(Ringrazio tutti gli emigranti che mi hanno scritto da ogni parte del mondo. Sono commosso dalle loro lettere.
Purtroppo non posso rispondere a tutti. Ma vi saluto con tanto affetto. Franco)

L'EMIGRAZIONE ITALIANA
un "fastidioso" secolo... da rimuovere


"..sono 3000, sono arrivati, sono tutti sulla banchina, stanchi, affamati, con in mano il "libretto rosso" (che li bolla come analfabeti) o il "foglio giallo" che dà qualche maggiore speranza; ma per tutti c'è ora la quarantena, un attesa lunga, snervante; e per alcuni -che prima di partire hanno venduto case e podere, o si sono indebitati per fare il viaggio-  non è solo stressante ma è un'attesa angosciante".
(da un cronista dell'epoca - 1920)

Questa breve storia dell'emigrazione italiana prende lo spunto da un articolo pubblicato il 26 ottobre 2000, con uno sconcertante risultato uscito da un'indagine tra i ragazzi del Veneto; una delle regioni italiane che è stata maggiormente colpita dall'emigrazione in anni non lontani, verso l'estero
(Vedi l'impressionante TABELLA  REGIONI - EMIGR.  1876-1900)
e in anni più recenti  verso il triangolo industriale (o meglio le risaie) del Nord-Ovest, o le miniere del Belgio. Proprio per il Belgio, nel Veneto c'è una punta dolente dell'emigrazione della sua gente nei primi anni '50. Fu la disumana e umiliante legge varata il 19 ottobre 1945. Questa era un'intesa del governo italiano con quello belga  che si impegnava a dare all'Italia (alle sue acciaierie), 24 quintali di carbone fossile all'anno per ogni italiano che si recava a estrarlo nelle sue miniere, dove nessun belga  voleva più scendere. Il governo con il successivo accordo del 23 giugno del 1946 lo ampliò e sottoscrisse l'impegno per favorire l'invio in Belgio di 50.000 italiani. Il contingente necessario per questo scambio uomini-carbone, fu quasi interamente messo insieme con la popolazione Veneta (in territorio vicentino ben 23.000).

Riguardo alla prima ondata di migrazione, a fine Ottodento, la rabbia dei Veneti viene mirabilmente descritta in un passo de I va' in Merica una poesia del grande Berto Barbarani:
"Porca Italia - i bastemia - andemo via!"

"Savoja, Savoja.... intanto noialtri 'ndemo via... vaca troja!!!"

Per coloro che rimasero, fame, tasse (in particolare sul macinato, una vera e propria tassa sulla miseria), e tanta disperazione.
"nelle nostre campagne sono poveri tutti, i fittavoli, i proprietari di fazzoletti di terra; incredibilmente poveri i braccianti, i salariati, gli artigiani" così scriveva D. Lampertico.

E sentiamo cosa scriveva un  giornale da sempre nazional-tricolore  a pochi mesi dalla annessione al regno Sabaudo, i così detti "liberatori" .
"Fra le mille ragioni per cui noi aborrivamo l'austriaco regime, ci infastidiva sommamente la complicazione e il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l'eccessivo numero di impiegati e specialmente di guardie e di gendarmi, di poliziotti e di spie. Chi di noi avrebbe mai immaginato che il governo italiano avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale, di pubblica sicurezza, tre volte tanto di carabinieri"
(l'Arena di Verona, il 9 gennaio 1868)

Un battagliero giornale satirico dell'epoca così commentava l'unità "Noi l'abbiam fatta! l'abbiam fatta noi / -dicono in coro gli italiani eroi -/ l'avete fatta, è vero, ma per Dio, / puzza che leva il fiato! dico io" (L'Asino, giornale satirico-  ripreso da l'Arena del 5-9-88)

I "liberatori taliani" arrivarono al punto di proibire le tradizionali processioni religiose in quanto "assembramento pericoloso per l'ordine pubblico" (Dalla Difesa del Popolo, settimanale della Diocesi di Padova).

