Il mezzo secolo
che seguì all'invasione persiana é stato in complesso per
il mondo greco un periodo di pace; ne fu conseguenza uno sviluppo economico
senza l'uguale. Specialmente Atene, in grazia della sua posizione predominante
sul mare, salì straordinariamente. in fiore; il porto costruitole
da Temistocle, il Pireo, nel corso di pochi anni divenne il centro del
commercio mondiale, dove scaricavano le loro mercanzie navi provenienti
da ogni parte del Mediterraneo e si poteva trovare tutto ciò che
produceva l'Oriente e l'Occidente.
Favorita da questo movimento commerciale, anche l'industria ateniese assunse
uno splendido sviluppo; le braccia che poteva fornire il paese stesso
ben presto non bastarono ai bisogni e fu necessario importare dai paesi
barbari transmarini grandi masse di schiavi per adibirle al lavoro. Similmente
l'industria si sviluppò nelle vicine città di Megara, Egina,
Corinto ; verso l'epoca della guerra del Peloponneso in queste città
ed in Atene la popolazione servile sarà stata all'incirca uguale
per numero alla popolazione libera, se pure non la superò alquanto.
Così l'uso del lavoro servile, che sinora era rimasto limitato
alla Jonia, cominciò ad espandersi anche nella madre-patria greca,
da principio peraltro soltanto nella regione industriale intorno al golfo
saronico, mentre nel resto della penisola ellenica rimase tuttora assolutamente
prevalente il lavoro libero o quello dei semi-liberi, come nella Laconia
ed in Tessalia.
Naturalmente anche numerosi immigranti di condizione libera afffuirono
verso questi centri industriali e vi furono accolti a braccia aperte,
benché di regola sia stato loro negato il diritto di cittadinanza.
Specialmente ad Atene questi stranieri domiciliati (meteci) costituirono
ben presto una porzione assai considerevole della popolazione ; vi erano
rappresentati Greci di ogni regione, ma anche Lidii, Fenici ed Egiziani,
e molti di essi pervennero ad acquistarsi notevoli ricchezze e quindi
una posizione sociale autorevole.
Tutto ciò produsse un rapido aumento della popolazione della città.
Atene al tempo dei Pisistratidi poteva a mala pena contare 20.000 abitanti
; un secolo dopo, compresi i porti e i sobborghi, era divenuta una città
di 100.000 abitanti e più. Essa era ora la massima fra le città
greche, cui forse poteva stare a paragone soltanto Siracusa, che sotto
il governo di Gelone e di Gerone era del pari assurta al grado di grande
città (giusta le idee del tempo). Occupava il terzo posto fra le
città greche Corinto ; dopo di essa venivano, nella madre-patria,
Sparta, Argo e Tebe, e nell'Occidente Acraga e Crotone, mentre le città
greche dell'Asia Minore in parte non si riebbero mai più dal colpo
subito in conseguenza dell'insurrezione contro Dario, come Mileto, ed
in parte non furono che in scarsa misura in grado di seguire il movimento
economico ascendente, perché lo stato di guerra in cui si trovarono
con la Persia le isolò dai paesi interni posti alle proprie spalle.
Già a tempo delle guerre persiane la Grecia aveva dovuto importare
grano dall'estero ; ora poi l'agricoltura interna era naturalmente anche
meno in grado di sopperire al fabbisogno della popolazione crescente.
E difatti le città industriali si studiarono in tutti i modi di
favorire l'importazione e di tener bassi i prezzi, sopra tutto Atene che,
signora com'era del mare, si trovò posta in condizione di assicurare
al suo porto del Pireo una specie di monopolio del commercio granario.
I paesi che provvedevano di grani il mercato greco erano in prima linea
le fertili pianure a nord del Ponto, poi la Sicilia e l'Egitto. L'importazione
di grano al Pireo alla metà del IV secolo è fatta salire
ad 800.000 medimni (circa 150.000 quintali) ; e siccome Atene prima della
guerra del Peloponneso non aveva meno abitanti che un secolo dopo, la
somma delle importazioni non può essere stata allora inferiore.
