STORIA DELL'INQUISIZIONE

LIBRO III.



L'eresia - Ecclesiastici apostati - I limiti d'età agli effetti della responsabilità di fronte all'Inquisizione - Il « Forum Internum » ed il « Forum Externum » - La « Santa Cruzada » - Ordini effettivi - Appelli a Roma

 

L'ERESIA

L'Inquisizione fu organizzata per l'estirpazione dell'eresia e per la difesa della Religione Cattolica. Vedremo in seguito quanto elastica fosse la definizione di eresia e vedremo anche che l'azione del Santo Uffizio per sradicarla deviò molte volte dalla retta via. Ciononostante sino all'ultimo lo scopo ufficiale della sua attività rimase l'oppressione delle altre religioni.
Nei tempi moderni, a coloro che sono stati educati nello spirito di tolleranza, non sarà facile immaginare l'enorme importanza che attribuivano gli uomini di governo di quell'epoca alla unità della Fede, o farsi un'idea della generale indignazione che suscitava ogni deviazione dai Dogmi cattolici. Queste convinzioni formavano la forza morale e spirituale del popolo e rafforzavano l'ascendente della Chiesa su di esso. I Sovrani stessi consideravano loro supremo dovere proteggere e incoraggiare tutte le correnti che tendevano a suscitare odio contro gli eretici, poiché ritenevano che, secondo le leggi umane e divine, fosse principio fondamentale la liberazione dell'umanità dall'eresia e chi la praticava finì per essere considerato un rettile velenoso, il quale, soltanto con la sua esistenza, emanava una infezione spirituale ed attirava le ire di Dio, di cui il popolo credeva ravvisare una manifestazione nelle frequenti epidemie che infierivano nel paese.

Nei primi tempi dell'Inquisizione, particolarmente quando le cariche gerarchiche della Chiesa erano ricoperte da Cristiani di dubbia fede, era di essenziale importanza il sapere se i Sacramenti necessari alla beatitudine eterna non perdessero il loro effetto, a causa della miscredenza del sacerdote che li somministrava. Infatti nessuno poteva sapere quanti di quei sacerdoti erano in funzione, come Andreas Gonzales, parroco di San Martin de Talavera, il quale, accusato di eresia, nel corso del dibattimento penale confessò di non aver mai preso sul serio la Messa, di essere rimasto per quattordici anni fedele segretamente alla religione ebraica e di non aver mai assolto i penitenti durante la confessione.
Un'altra storia comica raccontavano in lungo e in largo sul conto di Fra' Garcia de Zapata, Priore dell'Ordine Geronimita, il quale, tenendo in alto la Santa Ostia, soleva dire frasi scherzose ed offensive, volgendo la schiena ai penitenti ai quali dava l'assoluzione.

L'inesorabile zelo del Santo Uffizio riuscì forse a liberare il paese da questi pericoli, ma con i suoi sistemi aumentava l'insensato odio contro l'eresia. Oviedo, il Cavaliere senza macchia, verso la metà del XVI secolo, raccolse in un suo scritto l'opinione generale di quell'epoca, dicendo che bisognava eseguire le punizioni determinate dalla legge canonica, contro gli eretici e i loro beni, perché essi mangiavano il pane dei fedeli, portavano onta sul paese, conducevano, con i loro discorsi, alla dannazione le anime pure e per mezzo dei loro matrimoni e con la loro parentela contaminavano il sangue delle migliori famiglie.
Galceran Alhanell, educatore di Filippo IV scrisse, nel 1621, al suo ex-allievo che aveva appreso con la più profonda indignazione il fatto che all'Ambasciatore di Inghilterra fosse stato permesso di celebrare nella propria casa funzioni religiose secondo il proprio rito. Il Re non avrebbe dovuto tollerare una cosa. simile, che era uno dei massimi peccati e se non avesse rimediato sarebbe stata la dannazione per tutti. Non aveva valore la motivazione che, d'altra parte, anche il Re di Inghilterra Inghilterra permetteva all'Ambasciatore di Spagna di celebrare la messa a Londra. Bisognava congedare subito l'Ambasciatore inglese, senza curarsi se il Re d'Inghilterra avrebbe fatto altrettanto con l'ambasciatore spagnolo. Se il Consiglio di Stato si fosse intromesso, Filippo doveva mostrargli la via di Dio.

La giurisdizione sugli eretici era circoscritta ai battezzati, poiché solo questi potevano essere accusati di eresia. I non battezzati erano considerati persone al di fuori della Chiesa e perciò la Chiesa non aveva il diritto di comandar loro.
In un « auto da fé » del 1623 una donna dichiarò di non essere stata battezzata ed in seguito a ciò fu fatto cessare il procedimento e la donna fu condannata in istruttoria alla detenzione.
Nei processi giudiziari dell'Inquisizione non si temeva molto conto dell'età degli accusati. I bambini furono considerati come predisposti all'eresia, non appena raggiungevano i sette anni, ma non potevano essere posti sotto accusa prima che avessero raggiunto l'adolescenza. Torquemada fissò questa età per le bambine ai dodici anni e per i maschi ai quattordici. Nel 1501, la figlia decenne di Juesita Mercos Gorcia e la figlia undicenne di Isabel Alvaro Ortoleno furono condannare a presenziare ad un « auto da fé ». Esse avevano confessato di aver fatto una o due volte il digiuno ebraico e che i loro padri avevano loro proibito di mangiare carne di maiale. A Valladolid Joseph Rodriguez di otto anni venne accusato di parteggiare per gli ebrei, venne istruita una regolare causa contro di lui, causa che durò per un anno e poi lo costrinsero a deporre contro il fratello ed il padre. Nel segreto lo assolsero e lo rinchiusero nelle carceri dei penitenti per essere istruito.
Nel 1638 Maria Diaz, di vent'anni, venne rinchiusa nel carcere segreto, sotto l'accusa di parteggiare per gli ebrei e fu processata.

Di fronte all'Inquisizione si rispondeva secondo il grado di eresia, che era accuratamente classificata dai teologi del tempo. L'eresia formale era quella in cui si incorreva per libera volontà, oppure per scellerato errore. L'eresia formale o spirituale si suddivideva a sua volta nell'eresia interiore o spirituale e nell'eresia esteriore. Per eresia interiore o spirituale si intendevano le azioni commesse in segretezza, non rivelate, né con parole né con segni; l'eresia esteriore segreta era quella ostentata con la parola, dinanzi ad uno o due uomini od anche nella propria casa in solitudine purché ad alta voce. Una pubblica eresia era poi quella che si professava in pubblico e cioè in presenza di più di due persone.
Ma vi erano definizioni ancor più significative. L'eresia era un peccato ed un crimine nel contempo; come peccato era di competenza del «Forum Interum», ossia della coscienza; come crimine, del «Forum Externum», cioè del Foro Giudiziario. Un penitente che avesse confessato l'eresia poteva ottenere la Santa assoluzione e dinanzi al Signore gli veniva perdonato il peccato, ma era perseguito invece il crimine per cui veniva punito dal Tribunale.
Vedremo in seguito che l'Inquisizione puniva sempre anche i penitenti che avevano confessato il loro peccato ed ottenuta l'assoluzione, sebbene con maggiore mitezza, con pene che variavano da un minimo di reclusione, alla pena di morte.

Tale era l'attività giudiziaria dei Vescovi e dell'Inquisizione, dalla fondazione del Santo Uffizio in Spagna. I Vescovi erano impossibilitati a radunarsi alle sedi dei Tribunali e si facevano rappresentare generalmente agli « auto da fé » da qualche giudice ecclesiastico o da qualche inquisitore.
Non esisteva dunque un vero e proprio regolamento, che avrebbe tolto ai Vescovi la tradizionale giurisdizione, tuttavia l'Inquisizione si arrogava sempre tale autorità dichiarando che il diritto di grazia dava al Vescovo solo il privilegio di partecipare al consiglio in tre casi ben definiti. Il Papa non aveva mai concesso simili diritti agli inquisitori e l'origine di tali privilegi é da ricercarsi nelle magistrali disposizioni di Ferdinando che ebbe cura che nulla impedisse la celerità d'azione della sua istituzione prediletta e che nulla venisse ad intralciare l'entrata dei proventi.
Egli proteggeva l'Inquisizione di fronte ai Tribunali ecclesiastici, poiché il procedimento di questi ultimi era pubblico e quindi assai minore la probabilità di condanna che non nella segreta giurisdizione dell'Inquisizione. Infatti egli scrisse nel 1500 al Principe Arcivescovo Cagliari di essersi molto meravigliato che egli si fosse permesso di intromettersi nelle questioni private dell'Inquisizione, pretendendo una parte delle ammende, senza particolare autorizzazione reale o da parte del Capo Inquisitore.
Il Vescovo pretendeva ancora di far valere il diritto di giudicare gli eretici, benché questo diritto fosse stato da tempo abrogato; e la cosa fu a lungo sostenuta dai Prelati, che chiedevano che gli eretici fossero notificati alle sedi vescovili, appoggiando questa richiesta su vecchi documenti dell'Inquisizione. Così fece nel 1592 il Vescovo titolare Huesca, il quale venne seriamente ripreso dalla Regina Reggente che dichiarava trattarsi di una innovazione senza precedenti.
Quando il Vescovo di Tortosa pretese lo stesso diritto, la Suprema gli scrisse che i Papi avevano dato una speciale giurisdizione all'Inquisizione per perseguitare l'eresia, vietando che questo diritto fosse esercitato da altri, quindi il Vescovo si astenesse in seguito da simili pretese.

Quando il Tribunale di Barcellona nel 1676 venne a conoscenza che il Vescovo di Solsoma, durante un giro d'ispezione, si era incaricato di testimoniare a favore di alcune persone, in questioni religiose, ordinò al Vescovo di consegnare immediatamente i documenti, ciò che egli fece senz'altro. Il Tribunale fu tanto audace da metter sotto accusa il Vescovo, ma la Suprema fu abbastanza saggia a vietare ogni procedimento nei suoi confronti.
D'altronde Papa Gregorio XV ripeté la dichiarazione di Clemente VIII, che cioè i Papi, quando avevano investito l'Inquisizione dei suoi poteri, non avevano l'intenzione di venire in contrasto con la giurisdizione vescovile, né esonerare i Vescovi dal loro compito.

Nel Novembre del 1612 in una riunione della Suprema fu proposto di eliminare le competenze delle due giurisdizioni, ma quantunque i limiti posti risultassero molto ristretti, nemmeno la Suprema volle accettare.
Nel 1637 Sebastiano de Prios, Sacerdote della Tombia Arriba, il quale aveva commesso atti offensivi durante la celebrazione dei Sacramenti, temendo una denuncia da parte dei suoi nemici, si denunciò volontariamente al Vescovo ausiliare di Astorga, il quale lo condannò ad una ammenda di quattromila maravedi. Ciononostante egli venne denunciato nel 1640 al Tribunale di Valladolid. Invano egli diceva di essere già stato punito; la Suprema considerò senza valore quella punizione e lo condannò di nuovo alle carceri segrete dove morì.
L'usurpazione continuava sempre e quando non vi erano dei casi di eresia che potessero occupare l'Inquisizione, i rapporti di questa contenevano numerosissimi casi, i quali, secondo il loro proprio riconoscimento, appartenevano alla competenza della giurisdizione ecclesiastica, come trascuratezza degli ordinamenti della Chiesa, irregolarità nella celebrazione delle Messe, Comunione dopo i pasti, ecc. ecc. tutte mancanze che originariamente non competevano all'Inquisizione. Non é molto lusinghiero per i Vescovi spagnoli di quei tempi il fatto di aver accettato con piacere questo alleggerimento dei propri compiti e di essersi ostinatamente opposti nel 1813 alla soppressione dell'Inquisizione.
Dopo la restaurazione il Principe Arcivescovo di San Marcos aveva raccolto delle prove che la curia di San Marcos per diversi anni non si era presentata al Sacramento della Confessione, ed invece di punirla consegnò gli atti al Tribunale dell'Inquisizione; ciò fu una fortuna per i preti penitenti, poiché la Suprema ordinò di non procedere nei loro confronti, di dare soltanto assicurazione al Vescovo che era stato fatto quanto necessario e ringraziarlo della sua premura nei confronti dell'Inquisizione.
Ancora nel 1487 il Capo Inquisitore Torquemada era riuscito ad ottenere un Breve da Papa Innocente VIII, col quale la giurisdizione vescovile veniva interamente sottomessa a quella della Inquisizione.
Ferdinando non era soddisfatto, ma dovette rassegnarsi a delegare un membro del corpo vescovile all'Inquisizione, come suo sostituto, poiché vi era già stato un precedente analogo durante la prima Inquisizione. Un'altra disposizione di Ferdinando fu quella emanata nel 1484, che vietava agli inquisitori di accettare cariche che gli potessero porre al di sopra dei loro colleghi.

Nel 1506 i detenuti di Jaen presentarono una lagnanza a Filippo e Juana, lamentando che gli inquisitori procedevano del tutto indipendenti dall'Assessore vescovile, non comunicandogli alcunché, allo scopo di poter dar seguito indisturbati ai loro scellerati intendimenti. La stessa lagnanza venne manifestata dalla « Cortes » del 1512, nella città di Monion, in seguito alla quale Papa Leone X disponeva che nella « Concordias » venisse inclusa la disposizione che gli assessori vescovili riprendessero le loro funzioni. Analoga era la situazione nella Castiglia, dove, come abbiamo visto, la « Cortes » di Valladolid nel 1518 esprimeva fra l'altro il desiderio che anche gli assessori vescovili partecipassero alle sentenze; questa domanda ebbe i suoi frutti soltanto quando venne a mancare la pressione di Ferdinando. Finalmente, nel 1520, in seguito alle deliberazioni prese dal Cardinal Adriano, i Vescovi ebbero occasione di valersi della loro autorità.
Nel 1529, quando la Suprema casualmente risiedeva a Toledo, Diego Artiz de Angelo (agente fiscale del locale Tribunale) sottopose un « memorandum », nel quale dichiarava che la presenza dell'assessore provocherebbe forti ritardi nella procedura, poiché molte volte egli non poteva dar seguito agli inviti, inoltre com'era notorio si opponeva sempre alle intenzioni del Tribunale, facendo eccezioni per qualsiasi ammenda inflitta e infine in tendeva appioppare al Santo Uffizio tutte le spese. Dietro desiderio di Angelo, la Suprema interrogò un gran numero di testimoni, fra i quali Martin Zimenes era il più autorevole, essendo stato per quarant'anni alle dipendenze dei Tribunali di Barcellona, Toledo e Sevilla. Nel suo interrogatorio lo Ximenes spiegò che gli inquisitori avevano sistemata la questione in modo da privare in gran parte delle loro funzioni gli Assessori vescovili, poiché invece di ammettere la loro partecipazione in tutte le sentenze lasciavano loro la parola soltanto nelle accuse di eresia, escludendoli dal dibattito delle accuse di minore portata, con lo scopo evidente di escluderli dalla partecipazione degli utili derivati dalle ammende, sebbene li avessero ordinati alle « Consultas da fé », dove si procedeva alla votazione.
Questo procedimento é caratterizzato dal seguente caso. Blas Ortiz, Vicario Vescovile di Toledo, venne convocato nel 1534. con l'ordine di mettere da parte ogni altro impegno e di presentarsi ogni mattina al Tribunale al dibattimento delle cause agglomeratesi dall'ultimo « auto da fé » tenutosi quattro anni prima. Il Tribunale osservava che se egli non fosse comparso, gli inquisitori avrebbero dato corso da soli ai procedimenti penali. L'invito venne portato all'Ortiz dall'agente fiscale, al quale rispose tranquillamente che sarebbe andato se la sua salute glielo avesse permesso, in caso contrario cedeva senz'altro la sua autorizzazione a due inquisitori che si fossero dichiarati disposti ad accettarla.
A quanto pare, durante la restaurazione, si diede maggiore importanza alla presenza dell'Assessore vescovile, fatto che si rivela dagli atti di una causa penale. Juan Antonio Manzano, medico di Lumbreles, nella diocesi di Ciudad Rodrigo, nel 1807, venne rinviato al Tribunale per eresia ed il Tribunale dichiarava indispensabile la testimonianza del Vescovo della diocesi e che quindi il Vescovo di Ciudad Rodrigo doveva inviare un suo sostituto. Nell'anno seguente il Manzano venne arrestato con la stessa imputazione, ma nel frattempo il Tribunale di Slerena venne trasferito a Sevilla; perché a Slerena non vi erano carceri. A quanto pare il Tribunale di Sevilla chiedeva istruzioni alla Suprema, la quale dava disposizioni a che si rivolgesse al Vescovo di Ciudad Rodrigo. Ma questa era una pura formalità, poiché la Suprema stessa aveva già emesso la sua sentenza nella questione, senza badare a quelle che avrebbero potuto essere le decisioni della prossima « Consulta da fé »: con ciò dunque era già praticamente abolito l'indiscutibile diritto di partecipazione dell'autorità ecclesiastica alle deliberazioni dei procedimenti giudiziari, nei confronti degli eretici.
Ciò che riguardava il Foro interiore, ossia quello della coscienza, l'Inquisizione lo arrogava pure a sé, come quello esterno, per la quale era stata istituita. Infatti interpretava l'autorizzazione papale come fosse stato suo compito esercitare una sorveglianza nelle questioni d'eresia spirituale. L'eresia era il maggior peccato per il quale era comminata come da Bolla papale, che figurava sotto il titolo di, « Coena Domini ». Questa denominazione l'aveva ottenuta dalla data di pubblicazione che cadeva in Giovedì grasso e Papa Urbano assegnò tutti i peccati elencativi alla giurisdizione dei Camerlenghi Papali.
La Santa Sede con ciò si era riservata l'esclusiva sorveglianza nelle questioni di eresia ed i Papi Paolo II, nel 1469 e Sisto II, nel 1478, emisero dei decreti analoghi.