 
Tutto ciò non accadde solo a fine '800 e inizio '900. Altrettanto accadde dopo qualche decina di anni non solo verso l'estero ma verso il Biellese, nel Vercellese e nella Lomellina, quando a metà anni '50, la risicoltura si ritrovò ad avere a disposizione per il trapianto e la monda del riso solo il 3% del fabbisogno di manodopera necessaria per le due stagioni.
(l'autore che qui scrive è di Biella, quindi bene informato) 
Tutti i locali si erano dedicati a lavorare nelle fabbriche. A Biella nei 450 lanifici, cotonifici, maglifici,  per ogni 100 biellesi c'erano a disposizione 160 posti di lavoro. Posti in abbondanza, stipendio tutto l'anno, e lavoro meno massacrante. Ecco perchè i locali  letteralmente svuotarono le campagne. I paesini rurali si svuotarono.
"Ciao Baragia (le grandi risaie fra VC  Biella e NO) 'nduma a travajè a Biela".

Con una paga irrisoria (un terzo di un salario di un operaio a Biella) e un "regalo" in natura (un sacchetto di 10 kg di riso a fine stagione) si trovò una soluzione con il grande serbatoio di manodopera femminile del Veneto. I nuovi "negrieri" procacciatori, battevano le campagne venete, casa per casa, e formarono interi "speciali" convogli ferroviari di prosperose, sane e belle ragazze di Rovigo, Vicenza, Padova. Alloggiate come bestie in grandi capannoni -con un materasso di lola di riso, a terra - messe una accanto all'altra. Pranzo sobrio nei campi a mezzogiorno e grande minestrone di riso alla sera.
Poi subito a nanna, per essere pronte il giorno dopo, per 9 ore di seguito a piegare la schiena sulle risaie con l'acqua fino al ginocchio.

Per i padri o i mariti che invece andarono in Belgio, la scelta non fu certo migliore: a Marcinelle o a Charleroi  centinaia e centinaia di minatori sono ancora lì, ma sepolti per sempre dentro quelle fatiscenti miniere che ogni tanto crollavano. Solo quando le tragedie erano enormi (come quella dell' 8 agosto '56 dove ne morirono 256) i giornali italiani ne parlavano.

Eppure un ragazzo su tre - nell'indagine tra i ragazzi del Veneto - non ha mai sentito parlare di quel fenomeno che è stata l' "emigrazione" esterna e interna  che nell'ultimo secolo ha sconvolto l'Italia. Anzi a sentire questi giovani intervistati, dall'Italia non è mai partito nessuno, con buona pace dei 30 milioni di connazionali che hanno lasciato la penisola o dei 5 milioni sradicati dagli ambienti d'origine nelle regioni della stessa Italia negli anni del secondo dopoguerra.

L'indagine è stata condotta su 890 ragazzi tra i 16 e i 24 anni, in occasione di una mostra sull'emigrazione organizzata a Padova dall'assessorato alle Politiche sociali della Provincia.
Ben il 32 % degli intervistati, dell'emigrazione italiana non sa nulla.
Il 37 %  che sanno qualcosa lo devono alla TV. 
Il 22 % ne hanno sentito parlare a casa da vecchi (e "barbosi") parenti. 

Fra quelli che ne sanno qualcosa con una serie di imbarazzante confusione è scoraggiante: SOLO il 10 % dei giovani ne hanno sentito parlare a SCUOLA; che forse "ha l'obbligo di non far sapere la Storia negativa dell'Italia", che "i giovani hanno bisogno di esempi positivi e che il resto è niente" (così mi scrive una professoressa).
Ma qualcuno non ha scritto che "chi controlla il passato controlla il futuro"? Ed infatti se volessimo guardare al futuro delle nuove generazioni - venute su nell'abbondanza c'è da mettersi le mani nei capelli.

Così assistiamo a questa vendemmia di ignoranza.

Il 49 % ritiene che fra le ragioni principali che ha spinto gli italiani a emigrare sia stata la Prima e la Seconda guerra mondiale (che invece non c'entrano proprio per nulla).

Solo il 20 % indica come causa la mancanza di lavoro. (l'80% ci andava per fare il turista!! Sic!). Gli altri nulla sanno della disoccupazione fra il 1880 e il 1922, o dei morti causati con i fucili, o le cannonate di Beccaris nella grande Milano su chi reclamava il pane, o sanno cos'era il "brigantaggio" del Sud).

Mentre il 28 % sono convinti che l'emigrazione si sia sviluppata con la cosiddetta apertura delle frontiere nel calcio, come  Vialli (il 24 % lo ha indicato come esempio di italiano che "emigra").

Approfondendo l'aspetto economico-sociale, il fenomeno non li riguarda perchè -dicono- l'emigrazione è solo una "fastidiosa" "storia" di curdi e di albanesi. 
Dei loro nonni che emigravano, i giovani della new economy non sanno nulla. La Storia che apprendono dai "dotti" questi hanno "cancellato" un secolo di Storia.