È coerente alla posizione dominante di Atene nell'economia sociale
ellenica il fatto che ora i suoi tetradrammi divennero nell'ambito del
Mare Egeo la moneta corrente prevalente; essi erano accettati ovunque
ben volentieri, perché la zecca attica poneva la massima cura ad
emettere moneta di esatto peso e giusta proporzione di oro fino. Anche
Siracusa e la maggior parte delle altre città siciliane, quando
verso il principio del V secolo cominciarono a coniar moneta, accolsero
la valuta attica. Invece gli Stati del continente greco seguirono quasi
senza eccezione il tipo monetario di Egina; la sola Sparta, coerentemente
al suo spirito conservatore, continuò a mantenere anche ora la
sua antica vile moneta di rame o ferro. Monete d'oro gli Stati della Grecia
europea, non esclusa Atene, non ne coniarono in questa epoca quasi per
nulla; é vero che circolava molto oro in commercio, ma si trattava
press'a poco esclusivamente di darici persiani e di stateri d'electron
ciziceni.
L'aumentato movimento del denaro provocò lo svolgersi del commercio
bancario. Questo sviluppo prese le mosse dai templi, che in parte disponevano
di considerevoli capitali e naturalmente cercarono di impiegarli vantaggiosamente;
Stati e privati deponevano in essi il loro denaro, perché la santità
del luogo gli garantiva una sicurezza quale non si sarebbe potuta conseguire
altrove. Ben presto sorsero oltre ai templi banche private, specialmente
ad Atene, che anche in questo campo divenne la città dominante.
Malgrado il forte aumento del denaro circolante il tasso delle usure rimase
alto, perché l'industria sempre più fiorente aveva bisogno
di notevoli capitali; a meno del 10-12 % non si poteva avere denaro, anche
con le migliori garanzie; nei prestiti cui andava unito un rischio, come
ad es. nel prestito marittimo, l'interesse saliva al doppio ed al triplo.
Un tasso di usure così elevato presuppone che l'industria ed il
commercio arrechino profitti molto alti, cosa che era allora possibile
soltanto in grazia dell'uso del lavoro servile, che permetteva al capitale
dì sfruttare senza misericordia il lavoro. I prezzi degli schiavi
si mantenevano bassi, perché si poteva averne quanti se ne voleva
dai paesi barbari, in particolare dall'Asia Minore e dalla Tracia, né
vi era migliore impiego di capitale che quello di comprare tali schiavi
e usarli in imprese industriali. Conseguenza naturale di ciò fu
che il salario del lavoro libero scese ad un tasso molto scarso. Per il
lavoro che non esigeva abilità tecniche esso era ad Atene di circa
due oboli (35 cent. di una dracma); per tre oboli (ca. mezza dracma) si
potevano reclutare nelle isole i migliori rematori che si desideravano,
eppure non vi è forse lavoro più rude di quello del remo
a bordo d'una galera.
Gli operai forniti d'attitudini tecniche erano naturalmente pagati decisamente
meglio ad Atene più di una dracma (1.15) al giorno, e press'a poco
uguale era l'onorario del lavoro intellettuale, se era di tal natura che
poteva esser prestato da chiunque avesse qualche istruzione.
Siccome predominava assolutamente la piccola e media industria, molti
erano coloro che pervenivano ad un certo benessere materiale, ma relativamente
pochi quelli che arrivavano ad ammassare grandi ricchezze. Lo stesso si
può dire per il commercio di banca; Pasione, il primo fra tutti
i banchieri ateniesi, il «Rotschild greco », non lasciò,
ciò malgrado, che un patrimonio di 50-60 talenti. Tuttavia questo
patrimonio faceva di lui l'uomo più ricco d'Atene, se si pensa
che qui a tempo della guerra del Peloponneso era ritenuto assai ragguardevole
un patrimonio di 8-10 talenti (equivalenti a circa 3000 quintali di grano).
Anche la proprietà fondiaria era molto suddivisa nell'Attica, tanto
che persino famiglie nobili fra le maggiori assai di rado possedevano
più di 30 ettari di terra. Analogo era lo stato delle cose che
regnava nella maggior parte degli altri Stati greci.
Invece nella Laconia, nella Tessalia ed in Macedonia predominava la grande
proprietà fondiaria, e per conseguenza in queste regioni vi eran
molte famiglie che possedevano patrimoni veramente principeschi, e davanti
a tutte le famiglie reali spartane.
