-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

23. LA DECADENZA DEL CALIFFATO - LE DINASTIE MINORI


Il massimo dominio dei califfi intorno al 1000

a fondo pagina - cartina gigante a colori dello smembramento
del Califfato di Bagdad

Come avevano fatto a suo tempo i Romani e poi i Bizantini, per salvare certe critiche situazioni? si erano affidati ai "barbari" e questi infine imparata l' "arte bellica", erano diventati loro i nuovi sovrani. Così aveva fatto Mutassin, chiamando al suo fianco il Turco Afshin e i suoi uomini per farsi aiutare a domare i ribelli una prima volta, e una seconda volta per sventare una congiura ai suoi danni. Ma lui fu solo il primo, poi ne seguirono altri. E chiesero aiuto a loro perfino i figli degeneri del califfo per fare assassinare il proprio padre.

Sotto al-WATHIQ billah (842-847), figlio e successore di Mutassim, la posizione dei generali turchi a Bagdad si era così tanto rafforzata, che il califfo conferì ad uno di essi Ashnass il titolo di sultano, riconoscendone così i diritti, che già di molto sorpassavano le semplici attribuzioni militari.

Morto Wathiq giovanissimo, il successore di Ashnass, suo figlio Wassif, si arrogò il diritto al trono, fatto che ben presto divenne (come a Roma) , si può dire, regola.
All'inizio, Wassif d'accordo
con le più alte autorità civili, mise sul trono Muhammed, il figlio minorenne di Wathik, sostituendolo però, poco dopo, con lo zio G'afar al-Mutawakkil billah.
Costui si abbandonò completamente, come abbiamo già detto, al partito ortodosso degli Shafiiti, in cui egli sperava soprattutto di trovare un appoggio contro le sempre risorgenti aspirazioni degli Alidi (i soliti seguaci di Alì).

Questo G'afar perseguitò pertanto non solo i Mutasiliti, ma anche in modo speciale gli Shiiti, dei quali fece distruggere il santuario, la tomba di Hussain a Kerbela.
Ma della intolleranza ormai dominante ebbero a soffrire anche quei cristiani ed ebrei che come dotti, e specialmente come medici, avevano ricoperto posti di prestigio alla corte del suo predecessore: essi dovettero portare distintivi umilianti e non servirsi di altra cavalcatura all'infuori dell'asino e del mulo.
(Forse questa infamia del distintivo agli Ebrei gli europei la impararono qui)

Invano Mutawakkil aveva una volta tentato di sottrarsi alle pretese sempre più moleste della sua guardia, trasferendo la residenza a Damasco; dopo soli due mesi era tornato a Babilonia. Avendo designato a successori i suoi tre figli in ordine di età, ma tentando poi di dar la preferenza al secondo, il figlio maggiore ordì una congiura con i capi del partito turco e fece assassinare il padre, nella notte dal 9 al 10 dicembre 861, nel nuovo palazzo costruito alle porte di Sâmarrâ.

Ma il parricida poté reggersi solo sei mesi sul trono, che egli invano cercò di assicurarsi con l'imporre una rinunzia ai fratelli e col favorire il partito degli Alidi. Levato di mezzo col veleno, i Turchi misero sul trono un fratello di Mutawakkil, Achmad al-Mustain billah. Ma dopo quattro anni di regno, una lotta di partiti scoppiata fra i generali turchi gli fece perdere il potere, per altro già da un tempo ridotto ad un'ombra e lui una marionetta in mano ai turchi.

Bugha, il turco cui egli doveva il trono, dovette fuggire con lui a Bagdad, e i suoi avversari proclamarono califfo Mutass, a Samarra. Il governatore tahiridico del Chorassan, Muhammed, cercò di liberare Mustain assediato in Bagdad; ma per dissensi con Bugha passò poi dalla parte degli avversari, cosicché Mustain, non potendo più oltre reggersi a Bagdad, fu costretto a rinunziare al trono.

Mutass cercò di controbilanciare la potenza dei Turchi, ai quali pure lui doveva a loro il trono, rinforzando la propria guardia del corpo africana; ma anche lui di lì a tre anni, nel luglio dell'869, fu detronizzato e ucciso dai Turchi, di cui non poté appagare le pretese a un soldo maggiore.
Gli successe un figlio di Wathik, Muhammed al-Muchtadî billah. Invano tentò costui di sottrarsi al destino dei suoi predecessori, limitando le spese di corte all'intento di riordinare le finanze del tutto dissestate. Non aveva ancor compiuto un anno di regno, quando cadde combattendo contro Mûssa, figlio di Bugha.

I contrasti dei pretoriani e i continui cambiamenti di trono avevano ridotto il governo centrale in una debolezza, della quale la prova più evidente fu questa: che uno stato di predoni, costituito da schiavi fuggiti, poté, quasi presso le porte della capitale, formarsi e mantenersi per più anni, terrorizzando tutta la Babilonia.
Nei pressi di Bassra si trovavano grandi saline, che gli impresari facevano scavare da schiere di schiavi negri dell'Africa orientale. Sorse fra questi un persiano, Ali ibn Muhammed, che asseriva discendente di Ali e Fatima e forse apparteneva in realtà a quella famiglia allora già enormemente diffusa; questi incitò gli schiavi a ribellarsi ai loro sfruttatori.
Non che lui predicasse una riforma delle condizioni sociali; si limitava a fare il populista e promettere a quegli oppressi un miglioramento del loro stato, libertà e ricchezza anche per gli schiavi.
Lungi dal vantare i diritti della propria discendenza, si dichiarava seguace dei Charig'iti, la cui rinunzia a tutte le prerogative nazionali doveva riuscire specialmente simpatica ai suoi seguaci.