Il criterio tanto rigoroso dell'eresia spirituale non fu ben compreso nella Spagna, in un primo tempo, dove si conoscevano tanto poco le leggi relative che in principio i nuovi cristiani tentavano di evitare l'incarcerazione, ricorrendo al sacramento della confessione, ignari che era stato deciso già nel XVI secolo che l'assoluzione alla confessione non esimeva, dinanzi al Foro della coscienza, dalla punizione materiale.
L'Inquisizione non era disposta a tollerare questa scappatoia e perciò si procurò nel 1487 un Breve da Papa Innocente VIII che venne diffuso a tutti gli inquisitori e vescovi della Spagna. Avveniva quindi che individui che avevano confessato nel segreto al loro confessore di essere colpevoli di eresia, negassero poi in presenza del confessore stesso; fu quindi disposto che tali ritrattazioni fossero fatte sotto il suggello di giuramento, dinanzi ai genitori dell'accusato, ad un pubblico notaio, ed all'Assessore vescovile. Questo autorizzava gli inquisitori a procedere contro chiunque non avesse osservata questa formalità, l'esistenza della quale fu presto dimenticata, tanto più che chi ne voleva approfittare non otteneva altro risultato che di attirare su di sé l'attenzione degli inquisitori.

Non passò molto che i nuovi cristiani riconoscessero la sterilità di simili esperimenti, poiché nelle epoche successive non se ne hanno più esempi. Tuttavia esistevano casi di eresia segreta, nel giudizio dei quali l'Inquisizione procedeva in diversi modi. Nei primi tempi gli editti della « Grazia di Dio » rinviarono al Tribunale anche questi casi di segreta eresia, mentre le disposizioni del 1484 permisero agli Inquisitori di rinviarli alla segreta conciliazione ed alla revoca sotto giuramento.
Vi erano però anche numerosi casi che esigevano piuttosto un rimedio a mezzo dei Sacramenti, che non con l'intervento giudiziario. Questi casi erano costituiti dai dubbi dei buoni cristiani, i quali erano tormentati da segrete esitazioni che li portavano a ragionamenti errati e per i loro mali spirituali si rivolgevano al loro confessore. Su questi individui, né i sacerdoti, né il Vescovo stesso. non potevano giudicare spiritualmente, poiché negli editti della Fede vi era una clausola che vietava al confessori di dare l'assoluzione in tutti quei casi che appartenevano alla competenza dell'Inquisizione e ordinava loro di rinviare al Tribunale i penitenti.
Una usanza giuridica di incerta data era quella applicata quando il penitente accusava sé stesso di eresia nel confessionale, inquantoché era compito del confessore di ottenere il permesso da un inquisitore di poter assolvere, in quei casi che riguardavano l'Inquisizione, poiché era vietato di rivelare il segreto della confessione e quindi, se il permesso non veniva accordato non rimaneva che rinviare il penitente al Tribunale dell'Inquisizione. Il Vescovo Ximenes però asseriva che era dubbio se un inquisitore fosse autorizzato a rilasciare simile permesso, mentre avrebbe dovuto per ogni singolo caso chiedere a sua volta l'autorizzazione della Suprema.
Nei confronti delle suore, le quali non si potevano costringere ad alleggerirsi la coscienza in presenza dell'assessore vescovile e del notaio, esisteva una concessione che autorizzava il confessore a prendere per iscritto la confessione e mandarla al Tribunale, il quale si consigliava in ogni singolo caso con la Suprema, che a sua volta inviava dei padri al Tribunale che poi trattava le suore come « espontaneados », cioè come penitenti volontarie; veniva fatta una conciliazione segreta ed alle suore veniva imposta una penitenza. È sorprendente come questi confessori riuscissero in molti casi a convincere i penitenti a confessare dinanzi al Tribunale, oltre che nel segreto della confessione. Se i colpevoli avevano dei complici potevano essere costretti a nominarli e questi venivano immediatamente sottoposti ad istruttoria, presentandosi così un'occasione di infliggere ammende pecuniarie, sebbene in questi casi non si facesse uso delle confische. Il timore delle ammende ed il terrore di capitare tra le mani dell'Inquisizione, inducevano molti a valersi della confessione, poiché sé essi si opponevano a confessare dinanzi al Tribunale, nulla poteva essere fatto contro di loro, poiché il segreto della confessione proteggeva il loro incognito.

Nel 1562 venne riferito alla Suprema un caso, in cui il penitente si era confessato di eresia durante la Sacra Confessione, senza che alcuno ve lo avesse spinto. Il Capo Inquisitore autorizzò gli altri inquisitori di risolvere il caso, secondo il loro discernimento, impartendo a loro volta istruzioni al confessore.

Più tardi divenne un'usanza che il confessore tentasse di indurre il penitente a presentarsi all'Inquisizione; se questi si rifiutava recisamente, allora il confessore chiedeva autorizzazione ad assolvere, che veniva accordata o rifiutata secondo l'idea del Tribunale.
Padre Thomas de Los fece rapporto al Tribunale di Toledo che durante una sua missione una donna, di nome Ajofrim, gli aveva chiesto assoluzione interiore ed esteriore, adducendo che la sua eresia era segreta, poiché ne aveva parlato soltanto alla propria zia. Il confessore si era interessato della cosa ed era venuto a sapere che si trattava di una povera donna. che conviveva con una zia di ottant'anni. Il Tribunale autorizzò l'assoluzione.
La confessione dell'effettiva eresia non veniva trattata con altrettanta mitezza, poiché vi figuravano anche dei complici, la confessione dei quali bisognava assicurarsi ad ogni costo. In questi casi veniva ordinato al confessore di influire con tutti i mezzi sul penitente, affinché egli si presentasse all'Inquisizione, promettendogli che sarebbe stato assolto in segretezza.
Ma non era facile estorcere un'auto-confessione, poiché con questa si veniva a tradire qualche parente o qualche amico. In questi casi il Tribunale era costretto a rimanere inattivo e non é improbabile che si sia anche presa in considerazione la possibilità che il confessore rompesse il segreto, con la motivazione che nei tempi in cui questo segreto era stato istituito, non esisteva un peccato terribile come l'eresia.

Il riconoscimento dell'assoluzione come Sacramento non riguardava il Foro esteriore, la cui acuta gelosia é dimostrata dal fatto che l'Inquisizione sollevò protesta contro le assoluzioni in massa della « Santa Cruzada » Papale ed i Pellegrini giubilari. Con questi riti si assicurava indulgenza plenaria e si impinguivano le casse della Santa Sede. Soltanto l'orgoglio sfrenato degli inquisitori poteva portare a discutere il valore di questa pia usanza. Quando Papa Pio V nel 1571, dopo un intervallo di cinque anni, rinnovò la « Cruzada », il Santo Uffizio si impressionò vivamente. Negli « Accordades » del 1572 la Suprema istruiva i Tribunali, dichiarando che era errata l'interpretazione secondo la quale la Bolla della « Cruzada » avrebbe contenuta anche l'assoluzione dei peccati di eresia, che questa asserzione doveva essere confutata dovunque e dovevano essere impartite particolari istruzioni in questo senso anche ai confessori.

Un passo più deciso venne fatto nel 1576, quando Gregorio XIII dichiarò di non aver mai avuta l'intenzione di comprendere l'eresia nell'indulgenza ed impartiva disposizioni a che questa rettifica venisse diffusa ovunque e particolarmente a mezzo delle prediche che avevano per oggetto la « Cruzada ».
Questo mutamento andava a particolare vantaggio della tesoreria dello Stato, che sempre partecipava agli utili dell'Inquisizione, inquantoché quest'ultima poteva nuovamente impartire gli ordini ai confessori e quindi infliggere abbondanti ammende ai penitenti che acconsentivano a confessare al Foro esteriore. Nel 1577 queste disposizioni ai confessori divenivano ufficiali, essendone stata ordinata l'affissione in tutte le chiese.

Come abbiamo detto la « Cruzada » non veniva a danneggiarel'Erario della Monarchia spagnola, ma diversa era la questione delle indulgenze giubilari che davano piena assoluzione dei peccati, senza distinzione, come nei pellegrinaggi a Roma, ogni venticinque anni. Pio V ne diede esempio nel 1566 e fu imitato dai suoi successori con vari pellegrinaggi ed indulgenze giubilari. Nel giubileo annunciato nel 1572, in occasione della consacrazione di Papa Gregorio XIII era contenuta l'esplicita dichiarazione che l'indulgenza si riferiva anche alle eresie segrete di competenza del Foro della coscienza. Mentre l'Inquisizione romana non sollevava alcuna eccezione, quella spagnola combatté questa inclusione, tanto che sembrava impossibile risolvere pacificamente il conflitto. Papa Alessandro VII, nel giubileo della sua ascesa al Trono includeva pure la clausola contrastata.
Calvera, agente romano della Suprema sollevò una immediata protesta e Papa Alessandro infatti promise che l'eresia sarebbe esclusa da tutte le indulgenze giubilari.
Il concetto di eresia era assai elastico e l'Inquisizione nella sua giurisdizione autoritaria non mancava di darvi ampio significato in ogni senso. Nel contempo però aveva gran cura che, di fronte al pubblico o a qualsiasi verifica, ogni sua condanna fosse ben giustificata. Infatti molti ricorsi vennero presentati al Re, per ingiustizie patite e questi generalmente chiedeva un rapporto dettagliato al Capo Inquisitore. La Suprema in questi casi appariva una istruttoria, per stabilire se la questione giudicata dagli inquisitori era o meno di loro competenza. Non erano però molti i casi in cui in un modo o nell'altro fosse impossibile far rientrare un caso nella definizione d'eresia. Quando questi ricorsi venivano presentati al Re dalle « Consulte » si chiedeva che le questioni fossero trattate dal Consiglio, ma Filippo II aveva già impegnata la sua parola che l'Inquisizione non avrebbe dovuto dare eccezione alla sua segretezza, altro che per lui e don Cristobal de Mocera. In seguito anche questa concessione fu ristretta e soltanto il Sovrano poteva ottenere un rapporto verbale dal Capo Inquisitore.
L'ostinata segretezza dell'Inquisizione e l'assoluta sicurezza di sé resero possibile una giurisdizione spirituale del tutto particolare, inquantoché essa poteva giudicare su tutti, senza essere sottoposta ad alcun efficace controllo.

ORDINI EFFETTIVI


Il potere dell'Inquisizione sui laici era assoluto. Nessuno era di grado tanto alto da poter sottrarsi alla sua autorità, poiché l'eresia uguagliava le classi. Teoricamente persino il Re era passibile di giudizio, poiché l'istituzione era basata sul concetto della superiorità del potere spirituale su quello temporale.
La devozione dei Sovrani spagnoli impediva che questa superiorità fosse molto palese, poiché possiamo relegare nel mondo delle favole la storia di Juana la Laca e di Don Carlo. Nessuna carica temporale proteggeva l'individuo sospetto nella Fede e nulla poteva impedire la punizione.
A Valencia persone della nobiltà che volevano proteggere i loro vassalli Mori dalle vessazioni dell'Inquisizione, vennero posti sotto accusa, come partigiani di eretici. Il caso di maggior rilievo fu quello dell'Ammiraglio aragonese Sancho de Cordova, appartenente alla più alta nobiltà, il quale fu costretto, all'età di settantratré anni, a rinnegare la Fede dei suoi avi perché era sospettato di eresia. Gli venne inflitta un'ammenda ed egli stesso fu relegato in un convento dove morì.
Ad eccezione dei Vescovi, dei quali parleremo in seguito, il Clero era completamente sottomesso all'Inquisizione, benché continuasse una lunga ed accanita resistenza per liberarsi dal giogo. Durante il XII e XIII secolo, una gran parte degli ordini religiosi non era sottomessa alla giurisdizione vescovile ed era alle dipendenze dirette della Santa Sede. Così pure, quando nel secolo XIII venne fondato l'ordine dei Frati Mendicanti, anch'essi si trovavano sotto l'autorità diretta dal Papa, non si poteva nemmeno parlare d'una facoltà giuridica al di sopra degli ordini. Ma nel caso del Domenicano Eckert, il quale venne posto sotto accusa, nel 1327, il Principe Arcivescovo di Colonia decise per la competenza del Tribunale vescovile. Ciononostante Pio II, nel 1460, confermò il privilegio dei Francescani di essere giudicati esclusivamente dal Capo Vicario dell'Ordine, mentre Sisto IV, nel 1479, cercò di mitigare la continua ostilità fra Domenicani e Francescani, tra i quali erano stati scelti quasi tutti gli inquisitori, vietando ad entrambi gli ordini che i membri si perseguitassero a vicenda.

Nei ranghi degli Ordini Religiosi alle dipendenze della Santa Sede vi era un gran numero di convertiti, che, nonostante i privilegi, venivano posti dínanzi ai Tribunali. Sotto Torquemada, Domenicano, la maggior parte degli Inquisitori proveniva dall'Ordine di S. Domenico. Però Papa Innocente nel 1479 ordinava la scelta degli inquisitori dovesse ripartirsi tra i Cistercensi, i Domenicani ed i Francescani. Dapprima il Torquemada trattava il Clero come se appartenesse alla sua gurisdízione, anzi diede il potere ai Prelati Geronímití di poter giudicare sul proprio basso Clero. Ê vero che più tardi revocò questa facoltà e nel 1488 autorizzò gli inquisitori di Toledo di giudicare nelle questioni del basso Clero.
Gli ordini religiosi avevano una grande influenza anche a Roma, dove aumentava sempre più la potenza degli Spagnoli ed il gareggiare dei due poteri, sempre in contrasto, rendeva sempre più incerta la politica già titubante del Pontefice.
L'Inquisizione man mano si rassegnò alla limitazione della sua facoltà giuridica. Il Capo Inquisitore Manrique, in una sua lettera del 1524, dichiarava che ci si poteva attendere la revoca del privilegio dei Padri Agostiniani ed in ciò si dimostrò buon profeta. I buoni servigi di Carlo V il quale era riuscito ad arginare la ribellione dei Luterani, divennero indispensabili ed i suoi desideri non si potevano respingere. Il Breve del 1515 sottomise il basso Clero degli Ordini alla supremazia dell'Inquisizione,.mitigando però questo colpo inflitto con la concessione che i provinciali potevano delegare gli assessori, per controllare l'andamento delle loro cause. Ma la Spagna non si accontentò con questo ordine ed estorse qualche mese dopo un altro Breve, col quale il basso Clero veniva completamente sottomesso all'Inquisizione.