Con tutto ciò peraltro non dobbiamo dimenticare che il prezzo della
vita era allora molto basso; ad es. ad Atene sul passaggio dal V al IV
secolo il frumento costava molto poco, mentre il capitale fruttava un
reddito all'incirca triplo di quello odierno. Oltre a ciò il Greco
aveva pretese molto minori delle nostre al comfort della vita. Le case
private erano senza eccezione piccole e di meschina apparenza, il loro
arredamento povero, e lo stesso lusso nelle vesti che aveva altre volte
dominato, al tempo del governo aristocratico, aveva sotto l'influenza
della corrente democratica ceduto il posto ad una grande semplicità
di abbigliamento, il mantello di porpora e le stoffe riccamente lavorate
erano stati sostituiti da vesti di tessuto di lana bianca.
Anche a tavola il Greco era in generale molto sobrio; soltanto nei banchetti
e nei festini che li seguivano si faceva gran lusso di pesci, la passione
del buongustaio attico, di vini esotici e di aromi preziosi; naturalmente
le suonatrici di flauto erano immancabili per accompagnare il canto dei
convitati. Invece il personale di servizio nelle buone famiglie era, alla
stregua delle nostre idee, molto numeroso; era di buon tono,
anche per gli uomini, farsi accompagnare fuori di casa da un servo, e
le signore ad Atene ed in altre grandi città non comparivano in
strada se non accompagnate da un seguito di ancelle. Peraltro il basso
prezzo degli schiavi rendeva relativamente facile soddisfare questa specie
di lusso per lo più solo esteriore.
E' anche vero che i sacrifici che si esigevano dai cittadini per scopi
di ragion pubblica erano gravi. Erano da un pezzo passati i tempi in cui
alle spese dell'amministrazione sopperivano i
redditi dei beni della corona (es. come Cimone); come la tirannide, così
la democrazia non potè fare a meno di imposte. In contrapposizione,
caratteristico alla nostra moderna democrazia che non vede salvezza se
non nella tassazione diretta - l'economia dello Stato era in tempo di
pace basata soltanto sopra un sistema di imposte indirette, come dazi
e tasse di mercato, e sulla percezione di diritti o sportule, mentre per
principio non si ricorreva alla esazione di imposte dirette che in tempo
di guerra in questo caso peraltro, a cagione dell'assai limitato credito
dello Stato, lo si faceva spesso in misura oppressiva.
In compenso dell'assenza di imposte dirette i cittadini benestanti in
tempo di pace erano tenuti ad onerose prestazioni personali (così
dette liturgie), specialmente per metter su i cori che dovevano agire
nelle feste celebrate dallo Stato. Si aggiungeva poi in tempo di guerra
là « trierarchia » vale a dire l'obbligo di armare
una nave da guerra e mantenerla in buono stato durante il tempo in cui
prestava servizio, in compenso alla persona obbligata a tale prestazione
spettava l'onore di comandare la nave. Le spese inerenti a quest'obbligo
erano tanto considerevoli che, se la prestazione si ripeteva con una certa
frequenza, anche un uomo fornito di un buon patrimonio poteva esserne
ridotto alla miseria.
Fra le spese normali dello Stato occupavano tuttora il primo posto quelle
richieste dal culto. Anche in quest'epoca gli Stati greci riposero il
loro orgoglio nel manifestare la propria gratitudine agli Dei tutelari
della cosa pubblica mediante l'erezione di templi sontuosi, ed il progresso
economico nazionale offrì il mezzo di far ciò con tale splendore
da lasciarsi addietro di molto tutto ciò che di simile era stato
fatto sinora. Così la vittoria di Imera porse l'occasione ad una
fioritura di templi in Sicilia; col denaro ricavato dal bottino Gerone
eresse presso Siracusa un sontuoso santuario alle dee tutelari dell'isola,
Demetra e Core, e ad Acraga sorse appunto allora quella splendida serie
di templi, le cui rovine ancora ogg ci mettono in grado di comprendere
come Pindaro potesse celebrare quella città come «la più
bella di tutte le città dei mortali».
