-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

43. LA FONDAZIONE DEL PRINCIPATO


Il trionfale ritorno di Augusto a Roma

La vittoria d'Azio (31 a.C.), la presa dI Alessandria e la catastrofe di Antonio e di Cleopatra (30 a.C.) segnano nella storia del mondo mediterraneo un momento che ha l'importanza di un'era di fronte alla storia universale.
Dopo un secolo di orrori, trascorso fra rivoluzioni e guerre civili, l'antico mondo mediterraneo entra in un'era di pace, che - salvo una sola crisi rapidamente superata (68-69 d.C.) - durò oltre 200 anni e non si ripresentò mai più così piena.

Per la prima volta dopo secoli si chiusero le porte del tempio di Giano e la conservazione di questa pace largita a Roma, la Pax Romana, che più tardi ebbe una monumentale espressione nell'altare della pace dell'imperatore Augusto, l'ara Pacis, è proclamata come la vera e propria missione storica del nuovo reggimento.

Ma questa pacificazione del mondo mediterraneo ebbe ancora una particolare importanza per Roma; essa risolse a suo favore il fortunoso problema se Roma avrebbe mantenuto la sua posizione politica di centro del mondo antico o se non si sarebbe invece verificato uno spostamento del potere in favore dell'Oriente ellenistico. Non senza ragione è stato detto che soltanto la felice soluzione di questo problema per opera di Augusto è ciò che ha propriamente fatto di Roma la « città eterna ». In ogni caso essa ha assicurato a Roma per lo spazio di tre secoli la sua posizione di capitale del mondo.

E come della sorte avvenire di Roma, così Azio decise del trionfo dell'idea romana dello Stato, nel senso che salvò Roma ancora per lungo tempo dalle soverchie influenze orientali, dal precipitare completamente nell'assolutismo. Nell'iscrizione apologetica incisa nel bronzo alla porta del suo mausoleo, Ottaviano accenna che nella lotta combattuta per l'esistenza stessa dello Stato romano tutto l'Occidente si mise volenteroso sotto la sua guida; ora questo. suffragio della pubblica opinione, oltre che dell'interesse nazionale romano, fu certamente l'espressione dell'interesse repubblicano che per circa cinque secoli aveva costituito il più vitale interesse dello Stato romano ed aveva ancora troppo potere sugli animi perché un governo nazionale non potesse tenerlo in considerazione.

Gli idi insanguinati di marzo, l'assassinio del primo Cesare, avevano ben dimostrato chiaramente che non era ancora giunto il tempo propizio ad una aperta proclamazione dell'assolutismo. Da ciò il famoso atto politico dell'anno 27 a.C., col quale Ottaviano « rimise il governo della cosa pubblica dalle proprie nelle mani del senato e del popolo »; un atto che i contemporanei celebrarono come la restaurazione della Repubblica.

Naturalmente ciò non poteva voler significare che l'antica assemblea dei cittadini, in cui si incarnava in ultima istanza la sovranità del popolo romano, sarebbe stata chiamata nuovamente a rappresentare una parte decisiva. Un impero mondiale non poteva invero più esser retto con le antiche forme dello Stato cittadino, e benché i comizi formalmente abbiano riavuto il potere di decretar leggi e di eleggere magistrati, benché il nuovo Cesare abbia persino edificato loro uno splendido locale per le votazioni, il tutto non ebbe che una portata decorativa.
Al pari che già a tempo della Repubblica di fronte alla tragicommedia dei tumulti del foro era per conseguenza naturale divenuto sempre più arbitro della situazione il corpo governante, il senato, così anche ora fra gli antichi poteri repubblicani soltanto quest'ultimo poteva sul serio venire in causa come organo realmente vitale della sovranità popolare. Ed infatti anche nel nuovo ordine di cose esso spicca subito come tale in maniera assai considerevole.

Se il primo Cesare, per il quale la repubblica non era «che un nome vano privo di consistenza e di forma», aveva fatto tutto il possibile per umiliare il senato ed abbassarlo al livello di un consiglio di stato in posizione subordinata, ora invece questo corpo appare di nuovo, almeno idealmente, come la vera e propria incarnazione del reggimento repubblicano, la sua é una posizione riconosciuta costituzionalmente ed anche moralmente resa più elevata mediante l'eliminazione di molti elementi ambigui od indegni. Esso esercita il potere legislativo coi suoi senatus consulta, amministra in modo autonomo il pubblico tesoro, l'erario, e riunisce nelle proprie mani il governo dell'Italia e della maggior parte delle province. Esercita la giurisdizione sui propri membri ed è il supremo tribunale criminale per l'Italia e per le province senatorie.

Anche nei riguardi del senato peraltro una restaurazione piena dell'antico sistema era impossibile. Un corpo tanto numeroso non era più neppure lontanamente adatto a far fronte ai compiti dell'imperium romanum che abbracciavano il mondo intero. La stessa situazione reclamava imperiosamente una larghissima concentrazione di poteri in mano di un solo.

Questa necessità dello Stato trovò la sua espressione nel fatto che il senato ed il popolo conferirono al vittorioso restauratore della cosa pubblica, al primo cittadino o princeps, dapprima per dieci anni e poi periodicamente con sempre nuove riconferme, il comando degli eserciti e - ad eccezione dell'Africa - il governo di quelle province in cui erano stanziati eserciti romani (la Siria, l'Illirico, la Gallia, la Spagna citeriore e la Lusitania).
A questa posizione fatta al principe andavano connessi anche il diritto di nominare gli ufficiali ed i funzionari delle dette province, di esercitare il controllo sugli Stati clienti di Roma, ed il diritto di pace e di guerra insieme con la rappresentanza dello Stato all'estero. A ciò si aggiunse l'imperium proconsolare, che dava al principe un diritto di alta sorveglianza anche sulle province senatorie, e la potestà tribunizia, già conferitagli a vita, che gli attribuiva il diritto di iniziativa legislativa e di intercessione contro gli atti degli altri fattori della vita pubblica.

Nel tempo stesso la nuova amministrazione cesarea ebbe assicurati i mezzi finanziari con l'istituzione del fiscus Caesaris, cui affluivano le entrate delle province imperiali, i redditi del patrimonio privato del principe e le entrate che derivavano dall'Egitto, da Ottaviano riservatosi come possedimento personale.

Ma neppur questa nuova organizzazione dei poteri dello Stato bastò a riparare i difetti del governo collegiale e dell'apparato amministrativo repubblicano, soprattutto da quando Otttaviano depose il consolato da lui tenuto ininterrottamente sino all'anno 23 a.C..
L'imperfetto funzionamento dell'organismo amministrativo decrepito costrinse a ricorrere sempre più all'ingerenza del principe, di modo che a poco a poco si concentrò nelle sue mani una serie di svariatissime facoltà che si trovano enumerate partitamente nella legge che conferisce l'imperio a Vespasiano, la lex regia, pervenuta in parte sino a noi.
Così ad es. vanno nelle mani del principe l'intera amministrazione e la polizia della città di Roma, la cura dell'annona, delle strade e degli acquedotti, delle costruzioni pubbliche, dell'estinzione degli incendi, ecc. E quanto egli nel suo lungo principato operò - con l'aiuto di ingegni segnalati, quali ad es. Agrippa - per fare, come egli stesso disse, «di una città di fango una città di marmo», per erigere accanto all'antica Roma repubblicana una nuova splendida Roma sul campo di Marte, e per migliorare le deplorevoli condizioni sanitarie ed edilizie dell'antica Roma.
Tutto ciò sta a dimostrare l'incondizionata superiorità del regime cesareo, i cui effetti benefici naturalmente tornarono a vantaggio anche dell'Italia, rovinata dagli sconvolgimenti politici dell'ultima epoca e dalle conseguenze funeste degli stanziamenti di veterani, e delle province esauste terribilmente dal malgoverno repubblicano.

Mommsen nella sua costruzione giuridica del principato lo ha caratterizzato come una diarchia, ed ha designato la dignità del princeps come una magistratura aggiunta a quelle stabilite dal diritto pubblico dell'epoca repubblicana, una magistratura che lasciò intatta in via di principio la costituzione repubblicana. Formalmente ciò é vero. Ed infatti Ottaviano cercò di salvare sempre scrupolosamente le forme repubblicane. Il titolo di princeps, che egli preferiva, era schiettamente democratico; esso era stato attribuito da lungo tempo prima di lui a uomini come Scipione Africano, Pompeo, Cicerone e non conferiva che una certa distinzione morale a chi lo portava al di sopra degli altri cittadini nel senso che ne faceva il primus inter pares.
Del pari le insegne esteriori del principato, la corona d'alloro e la porpora, non erano altro che gli stessi ornamenti solenni già recati da tutti i generali della Repubblica cui era stato concesso l'onore del trionfo.

E chi li avrebbe meritati meglio dell'uomo che aveva conquistato all'intero mondo romano la pace così ardentemente anelata ?

Se non che, malgrado tutte queste apparenze repubblicane, se si guarda al contenuto della nuova potestà, é impossibile disconoscere che essa fin da principio tende potentemente a oltrepassare questo schema repubblicano. Ed in realtà anche lo stesso Mommsen ha già riconosciuto che per Ottaviano le forme repubblicane da lui revocate in vita non furono in fondo nient'altro che forme, le quali dovevano servire a velare il suo vero scopo ultimo, la fondazione della monarchia.