Fattosi avanti il 10 settembre 869, dopo breve tempo era padrone dei dintorni di Bassra. Gli eserciti mandatigli contro da Bagdâd erano da lui regolarmente sconfitti, tanto più che i mercenari ex schiavi passavano il più delle volte dalla sua parte. Nemmeno gli abitanti di Bassra, che gli mossero contro il 23 ottobre 869, erano ormai in grado di resistere al selvaggio valore delle sue schiere.
Nel centro della sua base di operazione, di facile difesa grazie a innumerevoli canaletti e paludi, sorse presto una nuova città, Muchtara, che denominò la Eletta, all'inizio con costruzioni leggere, poi di mattoni seccati e presto arredate di ricco bottino. Così egli si era reso padrone del corso inferiore del Tigri fino alla foce e già si accingeva a penetrare nel Chûsistan.

Nel frattempo nella capitale le cose avevano preso miglior piega. Il nuovo califfo ai-Mutamid billah aveva nominato vicerè il suo energico fratello al-Muwaffak. Non appena questi ebbe rafforzata la sua posizione a Samarrâ, nell'estate dell'871 mandò contro gli schiavi ribelli un esercito che però, nonostante alcuni successi iniziali, non riuscì ad opporre loro valida resistenza. Anche le tribù beduine dei dintorni si univano già ai ribelli. Il 7 settembre 871 essi riuscirono a cogliere di sorpresa Bassra, durante le cerimonie del venerdì. La ricca città fu saccheggiata, gli abitanti uccisi - e con l'incendio che avveano appiccato - si narra che le vittime furono non meno di 300 mila

Lo stesso Muwaffak, avanzatosi nell'aprile 872 contro i ribelli, fu sconfitto. Ma un nuovo pericolo, minacciante il regno di oriente, costrinse Muwaffak a non occuparsi di quelle ribellioni.
I Charig'iti, quasi dovunque respinti, si erano ancora a lungo mantenuti nello provincia di Sistân, nell' Iran orientale; ma in questo paese di difficile accesso avevano finito per ridursi a semplici ladroni. La popolazione delle varioe città minacciate, finalmente, prese le armi contro di essi per la propria difesa.

Il condottiero di un corpo di volontari si era intanto impadronito della capitale della regione, cacciandone il sottoprefetto là nominato dal governatore tahiridico del Chorassân. Al servizio di questo capo di volontari si trovava l'ex-fabbro (saffâr, donde il nome di Saffâridi dato ai suoi discendenti) Jakûb ibn Laith. Tanto si distinse per il suo valore, che il padrone abbandonò nelle sue mani il comando e, unendosi ad un pellegrino della Mecca, si stabilì a Bagdâd. A poco a poco questo nuovo emiro saffârideJakûb conquistò tutta quanta la provincia, segnalandosi nella repressione del brigantaggio.

Circa sette anni dopo, nell'anno 867, assaliva già i possedimenti meridionali dei Tâhiridi in Herât, cercando di guadagnarsi il favore del califfo con ricchi doni fatti col bottino di guerra. Quanto poco ormai contasse il governo centrale in questi paesi, si vide allorquando, dietro richiesta di Jakûb, gli fu prontamente concessa l'investitura sulla provincia limitrofa di Kermân, ma nello stesso tempo anche ad Ali ibn Hussain, governatore di Pârs.
Questi tentò di prevenire Jakûb nell' occupazione del paese, ma il suo generale fu da lui sconfitto e fatto prigioniero. Allora Jakûb mosse contro Ali ibn Hussain, lo sconfisse (26 aprile 869) e s'impadronì della capitale Shirâz. Non gli riuscì però di mantenersi in Pârs, ma si volse di nuovo ad oriente, dove si acquistò fama di apostolo col diffondere la fede islamitica nell'Afghânistan.
Anche a nord estese la sua potenza in ascesa; il califfo gli concesse l'investitura su Balch.

Nel frattempo la potenza dei Tâhiridi si era tanto indebolita nel Chorassan, loro patria, che Jakûb, favorito dal tradimento di alcuni dignitari del paese, poté impadronirsi della loro capitale quasi senza colpo ferire (agosto dell'873).
Senza curarsi dell'ordine del califfo di sgombrare subito la provincia, si volse contro il Tabaristan presso le sponde meridionali del Mar Caspio, i cui sovrani avevano accolto il Tahiride fuggiasco. Sebbene anche qui all'inizio vittorioso, Jakûb fu presto costretto alla ritirata dalle particolari difficoltà del terreno.

Nell'estate dell'875 mosse nuovamente contro Pars, se ne impadronì senza sforzo e piegò quindi a occidente, attraverso il Chûsistan. A tale minacciosa dimostrazione il governo bagdadino, fu costretto a conferirgli l'investitura, fino allora negatagli, sul Chorassan e le terre limitrofe, nonché su Pars.
Ma ormai tutto ciò non bastava più a trattenerlo: e Jakûb continuò la marcia su Bagdad. A circa 12 miglia dalla città gli si fece contro il viceré Muwaffak, con un esercito considerevole.