All'incirca verso la stessa epoca gli Elei cominciarono a costruire nel
bosco sacro di Olimpia il grandioso tempio di Zeus, che fu poi portato
a compimento alcuni anni dopo. Atene, i cui templi erano stati per la
massima parte distrutti dai Persiani, non poté nei primi decenni
che seguirono la sua vittoria attendere alla loro ricostruzione perché
la fortificazione della città e del porto e le spese della guerra
persiana impegnarono tutte le risorse dello Stato. A quest'opera si pose
ulano soltanto nel periodo di pace successivo sotto il governo di Pericle.
Ed allora venne eretto
dall'architetto Ictino sull'Acropoli un nuovo tempio alla dea tutelare
della città, Atena, il «Partenone», che per la bellezza
delle sue proporzioni si lasciò indietro tutto ciò che l'architettura
aveva saputo prima creare (447-432).
La via che sale all'acropoli fu adornata dall'architetto Mnesicle con
una sontuosa porta a colonne, i propilei (437-432). Un po' più
tardi fu ricostruito nell'elegantissimo stile ionico l'antico tempio di
Erecteo ed Atena, il santuario più venerato di Atene. Nella città
bassa sorse verso quest'epoca a piedi dell'acropoli quel tempio che noi
sogliamo chiamare il Teseion, e che probabilmente era dedicato ad Efesto
; l'unico tempio greco questo che rimane in piedi tuttora intatto. Ad
Eleusi fu sotto Pericle ricostruito a nuovo il tempio dei misteri e considerevolmente
ampliato. Sul capo Sunio, la punta meridionale dell'Attica, sorse verso
la stessa epoca quel tempio di Posidone le cui colonne anche oggi dominano
intorno una vasta distesa di mare.
La fama di queste opere architettoniche invase ben presto tutta l'Ellade
e gli architetti attici ricevettero commissioni anche di fuori. Così
Ictino, il creatore del Partenone, edificò un tempio ad Apollo
presso Figalia in Arcadia, il quale in grazia della sua situazione isolata
ha sfidato sino ad oggi tutti gli assalti del tempo. Nel corso della stessa
epoca un incendio distrusse l'antico e venerando tempio di Era presso
Micene (423), che fu così ricostruito più grande e più
sontuoso dall'architetto Eupolemo.
Questi peraltro non sono che i più famosi fra i templi allora edificati;
e dobbiamo tener presente che per l'erezione di un grande tempio occorreva
una discreta spesa e che le sole opere compiute da Pericle nel suo periodo
quinquennale compreso fra il 437 ed il 432 richiesero una somma di circa
7 volte superiore.
Se l'architettura
trovò in queste costruzioni un ricco campo di espressione della
propria virtù, non lo trovò meno l'arte sorella, la scultura,
per la decorazione plastica dei templi e per l'esecuzione degli innumerevoli
doni votivi che in ogni occasione erano offerti agli Dei dagli Stati e
dai privati.
Salì al primo posto, verso l'epoca delle guerre persiane, la scuola
di scultura dell'Argolide, che attese specialmente all'arte della fusione
in bronzo, tradizionale in quella regione da un millennio. I suoi più
famosi maestri sono Agelaida di Argo, Canaco di Sicione, Onata di Egina,
che lavorarono per tutti i paesi del mondo greco, dalla Jonia all'Italia.
Ci é rimasto tuttora un capolavoro di questa scuola: i gruppi in
bronzo che decoravano il frontone del tempio di Afea ad Egina e che ora
sono il più bell'ornamento della gipsoteca di Monaco. Essi ci rivelano
negli artisti il possesso di ricche cognizioni anatomiche e di una progredita
capacità nel riprodurre il corpo umano, ma ce li fan vedere ancora
in lotta con la rigidità della forma e sopra tutto ancora incapaci
di dare alle facce una espressione vivente.
Ad Atene fiorirono verso quest'epoca Crizia e Nesiote, i creatori del
gruppo dei tirannicidi, eretto poco dopo la vittoria di Platea sulla piazza
di Atene. L'originale in bronzo è da lungo tempo distrutto; in
compenso il museo di Napoli ne possiede una bellissima riproduzione in
marmo che ci rende possibile ancora di ammirare l'opera. È questo
il più antico gruppo di composizione veramente plastica che ci
sia pervenuto.