Ed è per lo meno certo che, se nell'iscrizione sopra ricordata, egli dice di non aver posseduto come princeps facoltà diverse o superiori a quelle dei magistrati della Repubblica, l'asserzione è bensì esatta, presa alla lettera, ma non tiene conto del fatto che la concentrazione permanente di tanti poteri e magistrature in una sola persona era qualcosa di nuovo ed era certamente ben poco conforme allo spirito dell'antica costituzione repubblicana, fosse poi il princeps quanto voleva scrupoloso nell'osservare le forme, sino al punto ad es. di alternarsi da console, in ossequio fedele all'antica consuetudine, mese per mese col collega Agrippa, il compagno delle sue vittorie, nel portare in pubblico i fasci!
Che valore poteva ancora avere il dire che esisteva il tribunato repubblicano quando il nuovo titolare della potestà tribunizia riuniva in sé solo il potere di tutti e dieci i tribuni e non era soggetto all'intercessione di alcun collega ? E che importanza avevano ormai i magistrati repubblicani, già del resto gravemente limitati nella loro sfera di azione dai nuovi funzionari ed ufficiali imperiali, di fronte all'imperium superiore di quell'uno, all'osservanza dei cui acta dovevano tutti annualmente obbligarsi con giuramento insieme al senato, di quell'uno che li faceva - passare - tutti profondamente nell'ombra e che aveva tanto potere e tanta influenza da rendere illusoria l'autonomia di ogni altro magistrato?

Ma anche esteriormente l'avvento della nuova potestà risalta in modo abbastanza evidente agli occhi di tutti. L'imperio proconsolare, che a tempo della Repubblica cessava di funzionare alle porte della città, assunse ora nella stessa Roma un carattere che, per l'apparato militare da cui era accompagnato, la guardia del corpo delle coorti pretoriane stanziate in Roma e attorno a Roma, ricordava in maniera preoccupante la tirannide militare dei Greci. Ed a ciò si aggiunga il comando di tutte le forze militari !
Cosa valeva, di fronte alle legioni ed alle flotte che avevano prestato a Cesare il giuramento di fedeltà e di fronte alle province imperiali, che stringevano come in un cerchio di ferro le province senatorie disarmate ed in fondo già rappresentavano una monarchia militare ed amministrativa, cosa valeva la potestà meramente civile del senato ?

Di fatto essa era in arbitrio dell'imperatore altrettanto quanto la capitale, il cui approvvigionamento, la cura annona, dipendeva completamente da lui che aveva il dominio del mare ed era padrone dei paesi produttivi di cereali indispensabili per Roma. Questa condizione di cose faceva anche del «popolo di Roma», della «plebe» della capitale, una sola e grande clientela del principe.

Come ha già osservato Tacito, l'alimentazione gratuita di questa massa popolare (da i 50.000 a 200.000 anime) col pane fornito a spese dei popoli soggetti fu il prezzo pagato dal Cesare per rendere il popolo di Roma ligio al cesarismo: la «pensione pagata all'antecedente sovrano» (Mommsen), che venne pure resa considerevolmente più gradita mediante ulteriori largizioni e divertimenti popolari.
Il popolo della Roma cesarea si interessa ormai soltanto al «pane ed ai giochi del circo» (panem et circenses), la « libertà » é per la massa una vecchia rancida, una Ecuba !

Quanta poca importanza conservasse il popolo sulla scena politica é dimostrato dal solo fatto che quello stesso Cesare, che come titolare della potestà tribunizia era il rappresentante nato della « maestà » del popolo e degli interessi del popolo, che un tempo diceva di aver messo mano alle armi per «la libertà oppressa da una minoranza», ora organizzò tutto ad un tratto sistematicamente tutto il governo, l'amministrazione e la giustizia in senso aristocratico-plutocratico e per la capacità di occupare i posti di senatori, funzionari ed ufficiali i più importanti posti di giudice introdusse la necessità di avere un censo di un milione (censo senatorio) e rispettivamente di 400.000 sesterzi (censo equestre), perché questa concessione alla aristocrazia dominante delle cariche e del denaro ed alla tendenza che da lungo tempo prevaleva verso una differenziazione di classi, rappresentava l'interesse di tutta quell'opera di compromesso politico che era destinata a spianare la via alla monarchia sorgente.

Per effetto di questo processo di isolamento di una minoranza privilegiata il senato divenne ancor più di quel che fosse stato sinora una specie di camera di signori, cui mancava completamente ogni base popolare e quindi ogni carattere rappresentativo. Che cosa avrebbe potuto autorizzare questa assemblea di casta ad atteggiarsi a mo di rappresentanza popolare?
E realmente durante il lungo governo del primo Cesare non vi si fece mai sentire spiccatamente una seria opposizione, e quando se ne manifestarono i prodromi, gli elementi incomodi poterono agevolmente essere resi innocui mediante ripetute revisioni della lista dei senatori e mediante nuove nomine, nelle quali a sua volta aveva influenza più o meno decisiva la volontà del principe.

E come al senato mancava la base ideale, così gli faceva pure difetto la base materiale necessaria per potere avere una autonomia effettiva. Se Ottaviano avesse seriamente voluto ciò che gli viene attribuito, che «il senato riassumesse in sua mano le redini della repubblica», avrebbe dovuto prima d'ogni altro provvedere che questo governo del senato avesse i mezzi finanziari per funzionare in modo indipendente. Ed invece il tesoro pubblico amministrato dal senato, l'erario, il quale era adesso alimentato dalle sole imposte gravanti sulle province senatorie (e neppure da tutte) si trovò a dover di continuo lottare con difficoltà pecuniarie, tanto che il « padrone » della Repubblica fu costretto ripetutamente ad invocare l'aiuto del suo «mandatario», il principe, per colmare il deficit! Il senato si trovò in uno stato di soggezione economica che ebbe inoltre la sua espressione politico-finanziaria nel fatto che la coniazione delle monete d'oro e d'argento fu riservata al principe, ed al senato non rimase che la coniazione delle monete di bronzo, vale a dire della moneta divisionaria. Ed in realtà nulla potrebbe caratterizzare la situazione meglio di questo modo con cui fu disciplinato il diritto di batter moneta e dell'effigie del nuovo dominatore impressa sulla moneta dell'impero !

Non meno evidente spicca nella figura del principato l'elemento monarchico se si considera che Ottaviano si adattò bensì per quanto riguardava la sua persona ad una formale temporaneità delle sue cariche, ma non lasciò dubbi di sorta sul punto che il potere avrebbe dovuto essere ereditario. Il modo non equivoco con cui egli, mediante l'adozione ed il conferimento della potestà imperatoria e tribunizia, attribuì la veste di suoi successori, dapprima al Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e di sua figlia Giulia e dopo la loro prematura morte a suo figliastro Tiberio, nato dal primo matrimonio della sua ultima moglie Livia con un Claudio, tradì in lui l'esistenza di una così forte idea monarchica ed una così sistematica sollecitudine di fondare una dinastia, che per lo meno a tal riguardo non si può affatto parlare di sentimenti repubblicani da parte sua.

E per soprappiù gli onori, i voti e sacrifici che il senato ed il popolo decretarono alla persona di Cesare, e a cui concorsero a gara tutti i ceti della società ! Lo stesso titolo ufficiale, «Imperator Caesar, figlio del divo Giulio, augusto» (augustus equivale a consacrato dagli dei, degno di venerazione), eleva il «primo cittadino» molto al di sopra del livello di un cittadino puro e semplice.
Il giorno della sua nascita venne festeggiato ufficialmente. Il suo « genio » fu invocato nei giuramenti ed onorato in ogni banchetto con una libagione votiva, ed il suo nome fu persino accolto accanto ai nomi degli dei nella preghiera dei Salii, nel venerando carmen saliare, tributo d'onore questo che già manifestava una certa approssimazione a quel concetto ellenistico della monarchia per il quale il titolare della suprema potestà si eleva assai al di sopra della cerchia umana e partecipa della natura divina.

È vero che Augusto non permise si facesse l'ultimo passo e non volle che in Roma gli si tributasse adorazione divina e gli si istituisse un culto con sacerdoti e templi, ma in Italia, e specialmente nei luoghi che a causa del commercio transmarino andavano soggetti alle influenze orientali, questo culto si introdusse e si radicò precocemente, dapprima di frequente nella forma di una adorazione del nuovo dio associato con antiche divinità, come Mercurio, Ercole ed altri, sinché da ultimo invalse l'uso, come ad es. a Pompei, di adorarlo da solo.

Nei municipi italici si costituirono addirittura appositi collegi, gli Augustali, che ebbero per missione di accudire al culto dell'imperatore e diffonderlo.
Senza dubbio si trattava di un culto semplicemente tollerato. Ma quale fosse in ultima analisi la méta della nuova corrente é reso palese già dal decreto del senato che prende occasione dalla rievocazione in vita allora fatta del culto dei Lari per prescrivere addirittura ufficialmente l'adorazione del genio del principe insieme con questi dei tutelari della casa e dello Stato, l'adorazione del dio sorgente - come é stato acutamente detto - con gli dei già tali dall' antico.

Ed anche più in là si andò nelle province, dove non occorreva salvare gli stessi riguardi che in Roma. In esse, e specialmente in Oriente, ove i sudditi trasferirono alla persona del nuovo dominatore del mondo l'antico culto tributato ai Tolemei ed ai Seleucidi, il culto dedicato al «dio Augusto ed alla dea Roma» ha un carattere assolutamente ufficiale. Come si apprende da una iscrizione rinvenuta nella Paflagonia e che contiene la formula di un giuramento di fedeltà; nei templi delle province d'ordine dell'imperatore si giurò dinanzi all'altare del dio Augusto fedeltà all'autocrator (sovrano assoluto !) Cesare, «figlio di un dio», e tale giuramento non fu prestato soltanto dai provinciali, ma anche dai cittadini romani che commerciavano nelle province. È un giuramento questo che certamente non é più di carattere repubblicano e civico, ma schiettamente monarchico. Ed è stato a buon diritto osservato che l'uomo il quale costringeva in tal modo dei cittadini romani a giurare per la sua divinità non riconosceva più di certo questi cittadini - fossero pure senatori - come suoi pari.
Se egli, specialmente nei rapporti con questi ultimi, li trattava personalmente da uguali, ciò non era altro che finzione, una lustrino ufficiale.
In questa tendenza a favorire il culto dell'imperatore spicca già chiara l'affinità interna della nuova monarchia con quella di Alessandro il Grande. In entrambe si vuole che il culto del monarca serva a stabilire il convincimento del carattere divino della sua potestà e della sua persona e dell'altezza della sua posizione superiore a tutto. Come Alessando, «anche Augusto volle che fosse considerata opera divina quella da lui compiuta come divi filius (figlio di Cesare divinizzato) . . . al pari di Romolo anch'egli figlio d'un dio » (Mommsen).