IL PRIMO PERIODO 1880-1930

L'emigrazione era iniziata in sordina  nel 1820, subito dopo le guerre napoleoniche e la restaurazione. Nel 1830 in America si contavano appena 439 italiani e continuò il modesto esodo su queste insignificanti cifre fino alla costituzione del Regno d'Italia, quando o per il rapido aumento della popolazione o per le prime repressioni nel Sud (molti "briganti" fuggirono in Egitto facendo decollare il Paese), o per le sterili (e punitive) politiche d'intervento adottate dallo statuto "Piemontese" (come in Veneto, abbandonato a se stesso) il movimento migratorio conobbe a partire dal 1880 una emigrazione di circa 100.000 unità l'anno (principalmente proprio dal Nord-Est - l'80%)
Poi - con il
"tallone dei Savoia" - andò crescendo in proporzioni impressionanti sul resto d'Italia, e toccò il massimo nell'anno 1913 quando in 12 mesi emigrarono 872.598 individui. (Nel periodo 1906-1910 furono complessivamente  3.256.000, e nel periodo  1911-1915 ne partirono altri 2.743.000).
Appena insediatisi al potere, i Sabaudi fecero subito rimpiangere i Borboni: ruberie dappertutto, assassinii, fucilazioni, debiti nei Comuni, nelle Province. 

Milioni di debiti, arricchimenti facili. Distrussero in poco tempo l'economia del Meridione. Fecero sparire tutto: i macchinari delle fabbriche, i beni religiosi, i beni demaniali, libri antichi e persino le rotaie dei binari ferroviari.
Così uomini validi, nel fiore dell'età, perseguitati abbandonavano città e paesi, il lavoro dei campi, e andavano a rendere fertili le terre altrui, e ad accrescere la ricchezza di popoli stranieri, costruendo dighe, porti, gallerie, grattacieli, palazzi, musei, ferrovie, o trasformando i deserti in terreni fertili. 

Lo scoppio della guerra europea, nel 1914, interruppe il movimento migratorio, ma al termine del conflitto con la crisi della consistente produzione bellica,  la corrente migratoria riprese il suo moto, tanto che nel 1920 emigrarono 614.611 italiani, e dal 1921 al 1930 il totale fu di 2.577.000.
(in dieci anni l'Italia perse una popolazione superiore a quella dell'intero Lazio - 2.385.000 ab.)
L'Italia del 1900 contava 33.778.000 abitanti, il reddito annuo pro capite era di 2259 lire; la popolazione attiva era il 49,4% di cui il 61,7% era addetta all'agricoltura, il 22,3 all'industria, il 16 nei servizi.

Da Il Mondo, corso di geografia per gli istituti magistrale, della editrice SAEI, del 1930, prendiamo le tabelle che riportano la demografia nazionale italiana secondo le statistiche ufficiali.

Nel 1927 gli Italiani all'estero erano già 9.163.367, così divisi: 7.674.583 in America; 1.267.841 in Europa; 188.702 in Africa; 27.567 in Australia e Oceania; 9.674 in Asia.
In nucleo maggiore negli Stati Uniti d'America con la cifra di 3.706.000 di italiani. Nella sola città di New York vivevano 1.070.355 nostri connazionali. E le aziende agricole italiane ammontavano negli Stati Uniti a 18.235, delle quali 4.400 nella sola California.
Mentre in Argentina gli italiani erano già diventati 1.797.000, e quelli residenti in Brasile 1.840.000.

Dal 1931 le cose mutarono aspetto: sia perchè gli Stati Uniti limitarono il numero degli stranieri ammessi (vedi più avanti), sia perchè il Governo Fascista oltre che frenare e disciplinare il movimento migratorio nell'interesse della nazione, il felice periodo economico degli anni d'oro del regime permise di diminuire e quasi eliminare del tutto l'esodo. Infatti nel 1934 si toccò la modesta cifra di 68.461 emigranti  che addirittura  permise di pareggiare in positivo il saldo con quelli che fecero ritorno in patria.

