Analisi e contributi critici allo studio della storia italiana
di F. R. (Francesco Rossi) e  L. M. (Luca Molinari)

(per "Storiologia" e "Cronologia" )

 
L’ITALIA UNITA - 1861 - 2000     Analisi del sistema politico italiano

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* TRA CAVOUR E MAZZINI (di L.M.)
* TRASFORMISMO: MODERNIZZAZIONE E MALCOSTUME ( L.M.)
* 25 APRILE (di L.M.)

* UNO SGUARDO AL PASSATO (di L.M.)

* TRA CAVOUR E MAZZINI 
  
Il Risorgimento italiano non è comprensibile se lo si estrapola dal resto della storia italiana. Fin dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente era mancata una unica realtà geopolitica in grado di unificare la penisola che si era trasformata in un campo di battaglia su cui erano transitati tutti gli eserciti nazionali o mercenari dei principali paesi europei. 
Mentre si formavano le principali nazioni europee, la penisola stentava a riconoscersi in un’unica realtà politica e culturale e continuavano ad esistere le rivalità tra i principali principi italiani, forte era l’influenza dei poteri stranieri e, come ben aveva sottolineato Machiavelli, fin dal XVI secolo vi era stato un esorbitante potere temporale delle gerarchie ecclesiastiche contrarie all’unità nazionale. 

Erano sempre di grande attualità gli addolorati versi politici che Dante aveva dedicato alle infauste condizioni della penisola: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!" ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI, 76-78). 

L’unificazione avvenne nel 1861, ma non fu frutto di quel moto nazional popolare auspicato da Giuseppe Mazzini, ma fu la vittoria della linea monarchica e liberale di Camillo Benso conte di Cavour, per cui l’unità nazionale non era altro che l’ampliamento del Regno di Savoia; non a caso il primo Re d’Italia non mutò il numero della linea dinastica mantenendo il nome di Vittorio Emanuele II, segno tangibile della poca sensibilità nei confronti dei nuovi sudditi. Come ebbe a dire Gaetano Salvemini: “A mezzo il secolo XVIII, la parte settentrionale della penisola italiana era divisa fra quattro dinastie e due repubbliche. Se ora saltiamo da mezzo al secolo XVIII al 1871, troviamo che l’intera penisola è stata unificata sotto una sola delle dinastie, la casa Savoia. Tutte le altre dinastie erano state spossessate". (ora in Giovanni Spadolini, Gobetti un’idea dell’Italia, Longanesi & C., Milano 1993- p. 299)

Nel 1861 l’Italia smetteva di essere soltanto quella “espressione geografica” di cui aveva parlato il Metternich all’inizio del XIX secolo, ma non era ancora divenuta quell’unica entità cara a Manzoni, “una d’arme, di lingua, d’altare,/di memorie, di sangue e i cor." (A. Manzoni, Marzo 1821, v. 31-32, ora in L. Bianchi – V. Mistruzzi, Convegno, ed, Zanichelli, Bologna 1960, p. 900). Ciò riuscirà solo grazie alle trincee della Grande Guerra, ai diciotto mesi di lotta partigiana e, anche se ciò può sorprendere o risultare paradossale, soprattutto ad opera della televisione negli anni ‘50-’60 del XX secolo. 

L’Italia unificata iniziava, fra molti problemi (in primis la Questione romana e la quella meridionale), il suo mutamento di cui noi oggi siamo gli ultimi prodotti. All’origine della nostra storia unitaria, come accennato in precedenza, vi fu la possibilità di scegliere tra la via liberale e monarchica di Cavour e quella democratica e popolare di Mazzini: tutti sappiamo bene che prevalse la linea moderata, ma il pensiero del Mosè dell’Unità, rappresentava l’opzione più ambiziosa che, in un’Italia presto vittima di bassi e deteriori compromessi, è sempre attuale. In ogni tempo sono valide le parole di Andrè Malraux, “Non si fa politica con la morale, ma non la si fa meglio senza.”   