Senza dubbio egli non poteva, come Romolo, divenire re di Roma. Dalla caduta della monarchia e da quando il popolo romano si era solennemente impegnato a non tollerare al di sopra di sé il potere d'un re, il nome di re era stato bandito da Roma. Chi vi aspirava, era messo fuori della legge, ed ogni cittadino era autorizzato, anzi obbligato, ad ucciderlo.

Ma che bisogno aveva di questo nome pericoloso un uomo che aveva ai suoi piedi a rendergli omaggio un mondo intero? Finché rimanevano vivi i sentimenti che rendevano pericoloso quel nome, Cesare poteva benissimo rinunziare al diadema. Lo splendore della posizione che egli acquistò con questa rinunzia, superava di gran lunga tutto ciò che una corona avrebbe potuto conferirgli di simile.
Si aggiunga che del resto per i sudditi, e specialmente per i Greci, egli era, anche senza il diadema, il basileus; e quanto ai cittadini, essi sotto la pressione delle mutate condizioni di cose impararono per lo più da sé a contenersi nel fatto verso l'onnipotente principe come se si trattasse di un re. «La situazione dello Stato - dice Tacito - non era diversa che se già si avesse un monarca». «Si era rinunziato all'uguaglianza, e tutto dipendeva dal cenno del padrone».

Anche la letteratura romana del tempo vide già in Augusto il monarca, sia con intima ripugnanza, come avvenne per i repubblicani intransigenti, sia con volenterosa devozione, come avvenne per i poeti che adunava attorno a sé Mecenate, il collaboratore di Augusto. Si pensi agli omaggi che Virgilio nella quarta ecloga e nell'Eneide ed Orazio nelle sue odi offrirono ad Augusto ch'essi decantarono come il creatore di una nuova era! Nella detta ecloga Virgilio celebra l'età d'oro che si approssimava con un tono profetico, il quale, come é noto, fece sì che il canto virgiliano fu in seguito messo in relazione con le profezie ebraiche sulla venuta del Messia e persino con le profezie relative all'avvento di Cristo.
Per Virgilio, Augusto é il salvatore della società, il grande principe della pace, che ha reso sicura la vita, la libertà e la proprietà. E come i Cristiani celebrarono il salvatore dell'umanità, così i poeti Virgilio, Orazio, Ovidio, Properzio celebrarono il salvatore politico del mondo addirittura come un dio mandato dal cielo fra gli uomini. Orazio lo supplica di voler restare ancora a lungo quaggiù e di non ritornare in «cielo» il più tardi possibile. Augusto é per lui in terra ciò che Giove é nel cielo !

Questa glorificazione di Augusto da parte dei più grandi poeti dell'epoca, che si aggira già nell'ordine di idee della teologia ellenistica e della poesia aulica alessandrina, è significante per mettere in rilievo il successo che la monarchia aveva avuto anche presso coloro che erano alla testa del movimento intellettuale. E a dire il vero lo stesso Cesare aveva preso la penna per combattere con armi intellettuali l'opposizione tuttora viva nella società e nella letteratura, il cui ideale erano Catone e gli uccisori del primo Cesare, Bruto e Cassio. A questo scopo egli scrisse una confutazione dell'apologia che Bruto, l'«ultimo dei Romani», aveva fatto del suo predecessore, Catone Uticense, e la lesse egli medesimo insieme con Tiburio dinanzi ad un uditorio di invitati. E perciò é probabile che esista una certa connessione fra questa politica d'influenza letteraria e l'arte protettrice di Mecenate, benché sarebbe un giudicare troppo unilateralmente ove si volesse semplicemente parlare di una corruzione degli spiriti. Invero ciò che la monarchia poteva offrire ad una società dotata di movimento intellettuale, che vedeva ad opera del «liberatore del mondo» soddisfatto finalmente il suo ardente desiderio di godere in pace i beni della cultura, era in ogni caso abbastanza prezioso per incatenare anche un Virgilio ed un Orazio al carro di trionfo dell'imperatore.

Certo essi nella forma si sono abbassati sino ad una specie di adorazione del successo, la quale peraltro, soprattutto per quel che concerne gli accenni all'Olimpo, difficilmente é da prender sul serio. Ma a loro scusa può valere il fatto che questo culto della persona del principe e dell'istituzione da essa rappresentata é conforme all'indirizzo dominante dell'epoca e sino ad un certo segno era una esigenza reclamata dalle condizioni della nuova monarchia.
Era cioè nella natura stessa di questa monarchia di non essere in realtà ciò che voleva parere, un mandato repubblicano, ma un potere che trovava in sé medesimo la sua legittimazione e la sua giustificazione. Ora per un potere poggiato su diritto proprio indipendente, che di propria autorità si era abilitato al dominio del mondo e se ne era attribuita la missione, l'idea della divinità, giusta le vedute dell'epoca, era la specie di legittimazione più immediata e nel tempo stesso più efficace.

Fu perciò soltanto per uniformarsi prudentemente alla psicologia delle masse che il freddo calcolatore sedente sul trono dei Cesari, il quale, malgrado certe velleità superstiziose é poco probabile fosse anche nei riguardi religiosi alcunché di meglio che uno scettico, fece strettissima alleanza con la religione e - per parlare col Mommsen - pose a fondamento della sua riforma dello Stato la restaurazione dell'ortodossia. Membro egli stesso di tutti i grandi collegi sacerdotali, si fece conferire dal senato anche il diritto di nominare i sacerdoti e più tardi nell'anno 13 a.C. si fece concedere dalla cittadinanza romana affluita a Roma da tutta l'Italia - una specie di plebiscito a favore dell'impero ! - la carica di sommo sacerdote, di pontifex maximus.
Di questa autorità egli si servì per procedere ad una riorganizzazione sistematica del culto, per elevare il livello materiale e morale del ceto sacerdotale e per promuovere grandiose costruzioni di templi. Quanto poco fosse animata da intenti repubblicani questa politica religiosa ci é dimostrato in modo particolarmente chiaro dalla riforma dell'antichissimo collegio rustico dei fratelli Arvali, che la leggenda diceva fondato da Romolo. Esso divenne per opera sua un collegio nobiliare di sacerdoti di cui faceva parte egli stesso insieme con i principi imperiali e con i maggiorenti della società aristocratica, un collegio che - giusta gli atti pervenuti sino a noi - non aveva più il solo compito di impetrare la benedizione degli dei sulle messi, ma in giorni determinati doveva anche far voti per l'eterna durata dell'impero, per il principe e per la sua famiglia.

È questa una fusione di monarchia e sacerdozio che, sebbene proprio in tal campo Augusto abbia seguito il sentimento nazionale romano, pure rivela anch'essa una certa approssimazione alle tendenze della monarchia ellenistica.

Questa politica raggiunse il suo punto culminante nell'anno 17 a.C. , quando apparve in cielo una cometa straordinariamente luminosa, la «stella dei Giulii», destinata ad annunziare il definitivo aprirsi dell'era novella per l'umanità; come si vede, il pendant politico della «stella dei Magi» che secondo la leggenda cristiana annunziò non molto tempo dopo all'Oriente la venuta del Messia; analogia che prova assai chiaramente quanto le stesse idee mitologiche popolari si prestassero docilmente alla politica del cesarismo.

A seguito dell'agognato presagio e di un responso dell'oracolo sibillino arrivato anch'esso a proposito, ebbe luogo nello stesso anno la festa della rinascita di Roma e vennero solennizzati i grandi ludi secolari, il cui svolgimento ci é stato fatto conoscere dai residui dei relativi atti consacrati in iscrizioni marmoree ritrovate in occasione della sistemazione del Tevere presso Ponte S. Angelo.
Questi atti sono un vero gioiello della politica cesarea basata sull'alleanza del trono e dell'altare che sa con il calcolo più astuto sfruttare la religione in servizio dei suoi interessi dinastici.

La festa, che fu preceduta da una solenne celebrazione della città e della cittadinanza, destinata ad esprimere simbolicamente il cominciare di una nuova era, immerse tutta Roma in un delirio di gioia e raggiunse il suo culmine con la solenne processione, la pompa, che (anche questa circostanza é molto significativa) non si recò soltanto in Campidoglio, la sede degli antichi dei repubblicani, ma altresì sul Palatino, alla dimora del principe ed al tempio, immediatamente contiguo al palazzo imperiale, dedicato alle nuove divinità tutelari dei Cesari, Apollo e Diana.
Come l'antico foro repubblicano doveva essere oscurato dai nuovi fori cesarei, così l'antico protettore della repubblica, Giove Capitolino, doveva passare in seconda linea di fronte agli dei tutelari della casa Giulia ed al loro tempio sontuoso del Palatino ed il centro religioso spostarsi dal Campidoglio al Palatino. Il carme, peana, composto per l'occasione da Orazio e cantato nel tempio di Apollo e Diana da un coro di fanciulli e di giovinette, pose in luce manifesta che anche la parte intellettualmente più elevata della nazione si era volta verso il nuovo sole del cesarismo. Suona quasi come un grido di trionfo per questa vittoria ideale del cesarismo la frase che sui marmorei atti
dei ludi secolari in caratteri lapidari bandisce ai contemporanei ed ai posteri : Carmen composuit Q. Horatius Flaccus.