Nel resto il carattere dell'arte - nè diversamente può essere
- è molto affine alla maniera degli Eginati; una certa mitigazione
della durezza della forma può darsi che sia dovuta a dei copisti.
Sembra infatti che una maggior grazia abbia dato alle sue opere Calamis,
la cui Sosandra godette di gran fama nell'antichità; ma è
per noi un nome soltanto, al pari del suo autore. Il reggiano Pitagora,
che modellò specialmente statue di atleti, è da un antico
storiografo dell'arte vantato come il primo che abbia studiato di introdurre
nelle sue opere ritmo e simmetria; ma anche della sua maniera ci mancano
tuttora esemplari concreti.
Se non che la fama di questi artisti venne di gran lunga oscurata da quella
del Ioro contemporaneo Mirone, originario della piccola città di
Eleutere sul confine fra l'Attica e la Beozia, il primo della serie dei
grandi maestri classici della plastica greca (verso il 450). Egli fu il
primo che sia stato capace di riprodurre ín modo che avesse vita
la figura umana isolata, atteggiata a movimento. Nessuna delle sue numerose
opere rivelò questa sua maestria in misura così splendida
come la statua del "discobolo", la cui miglior copia è
quella che esiste a Roma nel palazzo Massimi.
Fama non minore ebbero nell'antichità la sua statua del corridore
Lada, di cui non ci è arrivata alcuna imitazione, e le sue riproduzioni
di figure d'animali, specialmente il bronzo raffigurante una giovenca
che fu decantato in innumerevoli epigrammi.
Ma anche Mirone venne superato da uno più grande di lui, dal suo
contemporaneo e concittadino (giacchè Eleutere politicamente apparteneva
all'Attica), l'ateniese Fidia.
Fidia già presso i suoi contemporanei egli ebbe il nome di "primo
maestro della plastica", ed i millenni che da allora sono trascorsi
non sono valsi a scuotere questa fama. Legato d'intima amicizia con Pericle,
gli fu consigliere in tutto ciò che egli fece; a lui toccarono
le massime commissioni d'opere d'arte dell'epoca, la statua colossale
di Zeus per il tempio di Olimpia e la statua colossale di Atena per il
Partenone. Esse avevano la scopo di presentare agli occhi dello spettatore
la divinità in tutta la sua maestà sovrumana e perciò
erano fatte di materiale preziosissimo; il viso e le altre parti scoperte
del corpo di avorio, le vesti e gli altri accessori d'oro.
Dell'impressione che simili opere nella penombra delle nicchie dei templi
devono aver suscitato negli spettatori possono darci una pallida idea
i mosaici su fondo d'oro delle chiese cristiane più antiche e delle
chiese bizantine. Chi entrava nel tempio di Olimpia credeva di vedere
il padre degli Dei quale era stato dipinto da Omero, placido e benevolo,
in tutta la sua sublime grandezza, e si sentiva trasportato in regioni
più alte così da dimenticare le calamità della vita.
Di fronte ad una creazione simile ogni tentativo di imitazione non poteva
non riuscir vano, e perciò noi non abbiamo mezzo di farci un concetto
sufficientemente, concreto di questa opera massima del grande scultore.
Non del tutto alla pari di questa fu la statua di Pallade virginale; in
questo caso Fidia dovette fare al tipo tradizionale dell'immagine sacra
concessioni maggiori dell'opportuno a discapito dell'effetto artistico.
Di questa statua ci sono pervenute delle copie, ma esse sono troppo piccole
per permettere di formarci un giudizio proprio sul merito dell'originale.
Di modo che per rilevare il carattere dell'arte dí Fidia non ci
restano che le sculture decorative del Partenone, che sì furono
fatte sotto la direzione del maestro, ma non sono state eseguite dalla
sua mano. Ma esse sono più che sufficienti per constatare il progresso
che la plastica deve al genio di Fidia; dalla durezza delle linee dell'arte
arcaica noi ci troviamo d'un tratto trasportati nel mondo della perfetta
bellezza.
