveva allora diciannove anni, veniva da famiglia onorevole, era ben educato: non si sospettò dunque nemmeno di lui. Le presunzioni si raccolsero contro un abitante del paese, che era in cattive relazioni col marito della vittima, e questi scampò per miracolo a una condanna, essendo stato assolto semplicemente a maggioranza di voti, in modo da rimanerne compromesso nell'opinione pubblica.

Intanto la famiglia, che destinava Federico al notariato, lo mandava dapprima a Nancy e poi a Parigi. Ma egli trascurò ogni lavoro e si sprofondò nei piaceri e nei vizi : il disgraziato era affetto di una perversione che oltraggia le leggi della natura. In una casa clandestina dove questa immonda lubricità celebrava le sue orge, egli incontrò un giovane caduto nella prostituzione più abietta, e lo trasse di là per farne il suo compagno abituale di casa e di letto. All'aurora di questo vincolo, che i due giovani potevano credere eterno, essi non ebbero segreti l'uno per l'altro, e si dovrebbe credere che Bénoit avesse confidato all'amico d'essere l'assassino della propria madre, se pure la terribile confessione non gli sfuggì nell'incosciente allucinazione del sogno. Certo è che Giuseppe Fromage, il depravato giovane, si trovò depositario del fatale segreto.
Ma ben presto Bénoît si stancò di quella relazione infame; volle trasvolare a nuovi piaceri; e colse il primo pretesto per separarsi da Fromage. Ma questi, abituato a non mancar di nulla e a vivere nell'ozio, non la intendeva così: egli incominciò a tempestare di richieste di denaro Bénoit, che s'era trasferito nella casa di suo padre a Vouziers; ma poichè Bénoit, ben comprendendo che il rispondere sarebbe stato incoraggiare nuove richieste, rimaneva zitto, Fromage prese il tono della minaccia e dichiarò che, se le sue domande rimanevano inascoltate, sarebbe venuto a Vouziers e vi avrebbe divulgato il fatale segreto che egli possedeva.
Bénoît si sentì perduto, e non esitò a concepire un secondo delitto per assicurarsi l'impunità del primo e rimuovere la spada di Damocle che pendeva sulla sua testa. Corse dunque a Parigi, finse di accordarsi con Fromage e sotto il pretesto di una gita di piacere lo trascinò a Versailles, dove, in una camera d'albergo, lo sgozzò come aveva sgozzato sua madre.
Credeva essersi messo in salvo, e fu invece perduto. Egli era stato veduto a Parigi la vigilia del delitto; era stato veduto a Versailles con Fromage; e fu arrestato tre giorni dopo. Nelle carte della vittima si trovò la minuta della lettera minatoria inviata a Bénoit, e da questa si ricostruì la sua criminosa esistenza. Bénoît negò energicamente e con molta abilità i due assassini a lui imputati; l'abitante di Vouziers falsamente accusato dell'assassinio di sua madre, si portò parte civile contro di lui e affidò la propria causa a un avvocato di grido, che sorpassò se stesso nel pronunciare uno schiacciante discorso d'accusa.

Bénolt fu condannato al supplizio dei parricidi, cioè ad essere condotto al patibolo in camicia, a piedi nudi e con la testa coperta da un velo nero.
Quando andammo a Bicétre per prenderlo, sentimmo già nell'anticamera le sue grida disperate : gli si era comunicato in quell'istante che aveva soltanto pochi momenti da vivere. Ben presto egli comparve, sorretto da due guardiani, poiché s'era afflosciato su se stesso e le gambe non gli servivano più. Era il primo condannato che vedessi in tale stato di debolezza davanti alla morte.

Quando lo si spogliò, conforme alla sentenza, e gli si tolsero le scarpe, egli ricominciò a urlare. Mai il terrore aveva avuto tali accenti. Le sole parole che si distinguessero in mezzo a quei gemiti inarticolati erano: - Grazia! Pietà! Sono innocente! Non mi portate via!
Egli voleva sollevarsi, poi ricadeva annientato tra le braccia degli aiutanti. Gli si coperse la testa del velo nero dei parricida, e partimmo. Durante il tragitto egli perdette i sensi più volte. Alfine, giunti al luogo del supplizio, inginocchiato sul predellino della vettura, egli fece sentire al sacerdote la confessione dei delitti che egli stava per espiare.
Questa confessione dell'omicida a Dio, benchè fosse fatta a voce molto bassa, io potei udirla e la raccolsi avidamente. Lo devo dire? Fino a quel momento io avevo ancora ammesso la possibilità che lo sciagurato fosse innocente. Le prove raccolte contro di lui erano gravi, ma non avevano per me quel carattere stringente e decisivo che solo può legittimare una condanna. La confessione disingannò il mio ottimismo.