Un'altra importante differenza fra gli antichi ludi secolari repubblicani e questi augusteí fu che non vi parteciparono più come un tempo soli cittadini romani, ma tutti gli abitanti di Roma di condizione libera senza distinzione di nazionalità e di razza, Italici e Greci al pari di Ebrei ed altri Orientali; indizio rilevante questo che il nuovo Stato non si poneva più come uno Stato cittadino ma come uno Stato universale.
Uno Stato universale peraltro non nel senso che lo sognavano i poeti ed altri entusiasti di una sfrenata politica imperialista, i quali si attendevano da Augusto nulla di meno che l'assoggettamento dei Parti e dell'India, dei Brittanni e dei Germani, dei Goti e degli Sciti, persino delle tribù dei deserto africano, in breve la riunione dell'«ecumene» sino all'Oceano indiano sotto lo scettro di Roma!
Augusto non aveva nessuna intenzione di corrispondere a queste speranze. Egli non era né un Alessandro né un Cesare, ed a tutto il complesso della sua personalità era più consono il concetto che l'impero dovesse significare la pace. Inoltre egli era troppo buon calcolatore per non comprendere che l'interesse del cesarismo a lungo andare avrebbe reclamato una certa limitazione in fatto di imprese militari.

Si é fatto molto strepito attorno alla legislazione augustea (del resto rimasta per lo più inefficace) diretta a promuovere i matrimoni e la prole numerosa ed a combattere il lusso, come se si sia trattato di una politica intesa ad indurre un grandioso processo di elevazione nazionale, una rigenerazione fisica e morale del popolo romano. Se non che, malgrado che tale intenzione sia stata proclamata ufficialmente e celebrata dalla letteratura, questa politica, che in sostanza aveva in vista le sole classi elevate, difetta per l'appunto di quello che sarebbe stato il requisito fondamentale per attuare una vera rigenerazione, vale a dire non presenta alcun tentativo energico di promuovere l'elevazione del livello economico-sociale delle grandi masse popolari, di giungere ad una rigenerazione almeno parziale della classe degli agricoltori italiani e quindi della potenzialità militare d'Italia. Non é con l'erezione delle statue dei grandi Romani nel foro di Augusto destinate ad essere la splendida espressione monumentale di questa politica di restaurazione, non é coi versi dei poeti cortigiani che cantavano le lodi dell'agricoltura, che si rigenerava la classe agricola italiana e si rievocavano in vita le antiche legioni di forti agricoltori che un tempo avevano costituito i cardini della potenza militare dello Stato. E ciò in realtà non entrava neppure affatto nell'indirizzo che il cesarismo prese per necessità ineluttabile.

Ciò che gli interessava di avere non era una nazione dotata di alta potenzialità militare, ma una soldatesca stipendiata e devota alla persona del principe, e le file di essa si potevano riempire anche senza avere a disposizione una numerosa classe di agricoltori italici, giacché tali soldati di mestiere si reclutavano prevalentemente dalla popolazione cittadina povera e dal proletariato, anzi vennero sempre maggiormente tratti anche da elementi estranei alla cittadinanza romana; sistema che in sostanza corrisponde a quello che lo storiografo Dione Cassio in occasione di una finta seduta di consiglio di ministri pone in bocca a Mecenate.
Un simile esercito di mercenari che ambiva a stipendi il più possibile elevati e contava alla fine del servizio di ricevere un appannaggio da veterani presentava però sempre un certo pericolo, come dimostrarono senza indugio le ribellioni delle legioni incominciate subito dopo la morte di Augusto, ed importava nel tempo stesso un grave onere finanziario. Era necessario perciò ridurlo al meno possibile, ed é per questo che Augusto dopo avere portato a compimento le imprese militari più indispensabili, come ad es. la conquista delle regioni alpine, si limitò in sostanza ad assicurare la pace all'impero col dotarlo di saldi confini, possibilmente naturali. L'Eufrate ad oriente, l'Oceano ad occidente, il Danubio e l'Elba a nord erano destinati a costituire questi confini; e questo stesso programma non venne attuato completamente, perché la politica bellicosa dei fratelli Druso e Tiberio adottata in origine per cercare di assicurarsi nella linea dell'Elba una linea di confine più breve e più lontana dall'Italia, fu abbandonata dopo il disastro di Varo nella foresta di Teutoburgo (9 d. C.) ed il confine venne retrocesso al Reno.

Questa rinunzia ad una ulteriore espansione, che nel tempo stesso rese possibile assicurar meglio il confine del Danubio, fu mantenuta ferma anche in seguito, malgrado i successi che temporaneamente ottenne Germanico, il figlio di Druso, nella regione del Weser contro i Germani e contro il vincitore di Varo, Arminio (ad Idistaviso = Hameln?).
E questo sistema semplicemente difensivo fu poi attuato con tanta conseguenza (200.000 uomini dovevano bastare per proteggere tutto l'enorme impero!) che alla lunga persino l'atteggiamento difensiva non poté non divenire insufficiente, tanto più che la lunghezza del periodo di servizio militare (in media 20 anni) non dava possibilità di poter contare su un certo numero di riserve e poco istruite.
In questa inevitabile debolezza militare si rivela ancora una volta in modo assai spiccato il carattere di compromesso che ha il cesarismo e l'opera di Augusto: un fatto che Tacito disconosce, quando cerca di spiegare « psicologicamente » con la codardia di Augusto o con la sua gelosia di una (temuta) maggior gloria dei suoi successori; perfino il consiglio impartito da lui ai suoi eredi di rinunziare ad ampliare ulteriormente i confini dell'impero.

È evidente che un compromesso di questo genere coi suoi numerosi difetti e le sue numerose contraddizioni dovesse suscitare le massime difficoltà dinanzi ai successori di Augusto. E se Augusto morente invitò con un motto greco gli amici ad applaudirlo perché aveva "ben recitato la parte che la sorte gli aveva assegnato", sta di fatto che già il suo successore fallì completamente di fronte al compito di continuare a recitare questa parte secondo le idee del primo principe.

Le difficoltà che derivarono a Tiberio (14-37 d.C.) dalla situazione complessiva del principato procedevano da una causa personale-dinastica e da una causa politico-repubblicana. Siccome per la morte prematura dei primi due figli di Agrippa e di Giulia e per l'incapacità dell'ultimo di questi figli, Agrippa Postumo, la casa Giulia era venuta a mancare di un erede idoneo ad assumere la potestà imperiale, si era dovuto derogare al rigido principio legittimista mediante l'adozione di Tiberio che aveva dato di sé splendide prove nel campo militare ed amministrativo.

Il fatto che Tiberio già prima, in seguito al suo divorzio dalla prima moglie, voluto da Augusto, ed al suo matrimonio con Giulia (la figlia di Augusto) rimasta vedova di Agrippa, si era approssimato assai più al trono, non aveva alcuna importanza perché questo matrimonio a causa della condotta scandalosa di Giulia aveva dovuto essere per la seconda volta nuovamente rotto.
Di più, in conseguenza della politica familiare di Augusto si era stretto ancora un altro legame di affinità tra la casa Giulia e la casa Claudia, dovuto al matrimonio di sua nipote Antonia col fratello minore di Tiberio, Druso, il vincitore dei Germani morto prematuramente; di modo che il figlio di lui Germanico era più vicino per parentela al fondatore del principato che non lo zio che era salito al trono.

Di qui un antagonismo, che fu aggravato dal fatto che il giovane Germanico ancor vivo Augusto aveva sposato sua nipote Agrippina, figlia di Giulia, e per la sua prole fiorente e per la popolarità che godeva nella cittadinanza e nell'esercito sembrava il meglio chiamato a continuare la casa dei Cesari.
Ne nacque un conflitto fra principato e principio ereditario dinastico che si aprì immediatamente con un assassinio politico e gettò fin dall'inizio una fosca ombra sul nuovo regno. La pretesa ereditaria di Agrippa a dire il vero fu fatta sparire dopo la morte di Augusto col mandarlo al supplizio (non sappiamo per ordine di chi), ma la congiura ordita poco dopo da un falso Agrippa rese subito manifesto che vi erano numerosi elementi animati da sentimenti ostili a Tiberio. E questi elementi trovarono un nuovo appiglio allorché Germanico mentre reggeva un comando in Oriente (19 d.C.) soccombette a morte prematura, avvelenato dal legato di Siria suo nemico personale, il che la vedova di lui Agrippina, donna di carattere passionale, attribuì - manifestamente senza ragione - su istigazioni di Tiberio.

L'agitazione nascosta ed aperta che per tutto un decennio accompagnò questa opposizione dinastica finì dopo la morte dell'imperatrice-madre Livia (29) con una catastrofe della famiglia di Germanico. Agrippina, accusata di alto tradimento e di trame contro il principe, fu esiliata e trovo la morte in esilio (non sappiamo se si tolse la vita o se fu eliminata), e nella stessa sorte vennero trascinati anche gli altri suoi due figli.

Il concatenamento di questi antagonismi che infierivano in seno alla casa dei Cesari con le correnti ostili a Tiberio serpeggianti nell'aristocrazia costruì fin dall'inizio un'atmosfera di diffidenza che reagì sfavorevolmente sui rapporti tra il principe e l'aristocrazia e la sua rappresentanza di classe, il senato.

Tiberio invero si mostrò seriamente sollecito di governare con la maggiore possibile osservanza delle norme costituzionali, tanto che egli é stato chiamato addirittura il più costituzionale di tutti i Cesari. I limiti posti dalla costituzione ai poteri del principe furono scrupolosamente da lui rispettati e tutelati i diritti del senato, anzi formalmente egli li aumentò con l'abolire i comizi, divenuti ormai una commedia, e trasferire al senato l'elezione dei magistrati.
Tiberio rifiutò pure gli onori straordinari, e specialmente gli onori divini, del genere di quelli venuti in uso nell'epoca augustea. Egli non volle saperne di tenersi in quella penombra divina di cui si era amato circondare il primo principe. Egli diceva che gli bastava se gli riusciva di adoperare il potere affidato alle sue mani in servizio dello Stato e per il suo bene, dichiarazione che senza dubbio trovava corrispondenza effettiva in una vasta attività personale, in un sistema esemplare di amministrazione ed in una energica sollecitudine per il bene dei sudditi, ragion per cui un uomo dell'autorità del Mommsen poté caratterizzarlo come il principe più capace che sia toccato in sorte all'impero.