Il grande sviluppo dell'ordine Gesuita e l'illimitata fiducia che godeva la Santa Sede fecero sì che sorse presto un nuovo elemento di discordia. Nel 1517 l'Inquisizione venne a sapere che i Gesuiti pretendevano dei privilegi. Infatti Papa Gregorio XIII il 18 Marzo 1584 « Vivae Vocis Oraculo » rivestì il Generale Gesuita del diritto di poter assolvere dal peccato di eresia i suoi fedeli, anche nei casi di recidiva. Quindi, chiunque avesse avuto conoscenza di una persona colpevole d'eresia aveva il santo dovere di denunciarla alla suprema gerarchia Gesuita, e non all'Inquisizione.
I Gesuiti diffondevano in lungo e in largo la dichiarazione che essi non erano giudicabili da nessun Tribunale, sia della Chiesa sia dell'Inquisizione. Un caso molto caratteristico avvenne nel 1583, quando i Padri Gesuiti del Collegio di Monte Rey vennero a sapere che un loro compagno Padre Briviesca aveva dei contatti colpevoli con certe Suore Beate e che facevano uso di bibite alcoliche. Fu inviato immediatamente a Sagaria Padre Diego Hernandes, per fare rapporto ad Antonio Mercen, Provinciale di Castiglia. allo scopo di ovviare all'onta che avrebbe pesato sulla Compagnia di Gesù, per la citazione in Tribunale di un suo membro. Ordinarono dunque all'Hernandes di ritornare, per procurarsi un certificato in forma legale. Il Hernandes effettivamente ritornò a Monte Rey e si consigliò coi Padri Francisco Sarata e Juan Loper, i quali dichiararono trattarsi di una questione molto pericolosa, di competenza dell'Inquisizione e, se non vi fosse stato il segreto della confessione, avrebbero dovuto denunciare il Briviesca, per quanto questo tornasse a danno della Compagnia.
Decisero pertanto di ottenere dalle Beate un solenne giuramento di segretezza. Hernandes portava le deposizioni scritte ai teologi del Collegio Gesuita di Salamanca, per avere la loro opinione sule colpe, mantenendo tuttavia il segreto sul nome del peccatore. Questi decisero che il colpevole dovesse essere consegnato all'Inquisizione e che le Beate non dovessero esser assolte fino a che non lo avessero denunciato; ma, quando vennero a sapere che tutta la Compagnia di Gesù era coinvolta nella faccenda, ritirarono sollecitamente il parere dato. Hernandes venne inviato a Monte Rey, dove sistemò le Beate, mentre Mercen faceva imprigionare il Briviesca, estorcendogli una particolareggiata confessione e le sue dimissioni : indi lo fece vestire da prete ed accompagnare a Barcellona donde fu imbarcato per l'Italia.
Hernandes eseguì gli ordini ricevuti, ma aveva un gran timore delle rappresaglie dell'Inquisizione e perciò pregò il Mercen di poter riferire all'Inquisizione stessa. Ottenne la risposta che se avesse osato portare questa vergogna alla Compagnia, lo avrebbero tenuto incatenato nelle carceri per tutta la vita. Tuttavia Hernandes non cedette ed allora i Gesuiti diffusero la voce che egli era impazzito ed invaso dal Diavolo.
Non ci é dato di sapere in quale modo l'Inquisizione sia venuta a conoscenza di questi fatti, ma é probabile che le Beate abbiano commesso delle indiscrezioni. Non appena l'Inquisizione riuscì a procurarsi le testimonianze, si mise energicamente all'opera, fece imprigionare Mercen, Lorata e Lopez che nel 1585 furono posti sotto accusa. Nello svolgimento della causa si apprese che non era questo il primo caso in cui il Mercen aveva sottratto i colpevoli all'Inquisizione. Padre Cristobal aveva commesso gli stessi peccati ed il Mercen lo aveva semplicemente congedato dalla Compagnia di Gesù, dandogli del denaro perché egli partisse per l'Italia. Anche Padre Francisco de Ribera si era reso colpevole di propaganda eretica, per la qual ragione molti padri pretendevano che egli fosse denunciato all'Inquisizione, ma il Mercen aveva inviato anche quest'ultimo in Italia e si difendeva da tutte queste accuse, adducendo che aveva agito per ordine dei Generale Gesuita.
Le colpe erano evidenti; Mercen ed i suoi compagni furono dichiarati colpevoli, ma l'Inquisizione non ebbe la soddisfazione di poterli punire. Sapendo che i Gesuiti avevano una forte influenza a Roma, non osò insistere troppo. Infatti i Gesuiti non avevano molta difficoltà a convincere Sisto V che il rispetto della Fede esigeva di tacitare ogni scandalo di questo genere.

Dopo un mezzo secolo avvenne una storia analoga che ebbe il suo effetto sulle Sedi Vescovili. Venne sostenuto da alcuni che l'Inquisizione aveva preso parte all'esecuzione capitale del Vescovo di Amora, Antonio Aricuna. Ma ciò non corrisponde a verità. L'indisciplinato e ribelle Prelato, il quale era scherzosamente soprannominato Secondo Lutero da Leone X, era uno dei più attivi oratori dei « Comidades » ; dopo la sconfitta di Villare, nel 1521 egli fuggì travestito, ma fu catturato sulla frontiera di Villamedian. L'immunità vescovile lo avrebbe dovuto salvare, ma Carlo V pretendeva decisamente la sentenza di morte. L'Inquisizione non figurò nella faccenda, ma dopo alcune trattative Leone X diede incarico al Cardinale Adrino ed al Nunzio di assumere la parte di giudici e di fare le proposte a suo nome nel Consiglio.
Quando Adriano ascese al Trono Papale, era Principe Arcivescovo di Granàda ed in tale sua qualità aveva consegnato l'incarico al Vescovo di Ciudad Rodrigo, senza autorizzarlo però a far torturare Antonio Aricuna. Più tardi Clemente VII, col Breve del 1524, ordinava il più severo procedimento, ma, ciononostante, il procedimento fu mitigato. Fuggendo a Simancas, dalle carceri dove doveva restare per cinque anni, l'Aricuna fece un infruttuoso tentativo di mettersi in salvo, durante il quale uccise l'Alcade. Allora Re Carlo inviò a Simancas il proprio Alcade, con l'istruzione di far torturare e poi uccidere l'Aricuna; l'ordine venne fedelmente eseguito, il 26 Marzo 1526. Re Carlo si procurò in fretta l'assoluzione ipso facto per sfuggire alla scomunica che lo minacciava; la stessa cosa volle procurare per il suo incaricato, ma vi riuscì solo dopo un anno. `
Questa palese offesa al diritto di immunità dei Prelati provocò un grande scandalo.

Quando la ribellione dei Luterani assunse proporzioni minacciose e si diffuse in tutta la Spagna, Papa Clemente VII col Breve del 1531 investì il Cardinal Manrique di un potere giudiziario limitato. Egli aveva il diritto di compiere istruttorie tra i Vescovi, per individuare i partigiani delle idee luterane, ma non aveva il diritto di arrestarli e di farli imprigionare, sebbene secondo le leggi canoniche avesse il pieno diritto di riabilitare quelli che se ne fossero mostrati degni con sincero pentimento.
Questa era una delle questioni più notevoli avvenute nella storia dell'Inquisizione. Fu attirata l'attenzione di tutta l'Europa, non soltanto per quanto riguardava i sistemi dell'Inquisizione, ma anche per il conflitto che aveva fatto Sorgere fra i Seguaci delle dottrine Ortodosse ed i Riformisti.

Il Capo Inquisitori Valdis, il quali nel contempo era anche Arcivescovo di Sivilla, nel 1507 minacciava di cadere in disgrazia. Filippo si trovava a corto di fondi; le glorie di Saint Ozentrin e di Gavilinis non erano costati poco, mentre la guerra alla quale era stato costretto da Paolo aveva assorbito tutti gli introiti dei Suoi possedimenti italiani. Egli inviò dalla Fiandra in Spagna il conte Milito, con l'ordini di estorcere alla nobiltà un prestito forzoso. La Regina Juana, Reggente in quell'epoca, impose tra l'altro centocinquanta ducati all'Arcivescovo Valdis. Mentre l'Arcivescovo di Cordova versò immediatamente cento ducati, con la promessa di fare altri versamenti non appena avesse potuto, il Valdes era tanto avaro chi non volle contribuire con alcuna Somma al prestito, Sebbene avesse ottenuto poco prima dalla Regina un dono di Sei carri di merce. Infatti la Regina gli scrissi Subito, esprimendo il suo stupore che l'Arcivescovo favorito della Corte si sottraesse al Suo dovere dopo aver goduto di tanti benefici. Questa lettera gli venne recapitata da Hirnando di Ochoa, il quali nel Suo rapporto descriveva il poco dignitoso atteggiamento dell'Arcivescovo, il quali dapprima aveva fatto delle promesse, per poi nascondersi in uno dei Suoi palazzi a San Martin de la Fuenti, a due miglia da Valladolid, mettendosi a letto per due mesi, nella Speranza che nel frattempo la cosa andasse nel dimenticatoio. Egli giurò dinnanzi ad un'Ostia consacrata, che i diavoli lo portassero via, se mai in vita Sua aveva disposto di centomila o Settantamila o trentamila ducati, poiché spendeva sempre molto in beneficenza facendo donazioni persino di quindicimila ducati.
Tuttavia dovette confessare che l'Arcivescovado da lui ricoperto, sin dal 1546, rendeva annualmente sessantamila ducati, dei quali metteva a parte per lo meno trentamila ducati all'anno, per spese che però in nessun modo poteva dimostrare poiché non aveva mai inviato alcun ospite, come lo facevano gli altri Arcivescovi, ciò chi era ben risaputo alla Corte.
Su questi rilievi il Prelato si turbò alquanto e tuttavia continuò a Spergiurare ad alta voce che non era bello ricattare l'alta Clero e che un denaro procurato in quella maniera non avrebbe portato beneficio nella guerra. Iddio avrebbe aiutato lo stesso il Re, anche senza far scandalizzare i fedeli cristiani.
L'onesto Ochoa invano lo sollecitava a ritornare alla Corte, per salvare almeno l'onore; il Valdes ostinatamente si aggrappò al Suo denaro.

Filippo diede istruzioni per procedere contro gli ostinati, ma probabilmente non avrebbe osato internare i Vescovi nelle loro sedi e la nobiltà nei castelli. I Valdes cedendo alle continue pressioni di Carlo e Juana finì con lo sborsare cinquantamila ducati, ma cionostante fu deciso il suo allontanamento dalla Corte. Infatti si fecero svariati tentativi per farlo partire, con qualche pretesto e nel Marzo del 1538 Juana gli ordinò di accompagnare sull'ultima via le spoglie mortali della Regina Juana la Laca a Granada, donde avrebbe potuto facilmente raggiungere la Cattedrale di Sevilla. Il Valdes si opponeva, ma infine promise di partire. Ma quando la Regina Juana gli ripeté l'ordine, il Prelato trovò ogni sorta di scuse per sottrarsi all'incarico, adducendo che vi erano molti eretici a Sevilla ed a Murcia e che infine il cadavere avrebbe potuto attendere fino a Settembre per essere trasferito.
Valdes comprese di dover rafforzare la propria posizione presso la Corte e perciò si valse con abilità della scoperta fatta che a Valladolid si erano stabiliti alcuni protestanti, tra i quali più di uno scienziato ecclesiastico, come Augustin Cavalla e Fra Domingo de Royas, nonché alcuni distinti nobili come Luis de Royas e Donna Anna Enriques. Ma egli riuscì a rendersi indispensabile anche in un altro modo che, in caso di riuscita, avrebbe apportato anche allo Stato il tanto desiderato aiuto finanziario.

Valdes infatti non aspirava a minor cosa che a diventare Primate della Spagna, carica la cui rendita veniva stimata a centocinquanta o duecentomila ducati. Per poter renderci conto dell'audacia di questo progetto é necessario esaminare la posizione del Principe Arcivescovo Carranca.
Bartolomeo de Carrenze y Mirander nacque nel 1503. All'età di dodici anni venne assunto all'Università di Alcale; all'età di diciotto fece il voto dei Domenicani e fu inviato all'Università di San Gregorio a Valladolid, dove già nel 1530 si addottorò « de artibus » e divenne Rettore dell'Università. Nel 1540 venne inviato come delegato del suo ordine, a Roma, dove si addottorò con distinzione in teologia ed ottenne da Papa Paolo III la concessione di poter studiare i libri eretici all'Indice. Al suo ritorno, alla Spagna aveva già una grande rinomanza. La Suprema lo occupò molto nella lettura dei libri e particolarmente delle Bibbie scritte in lingue straniere, e persino l'India e la Galizia chiesero spesso il suo parere su libri di dubbia tendenza. Nel 1542 gli venne offerto il Vescovado di Cusco, che era la più ricca diocesi delle colonie. Egli rispose che sarebbe andato volentieri in colonia al servizio del Re, ma preferiva rimanere a curare le anime.
Alla convocazione del Concilio di Trento, Carlo V lo nominò come uno dei delegati e durante la sua permanenza di tre anni egli si meritò la fama di cristiano profondamente dotto e devoto. Quando nel 1548 il Principe Filippo raggiunse suo padre nella Fiandra, entrambi gli offersero la carica di confessore che però egli non accettò. Nello stesso anno venne nominato Provinciale del proprio Ordine religioso e Re Carlo lo delegò per una seconda volta al Gran Concilio di Trento, anche in rappresentanza di Silicco Vescovo di Toledo.

Come la prima volta egli ebbe una parte importante nel Concilio e, dopo il rapido scioglimento, rimase parecchio tempo sul luogo per studiare e condannare i libri di eresia. Nel 1553 riprese la sua attività di professore all'Università di Valladolid e quando, nel 1554, il Principe Filippo si imbarcò per l'Inghilterra, per chiedere in sposa la Regina Maria Tudor e per ricondurre l'Isola nel seno della Chiesa di Roma prese con se il Carranza come il più degno sostenitore di questo progetto.
Più tardi il Carranza si vantò che durante la sua permanenza di tre anni in Inghilterra, trentamila eretici aveva fatto bruciare, convertire o scacciare dal paese e che aveva salvato due milioni di anime per la Chiesa. Se vogliamo ascoltare i suoi biografi apologetici, egli fu l'animatore della persecuzione di Maria, e Filippo nulla fece in questioni religiose senza il suo consiglio. Quando Filippo nel 1555 seguì il padre nella Fiandra, lasciò Carranza nella Spagna, come consigliere spirituale della Regina Mary ed egli vi rimase fino al 1557. Gli eretici lo considerarono come la principale causa dei loro patimenti e più volte attentarono alla sua vita con veleno e violenza.