Qui Jakûb subì la prima seria sconfitta in vita sua (8 aprile 876), Muwaffak però non osò inseguirlo mentre si ritirava fin sui confini della Babilonia. Ad un'offerta di alleanza da parte del capo dei negri e schiavi, Jakûb oppose un secco rifiuto. Muwaffak aprì con lui altre trattative, ma prima che si giungesse ad una conclusione Jakûb mori il 5 giugno 879 a Gundêshapûr.

Ne raccolse la successione il fratello Amr, una volta asinaio e muratore, ma già da tempo sulle orme del fratello, distintosi come valoroso capitano. Con lui Muwatfak strinse presto un patto, che gli assicurava le conquiste del fratello e per di più gli conferiva la dignità nominale di governatore militare di Bagdâd, in precedenza tenuta dai Tahiridi.
Ma inaspettatamente, nel Chorassan, un certo Chug'astani, già fido di Jakûb, gli si ribellò e lo sconfisse non appena gli si fece incontro (7 luglio 880), impadronendosi della capitale Naishapûr. Amr dovette allora cedergli il paese e ritirarsi nella sua terra natale, il Sistan. Di lì a due anni Chug'astani fu assassinato ed allora Amr poté riprendersi il Chorassan.

L'atteggiamento minaccioso assunto da Jakûb contro Bagdad aveva giovato ai negri e schiavi ribelli, che non solo conquistarono nella Babilonia l'importante città di Wassit, ma si stabilirono saldamente anche nel Chûsistan.
Quando Muwaffak riebbe mano libera ad oriente, riprese la lotta contro i ribelli, con prudenza ma nello stesso tempo con energia. Per assalire la loro città chiusa da ogni parte da canali, dovettero costruirsi navi apposite. Abul-Abbass, figlio di Muwaffak e poi califfo col nome di Mutadid, aprì le ostilità.
Egli si accontentò all'inizio di piccoli successi; e cercò di indurre gli ufficiali, e in specie i soldati comuni dell'esercito nemico, a disertare le loro bandiere. Solo un anno più tardi, in autunno, Muwaffak stesso comparve sul teatro della guerra; ma dopo la presa di Manija, la città costruita dai ribelli, si volse al Chûsistan per toglierlo di mezzo dalle loro orde.

Nella primavera dell'881 venne quindi investita la loro capitale Muchtara, al quale scopo fu costruita, davanti ad essa sull'altra riva del Tigri, una apposita città-accampamento, la Muwaffakija.
Già più volte le truppe governative erano riuscite ad aprirsi un varco nella città nemica. Ma solo nel luglio dell'883 Muwaffak tentò l'assalto decisivo, dopo aver rafforzato il proprio esercito con quello di Lûlû, prefetto del governatore di Egitto, che aveva defezionato dal suo comando in Siria. L'energia di costui condusse finalmente alla caduta della città (agosto 883). Così fu domata del tutto questa rivolta che per così lungo tempo aveva portato alla desolazione la più ricca provincia del Califfato.

Non meno della parte orientale del regno, anche l'occidentale era allora già quasi del tutto sottratta all'influenza del governatore. Fin dall'868 era stato nominato governatore dell'Egitto Achmad, figlio di Tûlûn, pure lui schiavo turco di Buchara; e presto si era reso indipendente. Ma in Egitto un governo forte ha sempre dovuto aspirare anche al dominio della Siria, giacché da questa il Delta del Nilo poteva esser minacciato ad ogni momento.
Achmad fu all'inizio solo il rappresentante di due potentati turchi. Nell'871 essi furono sostituiti dal figlio del califfo Mutamid, G'afar, a cui Achmad ebbe solo da pagare un canone annuo. Nei primi anni gli era stato messo a fianco un direttore delle finanze, indipendente; ma gli riuscì di sottrarsi a tale controllo, promettendo al califfo Mutandis di versare in avvenire il tributo direttamente nelle sue mani.

Quando Muwaffak si arrogò la tutela sul suo fratello, cercò di rialzare l'autorità del governo centrale anche in Egitto. Achmad acconsentì ad elevare la quota del tributo, ma non tenne alcun conto dell'ordine di abbandonare il suo posto e di cederlo al governatore della Siria. Invece, quando nell'877 morì quel governatore Amag'ûr, entrò nella sua provincia, ricevendone l'atto di ossequio. Muwaffak, trattenuto nella Babilonia dalla rivolta dei ribelli, dovette lasciar correre. Ma quando il suo generale Lûlû si unì all'avversario suo Muwaffak, Achmad parò il colpo invitando il califfo a liberarsi dalla tutela del fratello e a mettersi sotto la sua protezione. Si recò quindi nella Siria, dovendo combattere nel nord una minacciosa rivolta.
Mutamid tentò allora di raggiungerlo fuggendo da Rakka, ma ne fu impedito da Muwaffak all'ultimo momento. Per conto suo Achmad non pensò affatto ad assalire apertamente Muwaffak, ma ruppe i rapporti con lui ordinando perfino che il suo nome come erede al trono non fosse più pronunziato nella preghiera del venerdì.
A sua volta il suo avversario si limitò a farlo maledire nelle moschee; più tardi aprì trattative con lui per giungere a una composizione. Ma prima che fossero concluse, Achmad morì (883).