Gli ateniesi con Fidia furono però ingrati. Si narra che il grande
artista fosse assai superbo per la sua abilità, e che nello scolpire
la colossale statua della dea Minerva richiesta da Pericle (era alta 39
piedi, e l'oro impiegato ascendeva a 40 talenti) che scolpisse la sua
effige nel viso della della Dea, mentre quella di Pericle la disegnò
sullo scudo. Per questa imprudenza e perchè fu accusato di aver
sottratto nell'eseguire la statua di Atene una parte del prezioso materiale
affidatogli, fu bandito da Atene e Fidia si ritirò in Elide. Decise
a vendicarsi dell'affronto fattogli dai suo concittadini, facendo un'altra
statua che oscurasse tutti i pregi della Dea Minerva di Atene. Mantenne
la parola producendo il suo Giove alto 60 piedi, stimato il capolavoro
uscito dalle sue mani. Stupendi i bassorilievi, trentasette figure ornavano
la colossale statua. La testa di questo Giove fu sempre stimata come la
cosa più perfetta dell'arte. Il popolo dell'Elide si autotassò
per dare a lui e ai suoi discendenti un assegnamento e perchè ci
si prendesse cura di quella che fu poi reputata una delle sette meraviglie
del mondo.
Tuttavia Fidia morì in prigionia durante l'inchiesta prima ancora
che il processo venisse dinanzi ai giudici.
Il colpo più che a lui era diretto contro Pericle, al quale era
toccata la sorveglianza in occasione della erezione della statua. Ma era
chiaro che prossimamente sarebbe venuto il suo turno.
Il terzo fra i grandi scultori di quest'epoca è Policlito di Argo.
Egli appartiene alla scuola della sua patria, ma ha superato i difetti
dell'arcaismo al pari di Fidia. Policlito era un artista metodico dalla
tecnica rigorosa che dava la massima importanza alla perfetta armonia
delle proporzioni, e di questa tecnica egli ha lasciato un modello molto
ammirato nel suo portatore di lancia (« doriforo »). Ma anche
i suoi capolavori massimi riguardano le statue degli Dei. Egli ebbe incarico,
dopo l'incendio del tempio di Era (423), di modellare la statua della
dea per il nuovo tempio. Si trattò di una statua colossale in oro
ed avorio, che fece degno riscontro alla statua di Zeus olimpico di Fidia,
anzi a giudizio di molti intenditori Policlito avrebbe superato il suo
collega. Ma, quand'anche la palma debba rimanere a Fidia, basta a Policlito
la gloria di essere segnalato accanto a lui.
Né la pittura si dimostrò da meno della plastica. Mentre
sinora essa aveva servito a scopi decorativi, in quest'epoca le vicende
grandiose delle guerre persiane evocarono in vita la grande e monumentale
pittura parietale. Essa ebbe il suo primo maestro nell'Ateniese Micone,
che fu pure stimato come scultore. Egli, poco dopo il 470, ornò
il tempio di Teseo in Atene con pitture a soggetti tratti dalle leggende
degli eroi, il tempio dei Dioscuri con una scena desunta dal mito degli
Argonauti e il «portico variopinto » eretto dal cognato di
Cimone, Pisianace, sul mercato con un combattimento di amazzoni.
Con lui fior il fratello di Fidia, Paneno, che eseguì nel portico
un famoso dipinto della battaglia di Maratona. Ambedue peraltro vennero
di gran lunga superati da Polignoto di Taso, che esercitò del pari
la sua arte in Atene dove godette della stretta amicizia di Cimone; egli
dipinse qui nel portico un affresco rappresentante la distruzione di Ilio.
Ma le sue creazioni più celebrate furono due grandi affreschi a
Delfo, nel portico dei Cnidi; (verso il 450) la distruzione di Troia e
il Tartaro secondo la descrizione di Omero. Anch'egli dipinse alla maniera
antica, con pochi colori, senza prospettiva; ma probabilmente nelle sue
opere le figure si trovavano già ordinate a gruppi. Il profondo
effetto pertanto che questi dipinti produssero sugli spettatori era dovuto
esclusivamente al disegno, all'etos che il pittore aveva saputo imprimere
alle sue figure e che nessuno dei pittori successivi fu più capace
di eguagliare, per quanto abbiano potuto essere superiori a Polignoto
per la tecnica.