Quando il Carranzza nel 1557 partì con Filippo per la Fiandra, dove si occupò della stampa della sua grande opera sul Cattolicesimo nonché di esaminare e trattenere i libri eretici destinati alla Spagna, Filippo in segno della sua fiducia gli offerse l'Arcivescovado di Toledo, ma Carranza non accettò la brillante carica.
Filippo non cedeva e ha anzi imposto a Carranza di fare la comunione nonché la confessione nel vicino monastero prima che egli ritornasse lasciando ordini in questo senso scritti di proprio pugno. Carranza ha dovuto cedere a condizione però che giacché la guerra farà ritardare la pubblicazione dell'enciclica papale, il re avrà facoltà di scegliere un'altra persona per questo posto molto decoroso.
La promozione di un semplice frate al posto più alto della Chiesa di tutta la Spagna agiva da doccia fredda su molti ambiziosi ed era inevitabile che suscitasse molte inimicizie. Probabilmente lo stesso Valdés ha avuto mire di procurarsi per sé il posto ed essendo stato soppiantato da un altro, questo fatto ha ridestato in lui un. sordo rancore. Carranza oltre tutto non era popolare nella gerarchia della Chiesa. Era ritenuto un essere indesiderabile che tendesse sempre a istituire delle riforme le quali potevano essere delle necessità, ma il riformatore é guardato tuttavia sempre con diffidenza da quelli che in conseguenza delle innovazioni perdevano l'usufrutto delle istituzioni già in vigore.
All'infuori di tutto ciò Carranza aveva anche un temibile nemico nella persona di un frate domenicano di nome Melchor Cano, il quale disponeva di larghe cognizioni in materia ecclesiastica e come capacità intellettuali sorpassava non di poco Carranza stesso. Nella loro giovinezza, quando ambedue esercitavano l'insegnamento in qualità di professori, erano già dei rivali e questa rivalità continuava anche in seno all'Ordine al quale ambedue appartenevano e dove avevano modo di gareggiare, trattandosi di questioni riguardanti gli affari interni dell'Ordine. Cano non dissimulava la sua invidia verso l'antico compagno per la sua rapida promozione.

Quando Papa Paolo IV costringeva re Filippo alla guerra, questo Sovrano profondamente religioso ha voluto dei consigli di teologi per sapere se era lecito a un re di condurre guerra contro il Papa; la risposta al re fu redatta da Cano e suscitava molto scalpore dappertutto. Il documento in questione era tutto in favore del Re e dichiarava legittimo il « Centro Gravanime » dei Tedeschi, il quale alla Dieta di Norimberga dell'anno 1552 dichiarava Roma corrotta ed inguaribile. Questo audace attacco esasperava il Papa Paolo, che con suo editto del 21 Aprile 1556 intimava a Cano di venire a Roma, affinché questo eretico potesse essere interrogato e il suo caso, entro sessanta giorni, potesse essere chiarito. L'editto in parola venne però intercettato dal Consiglio del Re che proibiva a Cano di lasciare il territorio del Paese. Tutti gli Ordini Domenicani si erano messi a sua difesa. Per di più nell'anno 1558 eleggevano Cano a loro Capo Provinciale nominandolo nello stesso tempo quale loro rappresentante a Roma. La nomina venne però annullata dal Papa che esigeva anche che Cano fosse deposto da Capo Provinciale. Cano si lamentava che tanto il Re Filippo quanto Carranza gli prestassero solo una debole difesa contro il Papa ed é comprensibile così come egli in seguito si trovasse in uno stato d'animo tale che in ogni momento era disposto di rivolgersi contro un altro più fortunato di lui.

In questo momento così infelice Carranza era il primo fra quelli che potevano servire da facile bersaglio a tutti quelli che meditavano attacchi contro di lui. Giudicando i suoi scritti Carranza era troppo impulsivo e nello stesso tempo poco cauto nelle sue orazioni. Egli voleva seriamente ristabilire l'antica purezza della Chiesa e perciò non tentava di nascondere o coprire le sue debolezze e il suo stato corrotto. In quei tempi la fama delle scissioni lutheriane non aveva raggiunto ancora la Spagna e pochi sapevano di quelle discussioni che hanno scosso l'unità della Chiesa.

Carranza era in rapporti confidenziali con molti eminenti personaggi il cui arresto, avvenuto nel 1558 per lutheranismo suscitava tanto scalpore. Questi personaggi naturalmente facevano di tutto per utilizzare i loro rapporti con Carranza in pro della propria difesa, ma i loro sforzi non valevano nulla di fronte alle dichiarazioni di Fra Domingo de Rojas, di dichiarazioni fatte poche ore prima della sua esecuzione allo scopo di liberare la propria coscienza. Fra Domingo dichiarava di non aver riscontrato nulla in Carranza che non fosse in perfetta armonia con le dogme, definizioni ed usi della Chiesa e quando si trattava dei seguaci di Luthero le sue asserzioni erano ferme e decise: questi eretici sono venuti fra noi direttamente dall'Inferno e le loro teorie possono essere facilmente confutate; anche loro stessi hanno fatto responsabile Carranza per ogni minimo errore dogmatico. Un certo Gul Tiboboli ha voluto difendersi col dire, che una volta anche egli ha sentito Carranza predicare nella Chiesa di Sant'Agostino, fra candele accese e sante immagini ed egli avrebbe detto che la confessione é dovuta a Dio e non al sacerdote. Una dichiarazione simile era troppo grossolana affinché possa essere creduta ed anzi ha servito a indebolire anche altre asserzioni di questo individuo; é chiaro che qualora Carranza avesse tenuto simili prediche nelle Chiese, l'Inquisizione sarebbe presto venuto a saperlo e lo avrebbe punito.

In questo punto critico Carranza ha lasciato campo libero ai suoi nemici. Negli intervalli del suo inseguimento si occupava in Inghilterra e nelle Fiandre di una grande Opera nella quale descrive le verità intangibili della Fede e difende il Popolo dai veleni dell'eretismo. Era questo un compito al quale egli non era precisamente adatto in quei tempi, perché egli era un pensatore troppo rapsodico ed anche uno scrittore senza un metodo prestabilito. Si approfondiva in una idea dopo l'altra, seguendo le tutte fino a un certo punto, lasciandole poi insolute. Ma era in cambio onesto quale Riformatore, rimanendo sempre entro i limiti della Chiesa stessa, scoprendo però tutte le corruzioni, come facevano gli eretici per altri scopi, la qual cosa suscitava l'ira della gerarchia imperante.
Non credo che chiunque possa sfogliare le pagine delle sue « Analisi » senza ritrarne l'impressione e la sicura convinzione, che Carranza era davvero un cattolico sincero e credente, anche se certe sue affermazioni apparissero troppo audaci. Anche la sua fede ortodossa non fu però troppo accademica. Egli apparteneva ai combattenti della Chiesa i quali nutrivano odio profondo contro gli eretici scattando contro di essi ogni qual volta osassero attaccare la Fede. Il dovere del Re si poteva riassumere nel compito di mantenere le sue province nella unica Fede vera, castigando quelli che peccavano contro questa Fede.
Gli eretici si castigavano da sé, perché anche se avessero fatto dei miracoli, la loro vita disordinata, la loro morale corrotta da sole bastavano a discreditarli di fronte al popolo. Se non confessavano le loro colpe dovevano essere condannati a morte. Questa era la migliore teoria che un cristiano doveva applicare. In un'epoca però, quando molti leggevano la teologia, pochi potevano farsi un'idea chiara fra tanti pensieri disordinati. Era quindi facile ai nemici di Carranza di scegliere qualche asserzione in varie parti del suo libro presentandolo poi al Re come individuo sospettoso nei confronti della Fede. Ciò preoccupava anche Carranza il quale faceva stampare il libro ma facendolo però circolare fra il pubblico con una certa precauzione. Alcuni manoscritti ha spedito a Alcamize Martini e quattro dozzine di copie ha fatto introdurre in Spagna di contrabbando, dove sono pervenuti nel 1558.
Il vescovo di Cuenza Pedro de Castro se ne procurava una copia comunicando subito a Valdés, che Carranza scrive degli errori dogmatici e che fa lega con gli eretici. Valdés non lasciava scappare l'occasione e incaricava Cano di esaminare il libro. Cano prendeva con se quale aiuto Fra Domingo de Cures e facilmente poteva trovare 101 asserzioni di sapore eretico. In questo modo i preparativi per una serie di interrogativi sono stati eseguiti, con risultati che ammettevano pochi dubbi, ammesso che il Papa e l'Inquisizione avessero a dare l'autorizzazione per un aperto attacco contro il Primato della Chiesa Spagnola.

Malgrado la segretezza che avvolgeva ogni attività dell'Inquisizione era inevitabile che in un affare di così grande importanza non succedesse qualche indiscrezione e così Carranza, che era in Fiandra, veniva a sapere dei preparativi contro di lui. I suoi amici lo sconsigliavano di tornare in Spagna e lo scongiuravano di fuggire a Roma sotto la difesa del Papa. Carranza però sapeva che con un passo simile verrebbe a perdere per sempre i favori di Filippo, perché la gelosia era tradizionale fra il Re e l'Inquisizione già dai tempi di Ferdinando ed Isabella. Ugualmente sapevano tutti che nel 1530, quando Carranza soggiornava a Roma, domandava in iscritto a Valdés, quali scrittori ecclesiastici doveva studiare per comprendere la Sacra Scrittura, dato che tale materia aveva scelto all'Università di Valladolid. Tale lettera aveva anche essa un tenore eretico e fu da Valdés acclusa alle 101 affermazioni di Carranza.
Valdés ancora nell'anno 1539 non era ritenuto un eretico e perciò il suo atto aveva un certo peso. In quei tempi di lotta mortale col protestantesimo la filosofia nella teologia non era un mestiere facile. Ci voleva attenzione a ogni passo altrimenti la censura qualificava ogni espressione un po' dubbia come eresia. Soprattutto uno scrittore della tempra di Carranza era esposto a questi pericoli. Non c'é dubbio che Carranza era anche in rapporti confidenziali con qualcuno di quei personaggi che furono poi arrestati per adesione ai principi di Luthero.
Non si sa se le confessioni di questi lutherani fu presa o no in considerazione ma fatto sta che l'inquisitore Capo Valdés non perdeva tempo per mettere Carranza in cattiva luce. In un rapporto indirizzato al Re, chiedeva il suo appoggio per poter catturare un disertore, il quale intendeva imbarcarsi per le Fiandre, insieme con Fra Juldan de Villafranca per trovare asilo presso Carranza. Ogni prova che si trovava contro questi due fu presentata ai Sovrani e le supposizioni figuravano come fatti per incolpare sempre più il Carranza.
Fino a questo momento però poco nuocevano a Carranza, perché quando egli manifestava la sua intenzione di imbarcarsi per la Spagna aveva ricevuto istruzioni particolari dal Re con le quali il Sovrano manifestava per lui tutta la sua fiducia. Il Re disponeva che Carranza andasse direttamente a Valadolid dove potrà prelevare i denari di cui aveva urgente bisogno ed in seguito andasse a trovare il suo fratello maggiore Mario che doveva persuadere a recarsi nelle Fiandre. Da Valladolid doveva recarsi a Yuste per trovare suo padre ed in seguito recarsi poi da Filippo il quale ancora aveva tanta fiducia in lui di confidargli tutte le sue intenzioni anche le più segrete. Carranza però non approfittava di questa fiducia. Arrivando il giorno 13 a Valadolid si perdeva in trattative inutili, solo per controbilanciare gli intrighi di Valdés. Adempiendo in seguito alla sua missione presso Mario solo in Settembre proseguiva per Yurto. Qui però era pervenuto dalle mene di Valdés. Una lettera della Regina Jana mette in guardia il Re (per istigazione di Valdés) a prestare attenzione a Carranza, che coltivava relazioni con i prigionieri lutheriani in modo che qualora non fosse quello che era, sarebbe già da lungo tempo arrestato.

Il re Carlo attendeva Carranza impaziente ma attendeva anche spiegazioni da Filippo prima di recarsi nelle Fiandre. L'inspiegabile ritardo nell'arrivo di Carranza da Yuste non serviva a metterlo in luce favorevole e perdeva così anche l'occasione di spiegarsi perché prima di arrivare il Re cadeva ammalato, ed il 20 Settembre all'alba spirava. L'estrema unzione e l'assoluzione furono impartite da Carranza e il modo come assolveva queste funzioni fu uno dei punti di imputazione contro di lui.
Con la morte del Re Carranza ha perso il suo ultimo amico l'unico, forse, che poteva impedire la sorte che l'attendeva.
Il piano di Valdés era già maturo per poter richiedere l'autorizzazione del Papa che sola mancava per iniziare il processo. La Suprema indirizzava il 9 settembre una lettera a papa Paolo lodando l'opera di Valdés il quale faceva di tutto per neutralizzare la nefanda attività dei seguaci di Luthero.
In questa lettera la Suprema abilmente disegnava il pericolo che attendeva la Chiesa in seguito all'opera dei seguaci di Luthero accentuando che la simpatia con gli eretici minacciava di infettare perfino gli uomini dell'Inquisizione. Perciò urgeva un editto col quale dare la possibilità di poter arrestare tutti i colpevoli, anche se trattavasi di alti dignitari della Chiesa. Con tutto ciò si voleva privare Carranza dal suo diritto di essere giudicato dal Papa. Il canonico Oviedo, nipote di Valdés, fu inviato a Roma per ottenere dal Papa il brevetto in questione.

Nel frattempo Carranza tentava inutilmente di procurarsi il testo della censura del suo libro per potere confutarlo. Inutilmente sollecitava i suoi amici alla corte di Filippo ed a Roma e quindi doveva umiliarsi e scrivere a Sancio Lopez de Otalora, membro della Suprema acconsentendo al sequestro del suo libro in Spagna a condizione che il suo nome non venisse menzionato. Per tale suo atto fu accusato di debolezza, ma non si vede quale altra possibilità poteva scegliere.
In seguito faceva ancora di più. Tentava di corrompere Melchor Cano, impegnandosi di fare tutto ciò che egli potesse consigliargli. Cano, con la sua falsità prometteva tutto, dicendo più tardi che il destino di Carranza sarebbe stato differente se egli seguiva i suoi consigli.

Verso la fine di Novembre Carranza tornava a scrivere alla Suprema e a molta gente influente, promettendo la sua assoluta dedizione, spiegando i motivi che l'hanno spinto a scrivere il suo libro ed il perché continuava scrivere in spagnolo quello che fu iniziato in latino. Il 10 dicembre proponeva alla Suprema di proibire il libro in lingua spagnola e di restituirle il manoscritto in latino affinché egli lo potesse correggere. Se Valdés avesse avuto l'intenzione di salvaguardare la causa della Fede queste umiliazioni dovevano bastargli. Il sequestro del libro e l'umiliazione pubblica del Vescovo di Toledo sarebbe stato un memento per tutti i teologi indiscreti. Invece Carranza non raggiungeva altro risultato che di rincuorare i suoi nemici i quali mentre attendevano che il Papa decidesse, rispondevano intanto a Carranza con vaghe promesse.
Così stavano le cose quando Carranza arrivava a Toledo il 31 ottobre ed iniziava ad assolvere i suoi doveri sacerdotali. Celebrava con severità rituale la santa messa, visitava gli ospedali, le prigioni e i monasteri. Faceva cessare il commercio con i contratti matrimoniali, la compra-vendita di impieghi, esaminava i permessi rilasciati dimostrandosi un riformatore in pratica come in teoria. La sua beneficenza non conosceva limiti ed usava dire che a lui bastava il saio dei Domenicani e tutto il resto regalava ai poveri. In 10 mesi distribuiva così 80.000 pezzi d'oro a beneficio dei poveri, liberazione di condannati, appoggio alle vedove ed orfani, degli studenti e delle chiese povere. Era un vescovo esemplare e benvoluto in tutta la sua diocesi.
Non gli dispiaceva però di ricevere delle buone critiche sul libro da noti teologi. Di fronte all'opposizione dell'Inquisizione era una cosa arrischiata di lodare il suo libro ma ciò nonostante quasi tutti i teologi spagnoli hanno dato le loro lodi sul libro. Tutte le opinioni concordavano con quello di Pedro Gurrero -- il più valoroso fra tutti i teologi spagnoli - il quale dichiarava che il libro di Carranza é scevro di ogni difetto e dato che il libro é scritto in lingua castigliana é soprattutto utile ai preti di Castiglia i quali non comprendono il latino. Dunque il libro dovrà essere diffuso con ogni mezzo. La stessa opinione lusinghiera hanno dato Domingo e Pedro de Soto, Blanco de Oreuse, Questa de Leon, Dalgada de Lugo e molti altri.