* IL TRASFORMISMO:
MODERNIZZAZIONE E MALCOSTUME 

  
Fino alla presa di Roma (settembre 1870) l’elemento distintivo tra le due principali aree della politica del giovane Regno d’Italia (Destra Storica e Sinistra Storica) era stato rappresentato da come giungere ad annettere Roma al Regno. La Destra Storica riteneva che ciò dovesse avvenire attraverso un’azione diplomatica tra l’Italia e la Santa Sede, invece la Sinistra Storica Roma doveva essere presa ad ogni costi utilizzando ogni mezzo, anche militare e violento, possibile. Dopo la “breccia di Porta Pia” e la dichiarazione di “Roma Capitale” la politica italiana dovette ricalibrarsi ponendosi nuovi obiettivi e nuove tematiche. Si cominciò a sostenere che la politica dovesse diventare una scienza positiva, ossia dovessero venire meno le divisioni ideologiche esistenti in precedenza e che i partiti dovessero trasformarsi (da qui il termine trasformismo) guardando il “bene comune”. Per guidare questa nuova fase ci si rifece alle tesi di uno studioso svizzero Blunsqui il quale vedeva i partiti divisi in quattro diverse aree corrispondenti alle fasi della vita umana: giovinezza-radicali, maturità-liberali, media età-conservatori, senelità-reazionari. 

L’ideale sarebbe un governo fatto dall’alleanza liberali-radicali che si alternanza ad un governo realizzato dall’alleanza conservatori-reazionari. Qualora in seno alle due coppie di partiti politici fossero più forti le componenti estreme (radicali e reazionari) si dovrebbe giungere “all’unione dei centri”, ossia all’alleanza tra liberali e conservatori per avere un’azione di governo basata su elementi di moderazione e di tiepido riformismo. Furono proprio questi presupposti alla base dell’accordo tra Marco Minghetti ed Agostino Depretis che, nel 1876, portò il leader della Sinistra Storica alla guida del governo del Regno inaugurando la stagione del trasformismo, il cui significato cominciò ad assumere un significato negativo a causa delle accuse rivolte all’alleanza Minghetti-Depretis dagli esclusi da tale accordo: i componenti della Pentarchia. 
I cinque componenti quest’area non erano affatto innovatori e la loro opposizione non era spinta da motivazioni politiche, ma da motivi personali: Crispi era l’altro leader della Sinistra Storica sempre in competizione con Depretis, Cairoli era una cariatide del Risorgimento, uomo senza infamia e senza lode, Baccarini era un oscuro deputato di Ravenna, Zanardelli un rispettabile, ma stagionato deputato del Nord ed infine vi era l’uomo più chiacchierato e più corrotto del Parlamento italiano, Nicotera.

 La critica storica al trasformismo, quindi, non può prendere le mosse da elementi di carattere etico e morale, ma da una considerazione più propriamente storica: non si giunse ad un sistema politico dialettico e competitivo, ma si ebbe una situazione di blocco e di stagnazione che si sbloccarono solamente con l’avvento del demiurgo, il decisionista Francesco Crispi, l’uomo della disfatta coloniale di Adua e della feroce repressione dei Fasci Siciliani, per il quale il miglior governo non poteva che non coincidere con il proprio governo. Quindi tutto ciò che si opponeva al proprio governo veniva visto come un’opposizione al Governo ed allo Stato e, quindi, andava combattuto e sconfitto in maniera definitiva. 

Accade spesso, però, che la storia non si comporti esattamente come i suoi protagonisti vorrebbero: infatti l’epoca crispina si concluse con il fallimento delle esperienze coloniali in Africa, punta di diamante della politica dello statista siciliano. Caduto Crispi e dopo la transizione di fine secolo (Pelloux, fatti di Milano) si affacciava sul palcoscenico della politica italiana l’unico vero statista dell’età liberale, Giovanni Giolitti, che, volendo inserire nel gioco parlamentare le due grandi forze di massa emerse a cavallo del secolo (i cattolici ed i socialisti) per attenuarne la forza propulsiva di cambiamento, ideò e diede pratica ad una pratica di governo basata sull’acquisizione continua del consenso dei singoli deputati (i famosi ascari) in cambio di favori e lavori nei collegi elettorali dei medesimi. Questo fu forse il vero trasformismo a cui i più riferiscono il termine. Tale sistema di raccolta e di controllo del consenso, peraltro non molto innovativo in quanto già in uso ai tempi di Nicotera, era altamente criticabile dal punto di vista etico morale (per tutti vale Il Ministro della Malavita di Gaetano Salvemini), ma rappresentò anche il primo ed unico passo lungo la via della modernizzazione e della completa integrazione politica del Paese durante la monarchia. Fu proprio nel fallimento dell’esperienza giolittiana che nacquero i germi che, alimentati dai guai provocati dalla Grande Guerra, permisero l’avvento del fascismo e la ventennale dittatura mussoliniana. 