Con Polignoto si chiude il periodo arcaico della pittura greca; e poco
dopo, l'epoca in cui fiorì Apollodoro d'Atene, fece quella scoperta
che segna una nuova era per la pittura e trasformò dalle fondamenta
quest'arte, valendo al suo autore il nome onorifico di «pittore
delle ombre», la scoperta cioè della terza dimensione del
piano della figura. Ora per la prima volta infatti divenne possibile ottenere
nei dipinti l'illusione della realtà. La nuova maniera d'arte trovò
immediatamente il suo primo grande maestro in Zeusi da Eraclea che lavorò
in Atene a tempo della guerra del Peloponneso. Il sua quadro più
famoso fu forse l'Elena; era la prima volta che un artista riusciva a
riprodurre lo splendore della bellezza femminile tentando di darle l'espressione
della realtà, e infatti il quadro ebbe sugli spettatori l'effetto
come di una rivelazione di un nuova mondo. Ma quella donna non era greca
ma una giovane della Calabria; anzi era l'insieme di cinque giovani donne.
Il quadro infatti gli "era stato ordinato dagli abitanti di Crotone,
e siccome l'artista si espresse che era impossibile condurla alla perfezione
senza un modello, essi gli spedirono le proprie ragazze reputate le più
belle di Crotone. Zeusi dopo averle esaminate nude, ne trattenne solamente
cinque, e da ognuna prese qualcosa: l'eleganza, la grazia, le forme, lo
sguardo, l'anima, e nella sua mente concepì la donna più
perfetta del mondo, e quindi il suo abilissimo pennello, la portò
in effetto". (Cic.
de Inv, 2,c.1 - Plut. in Par.ec. - Quintil.)
Si narra che l'affluenza di persone desiderose di vedere il quadro fu
tale che il pittore fu costretto a mettere una tassa di ingresso, e pare
abbia fatto buoni affari. Dato ciò, si comprende come i suoi quadri
abbiano raggiunto prezzi molto elevati; così ad esempio si dice
che il re Archelao di Macedonia gli diede un onorario altissimo per l'esecuzione
degli affreschi del suo palazzo.
Ma vi è da dire che Zeusi era così tanto estimatore di se
stesso, che spesso rifiutò di vendere le sue opere, asserendo che
nessuna somma di denaro, benché grande, era sufficiente per pagarle.
Con Zeusi fiorì il suo contemporaneo Parrasio da Efeso. Anch'egli
lavorò ad Atene, per la quale dipinse un famosissimo quadro dell'eroe
nazionale Teseo. In generale egli attinse i suoi soggetti esclusivamente
dal ciclo degli Dei e degli eroi. Contemporanei e posteri tributarono
anche a lui un notevole apprezzamento; si disputò se la palma nella
pittura spettasse a lui ovvero al suo ardente emulo: Zeusi. Data la completa
perdita delle creazioni della pittura greca, non siamo in grado di formarci
un giudizio proprio. Ma ci resta questo aneddoto: "Una volta fu convenuto
che per scandagliare il loro merito si esponesse di ognuno un'opera. Seusi
porto un quadro con un uomo che aveva nelle mani un cesto pieno d'uva,
così realistico che gli uccelli andarono a beccarla; Parrasio invece
portò un quadro coperto apparentemente da un drappo di stoffa disposta
come una tendina. All'esame dei due quadri, Zeusi disse: "Ma tirate
via la tendina perché si possa noi vedere la pittura". Questa
tendina era la stessa pittura. Zeusi conoscendosi vinto esclamò
"Zeusi ha ingannato gli uccelli, ma Parrasio ha ingannato lo stesso
Zeusi".
Parrasio senza dubbio superò Zeusi, ma poi si montò la testa;
iniziò a vestirsi di porpora; si metteva un diadema aureo sul capo;
si nominò lui stesso il re dei pittori, anche se veniva deriso
dai suoi nemici.
Come le arti figurative, così anche la musica e la poesia in quest'epoca
rimasero tuttora sostanzialmente al servizio del culto; esse trovarono
un ricco campo per esplicare la loro attività nelle feste che si
celebravano con sempre crescente splendore in onore degli Dei. In questa
materia erano naturalmente avanti a tutte le grandi città Siracusa
e Atene, giacché nessun'altra città possedeva mezzi altrettanto
ricchi da destinare a simili scopi. A Siracusa la tirannide dopo la vittoria
di Imera dedicò cure assidue a promuovere l'incremento della vita
intellettuale; Gerone chiamò alla sua corte i più grandi
poeti dell'epoca, Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo, che misero in
scena le loro opere sul teatro della città.