SECONDO PERIODO 1946-1971

Dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946 fino al 1971, l'emigrazione è nuovamente ripresa con ritmo assai intenso con 1.128.000 di emigranti  nel periodo 1946-1950; 1.366.000 nel periodo 1951-1955;  1.739.000  nel periodo 1956-1960;  1.556.000 nel periodo 1961-1965; e di 1.076.000 dal 1966 al 1970.
in 25 anni 5.737.000 (una popolazione pari all'intera Austria)

(VEDI IN DETTAGLIO NELLA GRANDE TABELLA 
EMIGRAZIONE QUANTI, DOVE E QUANDO)

Si calcola che nel corso del secolo il totale dei partiti furono circa 29.000.000, e solo 10.275.000 fecero ritorno in patria (soprattutto dai paesi europei, rari i rimpatri dalle Americhe, e ancora più rarissimi quelli dall'Australia).
Una perdita demografica netta di circa  18.761.000 di abitanti nell'arco di poco più di due generazioni, pari alla metà degli abitanti dell'intera Italia del 1911.
Non dimentichiamo l'enorme vantaggio ricavati dai paesi ospitanti, che così  non hanno dovuto provvedere alla crescita, all'educazione, all'istruzione professionale dei lavoratori, che invece la collettività nazionale italiana ha investito con mezzi ed energie.

A queste perdite effettive, si devono aggiungere i danni derivati dal dislivello creato nella popolazione tra maschi e femmine. Fortissimo quello del primo periodo (Ottocento- Primo Novecento) quando gli uomini che abbandonavano l'Italia rappresentavano l'85% e le donne solo il 15%. Un po' meno nel secondo periodo (a destinazione europea) con una proporzione del 65 % uomini e del 35 % donne.

Ma più che il danno di questa proporzione tra i due sessi, il danno maggiore fu per la elevata proporzione nella composizione per età. L'emigrante del primo periodo con una età dai 15 ai 45 anni rappresentava l'80%.
 E nel secondo periodo calò ancora,  dai 15 ai 30 anni rappresentavano il 78% nelle correnti europee, e l'87% nelle correnti transoceaniche.
Anche con dei conteggi molto approssimativi, la perdita potenziale dei mancati matrimoni e delle relative nascite evidenziano una perdita demografica considerevole, che ha enormemente contribuito all'invecchiamento della popolazione italiana come nessun altro paese al mondo.

IL FENOMENO - Tra le cause economiche e sociali che hanno determinato questo grande esodo, la prima di queste cause (nel primo periodo) è quella dovuta a un incapace sistema politico-economico (liberal-borghese) di fare scelte mirate allo sviluppo dell'agricoltura (l'unica forza lavoro allora disponibile, e possibile a mobilitare nelle terre incolte); 
mentre nel secondo periodo alla diminuzione degli occupati agricoli - dovuti alla meccanizzazione - non corrispose una pianificazione nazionale, nè l'incentivo per incrementare altri settori produttivi (ma anche quello della stessa agricoltura)  in altre regioni.
 
Anzi gli effetti  perturbatori  dell'industrializzazione di una sola zona del Paese (il famoso triangolo Nord-Ovest) provocarono subito dopo il secondo dopoguerra, bibliche migrazioni interne, sconvolgendo le stesse regioni italiane. Sconvolgimenti in negativo da dove partivano, ma neppure positivo dove arrivavano.
Effetti negativi già subito (con l'urbanizzazione selvaggia e il non decentramento delle industrie)  ma negativi anche dopo a distanza di molti anni.

Infatti, passato il "miracolo economico" nel Nord, con i già 5 milioni  meridionali in età lavoro ivi emigrati, dopo venti-trenta anni lo stesso Nord si è ritrovato le cambiali in bianco firmate negli anni '50 e '60, che sono poi i vari servizi sociali e le pensioni di vecchiaia degli anni 2000, alleggerendo non di poco il Sud attuale, da dove i 5 milioni erano partiti, lasciando nei loro paesi quella generazione che oggi è quasi tutta estinta. Un sottrazione di risorse umane dai propri territori non solo di manovalanza ma anche professionali. Negli anni '60, gli anziani contadini del sud, rimasti soli, guardavano sconsolati i loro campi che incolti si riempivano di erbacce

Ma ritorniano ad analizzare l'emigrazione del primo periodo (1880-1925). Vi scopriamo che praticamente quasi tutte le regioni d'Italia contribuirono a questi grandi esodi, ma furono maggiormente  penalizzate da una politica economica squilibrata quelle regioni dove i governi  dimenticarono (volutamente - così restava un buon serbatoio di manodopera a basso prezzo)  le economie locali; quelle a Sud come quelle a Est.
("Ma che diamine se mettiamo le industrie e est e nel sud, non solo noi non vendiamo più a loro i nostri prodotti, ma non abbiamo più il "serbatoio" di manodopera, che ci è utile a calmierare i salari nel nostro nord").