Bénoit discese dalla vettura, portato dall'aiutante, e ricominciò a gettare urla atroci. Lo si portò a braccia anche sul patibolo, poichè egli non poteva rassegnarsi a posare a terra i suoi piedi nudi; perfino in simile momento quella natura snervata si rifiutava a una sofferenza fisica. Quando lo si legò sull'asse, egli era caduto in tale stato di prostrazione che il suo corpo non era più che una macchina inerte.
Al principio del 1836 il patibolo ebbe splendide strenne nella doppia esecuzione di Lacenaire e d'Avril. Bisognerebbe sopra tutto al primo di questi due criminali applicare quell'epiteto di "lion" del delitto, che ho già dato a Castaing. Non mai difatti un assassino aveva si fortemente cattivato l'opinione pubblica; non mai un assassino, sulla via che conduce dalla prigione all'aula delle Assise e al banco fatale, era stato seguito con più curiosi ed entusiastici sguardi, e quasi vorrei dire festeggiato con tali ovazioni. Non ridirò i delitti tanto conosciuti di Lacenaire. Il furto come scopo, l'assassinio come mezzo, tale era stato il sistema che aveva a sè tracciato uno degli uomini più audaci nel mettersi in guerra con la società. Questo sistema, Lacenaire volle metterlo largamente in esecuzione, non facendo che grandi colpi. L'assassinio e il furto d'un fattorino di Banca carico d'una borsa ben piena, questa era la chimera che egli inseguiva con incredibile tenacia. Parecchi tentativi ripetuti senza successo non portarono che a far cadere i complici di Lacenaire e ben presto lui stesso nelle mani della giustizia.

Quanto cinismo e quanta audacia dimostrò allora il disgraziato, è quasi impossibile a dirsi. Anzichè riconoscere nei delitti che altamente egli confessava le conseguenze del vortice delle malvage passioni, egli volle riconnetterli a principii fissi, e drappeggiandosi nelle teorie di un materialismo abietto, pretese spiegare la propria condotta con svergognati sofismi, e giunse a farli ascoltare con compiacenza, che dico? egli fu festeggialo e ammirato. Fu un portarsi via la sua prosa, un disputarsi i suoi versi. Egli ha trovato in seguito perfino il suo Plutarco in un nero giornalista che si compiacque a raccontare in una serie d'articoli, poi raccolti in volume, questa leggenda epica dell'assassinio.
Noi passeremo sotto silenzio le scene d'addio un po' teatrali della partenza di Lacenaire dalla Conciergerie e da Bicétre; l'atteggiamento scettico che egli affettò di serbare mentre Avril ascoltava, col raccoglimento di un cristiano che si pente, le preghiere degli agonizzanti recitate per loro nella cappella della prigione; noi attendemmo Lacenaire nell'anticamera della cancelleria, dove si doveva procedere all'acconciatura dei condannati.
Egli vi si presentò, tenendo il sigaro in bocca, con una sicurezza che non mancava di affettazione. Quando fu seduto sullo sgabello, egli rivolse la parola con scioltezza alle poche persone che si trovavano là. Uno degli aiutanti gli tagliò i capelli; egli lasciò fare, e quando fu finito, domandò lo stesso vestito che portava alla Corte d'Assise. Si ebbe premura di darglielo; era una redingote, che egli si gettò sulle spalle a guisa di mantello.
Avrir non posò ad uomo sicuro come il suo complice; ma mostrò un sangue freddo non meno straordinario. Il giorno spuntava appena, e poichè si era nel freddo mese di gennaio, Avril non potè reprimere qualche brivido. Allora, parodiando senza saperlo la celebre uscita di Bailly - "Diavolo! - egli disse - tremo dal freddo. Si sarà capaci di credere che io abbia paura".
Egli domandò un bicchierino d'acquavite per riscaldarsi; un guardiano glielo portò.
- Grazie, vecchio mio - egli disse. - E ne inghiottì il contenuto in un sorso, facendo schioccare la lingua.
Quando gli si furono legati i piedi e le mani come a Lacenaire, egli prese congedo dai presenti con queste parole
- Addio a tutti.
Si partì; il tragitto durò a lungo, perchè le strade erano pessime. L'abate Montès fece gli ultimi tentativi per toccare l'anima ribelle di Lacenaire. Tutto si spezzò contro il ghiaccio di quello scetticismo reale o affettato.
Quando si discese, Avril, che doveva essere giustiziato per primo, abbracciò il degno prete che lo assisteva, quindi salì con passo fermo i gradini del patibolo. Giunto sulla piattaforma, egli si voltò verso Lacenaire e gridò con voce forte e sicura
-- Addio, Lacenaire! Addio, mio camerata!
Un impercettibile sorriso errò sul viso pallido di quest'ultimo, che protese la testa per veder cadere quella del disgraziato, che egli aveva condotto a perdizione. Il rumore del coltello che cadeva non lo fece nemmeno trasalire. Egli ascese alla sua volta i gradini, e spaziò con un lungo sguardo sulla folla, che forse egli aspettava più numerosa. Credemmo che egli volesse parlare; ma egli venne invece spontaneamente a distendersi sull'asse, ancora sgocciolante del sangue d'Avril.