Se non che ancora una volta si rivelò qui che una mera rappresentanza di classe ed un corpo numeroso come il senato non era organo idoneo ad attuare con unità di indirizzo una simile politica di pubblica prosperità. Per forza di cose non poté non avvenire anche ora che la volontà e l'iniziativa del principe acquistassero sempre più la prevalenza, mentre il senato aveva così poco valore intrinseco che talvolta basto un messaggio di Tiberio per fargli revocare una deliberazione già adottata in tutte le forme !
Situazione di cose questa che, unita al carattere duro e affatto pieghevole dell'uomo (un esemplare genuino del tipo della famiglia Claudia!) ed alla più che giustificata diffidenza ch'egli nutriva riguardo alla lealtà di sentimenti degli organi dello Stato e dell'ambiente aristocratico, portò spesso a disconoscere le sue buone intenzioni ed a supposizioni odiose. Così pure non poteva non avvenire che la continua ingerenza personale del principe, data la natura dell'indole sua, non rendesse più viva l'impressione di un dispotismo autocratico da parte sua.

L'intervento personale ad es. di Tiberio nelle sedute dei tribunali, cosa che egli faceva nell'interesse di una imparziale amministrazione della giustizia, fu guardata e fortemente criticata dal suo più grande avversario, Tacito, come una menomazione della « libertà », malgrado i vantaggi che per testimonianza dello stesso Tacito ne derivarono alla « verità ».
Si aggiunga che Tiberio, invecchiando, a causa delle amare vicende della sua vita, della sfiducia e del disprezzo che nutriva per gli uomini, si fece sempre più chiuso e avverso al colloquio con i suoi simili; disposizione d'animo che ebbe la prima espressione esteriore nel fatto che il principe cominciò ad apparire in pubblico accompagnato possibilmente da truppe e concentrò tutta la guardia imperiale a Roma in un quartiere permanente (23 d.C.). Per quest'atto, frutto di preoccupazioni e di timori, la pubblica opinione credette che avesse l'intenzione di tenere il popolo ed il senato docili sotto l'incubo del terrore, e tale credenza si avvalorò quando, cosa mai vista prima, Tiberio si ritrasse nella solitudine all'isola di Capri (26 d.C.) senza mai più ricomparire a Roma.

Più gravi ancora si fecero poi gli attriti per il fatto che ora il prefetto del pretorio Sejano, rimasto in Roma a far le veci dell'imperatore lontano, quale ministro onnipotente ebbe modo di attuare una politica dispotica tale che offuscò profondamente le ottime tendenze originarie del governo di Tiberio e contribuì in modo essenziale a consolidare l'opinione, che trovò in Tacito la sua formulazione classica, che cioè tutto il sistema di governo di Tiberio sia stato sin dal principio indirizzato ad abbassare tutti gli altri fattori della vita pubblica, a ridurli strumenti ciechi di un dispotismo arbitrario, e che tutti gli atti e le parole di Tiberio non conformi a queste intenzioni altro non furono che un tessuto di inganni e di ipocrisie.

Se cio non è vero, è però certo d'altra parte che il vicariato di Sejano con le terribili gesta che lo accompagnarono fu causa di un gravissimo peggioramento della situazione. Questo astuto birbante aveva cioé in mira nulla di meno che la corona, al cui raggiungimento doveva spianargli la via la eliminazione sistematica dei membri superstiti della dinastia. Fu principalmente lui ad affrettare la rovina di Agrippina e dei suoi figli, tolse di mezzo poi col veleno (nel 23 d. C.) l'erede del trono Druso, l'unico figlio di Tiberio (di primo letto), cui aveva sedotta la moglie inducendola all'adulterio, e già poteva disporre di numerosi partigiani, quando alla fine nell'anno 31 Antonia, la cognata di Tiberio, con un messaggio a Capri aprì gli occhi all'imperatore e provocò l'arresto di Sejano che Tiberio mandò a morte.

Non é a meravigliarsi che la terribile disillusione patita nei riguardi dell'unica persona in cui aveva riposta tutta la sua fiducia e le rivelazioni che accompagnarono i numerosissimi e lunghi processi contro i partigiani di Sejano aggravassero smisuratamente nel cuore del vecchio esasperato il sospetto, il disprezzo e l'odio per gli uomini e lo inducessero a procedere ancor più rigorosamente nel sistema di reprimere ogni indizio di ostilità.
Per la parte che in genere può mettersi a carico dell'imperatore, e che non é invece dovuta alla gara di servilismo di cui diede spettacolo il senato o giustificata da colpe reali, quest'onda di inquisizione penale va riguardata come la reazione di un animo esasperato e non giustifica neppur lontanamente l'opinione di Tacito, il quale a cagione dei processi di lesa maestà ha fatto di Tiberio un tiranno assetato di sangue, per il quale l'uccidere é un bisogno ed un godimento!

Già l'avversione di Tiberio agli spettacoli sanguinosi così cari alle masse alte e basse del popolo, ai giuochi dei gladiatori e ai combattimenti con le fiere, prova a sufficienza come il suo animo non fosse intimamente proclive alla crudeltà ed al godimento per gli altrui tormenti, caratteristiche così salienti di Caligola e di Nerone.
L'arte con cui Tacito anatomizza i sentimenti più intimi del principe e vuol rivelare tutti i segreti del suo cuore non ci deve illudere sino a farci dimenticare l'artifizio tendenzioso col quale egli cerca di interpretare tutto a danno di Tiberio, sia che egli punisca, sia che egli perdoni.

Con l'ironia beffeggiatrice che lo distingueva Caligola più tardi cercò di dimostrare al senato con i documenti alla mano che nei processi di lesa maestà i senatori, come giudici, come testimoni a carico e persino come accusatori si erano mostrati più imperialisti dello stesso imperatore e che essi avevano avuta la principale colpa della massima parte delle condanne dei loro pari. Tiberio per natura non era affatto vendicativo. Lo provano i libelli diffamatorii, di cui Svetonio reca esempi, e che contenevano tutte le malvagità calunniose umanamente possibili ; e ciò malgrado egli lasciò tutta questa roba per lungo tempo impunita ! « Mi odiino pure, egli diceva, purché mi rendano giustizia » ! (oderint dum probent ; massima questa peraltro che alla lunga non fece altro che lasciar dilagare più audace l'odio ed il desiderio di scandalo. Sulla vita privata del principe furono messe in giro cose che soltanto la fantasia più perversa può immaginare. Lo stesso Tacito concede che furono questi continui e perfidi attacchi che alla fine irritarono talmente Tiberio che lasciò libero sfogo all'ira sua.

Non si vuol negare che in questa repressione - peraltro con la cooperazione zelante del senato - egli talora sia arrivato troppo oltre. Se é vero quel che dice Svetonio, che ad alcuni accusati venne negata la consolazione degli studi scientifici e il conforto di amici e parenti, questo é certo una macchia che offusca la memoria di Tiberio, benché a tal proposito occorrerebbe non dimenticare che ancor nel XX secolo e sotto governi con re e principi cristiani i prigionieri politici non avevano che la facoltà di filar lana su un isola, e non potevano anch'essi vedere né moglie né figli, godere il conforto di amici, nè leggere giornali e ciò che desideravano.

È vero pure che sotto Tiberio per i reati di lesa maestà si ebbe un aggravamento di sanzioni penali, in quanto, per lo meno negli ultimi anni del suo regno, invece della pena dell'esilio consueta per l'avanti fu comminata la pena di morte. Ed un altro regresso fu la censura più rigorosa esercitata contro la produzione letteraria seria, specie contro gli scritti di carattere storico. Di tal rigore ad es. rimase vittima Cremuzio Cordo, lo storico dai sentimenti repubblicani. Ma non perciò può dirsi ancora giustificata l'opinione di Tacito, tanto più che egli stesso deve confessare che Tiberio ordinariamente nei processi di lesa maestà si mostrò mite e moderato e non smentì questa moderazione se non quando si lasciò sopraffare dall'ira ! Fin nei suoi ultimi anni Tiberio permise di pubblicare il testamento di un nobile romano che conteneva i più vivaci insulti contro di lui e che perciò gli eredi non osavano di pubblicare; questo, malgrado che nel testamento fosse scritto che egli era divenuto anzi tempo mezzo rimbambito e che con le sue idee di vita solitaria si era reso un profugo.

Ben si vede quanta fatica occorra per dare un giudizio ad es. quello espresso dal Gregorovius nel primo volume dei suoi «Viaggi d'Italia» (Capri), dove parla del «demone Tiberio» e del «nome più spaventoso che conosca la storia», e dal Geibel nella famosa ode «la morte di Tiberio».
E proprio la morte di Tiberio ci dà un esempio significativo di quello che é il carattere della tradizione a noi giunta. Noi non abbiamo ragioni di dubitare dell'affermazione di Seneca che Tiberio morì di morte naturale. Ma questa non parve una morte quale si meritava il « tiranno ». E quindi si andò raccontando che fosse stato soffocato sotto i cuscini mentre rinveniva da uno svenimento per ordine del prefetto del pretorio Macro e di Caligola, e che Caligola stesso addirittura avesse strappato dal dito a Tiberio morente l'anello col sigillo e lo avesse strozzato con le sue mani, mentre secondo altri egli lo avrebbe invece lentamente ucciso con un veleno insidioso !


Tiberio e Caligola

 

Il venticinquenne Gaio Cesare o Caligola, come lo chiamavano i soldati (dalla caliga dei legionari nella cui uniforme in miniatura il piccolo Gaio aveva scorazzato negli accampamenti), fu, come nipote adottivo di Tiberio e da quest'ultimo istituito erede del suo patrimonio privato insieme con suo nipote Tiberio Gemello, riconosciuto senz'altro qual principe dal senato (37 d.C.).
Era l'ultimo figlio di Germanico e di Agrippina ed era cresciuto a Capri sotto gli occhi di Tiberio. Egli era sfuggito alla distruzione della sua famiglia in grazia della sua pieghevolezza e della sua arte di fingere. Le male lingue dissero che non vi era stato mai un miglior servitore e un peggior padrone di lui.