Suo successore non fu però il figlio maggiore Abbâs, già una volta ribellatoglisi ed ora ucciso dai suoi dignitari, ma il minore, Chumârawaih. Di lì a poco scoppiarono in Siria nuove rivolte e Muwaflak mandò in aiuto ai ribelli contro la signoria dei Tûlûnidi il proprio figlio, più tardi califfo col nome di Mutadid.
L'8 aprile 885 si venne a battaglia presso Ramla nella Palestina; i due condottieri fuggirono dal campo di battaglia, e la vittoria rimase agli Egiziani. Dopo alcuni altri scontri, nell'886 fu conclusa la pace; i Tûlûnidi riconobbero Muwaffak come erede al trono e ricevettero in compenso il governatorato dell'Egitto e della Siria, per trent'anni.
In seguito Chumârawaih riuscì ad aggiungervi anche la Mesopotamia: e sentì di aver toccato l'apice della potenza quando il califfo Mutadid gli chiese la mano di sua figlia. Le nozze furono celebrate con così tanta magnificenza da parte sua che si arrivò a dire che il califfo aveva cercato questa unione solo per mandare in rovina le sue finanze. In quello stesso anno (895) egli morì; e la potenza della sua casa decadde con rapidità sorprendente, giacché i funzionari dissanguarono il paese, che già Achmad e Chumârawaih avevano impoverito con tasse eccessive.

Sotto il suo secondo successore Hârûn, la cui giurisdizione era stata di nuovo ridotta dal califfo all'Egitto ed alla Siria, questi riacquistò perfino influenza sull'amministrazione interna delle due regioni.
Sotto il califfo Mutadid, figlio di Muwaffak, successo nell'891 al padre come reggente dell'impero e nell'anno dopo allo zio come regnante, i paesi principali del califfato furono di nuovo scossi da un movimento politico-religioso.

Negli ambienti sciiti si era diffusa la dottrina che tutte le ingiustizie del mondo finirebbero quando apparisse sulla terra come Machdî (Mahdi, « il guidato dal diritto ») l'ultimo Imâm, tuttora vivente in luogo segreto. I seguaci di questa dottrina, gli Imâmiti, facevano propaganda per essa per mezzo di missionari segreti, come già avevano fatto, per sé stessi, gli Abbâssidi nel Chorâssân.
Uno di questi missionari, soprannominato Karmât (sul vero nome e sull'origine sua la tradizione non é concorde), si fece avanti, presso Kufa, come inviato del futuro Machdî (circa l'890).
Di là si recò poi nella Siria, ma i suoi emissari si davano da fare in tutto l'impero.

Nell'Arabia, che dagli Umayyadi in poi era rimasta in sostanza abbandonata a sé stessa, i Karmâti (così si chiamò la nuova sétta dal nome del suo fondatore) trovarono il terreno più propizio per sollevare lo spirito pubblico. Abu Said, loro capo, s'impadronì nell'899 delle città di Katif e Lachssa nel Bochrain e della regione costiera sul golfo persico, donde di lì a poco minacciò Bassra. Nella Siria l'infiacchito governo dei Tûlûnidi non poté opporre loro seria resistenza. In tutte le città le loro truppe si abbandonarono a crudeli eccessi; solo Damasco riuscì a riscattarsene.

Il regno di Muktafi, successore di Mutadid, salito al trono nel 902, fu in sostanza tutto occupato dalle lotte contro i Karmâti. Solo nel 906 le sue truppe riuscirono ad infliggere a loro una decisiva sconfitta, nella quale perì il loro stesso duce Ibn Sakrawaih.
Due anni dopo il califfo volle porre fine anche all'indipendenza dei Tûlûnidi. Hârûn fu assassinato da uno dei suoi dipendenti (dicembre 904), dopo che aveva già perduto la Siria e il Delta. Uno dei suoi capi tentò ancora, dopo che le truppe del califfo avevan sgombrato il paese, di riprendere l'indipendenza ; ma arrestato e condotto a Bagdâd, vi perì per mano del carnefice.

I vantaggi arrecati all'impero dal governo energico di Muktafi furono di nuovo messi in forse dalla sua morte prematura (908). Il vizir Abbâs ibn al-Hassain, cui riuscì di far proprio il potere prima concentrato nelle mani dei generali turchi, innalzò al trono, col nome di al-Muktadir billâh, G'afar fratello di Muktafi, giovanetto di soli 13 anni. Ma nello stesso anno il vizir fu assassinato, e al posto di G'afar messo un figlio del califfo Mutass.
Costui era fino allora vissuto da poeta e dotto, seguendo con aristocratica eleganza le vie dei poeti moderni, specialmente di Abu Nuwâs, ma non senza rinunziare del tutto all'imitazione degli antichi poeti classici dei Beduini. In un grande poema epico, il più antico di questo genere nella poesia araba, aveva celebrato le gesta del califfo Mutadid. Fu anche il primo che tentò di raccogliere in un'opera teoretica di una certa mole le osservazioni sulla tecnica della poesia, disperse dai filologi in innumerevoli commenti a libri di poeti.
Nello stesso tempo si occupava con ardore di storia letteraria, componendo la prima storia della poesia moderna. Con un'opera sul bere e sugli usi relativi al bere dimostrò quanto fosse dedito alle gioie della vita. Ma questo disgraziato principe, lo stesso giorno del suo innalzamento al trono, ne fu cacciato dai fedeli di Muktadir e ucciso nella casa di un amico gioielliere, presso cui aveva cercato rifugio (29 dicembre 908).

Durante il regno del minorenne Muktadir, che per parecchi anni ancora non doveva uscire dall'harem, riusciva naturalmente più facile ai dignitari di raggiungere il loro scopo principale, di ammassare ricchezze.
Dello stato finanziario dell'impero sotto Muktadir siamo bene informati da un bilancio dell'anno 918-919, giunto fino a noi. Sebbene la maggior parte delle province si fossero rese pressoché indipendenti da Bagdâd, vi versavano pur sempre, come tributo, somme cospicue. Nei primi tempi della signoria degli Abbâssidi le province orientali avevano pagato in argento, mentre nei paesi tolti all'impero romano, possedenti fin da tempo antico miniere d'oro, dominava la valuta aurea.