Dei 16.630.000 emigrati (1880-1925) 
il 50 % erano del Nord (3.632.000 solo del Veneto);
l'11 % del Centro (1.919.000); 
il 39 % del Sud (6.503.000).
Queste cifre rispecchiano il carattere della formazione economica (oltre che amministrativa) del nuovo Stato Sabaudo. Cioè le "annessioni" e la "Piemontesizzazione" forzata. Mentre Genova, Torino, Biella, Vercelli esplodevano rispettivamente  con le prime grandi industrie ferroviarie, navali, elettriche, chimiche, meccaniche, tessili, agro-risicole e vinicole
.
Solo la Lombardia non cadde nelle spire della "Piemontesizzazione", ma alle spalle aveva già una grande vocazione e tradizione industriale che non poteva certo essere colonizzata dall'ex regno Sardo che soli pochi anni prima del 1848 era uno degli stati  più arretrati e meno "illuminati" d'Europa.
Il Piemonte, che era anche lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo negli anni dell'Unità d'Italia, l’unificazione del “suo” debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, a una casta di privilegiati tutti i beni privati dei Borbone, quelli della Chiesa, e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate alle regioni “liberate” (!!).
 
Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud con la politica sabauda, fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza “italiana”.

Per le bonifiche delle aree agrarie tra il 1862 e il 1897, si spesero 267 milioni al Nord, 188 milioni nelle regioni centrali e solo 3 milioni al Sud !.

Queste deliberate scellerate scelte politiche (e questo accadde sia nel primo periodo che nel secondo) favorivano con ogni mezzo gli espatri, spesso su pressioni dei paesi esteri, perchè alleggeriva il mercato del lavoro nazionale della manodopera superflua (causa in Italia di tante tensioni sociali), pur tenendo presente il mondo industriale a non permettere di oltrepassare certe quote oltre un certo limite per non correre il rischio di dover aumentare i salari a causa della scarsa offerta di manodopera.
Era insomma una valvola di sfogo economico e un mezzo per il controllo sociale.
Anche i cattolici temevano l'emigrazione per ragioni etiche e di controllo sociale: l'additavano come "peccato", come occasione di alcolismo, di dissolutezza, di adulterio e quindi di dissoluzione dell'istituzione familiare.

Fino al varo delle legge sull'emigrazione del 1888, l'emigrante era addirittura considerato un soggetto "pericoloso" e il controllo dei suoi movimenti rientrava in una normativa poliziesca di controllo dell'ordine pubblico. La legge dell'88 riconobbe finalmente la libertà di emigrare.
E altrettanto fece poi la Chiesa nel 1900, quando monsignor Bonomelli creò l' Opera Bonomelli una specie di assistenza all'emigrante. Specularmente ne fecero una anche  i socialisti creando a Milano la Società Umanitaria.

Pro e contro l'emigrazione c'erano dentro sia nelle file della destra come in quelle della sinistra, e questo sta a significare che entrambi i politici non afferravano il problema.
Chi invece lo afferrava bene erano gli industriali, i manufatturieri; un po' meno i possidenti agrari che temevano la rottura dei patti colonici, la diminuzione di manodopera e ovviamente l'aumento dei salari.
Ma quando ci furono le prime rivolte dei contadini, nel vederne partire un bel po' si rincuorarono.

Gli economisti (liberisti) dell'epoca (ma ancora oggi da coloro che giustificano quelle scelte) consideravano il meccanismo emigratorio come un equilibratore nel quadro generale dei mezzi dell'economia, sostenendo che non si poteva tenere il passo con l'incremento demografico nonostante i progressi dell'industrializzazione; che non si potevano creare tanti posti di lavoro quante erano le persone in grado di occuparli. Che l'emigrazione (il riversare il surplus demografico in altri paesi) era insomma una valvola di sicurezza del sistema economico italiano.
Ovviamente nemmeno presero in considerazione se era possibile inserire tale surplus nella vita economica nazionale operando allo stesso modo (lasciamo perdere i paesi transoceanici) come gli altri paesi europei, che si avvantaggiarono di questa manodopera, non perchè erano carenti demograficamente, ma perchè i nostri emigranti procuravano una fonte  di non indifferenti profitti a determinati settori economici; che così si avvantaggiarono enormemente fino al punto di avere un surplus non di uomini, ma nella produzione, che potevano così destinare all'esportazione nella stessa Italia, carente perfino di derrate alimentari sia nel primo periodo come nel secondo (e questo in un paese ancora essenzialmente agricolo; ma purtroppo carente di mezzi, di risorse e di attenzioni).