Accanto ad essi fiorì un poeta indigeno di pari valore, Epicarmo,
il quale, nato a Megara di Sicilia, dopo la distruzione di questa città
ad opera di Gelone, giunse ancor giovane a Siracusa e qui trovò
nel movimento della grande città la spinta e l'incitamento alla
produzione drammatica. Egli attinse i suoi soggetti dalla vita che lo
circondava; talora li presentò sotto la forma esteriore di una
parodia del mito degli Dei. E in tal modo egli divenne il fondatore della
commedia.
Egli prese pure vivo interesse al movimento intellettuale dell'epoca e
spesso, così nel dramma come nella commedia, trattò problemi
filosofici sul teatro. La grandissima considerazione ch'egli godette presso
i contemporanei ed i posteri - Platone lo colloca addirittura immediatamente
dopo Omero - pone fuori di dubbio ch'egli fu tra le più eminenti
personalità della letteratura greca; a noi peraltro non sono pervenuti
di lui che pochi frammenti, i quali, se ci danno una idea della ricchezza
di pensiero delle sue produzioni teatrali, non ci consentono una visione
complessiva della struttura delle sue opere e del modo come eran composte.
Ma il fiorente sviluppo dell'arte poetica non sopravvisse a lungo in Siracusa
alla caduta della tirannide e al tramonto della posizione dominante della
città che la accompagnò. La tragedia attica non giunse a
metter qui salde radici e lo stesso Epicarmo, se vi lasciò una
scuola, non ebbe un successore che potesse stargli alla pari. La commedia
decadde cedendo il posto al mimo, scene della vita popolare presentate
sotto forma di dialogo, in prosa; un genere questo nel quale Sofrone,
verso l'epoca della guerra del Peloponneso, arrecò notevoli contributi.
Altrettanto maggiore fu lo splendore cui giunse la poesia ad Atene. Qui
sin verso la metà del secolo Eschilo regnò assoluto padrone
della scena; ma poi si vide sempre più sottratto il favore del
pubblico dalla concorrenza di giovani ingegni sorgenti. Nelle grandi dionisie
della primavera del 468 egli perse la gara contro Sofocle (496-406) che
rese più intensa e varia l'azione scenica, in Eschilo ancora assai
povera, e fece minor posto alle parti liriche, per quanto grande fosse
la bellezza di cui egli seppe rivestire i suoi cori. Nessuno lo ha mai
superato nell'arte di preparare, annodare l'intreccio del dramma e scioglierlo
senza ricorrere a mezzi violenti.
Certo in lui invano cerchiamo l'elevatezza di pensiero che si riscontra
in Eschilo; quelli che egli porta sulla scena sono uomini, non più
eroi; ma sono figure di uomini stilizzate ed artificiali, tipi senza vera
e propria individualità, simili a quelli che modellava la plastica
del suo tempo. Per i contrasti che si agitano in questi drammi, malgrado
tutta la perfezione artistica del complesso delle opere, non hanno la
forza di commuoverci veramente. Ma Sofocle diede ciò che ì
suoi contemporanei desideravano; le sue tragedie sono l'apoteosi poetica
dell'Atene dei tempi di Pericle, come le opere di Ictino, Polignoto e
Fidia ne sono l'apoteosi artistica. Finché egli visse nessuno poté
rivaleggiare con lui sul teatro attico.
Questa epoca è pure ricca di una folta schiera di talenti drammatici.
Inoltre non furono più i soli Ateniesi a produrre per la scena
della loro città; il teatro di Atene assurse ad importanza nazionale
e cominciarono ad entrarvi in gara poeti d'altre città, come Jone
da Chio, Acheo da Eretria, Neofrone da Sicione, i quali fecero scoprire
altri numerosi poeti portati all'arte drammatica, per quanto rimanessero
di gran lunga al di sotto di Sofocle. Ma il maggiore fra i successori
di Sofocle, l'unico che, ancor vivo Sofocle, sia stato accostato a lui
come un maestro di uguale valore, fu tuttavia un Ateniese, Euripide (480-406).