Ecco la verità sulla morte di Lacenaire. So bene che un giornale dell'epoca, il giornale giudiziario più accreditato, pubblicò una versione affatto diversa, che rappresentava Lacenaire ridotto alfine a pagare il suo tributo al terrore del castigo; ma non è oggi più un mistero che alte influenze s'erano adoperate per ottenere questa alterazione della verità. Si cerca ancora di spiegare in varie maniere questa menzogna ufficiale: chi dice che si era voluto riparare il torto di aver lasciato quasi glorificare lo sciagurato; altri pensano che si sia indietreggiato dinanzi all'immoralità d'un quadro che mostrava il delitto affrontante la morte con la calma e lo stoicismo della virtù. Quanto a me, sono convinto che si sia avuto un unico fine gettare un velo sull'inefficacia della pena di morte che anche questa volta s'era mostrata tanto impotente a reprimere quanto era stata a prevenire.

Il 19 febbraio avemmo una triplice esecuzione, che richiamava i più tristi ricordi del Consolato. Voglio parlare di quella di Fieschi, Morey e Pépin, condannati a morte tutti e tre dalla Corte dei pari, con le aggravanti riservate ai parricidi, per l'affare della macchina infernale scoppiata sul Boulevard del Tempio, nel momento che il re Luigi Filippo sfilava col suo corteo per celebrare l'anniversario del 28 luglio 1830. Si ricordano tutti i particolari della dolorosa catastrofe : il Re e i suoi figli miracolosamente sfuggiti alla pioggia di proiettili; ma quarantadue persone cadute, intorno a loro, diciannove delle quali per non rialzarsi più : un maresciallo di Francia, alcuni alti ufficiali risparmiati in cento combattimenti, funzionari, negozianti, operai, donne, fanciulli. Lo stesso autore del criminoso tentativo per poco non vi lasciava la vita; giacché quando lo si arrestò, egli era ferito gravemente dall'esplosione di alcune delle canne da fucile introdotte nel suo congegno.