Vero é che quest'ultima sua qualità non si manifestò subito. Novizio sul trono, egli non dimostrò all'inizio che il vivo desiderio di piacere agli altri e di farsi una solida base nel favore dell'opinione pubblica con splendidi benefizi e promesse liberali. I processi di lesa maestà vennero troncati, fu proclamata una generale amnistia ed espulsi gli odiati delatori, fu abolita una serie di divieti imposti dalla censura con l'aggiunta che il principe nutriva il massimo interesse per la verità storica genuina !
Il popolo riebbe per un momento le elezioni dei magistrati e Caligola in un discorso-programma pronunziato in senato promise la più rigorosa osservanza della costituzione, la leale divisione dei poteri col senato e di rendere annualmente conto delle finanze. Sembrava quasi che sotto questo «figlio e pupillo dei patres (cioè dei senatori)» come egli chiamava sé stesso, dovesse spuntare una nuova era di libertà; ed il senato entusiasmato decretò di far incidere la sua orazione su uno scudo aureo, che doveva essere ogni anno portato in processione solenne dai collegi sacerdotali dalla curia sul Campidoglio, perché con la lettura al pubblico di quell'orazione si confermasse costantemente in forma solenne il trionfo della libertà da essa proclamato. Al giovane Cesare fu conferita in ricompensa la corona di quercia, come un tempo era stata accordata ad Augusto per aver posto fine alle guerre civili, e gli fu dato il titolo di «padre della patria».

Allorché, poco dopo, una grave malattia fece temere la perdita del principe, le manifestazioni di attaccamento giunsero ad una esagerazione difficile a superarsi. Il servilismo arrivò sino al punto che si vide chi volle votare la propria vita in sacrificio agli dei per la salvezza dell'amato principe ! Nessuno perciò provò forse mai tanto la gioia inebbriante di vedere un mondo genuflesso ai suoi piedi quanto la provò allora questo fanciullo che dal nulla, dalla più profonda soggezione, era d'un tratto salito alla potenza più eccelsa della terra intera e si vedeva oggetto di una venerazione che lo elevava assai al di sopra dell'umana natura.

Fa pertanto meraviglia se l'originario sentimento di rispetto di questo novizio per l'opinione pubblica si sia ben presto mutato nel suo contrario, in un completo disprezzo, che egli abbia sempre più sciolto il freno che pertanto tempo aveva dovuto imporre ai malvagi istinti della sua intima natura e si sia abbandonato con tutto il cinismo brutale che è caratteristica tipica di Caligola agli impulsi di una sconfinata mania dell'onnipotenza?
La maniera come furono tolti di mezzo il prefetto Macro, mentore fastidioso, e Tiberio Gemello, possibile rivale, dimostrò assai presto che cosa fosse da aspettarsi da un principe che riteneva «essergli permesso di far tutto contro tutti». Questa la si è voluto chiamare la logica di un pazzo; ma non é forse piuttosto la logica inerente ad un sentimento brutale della propria potenza, sentimento che trovava terreno più che facile a germogliare nell'effettivo potere preponderante di lui e nel generale servilismo degli altri ?

Caligola stesso si vantò per l'appunto della conseguenza logica, della fermezza con cui perseguì il suo fine ultimo che era quello di trasformare il principato in un potere assoluto del tipo dell'autorità regia orientale-ellenistica di origine divina. Ed infatti, se già per Virgilio, Orazio e Properzio, Augusto fu un dio che si era fatto uomo, un dio cui Agrippa aveva originariamente destinato il Pantheon, e se più tardi Lucano celebrò del pari Nerone come un "dio che per la salute dell'umanità era disceso in terra", ma sarebbe in seguito tornato nella sua patria celeste per troneggiarvi sotto la figura di Giove o di Apollo, non é che una cosa perfettamente logica che Caligola, nel sentimento di una potenza ormai sicuramente assodata, abbia fatto cadere l'ultimo velo che teneva ancora nella penombra la divinità della persona imperiale, penombra di cui si era a suo tempo dovuto accontentare forzatamente Augusto, ed abbia accettato come un tributo a lui dovuto la proschinesi (genuflessione), che già l'adulazione aveva fatto a gara di offrirgli spontaneamente, e l'adorazione divina.

Se già un tempo il suo « divo » antenato Giulio Cesare era stato elevato al cielo come Jupiter Julius dal senato servizievole, se il suo altro antenato Antonio era divenuto un nuovo Dioniso ed accanto alla nuova Iside Cleopatra aveva aspirato ad essere un nuovo Osiride, se persino un Augusto si era compiaciuto di passare per Mercurio disceso in terra, come ci si potrebbe meravigliare che Caligola, rampollo di questa razza divina, abbia preteso di dominare il mondo qual Giove fattosi uomo?

Ebbero ancora a chiamarsi fortunati che il senato riuscisse ad impedire l'identificazione di Caligola con la suprema divinità tutelare dello Stato, con Giove Capitolino, inducendolo a contentarsi di salire invece che sul Campidoglio sul monte Albano ed a proclamarsi semplicemente Giove Laziale, «fratello di Giove Capitolino».
La gente d'animo semplice, come quel calzolaio gallico, poteva ridere al vedere l'imperatore che si mostrava in veste di Giove al popolo orante sulla scalinata del tempio di Castore, fra i Dioscuri, o che si faceva adorare in costume di Ercole, Dioniso, Marte, Apollo e così via; gente invece che aveva deriso il rifiuto di Tiberio della consacrazione come una prova del suo spirito decadente, per la quale la « speranza » di Augusto di essere assunto al cielo a mo' di Ercole o di Quirino era stata un segno della sua saggezza superiore, non aveva proprio ragione di parlare di follia se il figlio di Agrippina, nelle cui vene, a parlar con sua madre, scorreva il sangue divino del «
divus Augustus», in cui «sopravviveva il suo spirito divino», dopo questi esempi, intendeva di essere anch'egli considerato, alla maniera dei re ellenistici, come una epifania, vale a dire come una incarnazione umana della divinità, e se egli - anche qui perfettamente logico - volle elevare la sorella Drusilla, da lui caldamente amata e precocemente morta, alla qualità divina di "Panthea"; essa doveva cioè incarnare in certo modo la somma di tutte le divinità muliebri, come egli stesso incarnava il complesso delle divinità maschili. Tanto vero che si trovò subito, a conferma di questa apoteosi, un testimone che affermò di aver visto con i propri occhi l'anima di Drusilla sprigionarsi dalle fiamme e volare al cielo per prender posto colà nella famiglia degli Dei!
Potenza della "fede" direbbe qualcuno! Frutto maturo della "ignoranza" direbbero altri.

Entrati una volta su questa via, non si aveva diritto di meravigliarsi più di nulla e nemmeno dell'ordine dato da Caligola di porre una sua statua di proporzioni colossali nel tempio di Jeova a Gerusalemme e di trasformare la dimora di Jeova in un tempio di Giove Epifane Gaio, come pure di trasportare in Italia da Olimpia il Giove di Fidia e di collocarlo nel tempio a sé dedicato, dove al posto della testa di Giove si sarebbe dovuta sostituire la testa di Caligola! L'esecuzione di questi ordini venne impedita dai ritardi nati a scopo dilatorio dai funzionari e dalla precoce morte di Caligola.

La tenacia e la logica di Caligola nel perseguire i fini della sua politica religiosa sono dimostrate da ultimo dalla maniera come egli finì per invadere anche il Campidoglio, costruendo un ponte dal Palatino al Campidoglio e mettendo qui la prima pietra di un palazzo ed a quanto sembra anche di un tempio per sé. E nel fatto egli giunse tanto avanti nella via di detronizzare il dio tutelare della Repubblica, che il senato intimidito completamente gli accordò - per quanto dopo lunga resistenza - persino l'appellativo di Optimus Maximus spettante esclusivamente al dio supremo.

Di fronte a ciò è altrettanto poco da meravigliarsi che la società romana si sia avidamente vendicata del despota che era stata costretta a divinizzare ed abbia fatto di Caligola un pazzo vero e proprio accumulando altresì attorno al suo nome le più assurde storie. Specialmente i letterati che scrissero per il suo successore Claudio hanno contribuito a formare in questo senso la tradizione a noi giunta, giacché - come é stato giustamente osservato - quanto più l'opinione pubblica si accalorava attorno alla follia del suo predecessore, tanto meglio Claudio poteva sperare di veder tacere le spiacevoli dicerie che correvano intorno alla sua stessa deficienza mentale.

E Caligola medesimo con la logica ferrea del culto del proprio io che non si indietreggiava davanti a nulla, con l'inclinazione sua alle frasi drastiche e brutali ed alle facezie ciniche, con le stravaganti, e grottesche trovate del suo sovrano capriccio ha fatto quanto era umanamente possibile per alimentare questa opinione della sua follia.
Così ad es. il Caligola della leggenda dei Cesari avrebbe giustificato con la sua qualità di Giove i suoi numerosi adulteri ed il preteso incesto con le sue sorelle, mentre in realtà l'incesto con le sorelle manifestamente gli fu attribuito consecutivamente a bella posta perché appunto rappresentava la parte di Giove. Inoltre l'incesto si attagliava perfettamente alla figura di un tiranno in piena regola. Si pensi a Periandro ed a Nerone che lo avrebbe perpetrato con la propria madre! Siccome questo per Caligola era impossibile, dovettero prendere il posto della madre le sorelle. Ma se si é imputato persino a Cicerone di aver avuto relazioni incestuose con la propria figlia!

Simili imputazioni, come si vede, erano calunnie all'ordine del giorno in quest'epoca. Così pure si spiega con la concorrenza che il Giove Laziale trapiantatosi a Roma nella persona di Caligola faceva al Giove Capitolino, con la storiella di un combattimento reale in cui Caligola avrebbe colpito davvero il suo avversario con macchine tonanti e con fulmini ovvero con massi! Oppure quella facezia cinica relativa al suo cavallo favorito, ch'egli disse avrebbe fatto console (evidentemente perché già tanti asini erano divenuti consoli in Roma) fu presa così sul serio che corse fama che il cavallo sarebbe veramente diventato console se Caligola fosse vissuto ancora!