L'oro che affluiva a Bagdâd veniva poi però avviato anche verso oriente e nel fiorire dell'impero dominò qui pure la valuta aurea, venendo l'argento a perdere più della metà del suo valore originario di cambio. Ma quanto più s'indeboliva il governo centrale, tanto più si diffondeva la più modesta valuta argentea. Sotto il regno di Muktadir il califfo era riconosciuto come sovrano immediato fino nella Babilonia, nel Chûsistân, in Persia, Mesopotamia, Siria ed Egitto; come sovrano-protettore nell'Omân, Adharbaig'ân e Armenia. Mentre la Babilonia versava fra tassa fondiaria, tasse marittime, diritti fluviali e diritti di bollo, 1.547.734 dinar (un dinar equivaleva allora a qualcosa più di 16 dirham d'argento = 1 lira), e le province orientali 6.213.283 dinar, l'Egitto e la Siria 4.746.492, il califfo doveva accontentarsi, per l'Adharbaig'ân e l'Armenia, di un pagamento in blocco di 226.370 dinar: più 1.768.015 dinar prodotti dal possesso fondiario e dalle fondazioni pie. Le spese, alle quali si doveva provvedere con queste entrate, servivano alla manutenzione delle due città sante e della via del pellegrinaggio, alle fortificazioni nei distretti di confine, agli stipendi dei giudici, degli addetti alla polizia dei mercati ed alle corti d'appello e degli ufficiali postali di tutte le province.
Ma le somme più grandi eran inghiottite dal mantenimento della corte del califfo e dal soldo delle sue truppe; é pur vero che i califfi e i loro parenti sapevano benissimo tesaurizzare somme spesso cospicue. Quando Muktadir assunse il governo, si trovò che il suo predecessore aveva lasciato 15 milioni di dinar; Mutadid ne aveva messi da parte 9. Ad onta di tali considerevoli entrate, il bilancio si chiudeva non di rado con un deficit. Non potendosi allora coprire, come si fa ora, per mezzo di prestiti, le somme necessarie, sotto forma di multe si toglievano a ricchi privati e per lo più a funzionari, che si erano impinguati con grasse prebende. Questo procedimento era entrato talmente nell'uso, da esser designato con nome apposito nella terminologia del diritto pubblico.

Nel 914 Muktadir confiscò il patrimonio di un gioielliere per un valore di 4 milioni di dinar; né erano rare le multe da 50 a 100 mila dinar. Data la precarietà del patrimonio liquido, la proprietà fondiaria costituiva naturalmente un impiego di capitale assai ricercato, tanto più che gli oneri erano relativamente leggeri. I terreni posseduti da signori del luogo erano per lo più o del tutto esenti da tasse oppure pagavano al più una somma fissa, in blocco. Un mezzo molto in voga per proteggere i propri beni dalla confisca e per sottrarli nello stesso tempo all'imposta, consisteva nel dichiararli fondazione per opere pie, per esempio per i poveri, per la difesa dei confini, per le due città sante, ecc.; ciascun proprietario si riservava l'amministrazione di tali fondazioni per sé e via via per il discendente maggiore. In Egitto esse si svolsero in veri e propri fedecommessi di famiglia. Già la madre di Muktadir aveva cercato di assicurarsi per tale via la sua proprietà fondiaria, quantunque senza durevole effetto: salito infatti al trono, dopo la morte di suo figlio, il fratellastro Kâhir, e rifiutandosi essa ostinatamente di accettare nulle le sue enormi fondazioni, costui le fece dichiarare sciolte in forza di un semplice decreto giudiziario.

Ma la cassa dello Stato soffrì il danno maggiore quando i califfi, per penuria di contante, cominciarono a pagare il soldo alle milizie per mezzo di assegnazioni di terreno; il che avvenne per la prima volta coll'assunzione al trono di Kâhir. I capi presero possesso dei villaggi ricchi, che prosperavano sotto la loro protezione, ma rifiutavano ogni pagamento di tasse allo Stato.
Ma i terreni che cadevano in possesso di soldati comuni, intristivano, non potendo essi provvedere alla manutenzione degli impianti d'irrigazione, per la quale era necessaria una certa somma in contanti; dopo aver pertanto sfruttato a dovere i loro contadini, essi restituivano i beni allo Stato ed esigevano un compenso migliore.
Sotto il giovane Muktadir il governo era tutto nelle mani dei vizir, che però, grazie agli intrighi di corte, mutava spesso.

Così lo Stato non si trovò abbastanza in forze per intraprendere nulla di decisivo contro i Karmâti, i quali, muovendo da Bachrain, nel 923 assalirono e saccheggiarono Bassra, nel 927 Kufa. L'anno dopo diedero addosso perfino alla Mecca, dopo avere per vari anni resa malsicura la via percorsa dai pellegrini.
Il santuario fu orribilmente devastato e la pietra nera trasportata nella loro capitale Hag'ar, dove rimase per venti anni.
A Bagdâd, per quasi tutta la durata del regno di Muktadir, si disputarono la palma il vizir Ivn al-Furât e il generale Mûnis. Nel 929 Mûnis aveva già una volta ridotto prigioniero il califfo ed innalzato al trono il proprio fratello, col nome di Al-Kâhir billâh. Ma liberato Muktadir da una parte delle truppe, Mûnis fuggì a Mossul. E siccome si affermava indipendente, Muktadir si decise di muovere in persona contro di lui (932). Venuti a battaglia, il califfo fu ucciso dalle sue truppe berbere. Salì allora al trono suo fratello Kâhir, altrettanto incapace, ma per giunta tiranno sanguinario. Dopo soli due anni di governo fu detronizzato dal vizir Ivn Mukla che mise al suo posto Râdî, figlio di Muktadir.