Quando si poté stabilire la sua identità, si seppe che egli era un Corso di bassa estrazione, chiamato Fieschi, che aveva fatto tutti i mestieri, compresi quelli del disertore e della spia, macchiato di una condanna infamante, ridotto alla più profonda miseria, e fattosi assassino politico per speculazione, mettendosi agli stipendi di alcuni sciagurati fanatici. Fedele alla sua abitudine di tradire, Fieschi si affrettò a rivelare i nomi di costoro: erano dei borghesi, un sellaio della via Saint-Victor e un droghiere dei sobborgo Sant'Antonio, ai quali poi vennero ad aggiungersi un negoziante di ferrivecchi e un legatore di libri. Ecco un personale di cospiratori abbastanza mal reclutato per mutare le sorti di un regno. Non racconterò i particolari conosciutissimi dei processo. I ricordi di Lacenaire erano ancora palpitanti. Egli non seguì un così illustre modello fino all'apologia del delitto, egli lo imitò almeno nella pertinacia e nell' acrimonia delle rivelazioni. Meno preoccupato di giustificarsi che di accusare i suoi complici, egli si guadagnò così la benevolenza della polizia, avida di risalire in questo affare fino a un'iniziativa più alta che quella finora palesatasi, e poiché spirava vento propizio agli scellerati, Fieschi ebbe anche lui, dopo Lacenaire, il suo momento di popolarità. Egli fu trattato con riguardi in prigione e poté spiegare dinanzi alla Corte dei pari un nuovo genere di eloquenza le cui eccentricità burlesche fecero talvolta sorridere, non senza che certi scatti, impregnati d'odio e di fiele, sollevassero il disgusto della Corte. Il risultato di tutto questo movimento fu che Fieschi trascinò con lui sul patibolo due dei suoi complici, il sellaio Morey, vecchio sessantenne e il droghiere Pépin, uomo di trentacinque anni e padre di quattro bambini. Degli altri due, uno fu condannato vent'anni di detenzione, e l'altro assolto.
Morey era un vecchio esile e malaticcio, ma aveva grand'anima in un corpo consunto. Egli conservò fino alla fine un atteggiamento romano e ascoltò la sua sentenza coll'impassibilità stoica di un Catone. Pépin, che aveva dato prova di debolezza durante gli interrogatori, si risollevò quando fu fatto certo della sua trista sorte. Egli scrisse una lettera toccante al suo avvocato e regolò i propri affari in modo che la sua perdita compromettesse il meno possibile gli interessi della sua famiglia.
In quanto a Fieschi, la sua verbosità e la sua iattanza non lo abbandonarono nei pochi giorni che rimase ancora al carcere del Lussemburgo dopo la sua condanna. La meschina sua vanità fece il possibile perché il pubblico si occupasse di lui fino all'ultimo momento.
Frattanto si compivano tutti gli sforzi per strappare rivelazioni su altri complici a Morey e a Pépin, che si sospettavano aver ordito il delitto in obbedienza a ordini superiori; l'uno e l'altro rifiutarono con incrollabile costanza, sia che non avessero rivelazioni da fare, sia che volessero rimaner fedeli a una parola data e rispettare il segreto del loro partito.
La famiglia di Pépin intercedette presso il re; Luigi Filippo diede a quelle sollecitazioni una risposta ammirabile :
- Vorrei aver pagato col mio sangue in quella crudele giornata --- egli disse - il diritto di fare la grazia; ma ho un dovere verso la memoria e le famiglie di tante infelici vittime.
Il 19, sul far del giorno, andammo a prendere i condannati alla prigione del Piccolo Lussemburgo. Durante la toilette Fieschi parlò molto e con animazione febbrile; Pépin si mostrò calmo e rassegnato; Morey apparve, come sempre, chiuso ed austero. Si voleva tagliare il collare del suo panciotto, che saliva troppo alto sulla nuca; egli osservò
- Perché guastare questo panciotto? E ancora abbastanza buono per regalarlo ad un povero.

Nel momento di partire, Fieschi volle avvicinarsi ai suoi compagni di supplizio e attaccar discorso con loro; Pépin gli rispose freddamente, ma senza acrimonia; Morey si voltò con disprezzo.
Durante tutto il tragitto, Pépin non fece che ripetere, come un pubblico banditore, ma con un accento lugubre
- Ecco Fieschi e il suo delitto che passano.
Giunti a destinazione, egli fu il primo a scendere, ed ebbe ancora a respingere le sollecitazioni e le promesse di un commissario di polizia che tentava di cavargli rivelazioni. - Non ho più nulla da dire - fece con fermezza, e salì lestamente sul palco, dove la sua testa cadde la prima.
Non s'era nemmeno tentato di sperimentare le stesse lusinghe sul vecchio Morey, da cui si sapeva di non poter nulla ottenere. Essendo infermo lo si dovette quasi portare sul patibolo; ma nessuno dei più vicini dubitò che ciò si dovesse a debolezza. Il suo sguardo era sicuro, e non un muscolo dei suo viso s'era scomposto.
Fieschi salì per ultimo, e l'imparzialità mi obbliga a dire che questo Corso millantatore non diede sulle prime alcun segno di abbattimento d'animo. Egli volle anche arringare la folla dall'alto del palco, e pronunciò alcune parole, vantandosi di aver reso un servizio al paese col rivelare i suoi complici. Ma tutt'a un tratto il suo viso impallidì, i suoi lineamenti si scomposero, la sua lingua incespicò, ed egli cadde fra le braccia degli aiutanti. Un momento dopo, egli aveva raggiunto le sue vittime.