La verità é che in quella frase non si esternava se non quella stessa bizzarra ironia che ad es. nel noto detto, "dispiacergli che il popolo romano non avesse una sola testa". Svisamenti patenti di facezie ciniche di questo genere sono da ultimo gli altri aneddoti ch'egli abbia voluto far togliere dalle biblioteche pubbliche la statua di Virgilio e di Livio e bandire Omero dal suo impero come Platone dal suo stato ideale. Anche quanto la chiacchera maligna pose in giro relativamente alle campagne - certo infelici - dell'imperatore sul Reno e sul Mare del Nord, è in parte manifesta burletta e caricatura, caricatura che é del resto frequentissima in genere nella leggenda dei Cesari.

Con un materiale simile non vi é dubbio che era facile costruire la teoria della «mania del cesarismo» come un fenomeno patologico specifico.

Ora é certo che la stolta smania delle esteriorità che in lui generò particolarmente la propria apoteosi fu naturalmente accompagnata da una certa restrizione dell'orizzonte intellettuale, ma non è possibile sostenere che Caligola fosse affetto da una vera e propria malattia di mente. Egli sapeva benissimo quel che faceva. Dal momento che la sfrenata brama di potere e di dominazione gli rendeva intollerabile il pensiero di essere semplicemente il primo cittadino dello Stato e di avere altri partecipe del governó accanto a sè, altra via non gli si offriva per scardinare questa concezione del principato, tuttora profondamente radicata nella vita nazionale, che sfruttare sistematicamente le risorse del dogma della natura divina dei monarchi.
Giusta quanto afferma l'ebreo Filone, che come capo di una missione della comunità giudaica alessandrina ebbe a fare così tristi esperienze con Caligola, l'imperatore in perfetta armonia con questo dogma avrebbe detto di sé: "Come il pastore che sovrasta al gregge é di natura diversa da esso, così io sono per natura al di sopra degli uomini". E questo era effettivamente l'argomento decisivo che permetteva di spazzar via tutte le velleità repubblicane.

Se il principe è per così dire di un sangue diverso da quello di tutti gli altri, e se la "vocazione e il talento di governare", come Caligola amava ripetere, é connaturale a questo sangue, vien di conseguenza che di fronte a siffatto titolo deve cedere ogni altra pretesa. E d'altro canto che cosa significava più ormai un corpo come il senato, i cui membri dovevano abbassarsi sino all'adorazione del principe?
La logica cosciente di tutto il procedere di Caligola si manifestò inoltre anche nel fatto che egli per rendere inoffensivo il senato cercò sistematicamente di trarre dalla sua le classi che si erano sempre trovate in un certo antagonismo geloso col senato, l'ordine equestre ed il popolo. Egli si guadagnò l'ordine equestre con la concessione di alcuni privilegi, il popolo con numerose elargizioni, con spettacoli, col protrarre più a lungo le feste dei Saturnali, col permettere nuovamente la formazione dei clubs, da un pezzo vietati e puniti, coll'accogliere nella religione dello Stato il culto di Iside largamente diffuso nel popolo e così via.

Al contrario il senato fu sistematicamente umiliato o addirittura messo da parte. Sotto Augusto e Tiberio un consiglio di senatori era stato chiamato a partecipare agli affari del governo, ma Caligola non ne fece più nulla. Così pure la giurisdizione del senato, che assicurava tuttora a questo corpo un certo grado di indipendenza, fu resa illusoria per il fatto che Caligola ammise l'appello al suo tribunale dalle sentenze del senato e per tal modo degradò anche la giustizia alla condizione di uno strumento dell'assolutismo. Che cosa poi fosse da attendersi da siffatta giustizia lo lasciò ben chiaramente intendere il provvedimento per cui le leggi contro i delitti di lesa maestà vennero ora incise nel bronzo ed affisse pubblicamente!

La logica radicale di Caligola per altro non ebbe sufficiente riguardo ad un elemento importante; alla necessità per il potere assoluto di solide basi materiali. La sua vita disordinata e dedita ai piaceri ed il fasto orientale della corte, lo sperpero enorme del denaro pubblico a scopi di divertimento e per nutrire le plebi della capitale divorarono ben presto le cospicue riserve accumulate da Tiberio; ed i tentativi di colmare il deficit cronico delle finanze col ridurre i premi dei veterani, con tasse, estorsioni e confische non fecero che accrescere il numero dei malcontenti, che già andava di per sé aumentando rapidamente a causa della brutalità di carattere del despota e della sanguinosa crudeltà con cui reprimeva le continue cospirazioni e congiure. E di questa brutalità cinica che non risparmiava il suo cocente dileggio neppure agli ufficiali della guardia cadde vittima Caligola. Uno di questi ufficiali, Cassio Cherea, lo trucidò in occasione di un convito (41 d.C.).

Il fatto che la monarchia abbia superato anche questa crisi é la prova migliore d'ogni altra che essa era divenuta una necessità ineluttabile. Il senato, è vero, credette giunto il momento di poter restaurare la repubblica od almeno di poter liberamente disporre esso del trono, ma questa speranza si rivelò subito illusoria. La guardia dei pretoriani e la plebe della capitale, i cui interessi erano indissolubilmente legati al principato, la pensavano in questa materia ben altrimenti che il senato. I pretoriani proclamarono senz'altro imperatore l'unico rampollo ancora esistente della famiglia dei Cesari, il cinquantenne Claudio; il fratello di Germanico; ed al senato altro non rimase che riconoscere il fatto compiuto.


Claudio

Par quasi che la letteratura a tendenze aristocratiche abbia voluto in modo affatto speciale vendicarsi dell'uomo che era costato all'aristocrazia una così amara delusione! La figura che ce ne ha tramandato é una caricatura. Basta leggere il libello satirico del filosofo Seneca intitolato «La trasformazione in zucca (apocoloambosi) del divo Claudio», ovvero le storielle di cui ha fatto collezione Svetonio per sincerarsi immediatamente che la letteratura a noi giunta ha esagerato sino alla caricatura le deficienze, senza dubbio innegabili, dell'uomo. Certo Claudio non era sicuramente nato per essere imperatore. Temperamento tranquillo di uomo di studio e di presenza poco imponente, ma piuttosto sgraziato, egli aveva dovuto subire in larga misura umiliazioni e dispregio. La famiglia si vergognava di lui e lo aveva più che possibile tenuto lontano dagli affari pubblici, di modo che egli poté dedicarsi tutto alla sua passione per le lettere e per l'antichità ed agli studi per le vaste opere di storia etrusca, cartaginese e romana da lui scritte.

Ciò malgrado quest'uomo superò nel governo le aspettative che si potevano nutrire sul suo conto. I diritti del senato vennero rispettati, l'amministrazione provinciale ricondotta alle buone tradizioni del principato e con una razionale gestione finanziaria approntati i mezzi per procedere al compimento di grandi opere di pubblica utilità. Per soddisfare alle esigenze del traffico marittimo e per assicurare l'approvvigionamento della capitale venne costruito alle foci del Tevere un nuovo porto munito di un faro (portus Claudius). Il rifornimento d'acqua a Roma fu migliorato con l'erezione di un grandioso acquedotto, con la derivazione dall'alto Aniene dell'Aqua Claudia, i cui pittoreschi archi ancora oggigiorno dànno una figura caratteristica al paesaggio della campagna romana. Fu prosciugata una parte del lago Fucino, che rimase così guadagnata per l'agricoltura.

Persino una grande impresa guerresca glorifica il regno del dotto imperatore, la conquista della Britannia (43 d.C.). Né fu questa una impresa dettata da vana ambizione di gloria, ma un'opera che si era rivelata evidentemente necessaria per ragioni politiche e di incivilimento, giacché, dati gli stretti vincoli che univano i Celti gallici ed insulari, la possibilità di una rapida e completa romanizzazione della Gallia era in modo essenziale legata alla condizione che anche i Celti nordici fossero assoggettati e romanizzati più che si poteva.
Che qui Claudio sia stato guidato da un concetto giusto é provato dalla circostanza che questo problema affaticò anche gli imperatori successivi, sinché sotto Domiziano nell'anno 85 Agricola non ebbe assicurato alla signoria di Roma la Britannia sino alla Scozia.


Messalina - Agrippina - Poppea

 

Certo in Claudio fu caratteristico un grave difetto: la sua soggezione all'influenza dei liberti imperiali Narciso e Pallante, che furono i suoi factotums, e di donne degenerate, una delle quali, Messalina, si lasciò trascinare dai capricci della sua libidine ad eccessi incredibili, ed alla fine giunse persino a stringere nozze formali con uno dei suoi amanti, mentre Agrippina, figlia di Germanico e sposata a Claudio dopo la morte violenta di Messalina, dominò così completamente l'imperatore ch'egli stesso sacrificò gl'interessi di suo figlio Britannico alla ambizione di lei. Agrippina aveva un figlio di primo letto che Claudio adottò sotto il nome di Nerone Claudio Cesare ed unì in matrimonio con la sua figlia tredicenne Ottavia (53 d.C.). Con quest'atto egli lo indicava palesemente a suo successore al trono, trono che infatti andò senz'altro a questo giovane di 17 anni quando Claudio subitamente morì nel 54 - come si disse - avvelenato dalla moglie.


Nerone era stato presentato all'opinione pubblica come un discepolo di filosofi, giacché l'accorta Augusta era riuscita ad accaparrarsi il più splendido intelletto dell'epoca, Seneca, per la funzione, nel presente caso assai problematica, di precettore di principi. E le speranze che si riponevano nell'efficacia di quest'opera educativa sembrarono veramente realizzarsi, quando si vide il giovane principe lasciare il governo nelle mani esperte e fidate di
Seneca e del prefetto del pretorio Burro.
Un testimonio competente, il futuro imperatore Trajano, riteneva che l'impero romano non fosse mai stato governato meglio che nei primi cinque anni del regno di Nerone.