 In Belgio più nessun locale voleva scendere nelle miniere, o in Svizzera a fare il cameriere, o in Francia a fare il contadino, o in Germania a fare il facchino.
 
Così mentre in Italia l'emigrazione provocava degli squilibri demografici e disfunzioni nelle economie regionali e nazionali (con le accennate ripercussioni dopo e tuttora), in altri paesi proprio con gli emigranti italiani venivano riequilibrate tutte le attività economiche della vita collettiva, sempre più interdipendenti i mestieri umili con quelli più qualificati.
Se non ci fosse stato il serbatoio della manodopera italiana, per far accettare un posto di spazzino a un locale avrebbero dovuto dargli un salario superiore a un ingegnere, o a un contadino quello superiore a un buon impiegato.

Oggi ci è facile capire (chi vuol capire) quel fenomeno; visto che la stessa situazione (questa volta) si presenta all'Italia con l'immigrazione degli stranieri, che non solo si occupano di lavori umili che nessun italiano vuol più fare, ma riescono quelli più validi a calmierare anche i bassi salari in moltissime altre attività perfino  professionali. E come ci dicono alcuni politici, allo stato attuale, gli stranieri ci sono necessari, guai se non ci fossero, non saremmo competitivi nelle esportazioni; inoltre i prodotti e i servizi per l'interno costerebbero molto di più. Quello che scoprirono appunto i francesi, i tedeschi e gli svizzeri molti anni prima, e riscoprirono ancora negli anni '50 e '60 quando l'Italia produceva auto e ne esportava il 40 %;  loro le compravano ma intanto producevano camion, trattori e infrastrutture. La miriade di grandi aziende agricole nacquero in quei paesi proprio negli anni '50 e '60.
N. AUTO costruite in un anno e fra (----) NUMERO VEICOLI INDUSTRIALI
GIAPPONE 579.000 (1.122.815)(!) --- INGHILTERRA 1.867.000 (464.000)
FRANCIA 1.390.000 (245.000) ----- GERMANIA 2.650.000 (314.000)
STATI UNITI 7.745.000 (1.562.000) --- ITALIA 1.108.000 (59.000)

Da non dimenticare infine, che, oltre queste speculazioni calmieratrici abbastanza diffuse nella grande industria italiana dell'epoca, c'erano alcuni settori economici che dagli emigranti ricavavano una fonte di profitto non indifferente; come le banche con gli ingenti movimenti di capitali con le rimesse degli emigranti; poi le compagnie di navigazione; poi le varie agenzie di espatrio e infine tutto quel sottobosco di abusivi (ma anche note società di navigazione) che effettuavano l'esodo promettendo una collocazione nei vari paesi, ma che poi abbandonavano i malcapitati al loro destino; oppure erano loro stessi a curare il rimpatrio di gente che prima di partire aveva venduto casa, campi e bestie per pagarsi il viaggio, e spesso per una destinazione ignota oppure scaraventati su una costa deserta, millantata come l'Eldorado.

Per la "Frode in emigrazione", delitto molto diffuso fino agli anni trenta, Mussolini corse ai ripari emanando una legge nel 1931, che condannava da 1 a 5 anni e a una multa salatissima  "chi con mendaci affermazioni o con false notizie, eccitando taluno a emigrare o avviandolo a un paese diverso da quello nel quale voleva recarsi, si fa consegnare o promettere somme di denaro come compenso per farlo emigrare"..."...sfruttando l'ignoranza, il disagio economico, o perchè non riesce a trovare in Italia i necessari mezzi di sussistenza e civili condizioni di vita". Se fu emanata questa legge è perché la ignobile truffa di gente senza scrupoli era abbastanza diffusa.