Valdés correva ai ripari per pubblicare l'opinione contraria dell'Inquisizione. Quando all'Università di Alcala il Rettore, il Decano e ventidue Professori unanimi dichiaravano il libro eccellente e senza difetti, Valdés si permetteva di dire che altri hanno opinione diversa da loro.
A Roma intanto Valdés e Oviedo hanno raggiunto il successo, grazie a una lettera privata di Filippo, cosa però quest'ultima non tanto attendibile. Il brevetto papale é uscito il 7 Gennaio 1559 indirizzato a Valdés, il quale veniva autorizzato di arrestare immediatamente qualunque prelato sospetto di eretismo, appena si abbiano delle prove. Qualora si dovesse temere l'evasione del prigioniero, esso deve essere inviato al Papa, insieme ai documenti che si riferiscono al caso.
Il brevetto fu recapitato l'8 Aprile ed invece invitare Carranza di recarsi a Roma, hanno iniziato la procedura segreta contro di lui. Il fisco ha presentato la calanosa ovvero l'imputazione scritta che concludeva per l'arresto di Carranza con sequestro dei suoi beni, per avere lui professato la fede di Luthero, avere scritto e pronunciato delle prediche in questa fede errata. Prima però di procedere oltre hanno voluto sollecitare il benestare di Filippo il quale già il 14 Aprile ha scritto a Carranza : « Non volevo ancora fare dei passi a favore del Suo libro, prima che arrivi la persona che mi é stata avvisata. Oggi esso é arrivato e non volendolo trattenere molto affinché possa presto portarLe le buone notizie, dico solo che Ella non deve rivolgersi che a me per aiuto, ogni altro Suo passo sarebbe fuori mano e lo troverei poco utile ». Si vede che Filippo credeva trattarsi solo del libro di Carranza e non già della sua persona, e credeva anzi che si trattasse di una cosa poco importante non meritevole nemmeno di essere inoltrata fino a Roma.

Quando i Domenicani si radunavano nel 1559 scoppiava l'odio apertamente fra Cano e Carranza e Cano dichiarava il Priore domenicano (Carranza) più eretico dello stesso Luthero accusandolo di cospirare con Cazalla ed altri prigionieri.
Carranza reclamava la punizione del calunniatore e credeva di averlo fatto cadere da candidato al' posto di Provinciale. Invece le sue accuse furono accettate e lui nominato Provinciale. A Carranza non rimaneva altro che di recarsi a Roma per fare le sue lamentele.
Tutte queste cose furono abilmente sfruttate contro Carranza, anche da parte di Filippo. Esso nella sua lettera indirizzata al suo confessore Bernardi de Fresnada si lagnava che tutti sono contro di lui. Egli era sempre amico di Carranza, lo appoggiava in tutto e per tutto e Carranza lo ripaga intrigando contro di lui a Roma. Cano poi aggiungeva che il Vescovo lo offende in ogni possibile occasione per mezzo del suo messo italiano, e lui é costretto di subire tutto. Egli si é deciso di subire tutto ma se il Re non si decide di venire in Spagna le cose si metteranno male. Il 29 magggio finalmente Cano fu visitato da una delegazione che le portava la nomina a sostituto Inquisitore Capo incaricandolo di raccogliere delle prove per poter costringere tutti di rispondere ai suoi quesiti.
Filippo sapeva già dal Cardinale Pacheco che Carranza aveva inviato le copie del suo libro al Papa a Roma ed anche se egli aveva intenzione di mantenere le sue benevolenze verso Carranza, certo é che non ha potuto impedire la nomina di Cano. Il 26 Giugno il Papa scrive a Cano assicurandolo della sua benevolenza e nello stesso tempo il Papa scriveva anche alla Suprema dando il suo benestare a questo Consesso per l'azione svolta di fronte al libro di Carranza esprimendo la sua convinzione che la Suprema agirà correttamente. Avendo così il Papa autorizzato l'Inquisizione a fare come le pare, dava ordine di rispettare la dignità del Principe Primato ordinando la Principessa Juana di invitare Carranza a Valladolid, per trattare argomenti importanti, di modo che nella sua assenza si potesse svolgere la procedura giudiziaria.

La lettera di Filippo arrivava il 10 Luglio ma succedeva un contrattempo perché la Principessa Juana invitava Carranza a Valladolid solo il 3 agosto, dove fu preparato per lui un appartamento. Questa lettera fu spedita alla Suprema con istruzioni segrete per mezzo di Rodrigo de Castro. Carranza soggiornava appunto in Alcala de Heneres dove fu raggiunto da Diego Ramira, l'inquisitore di Toledo che arrivava col pretesto di pubblicare l'editto per la pace. Carranza sospettava nell'invito a Valladolid un tranello e voleva rimettere il suo viaggio fino all'arrivo di Filippo sul cui appoggio contava ancora e che doveva arrivare in Spagna.
Per tale ragione ha voluto prima eseguire sopralluoghi nella sua diocesi durante questo suo viaggio veniva a sapere da Fra Pedro de Soto la novità che gli agenti sono già in viaggio per arrestarlo e subito scriveva una lettera disperata a Frasnedo, confessore del Re.
La notizia avuta da de Soto era vera. Valdés temeva l'arrivo di Filippo come Carranza lo sperava. Valdés voleva impedire che Carranza si recasse a Valledolid e per la riuscita dei piani di Cano era necessario che in assenza del Re si facesse un passo decisivo per compromettere Carranza, di modo che il Re non potesse più intervenire. Se si concedeva che Carranza restasse a piede libero mentre il suo caso verrà esarninato dall'Inquisizione , era sempre possibile l'intervento del Re, mentre se egli sarà arrestato il Re non potrà più aiutarlo. Perciò il 7 Agosto la Suprema nominava una commissione in base al brevetto papale per trovare una formola per l'arresto di Carranza. Valdés in seguito incaricava de Castro, Diego Gonzales e Diego Ramires, inquisitori di Valledolid di arrestare immediatamente Carranza, imprigionarlo e sequestrare tutti i suoi scritti, i suoi libri e tutti i suoi beni mobili. Juan Clorian, incaricato della Suprema di Alguazil doveva coadiuvare gli inquisitori nell'arresto del Principe Primato e nel sequestro dei suoi beni.

Gli inquisitori arrivavano insieme, scortati da un gruppo di servi i quali montavano le scale alle due di notte e catturavano le persone di servizio. Un gruppo, fra i quali erano De Castro, Ramirez, Cebrian ed altri si sono avvicinati all'appartamento di Carranza, bussando alla porta. Fra Antonio de Utilla domandava dall'interno chi era che bussava ricevendo questa risposta : Aprite all'Ufficio Santo.

De Castro, entrando con le lacrime agli occhi, domandava il perdono a Carranza dicendosi dolente di dover compiere questo atto. Carranza rispose così
- Questi Signori non sanno che loro non possono giudicarmi. Io appartengo direttamente al Tribunale Papale.
Per tutta risposta De Castro levava di tasca il brevetto papale, leggendolo ad alta voce. Alcuni dicono che al sentire il brevetto Carranza cadeva svenuto mentre altri dicono che il brevetto non esercitava su di lui nessuna impressione.
Subito allontanavano i servi della casa lasciando accanto a lui solo Domingo Ximenes, il quale serviva per aiutare le operazioni di sequestro e conteggio dei beni. Alla mensa servivano Castro e Ramirez, i quali dimostravano per Carranza grande rispetto facendo di tutto per consolarlo, dato che man mano egli diventava più apatico. Carranza faceva chiamare i suoi servi ed impiegati licenziandoli tutti dopo averli pagati. L'affanno dei fedeli impiegati commuoveva tutti i presenti. Solo il cuoco e il cocchiere erano rimasti per servire i signori. Alle ore nove di sera veniva affisso un cartello che proibiva a tutti di lasciare la casa e di guardare fuori della finestra. De Castro e Camirez hanno scortato Carranza giù nelle scale, hanno fatto salire su un mulo e circondato con quaranta cavalieri che poco dopo si mettevano in viaggio. Con un caldo terribile veniva raggiunto Lozoca alle dieci del mattino, dove si fermavano per riposare. Il giorno 21 erano a Lacma Duero vicino a Valodolid. Qui De Castro e Ramirez si separavano dagli altri cavalcando avanti, ma ritornavano lo stesso giorno, accompagnando poi Carranza in città, dove oltre i muri lo alloggiavano nella casa di Gonzales de Leon, espressamente affittata dall'Inquisizione.
Carranza é sparito così senza che chiunque sapesse dove si trovasse. Era necessario che lo nascondessero così invece di imprigionarlo pubblicamente, data appunto la sua alta posizione ecclesiastica. Morales ci racconta che passavano alcuni anni prima che il luogo della sua prigionia venisse conosciuto, benché tutti sapessero che egli fosse stato arrestato dal Santo Ufficio. A Toledo nessuno dubitava dell'arresto, perché la notizia di questo arrivava là il giorno 24. Il giorno 26 si radunavano i capi della diocesi per determinare i passi da intraprendere in favore dell'amato prelato. Erano però incapaci di escogitare qualunque passo e si limitavano soltanto a inviare due rappresentanti per un soggiorno stabile a Valladolid affinché si tenessero a disposizione del loro vescovo. Manifestavano pubblicamente la loro simpatia verso l'arrestato facendola pervenire al suo avvocato, dato che ogni comunicazione diretta con l'arrestato era assolutamente esclusa.

Durante il lungo dibattito fu conservata una uguale linea di condotta dalla diocesi ed anche quando il prigioniero fu trasferito a Roma, i suoi fedeli gli erano sempre vicini con le loro simpatie. Al Re Filippo la diocesi inviava mensilmente una lettera di supplica chiedendo un sollecito disbrigo della pratica. Anche l'Ordine dei domenicani aveva fatto tutto ciò che poteva risentendo profondamente l'ingiustizia fatta a un eminente membro dell'Ordine. La stessa Chiesa spagnola appoggiava quanto poteva il suo capo arrestato, perché non si sapeva cosa potrebbe portare il domani e chi potrebbe essere preso di mira in seguito dall'Inquisizione.
Filippo sbarcava a Loredo il 20 Agosto. Valdés sentiva la necessità di motivare davanti al Re l'arresto di Carranza e gli dimostrava che non si poteva fare tabula rasa con i seguaci di Luthero finché Carranza era a piede libero.

Carranza fu trattato in prigione meglio che gli altri prigionieri segreti. Gli fu concesso la scelta degli attendenti ed egli desiderava averne almeno sei; ne furono però autorizzati solo due. Per i bisogni corporali mettevano a loro disposizione due camere chiuse a chiave e chiuse restavano anche le imposte. Ne conseguiva che l'aria presto diveniva infetta e minacciava l'eventualità di gravi malattie. Il medico della prigione ordinava la ventilazione delle camere due volte al giorno ma la Suprema non concesse che l'apertura di una piccola fessura nella porta. Ogni contatto quindi con il mondo esteriore era reso impossibile, tanto é vero che una volta, quando in città imperversava un incendio durato trenta ore, i prigionieri non se ne accorgevano neppure. Per condurre il dibattito contro il prigioniero, fu incaricato Diego Gonzales, uno degli inquisitori a Valladolid il quale stendeva un lungo rapporto alla Suprema imputando a Carranza varie reati fra i quali quello di comportarsi verso di lui senza nessun rispetto facendo tutto il possibile per impedire i suoi contatti con la Suprema stessa.
Il dibattito si iniziava il 14 settembre e, dato che non volevano condurre il prigioniero davanti al Tribunale, la Suprema stessa si recava nella prigione con a capo Valdés. Dopo aver fatto giurare l'imputato si procedeva alla scelta dei giudici.
Carranza rifiutava prima di tutto Valdés per i suoi sentimenti contrari a lui. Ugualmente rifiutava André Perez, vescovo di Ciudad, Rodrigo e Diego Cabos, vescovo di Jaon. Questi rifiuti davano luogo a lunghe contestazioni. Ci volevano nuovi giudici. Gli amici di Carranza e i Domenicani facevano di tutto per far trasferire la causa a Roma ma in quei tempi la volontà del Re Filippo era per Papa Pio IV come una legge. Il Papa con suo decreto del 14 maggio autorizzava il Tribunale di chiedere dal Re la nomina di due giudici in seno della Chiesa i quali dovevano portare a termine il dibattito. Questo significava che la giustizia procederà innanzi e significava quindi l'aggravarsi della posizione di Carranza.

Re Filippo ritardava la nomina dei giudici di oltre un anno, ed aveva le sue buone ragioni, dato che tutti i proventi dei beni sequestrati a Carranza andavano a profitto del Re stesso. La prova di ciò é in una lettera scritta dal Re con la quale egli regalava 12 mila pezzi d'oro al movimento per la Crociata di Toledo procurandosi così la simpatia del Cardinale Caraffa e l'adesione degli spagnoli al movimento delle Crociate.
Si comprende così perché il supplizio di Carranza si prolungava sempre di più. Il primo brevetto contro di lui perdeva validità nell'aprile del 1561 ma fu prolungato con atto successivo del Papa ancora di due anni; nel 1563 la validità di esso fu protratto ancora di un anno ma nello stesso tempo il Papa richiedeva per Carranza un trattamento migliore in prigione.
Finalmente Filippo non poteva più prorogare la nomina dei giudici e designava il 13 marzo 1561 quale giudice il Principe Primato di Santiago Igsor Zuniga il quale prendeva con sé, come giudici ausiliari, i vescovi Vallodand e Simancas, ambedue membri della Suprema e nemici acerrimi di Carranza. Carranza persisteva nel negare tutte le imputazioni mossegli e finiva di cadere così nel potere assoluto di Valdés il quale, per giunta, veniva dispensato da ogni responsabilità diretta.

Carranza, naturalmente, rifiutava di riconoscere i suoi giudici con la motivazione che essi davano il loro voto per il suo imprigionamento, ma Valdés rigettava la motivaziodne dicendo che in queste condizioni nessun accusato potrebbe essere giudicato. Un mese dopo concedevano a Carranza di scegliersi un difensore. Questo fu un buon augurio, perché generalmente il difensore fu comandato d'ufficio. Carranza sceglieva, quali difensori, Carranza Martin di Aspicueta e Alfonso Delgaado e quali supplenti difensori Santandar e Moreles dei quali però in seguito non ci sono menzioni. Dopo due anni dall'arresto si iniziava il processo.
Le regole dell'Inquisizione ammettevano tre appelli entro dieci giorni dall'arresto. Carranza, prima di tutto, desiderava sapere la causa del suo arresto. Si vede che egli non conosceva le regole dell'Inquisizione che teneva sempre in segreto i motivi degli arresti; intimavano invece a Carranza di esaminare la sua coscienza e di fare la confessione domandando la grazia d'Iddio. Il 1° settembre si redigeva la prima imputazione che consisteva di 31 paragrafi, e l'imputato doveva rispondere punto per punto. Dato che a Carranza veniva rilasciato solo la copia dell'imputazione egli reclamava l'originale che gli fu però rifiutato. Il sistema dell'Inquisizione era di rifiutare persistentemente le domande degli arrestati.