* 25 APRILE 1945
  
La data del 25 aprile rappresenta un giorno fondamentale per la storia della giovane repubblica italiana. E’ l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe di occupazione naziste tedesche e contro i loro fiancheggiatori fascisti. 
Il 25 aprile 1945 segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale e civile italiana impegnata nella riscossa contro gli invasori e come momento di riscatto morale di una importante parte della popolazione italiana dopo il ventennio di dittatura fascista. La stessa storia dell’Italia repubblicana fonda interamente le proprie basi nell’esperienza dell’antifascismo che Piero Calamandrei definì “quel monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”, elemento base di una nuova religione civile della nascitura giovane democrazia repubblicana. 
Si è parlato più volte e da più parti della Resistenza come di “un secondo Risorgimento i cui protagonisti furono le masse popolari” (Sandro Pertini). Non è intenzione di chi scrive fornire una ricostruzione storica dei fatti e dei protagonisti, ma semplicemente sfatare una teoria storiografia revisionista che, negli ultimi anni, è molto di moda: la Resistenza come “guerra civile”. 
Benché la Resistenza non sia stato un fatto coinvolgente la maggioranza degli italiani, ma solo quella relativa degli abitanti delle aree centro-settentrionali, essa non è stata affatto una guerra di italiani contro italiani, come, in Spagna nel 1936, si era avuto uno scontro di spagnoli contro spagnoli. 
Infatti vi fu lo scontro tra soldati e combattenti italiani contro gli invasori tedeschi ed i loro collaboratori repubblichini, i primi, nel rispetto della pluralità politica, combattevano in nome della democrazia liberale o socialista che fosse, i secondi combattevano a fianco delle SS hitleriane sostenitrici del primato della razza ariana e della necessità di conquistare uno “spazio vitale” per la Germania nazista. 

Chi scrive non vuole assolutamente cadere nella retorica resistenziale, ma è fortemente concorde col fatto che la Resistenza fu un momento edificante in cui si affrontarono i sostenitori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale contro gli adulatori della tirannide e della barbarie di cui furono essi stessi le prime vittime, se di “guerra civile” si vuole parlare la si deve intendere come “per la civiltà” (Dante Livio Bianco), come “una guerra politica, popolare ….. .Una guerra democratica, in duplice senso, in quanto democratico è il suo metodo ed è democratico il suo ultimo, l’abbattimento di una dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere" (ora in Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973, p. VIII) (Norberto Bobbio)

Con ciò non si vuole fare un discorso relativo alle singole persone che combatterono su entrambi i fronti in buona fede che vanno sempre e comunque rispettate se non altro per i dolori e le sofferenze che furono costretti a subire. Premesso tale rispetto per tutti i morti mi sembra lecito oppormi a quanto proposto da più parti (politiche e non) di trasformare il 25 aprile nel giorno della pacificazione nazionale per ricordare i morti: i morti, tutti i morti, si commemorano il 2 novembre e la questione della pacificazione nazionale è già stata risolta, in chiave politica dall’amnistia promossa dall’allora Guardasigilli Palmiro Togliatti e, in chiave storica e letteraria da uno dei principali esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il compianto senatore Leo Valiani che, nel pubblicare il suo diario del periodo clandestino, nella dedica iniziale scrive “A Duccio Galimberti, per tutti i caduti,/ della nostra parte e dell’altra" (Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, il Mulino, Bologna 1983, p. 15), volendo così separare gli aspetti personali ed umani (e umanitari) della questione da quelli politici e storici. 