La lotta contro i Romei era affidata nel X secolo ad una dinastia di pura discendenza araba. Il suo capostipite Hamdân, emiro della tribù Taghlib, si era già nell'869 reso indipendente in Mesopotamia, ma aveva poi dovuto sottomettersi di nuovo al califfo. Suo figlio Abdallâh Abu 'l-Haig'â era governatore di Mossul sotto Muktafi; e suo nipote Ali Saif ad-Daula tolse agli Egiziani Aleppo dove egli, solo nominalmente vassallo dei Fâtimidi, si fece del tutto indipendente, difendendo i confini dell'Islâm dai Bizantini. Nelle molto alterne lotte questi ebbero pur spesso il sopravvento; così per esempio nel dicembre del 962 poterono persino espugnare Aleppo e quattro anni dopo devastare la Siria e la Mesopotamia.

Saif ad-Daula fu molto rinomato come intenditore di arti e di scienze. Suo cugino Abu Firâss, che in qualità di suo vicario a Manbig' combatté valorosamente contro i Romei e visse prima per sette, poi per quattro anni come prigioniero di guerra a Costantinopoli, fu abile poeta, che toccò anche una certa profondità nelle elegie scritte durante la sua prigionia. Nel 948 venne alla corte di Saif ad-Daula il poeta Mutanabbi, uno degli ultimi grandi nomi che vantano le belle lettere degli Arabi. Per nove anni egli celebrò le gesta del difensore della fede; poi se ne staccò, in seguito ad un dissidio, e cercò fortuna, prima alla corte del sovrano turco di Egitto, l'Ichshide Kâfûr, poi a Bagdâd e finalmente presso il Bujide Adud ad-Daula in Persia; nel ritornare di là, fu ucciso nelle vicinanze di Bagdâd in un assalto di briganti (965).
Mutanabbi aveva saputo adoperare, ancora una volta, molto felicemente l'antica forma della gassîda ; pur non seguendo servilmente i modelli classici, gareggiò con essi con la ricchezza del suo lessico e non di rado li superò con l'audacia del suo linguaggio poetico.
Le sue poesie non andarono esenti da acerbe critiche da parte dei suoi contemporanei, in specie dei puristi zelanti dell'antica lingua; ma i posteri le acclamarono concordi quali prodotti genuini dello spirito arabo ed ancor oggi esse si trovano, insieme alle Makame di Harîri, nelle mani di ogni persona colta di Omân.

Anche la scienza ebbe intelligenti cultori nella corte di Saif ad-Daula. Quivi visse il grande aristotelico Al-Fârâb, turco di nascita, che compiuti i suoi studi a Bagdâd, ebbe la possibilità di occuparsi di lavori speculativi presso quel re. Per quanto i suoi scritti fossero più tardi sorpassati da quelli di Ivn Sinâ (Avicenna) e per quanto il suo sistema intellettualistico non potesse esercitare alcuna influenza nel mondo musulmano, egli resta pur sempre, quale uno dei più originali alunni dei pensatori greci, una notevolissima figura nella storia della coltura islâmica.

Dopo essersi barcamenato fra gli intrighi dei vizir e dei generali, il califfo Râdi si era deciso, nel 936, a concentrare almeno in una sola mano il potere che egli stesso non sapeva più esercitare. Chiamato a Bagdâd il governatore di Wâssit e Bassra, Muhammed ibn Râik, gli affidò il comando supremo dell'esercito e lo mise nello stesso tempo a capo dell'amministrazione, rendendogli altresì onori principeschi col far menzionare il suo nome nella predica del venerdì. Con ciò il califfo venne a ridurre la propria dignità a quella di capo supremo spirituale, e tutti i suoi successori dovettero appagarsene.

Ma nemmeno Ivn Râik riuscì ormai a procacciare autorità al governo centrale nell'oriente del regno; e solo mediante il pagamento di un tributo poté tenere i Karmâti lontani da Bagdâd. Morto Râdi nel 934, suo fratello Muttaki fu innalzato al trono solo per l'influenza del governatore del Chûsistân, che sorvegliava tutti gli atti del governo per mezzo del suo segretario e di un ministro residente. Caduto però di lì a poco questo governatore, si accesero di nuovo discordie per la tutela del califfo; vi pose fine l'Hamdânide Abu-'l-Hassan Ali (942), cacciando i suoi competitori da Bagdâd e dando in moglie al califfo la propria figlia.
Egli si acquistò allora il nome onorifico di Saif ad-Daula, col quale divenne famoso. Ma l'Hamdânide, la cui posizione in Siria era di continuo minacciata, non si poté alla lunga mantenere a Bagdâd; e il suo genero fu accecato e detronizzato da un generale turco (943).