L'imputazione fu raccolta dalle confessioni degli eretici e dagli scritti di Carranza. Si trovavano in esso brani dagli scritti di Carranza di quarant'anni fa, brani delle sue prediche, scritti nel tempo dei suoi anni da studente e composizioni teologiche mezzo terminate. Egli doveva rispondere così, davanti ai giudici male intenzionati per l'intera sua azione teologica senza sapere da che fonte venissero le imputazioni. Non bisogna però credere che questa fosse stata una procedura straordinaria, dato che l'Inquisizione seguiva lo stesso sistema con tutti gli imputati.
Passava così un anno e il fisco presentava un'altra imputazione; si voleva così protrarre la prigionia dell'imputato. Anche il prigioniero redigeva la sua difesa per mezzo dell'avvocato difensore.

Nel 1562 Carranza appellava al Re ricordandole la sua promessa di avere sempre fiducia nel suo appoggio. Ricordava al Re di essere in prigione già da tre anni e che il suo supplizio non accennava a finire. I quesiti si succedevano uno dopo l'altro e questi non si poteva o non si voleva mai definire. Il 10 gennaio il difensore di Carranza si rivolgeva al nuovo Principe Primato pregandolo di venire personalmente oppure munire di pieni poteri i suoi incaricati.
"In nessuna parte del mondo - diceva il difensore -- la giustizia é servita in così malo modo » e supplicava il Re di rimettere la causa al Papa oppure permettere che ciò facesse l'avvocato. Non si sa se questo appello disperato, lanciato dal fondo dell'inferno, sia giunto al Re, ma fatto sta che in seguito non successe nulla.

La cosa ormai si gonfiava sino a diventare uno scandalo che interessava tutta l'Europa. I vescovi che si radunavano già per la terza volta, dichiaravano essere questo una vergogna della Chiesa e un'offesa all'Immunità dell'Ordine religioso.
Filippo ben sapeva tutto ciò e nelle sue lettere datate al 30 ottobre e 15 settembre ordinava ai suoi luogotenenti di Trant e al suo ambasciatore di Roma Varges di influire sul Papa di non immischiarsi negli affari dell'Inquisizione. I Legati rispondevano a Filippo, nel 1563, di insistere per ingrossare ancora l'affare e di inviare gli atti a Roma. Papa Pio, viceversa, fingeva un disinteressamento ed in seguito alimentava la causa ma solo fino al punto di non irritare Filippo.
C'era ancora un'altra maniera per appoggiare Carranza. Le Congregazioni avevano un Consiglio il quale teneva in continua evidenza i libri messi all'Indice. Le « Annotazioni » venivano esaminate da questo Consiglio il quale dichiarava il libro scritto in spirito cattolico e che può essere letto da chiunque. Di questo giudizio favorevole veniva anche redatto un giudizio scritto che in seguito fu dato alla stampa. Il Papa concedeva il permesso della lettura del libro. Il Consiglio però non fu unanime nel giudizio e nel seno di esso si delineava una scissione in modo che il decreto favorevole dovette essere ritirato.
Intanto la causa andava piano piano avanti; oltre la perdita dei suoi beni Carranza si preoccupava anche della lotta intrapresa con Roma. Ormai l'Inquisizione mirava di forzare il consenso di Roma affinché i vescovi e grandi dignitari della Chiesa potessero essere giudicati solo dall'Inquisizione.

Per dire la verità il Papa era in disagio per la posizione di inferiorità rispetto all'Inquisizione. Scriveva parecchie volte al Primato dí Santiago biasimandolo per i ritardi verificatesi e per la lunga prigionia inflitta a Carranza, fissando quale termine per la conclusione della causa, il 1° gennaio 1564, diversamente la causa sarebbe stata trasferita a Roma. Si giungeva al termine stabilito senza che la causa fosse finita e il Papa nuovamente esprimeva la sua indignazione che "un uomo della tempra di Carranza dovesse trascorrere la sua vita eternamente in prigione, sotto terra, dove la legge e la giustizia sono sconosciute". Dava contemporaneamente ordine che la causa fosse trasferita a Roma. Qualora non verrà ubbidito, il Papa minacciava la scomunica a tutti i colpevoli e la rimozione dalle dignità ecclesiastiche. Ordinava di consegnare il prigioniero al Nunzio od almeno di trasferirlo in una prigione più sopportabile salvo lasciarlo libero contro una garanzia pecuniaria.

Vedendo la cosa giunta a questo punto Filippo inviava Castro a Roma il 24 novembre 1564 con la missiva di rendere il prigioniero all'Inquisizione e procurare quanti amici può alla causa.
Castro incominciava col chiedere che la pratica fosse consegnata all'Inquisizione ma trascurava di ripetere la domanda in iscritto ed il Papa perciò rigettava la richiesta. Castro chiedeva udienza e rimproverava al Papa di non aver mantenuta la sua parola. Il Papa scattava e rispondeva che la pratica apparteneva a lui ed egli farà ogni modo come meglio crede. Castro allora si recava dal Cardinale Borromeo dichiarando che qualora il Legato di Francia si recasse in Spagna non sarà considerato quale ambasciatore. Il Legato francese viceversa, furbescamente, assicurava il Re che in caso del siluramento dell'affare Carranza l'ambasciata di Francia procurerà dei fondi alla tesoreria.

La Santa Sede inviava allora un Legato speciale « a latere » a Madrid il quale comunicava al Papa che in Italia desta molta paura l'Inquisizione spagnola. Nell'intento di far assolvere Carranza, il Legato scriveva al Cardinale Borromeo dicendo che il Papa può fare di più di quello che aveva fatto finora per soddisfare il desiderio del Re; il Legato si rivolgeva perfino contro il diritto canonico, contro il Consiglio e contro i cardinali. Fatto sta che questa cosa premeva al Papa che faceva una questione di coscienza, perfino sul suo letto di morte.
Il Papa successivo era un uomo di tempra differente. Pochi furono i Papi ai quali il cattolicesimo deve tanto come al Papa Pio V. Egli fu un persecutore indefesso dell'eretismo e nello stesso tempo lasciava campo alle riforme utili ai fini della Chiesa. Gli agenti della Spagna presto constatavano che il Papa era incorruttibile per ciò che riguarda l'affare Carranza. L'ambasciatore Zuniga, nella relazione al Re, riferiva che il Santo Padre é pieno di indole buone ma negli affari di Stato dispone di poca pratica, inoltre non guarda i propri interessi materiali, tenendo gli occhi sempre sugli interessi della verità e della giustizia. Il Papa, quale ex-Inquisitore e quale appartenente ai Domenicani aveva opinione favorevole su Carranza i cui amici cominciavano a sperare.
Il Papa non aveva bisogno di essere sollecitato. Una delle prime cose che faceva fu di inviare un messo a Buoncompageri ordinandogli di restare al suo posto e di definire la procedura. Il Legato però non aveva nessuna fiducia nella giustizia spagnola e riportava l'impressione che non c'é da aspettarsi da essa nulla di buono. il Papa allora ordinava di trasferire Carranza a Roma con tutti gli atti del suo processo. Filippo, il quale era abituato di ignorare le disposizioni papali rispondeva che l'ordine del Papa per lui costituiva un'offesa e che inoltre era in contrasto con le sue prerogative reali.

Questa audace risposta irritava ancora di più il Papa il quale rinviava Zuniga in Spagna mandando a dire, per mezzo suo, a Filippo di non sfidare la Santa Sede dato che il Santo Padre é deciso di andare fino in fondo e definire il processo.
Che il Papa faceva sul serio si poteva constatare dal suo brevetto del 30 luglio col quale il Santo Padre dichiarava scandalosa l'ingiustizia fatta a Carranza e dichiarava decaduti dal loro posto di giudici Valdés e la Suprema intimava loro sotto pena di immediata scomunica di mettere Carranza a piede libero e sotto la difesa del vicario.
Papa Pio aveva già in questi tempi la rinomanza di essere un nomo col quale non era consigliabile di permettersi degli scherzi. Sotto pena di attirarsi il castigo d'Iddio nonché degli Apostoli Pietro e Paolo, ordinava di consegnare in Roma tutti gli atti processuali, entro tre settimane, altrimenti tutti i colpevoli sarebbero stati scomunicati e privati da tutte le loro dignità.
Valdés però, e così anche la Suprema, erano decisi di sfidare il Papa e la scomunica piuttosto che lasciare libera la loro vittima, e ciò per non ledere, per nessuna ragione al mondo, le prerogative regali del loro Sovrano.

Valdés era anche disposto alla scisma ma Filippo fu contrario, non potendo ammettere di essere scomunicato dalla Chiesa lui, che portava il titolo di Sua Maestà Cattolicissima. Voleva anche considerare l'effetto favorevole all'eretismo di una sua eventuale scomunica. Perciò seguitava a tergiversare finché Papa Pio costringeva Valdés alle dimissioni e minacciava la scomunica a tutta la Spagna.
Così Valdés aveva trovato un uomo più forte di lui e doveva cedere.

Carranza lasciava Valladolid il 5 dicembre, sotto scorta militare comandata da Diego Gonzales, ed arrivava a Cartagena il giorno 31. Qui veniva nuovamente imprigionato fino al 27 aprile per attendere gli atti del suo processo. In aprile veniva imbarcato sulla nave ammiraglia del Principe Alva ed il 25 maggio lo sbarcavano nelle Fiandre. Il 28 maggio Carranza arrivava a Roma dove fu internato nella fortezza di S. Angelo e trascorreva qui il secondo periodo della sua prigionia che durava nove anni. Questa prigione non fu così ripugnante come la prima ed oltre i suoi due fedeli servitori gli furono concessi altri due. Di tanto in tanto gli fu concesso di respirare un po' d'aria fresca, però sotto scorta, e gli fuconcesso anche di confessarsi senza però poter fare la comunione.

Il processo minacciava di protrarsi anche a Roma come era successo in Spagna. Papa Pio era pieno di preoccupazioni per salvaguardare la giustizia e queste sue preoccupazioni prolungavano il termine destando delle discussioni intorno alla causa. Gli agenti dell'Inquisizione ne approfittavano. Gli atti arrivavano finalmente a Roma ma in un disordine incredibile. Si doveva poi procedere alla traduzione degli atti, lavoro che richiedeva non poco tempo. Quando tutto fu approntato, la Congregazione teneva delle sedute settimanali sotto la presidenza del Papa stesso. Gli Spagnoli esigevano la presenza del Papa a ogni seduta e dato che il Papa aveva anche altri doveri, anche con questa richiesta riuscivano a tirare le cose alle lunghe. Si perdeva così un altro anno. Filippo seguiva la pratica con grande attenzione, come dimostra la corrispondenza svolta con Zuniga.

La tattica degli Spagnoli, per portare le cose alle lunghe, raggiungeva il suo scopo. Papa Pio moriva il 1° maggio 1572 senza aver potuto pronunciare il giudizio. Se nel suo testamento parlava o no di questa causa rimase sempre un mistero.
Salasar asserisce che esisteva un testamento ma prima di comunicarlo Pio desiderava conoscere l'opinione di Filippo ed all'uopo inviava il testamento al Re per mezzo di Alessandro Casale, cameriere segreto. Alessandro però fu impedito a proseguire dal maltempo e frattanto il Papa moriva. Llorente ci fa conoscere alcuni brani del testamento che assolveva Carranza dalle imputazioni ma proibiva la pubblicazione delle « Annotazioni » in lingua spagnola, permettendo solo la traduzione latina con omissione delle espressioni che esprimevano dei dubbi. Simancas, il quale in questo tempo agiva a Roma quale inquisitore, asserisce decisamente che Pio non lasciava nessun testamento e quando gli amici di Carranza reclamavano il documento, Papa Gregorio VIII prometteva 20.000 pezzi d'oro a chiunque che libererà il Papa di dovere occuparsi con la procedura contro Carranza. Fatto sta, che anche senza testamento, Pio era convinto dell'innocenza di Carranza promettendo anche di permettere che le « Annotazioni » potessero essere liberamente vendute a Roma.
Quando l'avvocato Selgadoja appellava contro queste disposizioni del Papa, il Papa rispondeva che era meglio non persistere nell'appello altrimenti egli sarebbe costretto di approvare il libro con motu proprio. Filippo allora con tutti i mezzi a sua disposizione costringeva gli amici di Carranza di battere in ritirata. I tre vescovi, Guerero, Blanco e Delgado fabbricavano delle proposte a
centinaia, togliendone i brani dalle opere di Carranza dicendo che con questi loro atti volevano soltanto dimostrare nei scritti di Carranza il contenuto cattolico.

Mentre si avvicinava la data entro cui bisognava terminare la procedura da così lungo tempo iniziata contro Carranza, la preoccupazione del Re giorno per giorno aumentava. In una lettera indirizzata al Papa il Re sollecitava la condanna di Carranza chiedendo di essere messo al corrente del giudizio prima che questo venga pubblicato. Papa Gregorio però rifiutava di aderire a queste richieste. Il 20 aprile perveniva al Re una comunicazione segreta da Zuniga dove questo segnalava la misura della condanna ed il Re esprimeva a Zuniga la sua meraviglia sul fatto che il Papa non manteneva la parola. Per ciò che riguarda Carranza il suo eretismo era già provato regolarmente e secondo gli usi dell'Inquisizione egli doveva essere condannato di essere bruciato vivo.

Si temeva però tuttavia che il Papa potesse perdonare e lo faccia ritornare alla Sede Vescovile il che darebbe luogo a torbidi e scandali. Il Papa dovrà considerare l'effetto che il perdono e il ritorno al suo posto dell'eretico farebbe sul popolo.
Tutti questi discorsi erano però inutile perché il verdetto era già pronunciato sei giorni prima, il 4 aprile 1576. Papa Gregorio manteneva la sua parola e l' 11 aprile faceva comunicare i quesiti a Filippo che si consistevano nei seguenti punti « Il Principe Primate di Toledo lo troviamo in grande misura sospettoso in certe concezioni errate ed esigiamo che egli abbia il suo castigo. Lo sospendiamo dall'amministrazione della sua chiesa secondo quello che esigono il Papa e la Santa Sede.
Il Primate dovrà ritirarsi nel monastero di Orvieto che non potrà lasciare che con il permesso del Papa e della Santa Sede.
Il Papa nominerà un amministratore a capo della Chiesa di Toledo il quale godrà i benefici di tutti i beni ivi appartenenti ma dovrà devolvere gli utili a beneficenze. Per le spese di mantenimento del Primate il Papa pagherà mille corone d'oro mensili. Il grande catechismo, opera di Carranza sarà sospeso e ne sarà proibita la sua lettura ».

Quelle certe concezioni errate nelle quali il Primate fu trovato sospettoso sono state stabilite in 16 punti. È inutile menzionare che gli scritti necessari per riconoscere le proprie colpe furono portati nel Castello di S. Angelo, il 12 aprile dal Giantonio Fachinetti (il futuro papa Innocenzo XI) dove Carranza li firmava di proprio pugno.
La pubblicazione del verdetto avveniva con grandi cerimonie, come richiedeva l'importanza dell'affare che teneva occupata per 17 anni l'attenzione di tutta la cristianità. Il 14 aprile Carranza fu scortato dalla sua prigione nell'atrio di Costantino dove il Papa Gregorio sedeva sul trono. Intorno al Papa, sui banchi, sedevano tutti i cardinali ed inoltre erano presenti un centinaio di altre persone. La cerimonia di apertura fu svolta dal segretario del Papa Alfonso Castellan, che leggeva il documento che conteneva le imputazioni. Dopo di ciò Carranza leggeva la propria confessione, come dice Simancas, con tranquilla indifferenza, come se si trattasse del destino di un altro.
Dopo la lettura Carranza veniva condotto davanti ai piedi del Papa il quale iniziava una lunga arringa della propria pietà dicendo che Carranza poteva fidarsi di questa pietà qualora faccia di tutto per vivere una vita secondo i principi di Dio.
In seguito Carranza veniva consegnato al capitano delle guardie con istruzioni di condurlo al monastero dei frati Domenicani a Santa Maria di Sopra. Uscendo dalla porta, Carranza passava vicino al cardinale Gambera e lo pregava di fare portare la sua roba personale nel monastero.