Ciò che più rammarica è che la Resistenza, lungi dall’essere un momento corale di unità popolare e nazionale, sia divenuta “la resistenza incompiuta o interrotta destinata, come tutti i conati, a indicare una meta ideale più che non a prescrivere un risultato" (ora in Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, op. cit., p. XI) (Norberto Bobbio). La Resistenza doveva divenire il “mito fondatore” su cui basare la Repubblica democratica scaturita dalle scelte dell’Assemblea costituente figlia della stessa esperienza partigiana, purtroppo ciò non è avvenuto completamente, ma quei valori di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale, contenuti nella Prima Parte della nostra Costituzione sono sempre validi ed attuabili ed ad essi ogni democratico deve rifarsi nella propria azione quotidiana.
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* UNO SGUARDO AL PASSATO 
  
La Repubblica italiana nasce dal libero e democratico voto del popolo il 2 giugno 1946. Insieme alla scelta relativa alla nuova forma di governo da dare al Paese il corpo elettorale fu chiamato a votare per l’elezione di un’Assemblea Costituente il cui compito fu la stesura e l’approvazione di una nuova Costituzione che vide la confluenza delle principali forze e delle maggiori idee dell’antifascismo e della cultura democratica laica, cattolica e marxista. Questa prima fase della storia repubblicana fu caratterizzata dalla collaborazione al governo dei maggiori partiti politici di massa (Dc, Psi, Pci) e dei partiti laici minori. Fu compito di questa generazione politica traghettare sulle sicure rive della democrazia e della libertà un Paese in cui erano ancora bene evidenti i segni della dittatura fascista ed i danni della guerra. Per dirla con le parole dell’illustre giurista Piero Calamandrei, La Repubblica italiana fu un “patto fra uomini liberi e forti” e la Costituzione divenne la più nobile ed alta espressione dei valori democratici ed antifascisti e del rifiuto fermo e perpetuo della violenza e della prevaricazione delle libertà civili e politiche che avevano caratterizzato tutto il ventennio mussoliniano durante il quale erano stati arrecati gravi danni all’economia nazionale (in una nazione che doveva compiere il balzo verso l’industrializzazione di massa fu, invece, sostenuta l’autarchica e fallimentare “campagna del grano”) e si era disonorato il nome dell’Italia coinvolgendola, nella veste di Paese aggressore, in ben tre conflitti (Africa orientale, Spagna, II Guerra Mondiale), di cui uno, la II Guerra Mondiale, al fianco ed in complicità della Germania nazista e del folle progetto razzista di Hitler. 

Fu la Resistenza partigiana antifascista a riscattare l’onore e la dignità del nostro Paese aprendo una nuova e più proficua era di Pace e di sviluppo. La classe politica dell’immediato dopoguerra aveva, però, ben chiaro in testa che le prime vittime del fascismo erano stati tutti coloro (soprattutto le donne) che in buona fede e senza macchiarsi di gravi colpe, avevano appoggiato Mussolini: in quest’ottica va vista la famosa amnistia voluta dal Guardasigilli Palmiro Togliatti (Pci) attraverso la quale si imboccava la via della concordia nazionale e della pacificazione che non venne mai meno neanche negli anni successivi all’esclusione delle sinistre socialcomuniste dal governo (1947) ed all’inizio della lunga egemonia democristiana nella guida del Paese (1948). 

Gli anni del centrismo degasperiano, grazie all’opera ed alla figura dello statista democristiano, posero le basi, grazie al lavoro ed al sacrificio del popolo italiano, del futuro progresso civile ed economico dell’Italia repubblicana. Proprio in quegli anni l’Italia è fra i protagonisti dell’avvio di quel processo di unificazione europeo, di carattere economico e politico, di cui oggi stiamo raccogliendo i frutti (Euro ed Unione Europea). 
Un momento molto importante della vita politica e sociale italiana lo si ebbe negli anni ’60 quando, accanto al boom economico che caratterizzò quel decennio, nacque, grazie a Fanfani, Moro e Nenni, una nuova formula di governo: il centro-sinistra, ossia la collaborazione al vertice della guida del Paese tra la Dc ed il Partito Socialista che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di riforme strutturali del sistema Italia, ma le più innovative ed incisive furono abbandonate a seguito delle pressioni degli ambienti più reazionari del Paese che minacciarono di ricorrere anche a forme estreme come il colpo di stato (il famoso “rumor di sciabole” di cui parla l’on. Nenni nei suoi diari). Un’altra opportunità di rinnovamento e di modernizzazione del Paese la si ebbe a metà degli anni ’70 quando, dopo la bufera del ’68 studentesco, dell’autunno caldo operaio e le lotte per il divorzio, era ormai all’orizzonte l’incontro tra i due massimi partiti popolari di massa, la Dc di Moro ed il Pci di Berlinguer. 