Fra i numerosi signori, per lo più di piccoli distretti, dell'oriente dell'impero, sorse in quel tempo una nuova dinastia, cui era riservata una grande influenza politica. Nel Tabaristân un certo Dailamit Merdavig' aveva cacciato dal trono (927) gli Alidi, rendendosi indipendente. Si trovava al suo servizio il compaesano Bûja, il cui figlio Imâd ad-Daula Ali era governatore di Karâg' in Persia. Nel 932 costui si ribellò ed occupò Ispahân, donde dovette poi sgombrare dinanzi al minacciante esercito di Merdavig'; ma due anni dopo s'impadronì di Shirâz.
Merdavig' fu di lì a poco assassinato dalle sue proprie soldatesche turche, ma suo fratello si mantenne ancora per un certo tempo a Ispahân. Nella lotta contro costui, nonché contro il sovrano del Chûsistân, la potenza di Imân ad-Daula e del fratello Muiss ad-Daula andò lentamente ma costantemente crescendo.

Sotto Mustakfi, successore di Muttaki, i Bujidi assunsero la tutela del califfato. Dopo una vittoria sui Turchi, che aveva procacciato il trono a Mustakfi, Muiss ad-Daula fu nominato (945) Emir al-Umarâ con le stesse attribuzioni prima assegnate a Ibn Râik. L'anno seguente egli fece accecare il califfo, i cui successori al-Muti (946-974), Tâi (974991) e Kâdir (991-1003) non furono più che pensionati dei Bujidi ; dovettero accontentarsi dei diritti onorari della moneta, coniata tuttora col loro nome, e di essere menzionati come sovrani nella predica del venerdì. I loro maggiordomi, residenti quali a Bagdâd quali a Shirâz, poterono affermare la loro autorità solo a prezzo di continue piccole lotte con le genti montanare dell'Irân, sempre proclivi alla ribellione, come pure coi Dailamiti e con le tribù arabe della Mesopotamia, fra le quali, dopo gli Hamdânidi, sorsero qua e là alcune altre dinastie effimere.

Contro il califfato si levò nell'occidente dell'impero un nuovo avversario, che presto divenne pericoloso per i possedimenti del califfo stesso. Fin dall'800 l'Africa, sotto il governo degli Aghlabidi, che avevano trapiantato l'Islâm anche in Sicilia, era stata del tutto indipendente. Ma la propaganda shiita aveva pur sempre minacciato e limitato la sua potenza. Nell'estremo occidente, a Ceuta, già fin dal 788 l'alide Idrîss 'ibn Abdallâh, fuggito da Medina in Africa dopo una ribellione fallita, aveva fondato un regno indipendente, che i suoi successori mantennero fino al 922.
Già per tal via le tribù berbere erano preparate ad accogliere le idee shiite. Ora avvenne che verso l'890 un preteso discendente di Ali e di Fâtima, Muhammed ibn al-Havîb (ma della cui genealogia molti dubitarono), residente a Salamija presso Aleppo, faceva da suoi emissari, reclutare dei soldati per l'atteso Machdi della sua casa. Un certo Abû Abdallâh, dell'Arabia meridionale, guadagnato alla sua causa, seppe a sua volta guadagnarsi i berberi della tribù Katâma convenuti alla Mecca per il pellegrinaggio, in modo tale che, ricercatili poi nel loro paese, si misero a sua piena disposizione.

Radunato così un esercito, egli inflisse all'ultimo degli Aghlabidi, Syyâdatallâh, una sconfitta tale (909), da obbligarlo a fuggire nella Mesopotamia. Muktadir ordinò al governatore di Egitto che lo aiutasse a riconquistare il regno; ma questi non ubbidì. Abû Abdallâh si insediò a Rakkâda, fino allora residenza degli Aghlabidi e prese per intanto egli stesso le redini del governo. Di li a poco Muhammed con suo figlio Obaidallâh fuggì in Africa per sottrarsi alle insidie del califfo. Qui si fece avanti come Machdî, fu imprigionato dal signore di Sig'ilmâssa, ma liberato da Abû Abdallâh che nel 909 lo incoronò re a Rakkâda. Egli ebbe ancora da soffocare una rivolta di Abû Abdallâh, deluso nelle sue aspettative; però in pochi anni rafforzò talmente la propria autorità da potere intraprendere altre conquiste. Fallito un primo attacco contro l'Egitto, nel 914 il suo esercito prese Alessandria e Fayyûm, ma dopo poco fu ricacciato dal paese.

Anche suo figlio Kâ'im, penetrato nel 921 fino all'Alto Egitto, subì una sconfitta decisiva per parte di Mûnis, generale di Muktadir. Successi più facili aspettavano il Fâtimide in occidente, dove l'eredità degli Idrissidi aveva spezzato il regno in tanti piccoli principati. L'ultimo Idrisside cerco di mantenersi prendendo il suo paese in feudo dall'Umayyade di Spagna; ma avendo tentato di servirsi contro di lui dei Fâtimidi, questi lo fece uccidere.

Fin dal 935 regnava in Egitto un ufficiale turco nativo di Farghâna, che dopo tre anni assunse il titolo principesco, consueto nella sua patria, di Ichshid e nel 941 conquistò la Siria, oltre alla Mecca e Medina. Durante il regno dei suoi due figli e successori, il governo era stato retto con fortuna e fermezza da un eunuco, Kâfûr. Sopravvissuto ad ambedue, regnò poi per conto suo dal 966 fino alla morte, avvenuta due anni dopo. Gli successe il nipote del fondatore della dinastia, l'ancor giovanetto Abu 'l-Fawâris Achmad. Questa circostanza attirò nel paese i Fâtimidi, che già due volte avevano invano tentato di prendere l'Egitto.