Papa Gregorio ha avuto, in tutto questo affare, una parte poco sincera tanto più che ancora al 20 aprile comunicava il risultato a Filippo ed alla diocesi di Toledo fingendo che avrebbe volentieri perdonato a Carranza mentre fu poi costretto a castigarlo.

Sentendo il peso della propria insincerità il Papa comandava a Carranza di visitare il Sabato Santo tutte le sette chiese di Roma offrendogli i propri cavalli e la sua poltrona portatile, ma Carranza rifiutava di accettarle.
Questo fatto venne risaputo dalla popolazione e tutti si facevano avanti offrendosi di accompagnare il prelato che diveniva popolare.
Per evitare una simile dimostrazione d'affetto il Papa cambiava il giorno dell'uscita in quello di Lunedì dopo la Pasqua. Ciononostante la giornata si é poi risolta in un vero trionfo. Vi era una moltitudine di gente ed un grande numero di vetture. Nelle chiese Carranza era accolto con grande rispetto e nel Laterano celebrava lui la santa Messa. Verso sera però veniva colpito da un attacco di arteriosclerosi e doveva mettersi a letto da dove non si sarebbe alzato più. La sua malattia aveva un decorso rapido. Nel mentre lottava con la morte il Papa gli inviava dei messaggi consolatrici ed il 30 aprile gli inviava la benedizione apostolica. Ancora lo stesso giorno Carranza dichiarava solennemente davanti ai suoi Segretari di essere un fervente cattolico, voleva l'estrema unzione ed il giorno 2 maggio, alle ore 3.50, chiudeva i suoi occhi per l'eterno sonno.

Era entrato in prigione da uomo di 56 anni e ne usciva da vegliardo a 73 per entrare nel Regno della pace eterna.
Si avrebbe dovuto ordinare l'esame del cadavere dato che il popolo mormorava e dubitava che Carranza non fosse morto di morte naturale. Tale esame non fu però mai ordinato. In un epoca quando la morte di uno contrario ai dominanti era un vantaggio per questi, la repentina morte di Carranza poteva facilmente destare sospetto in tutti.

Abbiamo visto con quale energia Filippo contrariava il ritorno di Carranza a Toledo, perché se questo fosse avvenuto e Carranza poteva quindi nuovamente occupare il seggio vescovile, sarebbe stato un vero colpo per l'autorità dell'Inquisizione, ed avrebbe umiliato anche il Re, dando agio a complicazioni che -- visto la psicologia dell'epoca - sarebbero state insolubili. L'ingiustizia di cui fu vittima Carranza richiedeva anche la sua morte e la sua qualifica di eretico; egli e Filippo non avrebbero potuto esistere insieme nella Spagna.
Finché Carranza viveva era un'arma pericolosa nelle mani dei Papato. Non facciamo nessuna ingiustizia al Sovrano se consideriamo la repentina morte di Carranza quale opera dei suoi agenti
troppo zelanti oppure a un ordine segreto del Re, il quale non aveva esitato a ordinare l'uccisione di un Montigny e di un Lamoza, come ordinava più tardi l'uccisione di Escobedo e Casandas.
Morales, il quale per ordine di Filippo scriveva al Papa, diceva nella sua lettera
«Dicono che Carranza é morto come un Santo e lo credo pure io che così sia stato. Il Signore ha voluto riservarlo per un altra vita che é data solo agli eletti».

Filippo non rallentava la stretta neppure dopo la morte della vittima. Il Papa Gregorio voleva i beni del morto per sé ma nessuna potenza fu tanto forte di togliere questi al Re.


Verso la fine del 1500 fu reso pubblico quel procedimento, che si era dimostrato tanto efficace quale prova della fede. L'Inquisitore Capo Déza ordinava l'esame annuo di tutte le province e si doveva pubblicare in ogni città e in ogni borgata che tutti quelli che sapevano qualche cosa dell'eretismo dovevano uscire fuori e dire tutto ciò che sapevano, senza esitazione.
Questo proclama aveva un effetto talmente terribile sul popolo, che tutti perdevano la testa come nei tempi quando il Tribunale di Jena ordinava il saccheggio delle città.,
Passando il tempo l'Inquisizione trovava campi più larghi di agire e gli eretismi erano cresciuti fino a formare una lunga lista, tanto più che i denunciatori non mancavano mai.
Tutti i preti ricevevano l'editto che li ordinava di radunare il popolo nelle messe e scomunicare tutti quelli che non ubbidivano l'editto sopramenzionato. Tutti i partecipanti alla messa dovevano spargere in alto l'acqua santa per cacciare via i demoni i quali li tenevano nei loro artigli e dovevano pregare Iddio di ricondurli nel seno della Chiesa. Se uno é rimasto nella colpa con questo é proibito ogni rapporto sotto pena di scomunica.

Tanto quelli che dovevano confessarsi come quelli che dovevano denunciare gli altri dovevano sopportare le conseguenze dell'anatema che era pronunciata contro di loro ogni terza domenica del mese. Questo era una cerimonia che ispirava terrore. I preti erano numerosi, l'altare era coperto di nero e sull'altare venivano collocate due torce. In un silenzio sepolcrale veniva letta la scomunica così concepita:

«Scomunichiamo ogni apostata eretico in nome del Padre, Figlio e Spirito Santo dalla nostra santa religione, tutti gli agitatori e tutti i spalleggiatori che non abbiano a denunciarli e li malediciamo con la maledizione del Diavolo: togliamo tutti dal seno della Santa Beata Vergine e li espelliamo dalla nostra Santa Chiesa. Ordiniamo e comandiamo a ogni buon credente di detestarli e pregare Iddio che faccia venire a loro tutte le maledizioni. Che tutte le maledizioni del Re Faraone scendano sul loro capo e che soffrano i sette anni magri di Egitto perché non hanno ubbidito al comandamento del Signore. Che scendano sul loro capo le maledizioni di Sodoma e Gomorra e la maledizione di Lucifero li raggiunga insieme con tutti i diavoli dell'inferno e sia Giuda il loro eterno compagno qualora non confessino i loro peccati e non implorino la grazia cambiando maniera di vivere ».

Il popolo rispondeva con un « Amen » i preti si mettevano in fila intonando il salmo « Deus Laudim miam » e il « Miserere ». Le campane suonavano a stormo come se la città fosse piena di morti e gli inservienti mentre spegnevano le torce pronunciavano queste parole
« Come queste torce muoiono nell'acqua così muore l'anima degli eretici nell'inferno ».

In questo modo utilizzando tutte le fonti del terrore religioso si inculcava nell'anima del popolo il dovere di denunciare amici e parenti per ogni piccolo gesto, per ogni parola che potesse contenere un eretismo, per ognuna di quelle colpe che l'Inquisizione incorporava nella sua giustizia come tale. Veramente é un miracolo che il popolo spagnolo non generasse una nazione di denuncianti dove nessuno potesse fidarsi nemmeno del suo più prossimo parente, dato il cumulo immenso di maledizioni pendenti sul capo di ogni singolo. individuo.

Nel 1626, il 3 Gennaio l'Inquisizione rendeva pubblico un suo brevetto col quale ordinava a tutti di denunciare ogni eretico entro dodici giorni, sotto pena di scomunica che non poteva essere levata che dal Papa oppure dalla Suprema di Roma.
Verso la fine del XVII Secolo, quando l'Inquisizione cominciava a declinare venivano trascurate queste proclamazioni. Nel 1775 la Suprema ordinava di tramutare gli editti ma un esame condotto nel 1784 dimostrava che gli editti perdevano la loro efficacia, mentre nel 1806 si constatava che gli editti erano caduti in dimenticanza.

L'efficacia degli editti nei loro tempi era fuori dubbio benché l'Inquisitore Capo Francisco de Ribara in un suo rapporto si lagnava che in alcuni paesi il popolo non era disposto alle denunce che fu attribuita alla loro ignoranza. Nei centri più evoluti era in uso anche la denuncia tardiva delle colpe. Un editto del 1569 per esempio, pubblicato il 4 Settembre provocava la denuncia da parte di un certo Hans de Evelo di due membri della Guardia Reale Hans Bunsoit e Courtancio per colpe che il denunciante sapeva già prima ma che considerava come colpe, soltanto dopo la pubblicazione dell'editto nel quale esse erano state comprese.
Casi identici succedevano per rimorsi di coscienza e per paura di essere denunciati dagli altri. La stessa trivialità dei motivi dimostrava il grado della loro importanza perché non soltanto il giudaismo, la conversione, oppure il protestantismo ma anche i cattolici stessi furono esposti a continue vessazioni per una sola parola inconsiderata la quale fosse compresa fra le cose da denunciarsi.

L'ombra sinistra del Santo Ufficio opprimeva tutto il paese e nessuno poteva essere sicuro in quale momento il miglior amico, il camerata, il parente poteva denunciarlo per una parola sfuggita, dato che era fatto un dovere sacrosanto di denunciarlo.
Nella vita di una nazione é possibile subire molte disgrazie e la guarigione é sempre questione di tempo. Ma quando si tratta di stare continuamente in guardia per poter denunciare in qualunque momento, quando ogni individuo deve fare continuamente la spia, quando questi sentimenti penetrano nel cuore di ogni individuo allora questo stato d'animo soffoca la stima di uno per l'altro e ognuno guarda l'altro come il possibile nemico del suo onore e della sua reputazione.

Tale era quella potenza che dominava la Spagna e che esercitava la sua nefasta attività sotto il nome dell'Inquisizione e per mezzo degli editti della Fede.


APPELLI A ROMA

Finché gli atti dell'Inquisizione Spagnola non potevano essere validi senza la revisione di Roma, la giustizia non poteva essere perfetta. Ci voleva una lotta che durava da due secoli affinché l'Inquisizione potesse farsi indipendente da Roma ed in questa lotta l'Inquisizione aveva bisogno dell'appoggio di tutte le città spagnole.
Poco dopo che l'Inquisizione avesse iniziata la sua attività, si spargeva la voce di una crudeltà senza esempio della coppia, reale. Per i condannati non rimaneva altra speranza all'infuori della Santa Sede di Roma, la quale era sempre disposta a riesaminare i processi se richiesta in appello.

Proprio all'inizio dell'Inquisizione i condannati in qualche caso facevano appello direttamente al Papa ma questo era una procedura lunga e costosa, e non lo potevano fare che quelli che furono profondi conoscitori del diritto canonico; dato che le vittime generalmente provenivano dalla classe rurale oppure dagli Ordini religiosi raramente potevano fare appello al Papa e rari furono i casi quando l'appello aveva successo.

Ora però la situazione era totalmente cambiata. Le vittime prescelte per le estorsioni erano scelte di preferenza da gente ricca, commercianti, banchieri, funzionari altolocati e scienziati. La curia papale di quei tempi era famosa per la corruzione; tutti e tutto si poteva comprare, dal berretto cardinalizio al perdono delle colpe e di ciò si approfittava fino al limite del possibile.
Per Isabella e per Torquemada non era quindi possibile di indebolire l'Inquisizione e costringerla all'inazione, dato lo stato corrotto della curia papale. Per quanto però molto pagassero gli abbienti, tutto spariva nel gorgo di quella corruzione senza portare a un concreto risultato.

Il posto del Primato Principe Manrique -- il quale era giudice appellante - doveva essere ben redditizio se alla sua morte nel 1485 si lottava ferocemente per la sua successione; il posto fu dato al Vice-Cancelliere Rodrigo Borgia ma non avendo questi ottenuto il beneplacito di Ferdinando, il Re faceva finalmente nominare il proprio candidato, Cardinale Hortado Mendoza.
Nei casi che Ferdinando voleva salvare qualcheduno dei suoi fedeli dall'Inquisizione, si procurava lettere di salvacondotto dal Papa, munendole anche della sua firma. Così faceva nell'interesse del suo proprio tesoriere Gabriel Sanchez. Per fare però riconoscere valide queste lettere Ferdinando doveva combattere, perché il Tribunale di Saragozza per forza voleva silurarle.

Il commercio delle lettere di salvacondotto era un affare molto redditizio e finché la Spagna non premeva sul Papa non era possibile fare cessare questo vergognoso commercio. Alla fine Papa Alessandro trovava il modo di imbrogliare tutti quelli che compravano simili lettere. Al 20 Agosto 1491 emetteva una bolla papale elencando in essa i nomi di coloro che erano in possesso di queste lettere di assoluzioni, riabilitazioni rilasciate direttamente da lui, e dichiarava tutte queste lettere decadute di validità ordinando di bruciarle « in effigie » meno quelle che erano state rilasciate per veri motivi di coscienza, dichiarando nella bolla stessa che ciò avveniva per desiderio di Ferdinando ed Isabella.

Questo risultato ancora non soddisfaceva Ferdinando il quale, col pretesto che un certo individuo di nome Bartolomeo Florido era in possesso di false lettere di salvacondotto ordinava agli inquisitori di sequestrare tali lettere affinché si potesse consigliarsi su di esse col Papa. Seguivano disposizioni della Suprema nel senso che ognuno che fosse ancora in possesso di tali lettere, oppure di dispense, doveva consegnarle all'Inquisizione la quale controllerà le eventuali falsificazioni.

I convertiti - trovandosi così in mezzo al fanatismo spagnolo ed alla falsità papale - si trovavano fra due fuochi. Nel 1502 i Sovrani reclamavano che le lettere siano esaminate da incaricati speciali. Papa Alessandro designava subito il Cardinale Déza, sotto il proprio controllo. A Ferdinando non garbava questo incaricato prevedendo che nulla di buono ne verrà per i poveri appellanti. Infatti il Cardinale Déza rimetteva le lettere nuovamente ai Tribunali in modo che gli infelici possessori nuovamente ricadevano nelle mani dell'Inquisizione.
Papa Giulio II fu eletto il 1° Novembre 1503, ma prima ancora della sua incoronazione scriveva a Ferdinando un « motu proprio » assicurandolo tutta la sua benevolenza e mantenendo tutte le sue prerogative nei confronti dell'Inquisizione. Ciò nonostante gli appelli si succedevano in misura impressionante di modo che Ferdinando sollecitava energicamente il ritiro di tutti questi appelli, già nel 1505 descrivendo con tratti neri la disperata situazione della Spagna, la quale fu salvata dallo scisma soltanto per opera dell'Inquisizione.
Filippo d'Austria però, con tutta la sua volontà di farsi benvolere dal Papa rinunciava ai diritti dell'inquisizione facendo capire alla Santa Sede che non può abbandonare gli infelici i quali si rivolgono al suo aiuto.

Come i suoi predecessori anche Papa Giulio II con una mano rilasciava le lettere di assoluzione, con l'altra le dichiarava nulle. Finalmente nel 1500 in una prammatica emessa in quell'anno il Papa e la Santa Sede dichiaravano punibili tutti quelli che si procuravano queste lettere con imbrogli. Il risultato fu che tutti i possessori di lettere dovevano rimetterle a Roma presso la Suprema perché siano esaminate e con un nuovo timbro siano rese valide un'altra volta. Solo se le lettere erano trovate originali si rilasciava «l'exequatur» mentre tutti quelli che furono trovate in possesso di lettere senza l'exequatur furono condannati a morte e i loro beni furono sequestrati.