Fu la grande occasione del Compromesso storico, ossia la formazione di governi che prevedevano la partecipazione di personalità appartenenti a tutti i partiti democratici per una modernizzazione ed uno sviluppo sostenibile del Paese in un decennio caratterizzato dalla crisi economica e dalla violenza del terrorismo (nero o rosso che fosse). Il rapimento e l’omicidio dell’on. Moro misero fine a questo tentativo innovativo ed aprirono le porte ad un decennio, gli anni ’80, in cui si è svolta una lotta aspra tra due Italie: l’una, quella di Sandro Pertini, Enrico Berlinguer e Giovanni Spadolini, sottolineava l’importanza decisiva della “questione morale”, metteva in guardia contro la degenerazione del sistema politico e denunciava le trame occulte come la P2. L’altra, quella dei nani e delle ballerine, assecondava il rampantismo dilagante, cementificava tutto il cementificabile dimenticando l’insegnamento di Andrè Malraux secondo cui “Non si fa politica con la morale, ma non la si fa meglio senza”

La Costituzione del 1948 cominciava a segnare, solo per quanto riguarda la parte tecnica-ingegneristica, il passo, ma ogni tentativo di riforma fallì poiché boicottati e bloccati dai veti da chi vedeva messa in discussione la propria egemonia o il proprio potere di ricatto e di interferenza: la Grande Riforma sognata e declamata dal pentapartito degli anni ’80 divenne il Grande Alibi per non fare alcuna riforma e lasciare incancrenire la situazione per più di un decennio. Sono stati molto più efficaci i referendum elettorali dei primi anni ’90 che hanno intaccato alla base le personali posizioni di una parte della fauna politica del nostro Paese ormai sclerotizzata. 

L’azione della magistratura (lotta alla corruzione ed alla criminalità organizzata) dei primi anni ’90 ha avuto il grande merito, nonostante limiti ed errori, di aver permesso la ripresa di un processo di risanamento morale della vita pubblica italiana che, però, è ancora lontano dall’essere risolto. Questo risanamento morale si è accompagnato con il processo di risanamento economico avviato dal governo del socialista Giuliano Amato (1992), proseguito dai successivi cosiddetti governi tecnici di Carlo Azeglio Ciampi e di Lamberto Dini e portati a termine dai governi di centrosinistra presieduti da Romano Prodi e da Massimo D’Alema. 

L’opera di questi Governi ha permesso all’Italia di entrare da subito nella moneta unica europea (Euro) e di essere protagonista (la Presidenza della Commissione europea a Romano Prodi ne è un segno tangibile) del processo di unificazione politica del Vecchio Continente per realizzare una vasta area geopolitica aperta a tutte quelle nazioni che ne condividano i primari obiettivi di pace e di sviluppo. 
Sui muri della Roma distrutta del II dopoguerra si poteva leggere questa drammatica e poco incoraggiante scritta: “Andatevene tutti. Lasciateci piagne da soli”. Rispetto a quel Paese umiliato e distrutto si sono fatti incommensurabili passi in avanti, ma davanti a noi vi è un cammino altrettanto lungo e difficoltoso che dobbiamo percorrere tutti insieme rifiutando facili scorciatoie che potrebbero esserci suggerite da una furbizia menefreghista preludio di una restaurazione di alcuni deplorevoli aspetti del nostro passato che, per usare le parole del professor Stefano Rodotà, “Come ogni restaurazione che si rispetti, irresistibilmente assume caratteri reazionari. E come ogni reazione che si rispetti, è destinata ad incontrarsi con il potere personale”.(ora in G. Pansa, Il Regime, Sperling & Kupfer – l’Unità, Milano 1993, p. 288.)

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