Achmad, fino allora governatore di Sicilia, conquistò nel 969 la terra del Nilo e la Siria. Quattro anni dopo il califfo fâtimida Muiss faceva il suo ingresso al Cairo. L'Egitto godé di una discreta tranquillità sotto la signoria dei Fâtimidi, durata quasi 205 anni, nonostante il peso spesso eccessivo delle imposte. Fra i sovrani di questa pretesa dinastia alide, che a dispetto degli Abbâssidi portavano il titolo di califfo come i soli aventi diritto, si acquistò speciale rinomanza il terzo, AL HAKIM Abû Ali al-Manssûr, signore dell'Egitto dal 996 al 1020: certo non tanto per il bene arrecato al paese quanto per diversi singolari tratti di carattere derivanti, come pare, da anormalità psichiche.
Nei primi anni attese scrupolosamente ai suoi doveri di sovrano, adoperandosi ad accrescere il benessere del paese. Così chiamò in Egitto il famoso matematico Ibn al Haìtham, la cui opera principale (di ottica) aveva tolto di mezzo la vecchia spiegazione di Euclide che faceva dipendere la vista da raggi partenti dagli occhi; prima si era anche impegnato a regolare le inondazioni del Nilo, decisive per la fertilità del terreno. Ma non riuscendo a mettere in pratica i suoi calcoli teorici, dovette, finché visse, starsene nascosto per sfuggire alla collera di Hâkim.

La potenza illimitata di cui disponeva questo "califfo", ancor più esaltata dall'aureola religiosa, deve aver finito per sconvolgergli la mente. Egli si sforzava di rimettere in vigore quelle antiche leggi dell'Islâm che la nuova cultura aveva eliminate. La proibizione del vino, per esempio, era da un pezzo divenuta lettera morta; ebbene, egli fece distruggere tutti i vigneti, certo non molto numerosi in Egitto, e vietò l'importazione di tutte le bevande spiritose.
Ancor più si urtavano contro gli usi della vita quotidiana quelle leggi da lui proclamate per limitare la smania di divertimenti de' suoi sudditi. Non solo furono proibiti i banchetti e la musica, ma anche il gioco degli scacchi e poi persino le passeggiate lungo il Nilo.
Per combattere la scostumatezza delle donne, che nelle grandi città nonostante la vita dell'harem - trovavano pur sempre occasione ad avventure amorose, istituì un controllo di costumi, esercitato da vecchie; e non sembrandogli poi sufficiente, vietò alle donne di uscir di casa; e perché tale proibizione avesse più serio effetto, dichiarò passibile di pena chi fabbricasse scarpe da donna.

Rimise in vigore le antiche prescrizioni, frutto di fanatismo, per differenziare le vesti degli ebrei e dei cristiani, sì da distinguerli sempre, anche esteriormente, dai musulmani; e le intensificò coll'aggiunta di una campana da portarsi appesa al collo dagli ebrei, e di una croce, del peso di cinque libbre, da portarsi egualmente dai cristiani. Nella sua corte favorì, naturalmente, le tendenze più estreme dello shîitismo, che secondo l'antico concetto iranico ravvisavano nel sovrano di discendenza legittima un'incarnazione della divinità.

È probabile che già egli stesso pretendesse di essere adorato come tale. Dopo la sua morte, Muhammed ibn Ismâil ad-Darazi e il suo successore Hamz a ibn Achmad al Hâdi fecero propaganda in Siria per una nuova sétta, nella quale l'Islâm restava come soffocato dall'adorazione del divino Hâkim e da concezioni mistico-panteiste e pagane. Questa sètta, chiamata dai Drusi dal nome del suo fondatore (ad-Darazi), trovò ardenti seguaci nel Libano, fra quei valorosi montanari amanti della libertà; che hanno più volte preso parte decisiva nella storia della Siria.

La morte di Hâkim é rimasta misteriosa non solo per motivi religiosi, ma anche politici. Pare che cadesse vittima di una congiura, provocata fra i dignitari della corte dal suo stravagante governo: e pare che sia stato ucciso, per loro istigazione, mentre faceva una passeggiata a cavallo dinanzi alle porte del Cairo (all'inizio del 1021).
Dopo breve fiorire anche la signoria dei Fâtimidi soccombette al fato comune agli stati musulmani, di risolversi ne' suoi elementi primitivi.
Già poco dopo che si furono stabiliti in Egitto, la provincia d'Africa, dove era cominciata la loro ascensione, sfuggì alla loro influenza. Il loro primo governatore, Jûssuf Bulukkin ibn Sairi, si rese indipendente nel 972. Sotto il nipote Bâdiss, suo zio, Hammâd, fondò in Algeri una nuova dinastia; e mentre i Musulmani consumavano le forze nelle ostilità contro questi parenti, i Normanni, con Ruggero, li privavano della Sicilia, i Genovesi e i Pisani dei loro possessi in Corsica e Sardegna.
Però i Normanni in Sicilia, da quasi barbari che erano, si avvantaggiarono moltissimo della cultura islamitica da essi trovata sull'isola. La corte normanna di Palermo era la città più frequentata dai migliori dotti, letterati e scienziati arabi. L'arabo Idrîssi scrisse nel 1154, alla corte di Ruggero II, la sua celebre «Geografia». Federico II al ritorno dai Paesi arabi portò con sè non solo montagne di codici arabi, ma introdusse molte istituzioni in Oriente apprese.

 

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