Anche qui emerse naturalmente la corruzione perché per cinquemila pezzi d'oro si rilasciava l'exequatur senz'altro, anche dopo che i membri della commissione furono licenziati e sostituiti con altri.
Il fatto che Ferdinando conduceva questa lotta da ben 25 anni, dimostra quale importanza Ferdinando attribuiva all'autonomia dell'Inquisizione, per poter così eliminare ogni intromissione del Papa. Il Papato lottava però con armi legali.
Succeduto sul trono Papa Leone questi approvava la nomina del Cardinale Adriano a Inquisitore Capo della Castiglia e dell'Aragona. Sotto l'operato di questo Cardinale successe il caso seguente che mise Papa Leone in una luce favorevole
Viveva a Valencia una vecchia di ottanta anni di nome Blanquia Diaz. Questa vecchia aveva una fama di fervente cattolica ma nel 1517 fu accusata di simpatia per gli ebrei e perciò fu imprigionata. Il Papa disponeva di lasciarla subito libera contro garanzie adeguate, provvedendo alla sua difesa per mezzo di un avvocato. La causa doveva essere discussa senza indugio. Il Brevetto del Papa però non era mai giunto al Consiglio di Valencia, perché probabilmente fu sottratto dalla Suprema. In seguito il Papa disponeva di rimettere gli atti a lui stesso per esaminarli con l'aiuto di due competenti. Nel frattempo la Blanquia veniva internata in un chiostro. La Suprema però contemporaneamente incaricava per la pratica il Cardinale Adriano il quale radunava una « consulta da fé » condannando la Blanquia alla prigione per la vita e sequestrando tutti i suoi beni.

Il Papa interveniva e ordinava di restituire la libertà alla vecchia che doveva essere consegnata ai parenti oppure a un monastero. Leone così teneva in mano il destino della Blanquia, pur essendo stato pronunciato il giudizio che la donna é sospettata in eretismo ma ciò nonostante può rimanere a piede libero e le venivano restituiti i beni. Il Re Carlo protestava per l'intromissione del Papa e scriveva delle lettere di protesta a Roma e la lotta durava tre anni, finché alla fine la donna veniva definitivamente liberata.

Geronimo de Villanueva marchese di Villalba discendeva da una antica famiglia aragona. Aveva il grado di Segretario di Stato mentre suo fratello minore era della giustizia. Fu nelle grazie di Filippo e Olivarez e riusciva ad occupare contemporaneamente alcune buone posizioni nel servizio dello Stato. Nel 1623 donava una grande somma per la fondazione di un monastero benedettino che veniva fondato con l'intenzione di ristabilire la disciplina dell'Ordine. Nella fondazione contribuiva con denari anche Donna Teresa de Silvia, la quale aveva come confessore Fra Francisco Garcia Calderon benedettino di grande fama. Villanueva aveva il diritto contrattuale di designare il capo del chiostro ed era naturale che raccomandava per questo posto Fra Garcia.

Prima che terminasse l'anno una suora era impossessata dal Diavolo. Da qualche tempo questa epidemia si estendeve e il Diavolo si impossessava di 21 suore sulle 32 comprese anche Donna Teresa. Su proposta del canonico Ripel furono registrate le dichiarazioni dei Demoni ed il registro conteneva 600 pagine. La registrazione era necessaria per il fatto che era risaputo che i Demoni qualche volta dovevano dire delle verità e ciò sotto la pressione divina. Dalle dichiarazioni risultava che il chiostro diventava fonte dell'eretismo, mentre 11 suore diventavano sante, che agiranno sotto le spoglie di apostoli come San Pietro e San Paolo mentre Fra García Calderon rappresenterà Cristo.

Il gioco con i Demoni durava tre anni e Fra Alonso de Leon, il quale frattanto diventava nemico di Calderon lo denunciava alla Inquisizione. Calderon scappava in Francia, ma lo catturavano e lo riportarono a Toledo. Le suore venivano arrestate e naturalmente confessarono tutto ciò che fu loro richiesto di confessare. Calderon senza confessione fu messo alle torture tre volte, fu dichiarato eretico ed il 27 Aprile 1630 veniva ucciso in una cella sotterranea mentre le suore erano disperse in case equivoche.
Era inutile rivolgersi al Re il quale era stato poco dopo richiamato a Madrid dove la Regina si trovava ammalata ed il 9 Ottobre spirava. Il marchese Villanueva frattanto era imprigionato e dimenticato in una cella senza che il Re facesse nulla per lui.
La Suprema trattava il suo caso il 7 Febbraio 1647 condannandolo all'ammonizione e facendolo giurare che smetterà ogni rapporto con le suore; infine per tre anni fu espulso da Madrid e da Toledo.

Il verdetto non era molto severo ma bisogna comprendere lo spirito dei tempi che bollava di vergogna eterna il cavaliere sospetto di eretismo e la vergogna veniva estesa a tutta la sua stirpe. Tale stato voleva dire la mancanza di « limpieza » cioè del puro sangue nobile. Basterà dire che la carriera di Villanueva fu per sempre distrutta e il ricordo degli anni in prigione non poteva essere mai cancellato dal nome della sua famiglia e dei suoi discendenti.
Il verdetto in qualche modo veniva a conoscenza prima della sua enunciazione perché il Tribunale di Toledo insieme con la sorella di Villanueva marchesa Anna Justícia e con fratello di lui Augustin nonchè con il Proctore Luis de Torres facevano appello al Papa. L'appello però non fu accettato con la motivazione che l'Inquisizione non può prendere in considerazione appelli fatti dai parenti. Torres allora redigeva una imputazione contro tutti gli inquisitori di Spagna per corruzione ma anche ciò non serviva a nulla, tanto più perché all'enunciazione della sentenza egli si comportava in malo modo, urlando contro tutti e maledicendo i giudici, appellando in seguito al Re ed al Papa.
La Suprema decretava che la sentenza doveva essere eseguita.

Invece di chiuderlo però in prigione lo internavano nel monastero dei francescani. Il fisco della Suprema si recava in seguito a Toledo minacciando Villanueva di privarlo dalla sua divisa di cavaliere e di farlo bruciare vivo.
Di fronte alla Suprema però i dirigenti della Spagna avevano un'opinione diversa ed anche i vescovi spagnoli non davano grande peso ai voleri del Papa.
L'opinione della Giunta ostacolava completamente un nuovo arresto di Villanueva e impediva di riprendere nuovamente in esame la sua causa. Così la cosa si complicava nuovamente. La giunta decideva che il Re non dovesse cedere alle esigenze della Curia in affari che riguardavano la religione. Filippo inviava Don Pedro de Miarbe per riprendere gli atti della causa, ed anche i documenti che rimanevano in possesso di Villanueva. Mierbe assolveva bene il compito ma erano passati i tempi quando Ferdinando e Carlo potevano ancora ignorare e disprezzare le lettere del Papa.
Filippo IV era un uomo di calibro differente e la sua monarchia in decadenza non destava troppo rispetto.

Nel 1627 si rivolgeva al Papa con un memorandum ma la supremazia del Papa era in questi tempi inconfutabile. Villanueva si rivolgeva direttamente al Papa al quale ogni fedele cattolico doveva ubbidienza. Quando Filippo ripeteva la sua convinzione che l'intromissione del Papa nell'affare Villanueva era illegale e senza esempio e quando il Papa veniva a sapere che i suoi brevetti furono semplicemente sottratti, Innocenzo non esitava un momento per dichiarare la guerra. La lotta svolgeva soprattutto per l'indipendenza e per la supremazia, e bisognava andare fino in fondo, perché non c'era campo per la conciliazione. Il vantaggio di questa guerra inconsideratamente provocata era alla parte della Curia che contava sicuramente sul proprio trionfo. Un brevetto del 1° Marzo ripeteva i preliminari della causa, nonché tutto il procedimento dall'Inquisizione fino alla Santa Sede.

Ogni appello ed implorazione contro il brevetto non serviva a nulla ed anzi aumentava la rabbia del Papa, specialmente quando egli veniva a sapere che si negava a Villanueva perfino il pagamento delle sue competenze. Il 23 Maggio Víllanueva faceva domanda di essere ascoltato nel consiglio della Castiglia. benché questo Ente non aveva il diritto di giurisdizione. Fu uno sforzo disperato per uscire dalle complicazioni, ma anche questo sforzo rimaneva infruttuoso, dimostrando solo l'anarchia che regnava intorno a questo affare.
L'odio della situazione ricadeva ormai sul cardinali spagnoli sussistendo la falsa credenza che il Re avesse Villanueva nei suoi favori.

L'8 Aprile il Primato Principe Tarsus faceva formale domanda al Papa per riavere gli atti. Passava il termine ma non succedeva nulla. Solo il 2 Maggio si comunicava al Nunzio che era terminato il lavoro di copiare gli atti ma senza eseguire la spedizione. Il Nunzio voleva un certificato dal Papa per dimostrare che gli atti erano pronti ma ciò non fu concesso e nuovamente passavano due mesi.
Questi erano giochetti per fare passare il tempo. Non si aveva affatto l'intenzione di inviare gli atti a Roma come si poteva constatare dagli ordini segreti che anzi intimavano di impedire la spedizione. Innocenzo rifiutava ogni conciliazione e quindi non c'era più nessuna speranza per raggiungere un accordo. Al 14 Settembre poi per ordini superiori gli atti furono consegnati a Dannian De Fonolleda, notaio del Tribunale di Barcellona, e si trattava di ben 5 volumi, in totale 4600 pagine. Non si aveva però l'intenzione di spedirli perché De Fonolleda fu impedito di partire da Madrid fino al 5 Novembre. Egli annunciava il suo arrivo a Valencia mentre riceveva ordini di imbarcarsi sulla prima nave e consegnare i documenti al Papa. Prima che avesse potuto ubbidire l'ordine fu ritirato e doveva ancora attendere. In questo frattempo la Suprema per giustificarsi e per mettersi al sicuro davanti alla collera del Papa, seguitava inviare domande su domande al Re Filippo per permettere l'imbarco del messo.

Questi giochi non hanno tratto in errore Innocenzo. Il Papa riceveva Cabrera in udienza il quale gli comunicava che Fonolleda non attendeva che l'arrivo della nave per potersi mettere in viaggio.
Il Papa rispondeva che conosce bene la Spagna e che sa bene come vengono in questo luogo sbrigate le pratiche. Il Papa sapeva pure che il Re era in cattive relazioni con l'Inquisitore Capo. Aggiungeva che non aveva nessuna simpatia per Villanueva e se fosse dipeso da lui lo avrebbe punito con molta più severità.
Filippo intanto esitava e raccomandava al Consiglio di Stato la precauzione, visto che il Papa faceva sul serio di rivoltarsi contro le prerogative reali e per attentare alle prerogative dell'Inquisizione.

Arce però scattava ed in un memorandum indirizzato al Re lo metteva in guardia dal cedere al Papa.
Contro l'opinione di Arce il Re cedeva ai suggerimenti dei suoi consiglieri. Nella sua lettera datata 4 Aprile 1651 annunciava al Principe Infantado di aver dato ordine a Fonnoleda di imbarcarsi e portare gli atti a Roma. Lo incaricava anche di chiedere udienza dal Papa facendogli sapere come il Re si sentisse offeso perché il Papa si intrometteva negli affari dell'Inquisizione.
Se il Papa non reagiva al messaggio, Fonnoleda doveva riportare gli atti senza farli vedere al Papa. Lo stratagemma di Filippo non aveva però successo e ne rimaneva male, perché attribuiva molta importanza a questa lotta nella quale il Papato aveva messo in palio tutti i suoi giusti interessi.
Non gli rimaneva altro che di battere in ritirata.

Papa Innocenzo nominava a rappresentante della Spagna nella Santa Sede il Cardinale Trivulzío il quale doveva studiare la pratica e si convinceva che tutta questa cosa era un'opera di vendetta.
Fino al 2 Ottobre non succedeva più nulla. Dopo questa data Innocenzo emetteva due brevetti indirizzandone uno al Re, e l'altro a Arce. È chiaro che prima l'assoluzione, dopo la sentenza avevano cagionato a Roma un certo fermento perché nei due brevetti si criticava l'instabilità dei giudizi, instabilità che si poteva attendere da un contadino, ma mai da gente colta ed intelligente.
Per mitigare il rimprovero il Papa lodava nei brevetti l'Inquisizione che chiamava gloria e decoro della Spagna. Al Re il Papa scriveva che essendo la pratica troppo complicata egli non era ancora in grado di decidere. Quando il Nunzio consegnava il brevetto a Arce faceva sapere che il Papa aveva deciso di consegnare gli atti al Re. Arce era raggiante dalla vittoria. Cabrera chiedeva di poter tornare a Roma e sembrava che non rimanesse altro da fare che la spedizione degli atti. Tuttavia non si spediva nessun brevetto che avesse spiegato la cosa.
Arce cominciava a preoccuparsi ed il 4 Gennaio 1653 richiedeva al Re di reclamare gli atti da Trivulzio.
Innocenzo forse voleva irritare il Re oppure voleva destare in lui vane speranze ma può anche darsi che voleva approfittare della rivalità delle Corti per avvantaggiare il matrimonio della sua nipote con Barberrino, fatto sta che si lagnava di non aver ricevuto nessun regalo.

Villanueva moriva a Saragozza il 21 Luglio 1653. Nel suo testamento, redatto il giorno prima si preoccupava della pace della sua anima e designava per suo patrono il suo nipote Geronimo e i suoi dipendenti. L'Inquisizione voleva approfittare di attaccare con una nuova causa il ricordo dell'estinto cavaliere. Papa Alessandro però proibiva assolutamente la profanazione del ricordo del morto e quando Arce tentava di agire, il suo tentativo naufragava miseramente.
Così terminava questo affare trentadue anni dopo il suo inizio.

Per causa di quest'affare Cabrera doveva soggiornare a Roma 12 anni e meritava così la sede vescovile di Salamanca che gli veniva ceduta per compensare la sua opera. La Suprema però registrava una spesa di centomila pezzi d'oro per il suo mantenimento e questi denari furono spesi in tempi quando la Suprema si diceva povera in canna. Arce riusciva a sporcare il ricordo di Víllanueva, dopo averlo tolto ai suoi incarichi ed uffici ma la vittoria apparteneva al Papato il quale si vendicava per la cosiddetta giustizia, mantenendo gli atti, simboli dei suoi diritti.

Due secoli dopo questi fatti la Santa Sede manteneva la propria giurisdizione ma i Borboni non si sono dimostrati dei servi così ossequianti come gli Asburgo. Nel 1705 l'inimicizia col Papato ha indotto Filippo V a proibire la pubblicazione dei brevetti papali senza l'exequatur reale ed a proibire ogni appello a Roma. Da questo suo punto di vista non cedeva assolutamente nemmeno dopo lo scatto furioso di Monroy, Principe Primato di Santiago, dimostrando con ciò che l'ubbidienza deve essere compito del Papa anziché del Re, secondo anche l'opinione del Cardinale Belluga, Vescovo di Cartagena.
Dopo questo tempo non si sente più parlare di appelli di singoli individui a Roma, perché l'affare Villanueva, anche se potesse essere sembrato un insuccesso per l'Inquisizione in realtà era una vittoria, dimostrando quanto é inutile la lotta di un aristocratico contro l'Inquisizione e contro tutti i poteri della Corona.

Il potere del Papato del XVIII secolo non fu in grado di lottare contro gli Stati tendenti alle libertà, mentre il rinascimento dalla Spagna e i Borboni hanno reso inutile ogni lotta contro la volontà dei Sovrani di dirigere essi stessi gli affari interni dei loro paesi. Qui la Chiesa é stata privata di tutti i suoi diritti incontestabili, perché l'ultimo brevetto del 1899 stabilisce di fronte a tutti che il Papa é il giudice supremo di ogni credente e che per ogni affare riguardante la Chiesa si deve rivolgere esclusivamente a lui. È quindi proibito rivolgersi ad altri Fori di giustizia, sotto pena di scomunica ed é altrettanto proibito ostacolare la giustizia della Chiesa nella sua sostanza ed anche nelle sue forme esteriori. È inconcepibile di sottoporre il potere umano al potere divino che é onnipotente sopra ogni altra potenza.

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