Per gli stessi motivi alcuni provvedimenti li avevano presi nel 1917 già gli Stati Uniti imponendo un controllo sull'emigrazione indiscriminata straniera, vietando l'ingresso agli italiani analfabeti. Poi nel 1921 fu operata una seconda e più energica stretta con l'istituzione del sistema delle quote, che ammontavano a sole 5.790 unità all'anno. Solo nel 1965 una nuova legge americana abolì le quote, che permise a circa 23.000 unità all'anno di sbarcare nuovamente negli Stati Uniti per cercarvi lavoro.
Dall'annuario del Reader's Digest del 1972, che riporta le tabelle del Servizio Americano di Immigrazione riusciamo ad avere la situazione di 150 anni di immigrazione negli Stati Uniti.

Sono 44.789.313 gli immigrati ammessi in USA da questi paesi tra il 1820 e il 1969

 Germania 6.900.000; l' Italia al secondo posto con 5.149.000; Gran Bretagna 4.777.000; Irlanda 4.712.000; 
Austria-Ungheria 4.296.000; Canadà 3.941.000; Russia 3.346.000;  Messico 1.547.000; 
Svezia 1.266.000; Indie occidentali 1.033.000; Norvegia 852.000; Francia 726.000; 
Grecia 557.000; Polonia 557.000; Sud America 469.000; Cina 436.000;
Turchia 374.000; Giappone 360.000; Danimarca 360.000; Paesi Bassi 350.000;
Portogallo 346.000; Svizzera 341.000; Spagna 220.000; Belgio 197.000.
ed altri paesi minori.
Il gruppo etnico di origine italiana si fa ascendere, includendo la seconda e la terza generazione nonchè gli oriundi, a circa 14-15 milioni di unità. Concentrati nello Stato di New York, nel New Jersey, Pensilvania, Illinois, Connecticut, California.

Più difficile stabilire quelli nati in Italia e oggi residenti in Usa; nel 1969 ammontavano a 229.498 unità, ma non dimentichiamo che tutti i nostri immigrati tendono ad acquisire la cittadinanza statunitense per naturalizzazione, visto che è permesso farlo dopo soli 5 anni di permanenza. Un conteggio più realistico li fa ammontare (quelli sopra e i naturalizzati) a circa 654.000.

 
IL TERZO PERIODO

Dal 1971 l'emigrazione dall'Italia è quasi del tutto cessata. Il numero dei pochi espatriati è pari a quello dei rimpatriati, con un saldo quindi in pareggio. Questo fino al 1980.
Poi si è invertita la tendenza; da Paese di emigranti l'Italia si è negli ultimi anni (a partire dal 1980 come fenomeno) si è trasformata in Paese di immigrati
Il consistente flusso proveniente dai paesi extracomunitari ha iniziato da questa data a riversare un consistente numero di immigrati che solo con una legge del dicembre 1986 (la 943 - la cosiddetta "sanatoria") permetteva di regolarizzare tutti i soggetti entrati clandestinamente, che nella totalità erano in questa condizione. Ma una stima del 1988 dava presenti in Italia  800-900.000 stranieri,  e soli 100.000 avevano provveduto a sanare la loro posizione. 
Il 15 marzo del 1988 si poteva osservare che degli 86.448 stranieri regolarizzati il 79 % erano uomini, il 20,9 donne.
Il 92,8 % era di età inferiore ai 45 anni, di ben 118 diverse nazionalità.
Nel dicembre del 1989 un'altra legge (la "Martelli") fu emanata per consentire un'ulteriore sanatoria e per definire i nuovi criteri di accessi. Ma anche questa è andata disattesa. 
Nel 1990 uscirono nuove statistiche che davano presenti (a secondo le fonti, spesso discordanti) circa 1.000.000- 1.200.000 di stranieri in Italia.
Ma ancora nell'anno 2000, seguitano a circolare e ad essere pubblicate queste cifre, ma nel frattempo (alcuni sembrano ignorarli)  si  sono verificati i massicci esodi dai paesi dell'Est, i flussi ininterrotti dai paesi dell'ex Iugoslavia, poi quelli dell'Albania, e si sono aggiunti consistenti contingenti da tutti i paesi nordafricani, dell'Asia minore, oltre a un numero imprecisato di orientali, soprattutto cinesi.
Nel 1999 in base alle informazioni delle questure locali, riportate dai giornali locali, gli stranieri presenti in Italia dovrebbero essere circa 1.925.000, di cui circa un milione figurano non ancora regolarizzati.
Ma intanto il flusso è continuo, e ancor più drammatico è quello clandestino. 
Quanti sono gli stranieri in Italia oggi  nessuno lo sa.

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