L'11 luglio di quell'anno, ancora l'esecuzione d'un regicida, ma d'altra tempra che il miserabile Fieschi : era il giovane provenzale Luigi Alibaud, di 26 anni, che all'angolo della rue de Rivoli aveva tirato sulla carrozza di Luigi Filippo, senza ferire il re, né fare altre vittime. Fu condannato a subire il supplizio in camicia, a piedi nudi, la testa coperta da un velo nero, e morì con maschio coraggio.

Nel 1837 non vi fu che una sola esecuzione, a Beauvais; nel 1839 nessuna, nè a Parigi, ne in provincia; nel 1841 avemmo di nuovo a giustiziare un regicida, Darmés, che l'11 ottobre dell'anno precedente aveva fatto fuoco contro il re. Ma il delinquente più famoso di quel decennio fu Poulmann, la cui ripugnante celebrità pareggiò per un momento quella di Lacenaire. Era Poulmann difatti una natura eccezionale, e se non eresse il delinquere e l'assassinare a principio come il suo predecessore, era assolutamente meglio dotato della vigoria fisica necessaria per splendere in siffatta carriera. Condannato a morte il 27 gennaio 1844 per aver assassinato un vecchio di settant'anni, che teneva un albergo isolato tra Marmont e Nangis, egli non volle nemmeno ricorrere in cassazione. Quando venne a suonare l'ora del castigo, egli diede prova del più sorprendente coraggio. Materialista e senza fede in un'altra vita, la morte non fu per lui che il passaggio dall'esistenza al nulla, un istante da superare per essere liberato da tutte le sensazioni umane.
Poulmann era particolarmente orgoglioso della sua forza fisica, e si temette che egli ne abusasse, opponendo resistenza all'esecuzione della condanna. Per questo motivo, io ero stato invitato a raddoppiare il numero dei miei aiutanti.

Questi timori non ebbero ad avverarsi. Egli si lasciò tagliare i capelli senza obiezioni; e solo quando si trattò di legargli le mani -- io lo assicurai che ciò si faceva a tutti i condannati - egli osservò
- E poi sicuro che lo fate a tutti? Se credessi che sia soltanto per me, vi avrei fatto ben presto rotolare a cento passi, voi e la vostra masnada.
Poulmann aveva sempre rifiutato i conforti della religione. Egli non volle nemmeno permettere all'abate Montés di accompagnarlo durante il tragitto dalla Roquette alla barriera San Giacomo. II degno prete fu obbligato di partire in una vettura a parte, per trovarsi davanti al patibolo, nel caso che la vista dello strumento di morte avesse convertito in penitente l'indurito colpevole.
Non fu così. Poulmann contemplò la ghigliottina senza batter ciglio.
- Non é che questo? -disse.
Nessuna affettazione, nessuna bravata, lo attesto, in questa incredibile sicurezza. Era la più perfetta indifferenza per la vita e per la morte.
Arrivato sul patibolo, Poulmann si rivolse agli aiutanti, e disse
- Ah, dunque, non pensate di mettere un pezzo da venti !soldi nella mia saccoccia per l'affossatore? Non fa caldo; bisogna bene che il povero diavolo possa riscaldarsi, dopo il suo lavoro, con un litro di vino bevuto alla mia salute. - E scoppiò in una grossa risata.
Il primo aiutante si affrettò a compiacerlo.
- Addio a tutta la compagnia! - aggiunse Poulmann.
E poi pronunciò parole affettuose di saluto alla sua amante, Luisa Simonet, condannata a vent'anni di carcere per complicità nel suo delitto.
Alle otto del mattino egli aveva cessato d'esistere.

Ancora esecuzioni... Ma la penna con cui le avevo registrate a somiglianza dei miei maggiori, finì con lo sfuggirmi di mano; più di cento teste tagliate in un quarto di secolo avevano finito -con l'esaurire le mie forze. Da quattro anni avevo perduto mio padre; credevo aver pagato largamente il tributo alla pietà filiale che mi aveva fatto accettare la sua grave successione. Restavo esecutore di nome; Piol faceva tutto il servizio. Aspettavo che si pensasse a sbarazzarsi di me, fannullone della ghigliottina. La mia revoca, che prevedevo da lungo tempo, venne
nel 1847.