Però ben presto oscure nubi si addensarono anche sul nuovo regno a causa dei conflitti che la sete di dominazione e le passioni accesero in seno alla stessa famiglia imperiale. Agrippina, se aveva fatto di suo figlio il padrone del mondo, non volle averlo fatto per niente. Essa reclamò la sua parte di dominio, ma dovette ben presto accorgersi che la sua volontà era affatto impotente di fronte a quella che Seneca chiamava la «innata ferocia» di Nerone.
Spinta dalla sua irritazione essa allora mise contro suo figlio gli infelici orfani: Britannico, l'erede del trono spogliato dei suoi diritti, ed Ottavia ma non fece che affrettarne la rovina.
Britannico fu per ordine di Nerone avvelenato in un banchetto, una catastrofe che Tacito ha descritto con arte mirabile insieme col suo epilogo, la frettolosa sepoltura notturna dell'assassinato.

Un editto annunziò che il principe tanto più contava ora sul favore del senato e del popolo in quanto egli era rimasto l'ultimo di quella stirpe nata per occupare il primo posto!
Quanto all'infelice Ottavia, essa ben presto si vide completamente sostituita nell'animo del marito dalla passione concepita da Nerone per una dama dell'aristocrazia, una certa Poppea Sabina, che seppe incatenare a sé il giovane libertino con tutte le arti della civetteria, una donna in cui anche Agrippina vide con ragione una rivale pericolosa.
Gli sforzi da essa fatti per impedire che Nerone divorziasse da Ottavia non approdarono che ad aumentare l'odio e la diffidenza del figlio verso di lei, giacché le numerose intelligenze che essa aveva e che si diramavano fin nelle file dei pretoriani gli fecero ritenere non immune da pericoli la sua opposizione. Pertanto lo scellerato decise di sopprimere la propria madre ! Dopo un primo tentativo architettato con arte raffinata, ma andato a vuoto, Aniceto, comandante della flotta di Miseno ed a suo tempo uno dei precettori di Nerone, fece trucidare Agrippina dai suoi soldati in una villa remota (59 d.C.).

La partecipazione ufficiale al senato della morte dell'imperatrice-madre narrò che Agrippina aveva ordito un attentato alla vita del figlio e che vistasi scoperta si era uccisa di propria mano. Ed il senato rispose con felicitazioni e coll'indire feste di ringraziamento agli Dei per lo scampato pericolo del principe !

Di fronte a questo contegno del senato ed al giubilo del popolo che lo acclamava mentre egli solennemente veniva portato in Campidoglio, é ben possibile che egli abbia realmente detto quanto gli si attribuisce, che cioè "nessuno dei Cesari aveva mai saputo prima di lui quanto potesse osare!".
E questo sentimento della propria strapotenza si aumentò ancora quando i suoi precettori e consiglieri Seneca e Burro sparirono dal suo fianco. Burro morì nell'anno 62 ed il nuovo prefetto del pretorio Tigellino, uomo di carattere profondamente abietto, in lega con la sua protettrice Poppea, acquistò ben presto sull'imperatore una influenza così grande che Seneca, messo completamente da banda, chiese il suo congedo.

La prima vittima del nuovo favorito strapotente fu Ottavia. Nerone aveva divorziato da lei sotto il pretesto della sua sterilità e, dopo che un processo penale intentato a suo carico per illeciti amori non aveva condotto ad alcun risultato, l'aveva confinata in Campania: Poppea era subentrata al suo posto nel palazzo dei Cesari.
Ma questa volta il sentimento popolare con una delle sue mosse imprevedibili sposò la causa della ripudiata. Sparsasi ad un certo punto la voce che essa era stata richiamata, scoppiarono dei veri e propri tumulti. Le statue di Poppea furono abbattute ed infrante dal popolo infuriato, mentre quelle di Ottavia vennero portate in trionfo e cosparse di fiori, sinché i soldati non intervennero e dispersero le masse tumultuanti.

La conseguenza fu che Ottavia con l'aiuto del ribaldo Aniceto, che si spacciò a bella posta per complice, venne incolpata di trame ed accusata di alto tradimento, condannata e mandata al supplizio (62 d.C.).

Data questa atmosfera di sangue e di lussuria e di sconfinata abiezione ben poco c'é nella storia di Nerone che possa apparire e ritenersi impossibile. E si comprende quindi perfettamente che persino il terribile incendio che nell'anno 64 distrusse una gran parte di Roma sia stato dalla voce pubblica attribuito ad uno dei delittuosi capricci di Nerone. Si disse persino ch'egli avesse deliziato i suoi occhi del grandioso spettacolo del fuoco fluttuante sulla città truccato da trageda e cantando la distruzione di Troja !
Tutto fa credere che questa sia una favola, ma non perciò si può senz'altro escludere che l'incendio gli sia imputabile. Gli atroci supplizi dei cristiani residenti in Roma, sui quali venne riversato il sospetto di aver appiccato l'incendio, attestano abbastanza di che cosa Nerone era capace. E, non mancano nemmeno ragioni per le quali non é poi così inverosimile che si sia trattato di un misfatto dell'imperiale furfante.

Un sintomo della sua mania cesarea e della sua sete di cose inaudite, non mai viste prima, é la sua folle passione di edificare. Per «abitare una buona volta come un uomo».
Nerone costruì la sua sontuosa «domus aurea» nel centro più popoloso della città, un palazzo che con i suoi parchi, terme, piscine, ecc. occupò un'area di cinquanta ettari, né si diede pensiero che, come attesta espressamente Marziale, fosse ritenuta una grande crudeltà l'aver privato a tale scopo il tetto di una quantità di povera gente in una città dove era già grave la oppressione dall'alto prezzo degli affitti. Perché dunque il mostro coronato, che non si era fatto riguardo di asservire alle sue smodate libidini il quartiere dei poveri si sarebbe dovuto arretrare di fronte al pensiero di far addirittura tavola rasa con un'opera di distruzione e procacciarsi così d'un tratto lo spazio necessario all'attuazione dei suoi fantastici progetti edilizi ?
Del resto é possibile pure che l'incendio, scoppiato forse spontaneamente, sia stato messo a profitto dagli sgherri di Nerone per rendere più vasta e completa l'opera di distruzione.

Dal punto di vista psicologico tutto ciò sarebbe naturale altrettanto quanto il fatto ben noto che Nerone per soddisfare la sua vanità artistica e sportiva non si curò minimamente delle esigenze di decoro che gli imponeva la sua posizione, anzi venne meno al più comune rispetto di sé stesso; condotta questa che forma un contrasto addirittura grottesco con la cura gelosa ch'egli poneva nel pretendere i diritti inerenti al suo grado elevato. Spinto dalla pazza smania di acquistarsi anche fama di virtuosità, questo dilettante e sportsman coronato scese così in basso da prodursi in persona sul teatro e nel circo sotto gli occhi dei suoi sudditi come cantore, citaredo ed auriga !
Qui si poté ammirare sulla scena l'imperatore ora sotto le spoglie del matricida Oreste, ora sotto quelle di Ercole in preda alle furie, ora sotto quelle di Edipo privato della vista! E siccome la sua vanità artistica solo allora avrebbe potuto dirsi soddisfatta, quando anche i più squisiti conoscitori in questa materia, i Greci, gli avessero tributato il loro plauso, così egli imprese un vero e proprio giro artistico per mietere allori negli agoni nazionali degli Elleni ad Olimpia ed a Delfi, mentre a Roma governavano in sua vece dei liberti.
Anzi il suo entusiasmo artistico lo spinse fino al punto di fargli proclamare a Corinto, in segno di gratitudine per i facili trionfi raccolti in questo giro, l'autonomia e l'esenzione dalle imposte degli Elleni, libertà che peraltro fu loro pochi anni dopo nuovamente privata da Vespasiano perché non seppero farne un uso ragionevole.

Che questo commediante seduto sul trono dei Cesari, che non si rifiutava alcun capriccio e disperdeva il denaro a piene mani, dovesse alla fine aggiungere alla bancarotta morale la bancarotta finanziaria era cosa inevitabile. Ed i rimedi da lui adottati: deterioramento della moneta, processi di lesa maestà e confische, non servirono che a peggiorare la situazione, anche perché la diffidenza ed il timore che invasero l'imperatore richiesero il sacrificio di sempre nuove vittime.
Già nell'anno 65 fu scoperta una vasta cospirazione, con a capo il consolare Pisone, della quale erano a parte anche il prefetto del pretorio, altri ufficiali dei pretoriani e molti membri dell'aristocrazia. Ne seguirono numerose esecuzioni capitali e processi contro complici e sospetti, fra i quali Seneca e Lucano. Questi ultimi dovettero subire la morte; e la stessa sorte toccò anche ad alcuni che non avevano avuto parte nella congiura, ma avevano voce di capi dell'opposizione, come lo stoico Trasea Peto.
A principio del 68 poi si ribellò Vindice, il governatore della Gallia Lugdunense ; la rivolta venne dapprima domata dalle legioni della Germania superiore, ma in seguito anche queste rimasero attratte nel moto rivoluzionario, che con la ribellione dei rispettivi governatori si estese rapidamente alla Spagna citeriore, alla Lusitania ed all'Africa.

A questo punto anche la fedeltà dei pretoriani cominciò a oscillare, e ben presto Nerone si vide abbandonato da tutti. Egli fuggì e si nascose nelle vicinanze di Roma, dove con l'aiuto di un suo fido schiavo si uccise quando seppe che il senato lo aveva dichiarato nemico della Repubblica e posto al bando.

Così finì l'ultimo rampollo legittimo della dinastia
nelle cui vene scorreva un sangue divino !


LA GUERRA CIVILE E LA DINASTIA DEI FLAVI > >

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