EPILOGO

Ho finito. C'è bisogno di indicare al lettore la prima conclusione che egli deve tirare da questo libro, dal momento che esso esce dalla tradizione e dai ricordi storici per entrare nel dominio delle cose che ho veduto e ho creduto di dover raccontare?
Il bilancio é zero per la pena di morte.
Dove si é veduto, in questa lunga sequela di supplizi, lo spaventevole castigo per cui le leggi umane invadono il campo della potenza divina, compensare con vantaggi pratici ciò che che v'ha in esso di teoricamente mostruoso? Dove lo si é veduto, se non prevenire il delitto, almeno reprimerlo con un esempio salutare?
Forse fra tutti quei condannati che non si degnano nemmeno di ricorrere in cassazione?
Forse in quella folla di pazienti che vanno alla morte con passo ferino e con occhio calmo, affettando di disprezzare il castigo che loro si infligge?
Bénoit solo trema in quell'orribile momento e presenta tutti i segni di un terrore profondo; ma Bénoit, natura effeminata, temperamento snervato dalle dissolutezze, è una mostruosa eccezione; e nemmeno questo scellerato, in cui era sì forte il terrore della morte, ne é stato trattenuto dal commettere due orribili omicidi il cui solo pensiero fa fremere d'orrore.

Ma che dire di Lacenaire, mostratosi così superiore alla sua punizione, che per rispetto alla morale si fu ridotti a calunniarne la memoria e ad accusarlo d'una debolezza che egli non provò. Si crede che non si sarebbe pervenuti meglio a domare questa intelligenza orgogliosa e ribelle con le amarezze dell'ergastolo e le umiliazioni di un lavoro pesante? Si tratta dunque sempre di castigare e mai di guarire? E che cosa è dunque il castigo quando esso non raggiunge nemmeno lo scopo che s'era proposto? Una vana e sterile illusione!
Avverrà della pena di morte come dei crudeli supplizi che sono scomparsi dalle nostre istituzioni giudiziarie. Se la legge francese acconsente ancora ad uccidere, almeno essa ha rinunciato a far soffrire quelli che essa immola; é già un progresso della ragione e dell'umanità. Ma adottanto la ghigliottina come strumento della pena capitale, é la legge sicura di aver raggiunto il suo intento?
Per mio conto lo credo, benché abbia veduto talvolta convulsioni strane passare sulla faccia di tutte quelle teste tagliate che, sotto i miei occhi, sono cadute nel fatale paniere.

Mi é piaciuto non riconoscervi che movimenti automatici dell'apparecchio muscolare del sistema nervoso. Ma tutti non sono di questa opinione: sapienti fisiologi, uomini Versati nei misteri dell'anatomia, hanno affermato la durata più o meno lunga di un postumo dolore rifugiato nel cervello, che é, come noto, il centro della sensibilità.
Se ciò fosse?
Non si può pensarvi senza fremere. La nostra pretesa umanità non sarebbe che un raffinamento di barbarie.
La pena di morte ha fatto il suo tempo.
Abolendola, si libererà da penosi doveri una classe di funzionari, per i quali io alzerò tanto meglio la voce in quanto ho cessato di farne parte. Si restituirà alla stima dei loro concittadini uomini che non l'hanno demeritata se non sotto l'impero del più illogico dei pregiudizi. E assurdo di far.. sopportare al solo esecutore tutto il fardello della ripulsione che ispira la pena di morte.

E questo funzionario più colpevole che il pubblico ministero, il cui dovere era quello di provocare la condanna? E più colpevole dei giurati che, posti fra il sì e il no, si sono decisi per la sillaba omicida? E più colpevole della Corte che ha pronunciato la condanna? Della Cassazione che l'ha confermata?
A Dio non piaccia che parlando così io abbia l'ambizione di stabilire un confronto irriverente fra questi augusti tutori della società e l'umile esecutore delle volontà della legge. Io non voglio che indicare la logica catena che gli impone un sì rude compito, e quindi l'incongruenza del pregiudizio che lo colpisce di una riprovazione contro la quale egli dovrebbe essere protetto dalle esigenze stesse dell'interesse sociale.
Dunque, rispetto agli uomini, che in alto o in basso della scala sociale, adempiono con onore la missione che è stata loro affidata; ma guerra alle istituzioni che, colpite di una repellente caducità, non si sostengono più senza ferire la coscienza pubblica.

Tra queste la pena di morte, condannata a sparire, prima o dopo, dai nostri codici. Potesse questa santa riforma splendere sull'orlo della mia tomba, e io non rimpiangerò d'aver scritto questa triste confessione, dove ho dovuto accusarmi di avere fatto cadere più di cento teste giacchè io non domando né spero altra assoluzione.

F I N I S


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